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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 18

 

Grice e Falzea – QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM – il sentiment condiviso -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo. Grice: “I like Falzea; for one he applies Apollonian principles to H. L. A. Hart’s analysis of ‘discorso giuridico’ – alla ‘discorso musicale’ – after all, there is ‘armonia’ in justice!” – Si laurea sotto Pugliatti a Messina. Insegna a Messina. Lincei. Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare, sempre ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica con quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine giuridico indispensabile alla co-esistenza pacifica di vita materiale, vita spirituale e vita sociale. Fra i suoi maggiori risultati, la centralità della nozione dell’’intersoggettivo”, “l’interazione” – “l’interpersonale” -- pensato sia astrattamente che in relazione alle correlative persone la fondazione di una etica giuridica e l'elaborazione di una assiologia del diritto, frutto rispettivamente della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione concettuale delle nozioni di ”valore“ da porre, al centro della sua filosofia giuridica, assieme a quello di “interesse” (cf. Prichard), e di “categoria giuridica” formale, quali nuclei fondanti del corpus dottrinario della giurisprudenza. Da qui, la constatazione di principio secondo cui “il giuridico”, nella sua accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e non statico, si analizza nelle sue due componenti principali, quella ”formale“ e quella “materiale”, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale equilibrio co-relativo garante di quella realtà umana fattuale del interesse e del valore. Il perno epistemologico dell'impianto teorico, quale presupposto ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi “stato di diritto”, è quello che fa leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (forma), quel nucleo affettivo-emotivo (materia) insito in ogni fatto umano consuetudinario della vita. Il diritto, come realtà assiologica, è quella naturale concezione cui si perviene allorché si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della giurisprudenza la quale, invece, deve guardare alla realtà fattuale ed alle sue dinamiche complesse e multi-fattoriali, ai suoi contenuti pragmatici, di valore ed d’interesse. Da qui, la necessaria interdisciplinarità cui deve sottostarepur mantenendo la propria autonomia la costante giurisprudenza per non cadere in un anacronistico e sterile formalismo privo di materia. La forte, quasi esasperata dimensione teoretica (ma mai grettamente dogmatica) espressa non solo da un punto di vista meramente logico-formale ma sempre contestualizzata alla variegata problematicità e storicità della realtà umana, si evince, in tutta la sua evidenza, dagli scritti dedicati ai problemi di teoria generale del diritto, affrontati, oltre che in alcuni suoi lavori monografici, in certe voci la lui redatte per l'Enciclopedia del Diritto, sì da costituire dei classici della letteratura giuridica contemporanea: fra queste, accertare, apparire, efficacia giuridica, fatto giuridico. Fra i molti contributi dati da Falzea all'elaborazione teorica dell'ordinamento giuridico, in raccordo a quanto detto sopra, degno di nota è l'aver egli richiamata l'attenzione nella voce ”I fatti del sentimento“, sulla scia di parte del pensiero di Pugliatti sulla rilevanza giuridica del sentimento, inteso non come un principio generale dell'ordinamento, bensì come un vero e proprio sentimento soggetivo ed intersoggetivo – shared feelings -- fattualmente rilevante per l’interazione interpersonale, che la norma giuridica, specie quelle del diritto civile, classificano come un valore positivo, da rispettare dunque, o negativo (“disvalore”), da reprimere invece. Da questa presupposizione quindi, con metodo contraddistinto da ampiezza dell'indagine storica e improntato al rigore concettuale, consegue uno dei suoi maggiori risultati, riguardante l'analisi del concetto generale di diritto, quale diritto positivo, cioè effettivamente vigente, incardinato entro un sistema assiologico fondato su un ordine razionale intersoggetivo che rispetta il valore di una determinate intersoggetivo in un assegnato luogo ed in un certo tempo (storicità del diritto), secondo una scala della loro importanza. Quest'ordinamento razionale è un tratto distintivo sia del sistema intersoggetivo che dei suoi sottosistemi, fra i quali preminenti son oil sistema di comunicazione, e quello giuridico, che è il sistema normativo attualizzato dell'interazione. Da questa prospettiva, anche sulla base di un parallelo analogico-concettuale con la struttura della logica, perviene, tra l'altro, ad una elementare quanto fondamentale distinzione meta-giuridica fra teoria generale del diritto e dogmatica giuridica, argomentando solidamente a favore della tesi per cui la teoria generale del diritto opera ad un livello superiore di generalità rispetto a quello in cui si colloca la dogmatica giacché quest'ultima è sempre inerente a diritti positivi storicamente attualizzati, oggetti di studio della teoria generale che, in quanto tale, non discende dunque da alcun diritto positivo particolare, e quindi neppure dalla dogmatica. La teoria generale del diritto è piuttosto riflessione meta-teorica su quei particolari sistemi vigenti di diritto positivo, sistemi che verranno quindi interpretati speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione giuridica) tramite metodi centrati sulla individuazione e ordinazione concettuale. Solo in questi termini, si può allora più propriamente parlare di ”filosofia del diritto”. Altre opere: “L’intersoggetivo giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); “L’intersoggetivo giuridico, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); La separazione personale, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); L'offerta reale e la liberazione co-attiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il fatto naturale, MILANI-Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova); Voci di teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il gene giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, Introduzione alle giurisprudenza filosofica”. “Il concetto di diritto” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica,  Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,  Scritti d'occasione, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano.  giuscivilista. Il civilista. Il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa normativa (ovvero, il caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il suo possibile effetto giuridico.  norma giuridica Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto. Il diritto può essere consuetudinario. consuetudine. Antropologia giuridica. diritto civile, Oltre il ”positivismo giuridico“, regola giuridica. Motivi volontaristici e imperativistici sono presenti nel pratico e volitivo spirito dei romani. Nemmeno tra i romani tuttavia troviamo formulate dottrine filosofiche che si propongano di ricondurre compiutamente il diritto alla volontà o al comando. Il lato imperativistico del diritto emerge piuttosto in singole tesi o massime di giuristi. Si ricordi il noto passo di Modestino riportato nel Digesto: « Legis virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire" (D. 1, 3, 7); o l'altro detto, di Ulpiano, ancora piu indicativo sotto il profilo volontaristico che sottolinea l'importanza della volonta del sovrano per la validita della legge: "quod principi placuit legis habet vigorem" (D. 1, 4, 1). Ma le espressione forse piu significative si trovano in un luogo di Gaio, nel quale egli, dopo aver distinto varie fonti del diritto romano, le caratterizza cosi: "Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit... Senatusconsultum est quod Senatus iubet atque constituit" (Gai 1, 3, 5). Il rapporto regola giuridica-commando risulta ormai fissato in maniera esplicita, mentre e IMPLICITAmente enunciato il rapporto tra il comando (iubere) e l'imperativo (constituere). Rientra in questa configurazione  volontaristica e imperativistica del diritto la concezione della consuetudine come iussum populi, un comando del popolo alla stessa stregua della legge: lex lata sine suffragio. Ma e con la compilazione giustinianea che, associato al processo politico dell'epoca imperiale, il volontarismo giuridico ottiene la sua prima grande e compiuta affermazione. A cio concorsero due fattori strettamente collegati. La volonta d'onde promana la regola giuridica e adesso individuata e circoscritta nella persona dell'imperatore. La netta separazione, su piano empirico, tra interpretazione e applicazione della legge e la regolar rigorosa che riservava allo stesso imperatore il POTERE INTERPRETATIVO (nel senso di risoluzione dei casi dubbi) esaltano il peso della volonta imperiale, impedendo che altri, giurista o giudice che sia, possa sustituirsi, alterandola o integrandola, a quella volonta. E ben noto il monito che Giustiniano, sulla presunzione della completezza e perfezione della propria opera di legislatore, rivolgeva ai giuristi: «... nullis iuris peritis in posterum audentibus commentarios  illi adplicare et verbositate sua supra dicti codicis compendium confundere: quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est, cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum subtilitatem quae paratitla nuncupantur quaedam admonitoria eius facere nullo ex interpretatione eorum vitio oriundo" (C. 1, 17, 1, 12); e quello ancor piu energico e perentorio che gia in precedenza era stato fato ai giudici da Valentiniano e da Marciano: "Si quid vero in idsem legibus latum fortassis obscurius fuerit, oportet id imperatoria interpretatione patefieri duritiamque legum nostrae humanitati incongruant emendari" (C. 1, 14, 9). La prassi non poteva non smentire questo ambizioso proposito, la cui formulazione, tuttavia, giova a chiarire come una concezione volontaristica possa trovare un effetivo riscontro nella realta solo a patto che la VOLONTA legistlativa venga aggiunta a fonte unica del diritto al di fuori di ogni condizionamento esterno e risultati garantita nella sua fedele applicazione ed esecuzione.   Può il diritto penale di una moderna democrazia liberale essere invocato a tutela di sentimenti? L’idea della protezione penale sembra di primo acchito stridere nell’accostamento a oggetti come i sentimenti. Eppure, il problema non è estraneo alla realtà normativa italiana: nel codice Rocco il sen- timento religioso, il pudore, la pietà dei defunti, il sentimento per gli animali sono gli esemp i più evidenti. Di fronte all’impiego legislativo di suddetta terminologia, si apre il problema della definizione dell’oggetto di tutela: il presidio è rivolto a stati psicologici individuali? Oppure l’evocazione di sentimenti va ri- ferita alla collettività, quale salvaguardia di una sensibilità che si as- sume come propria della maggioranza dei consociati? La definizione in termini di sentimento comunica, in prima istan- za, l’attenzione verso aspetti non strettamente materiali della vita de- gli individui: riconosce la possibilità di recare offesa alla persona su versanti che trascendono la mera fisicità. Un richiamo a fenomeni che interessano la sfera psichica, e che si pongono di fronte al diritto come realtà da decifrare. La prima parte dell’indagine sarà dedicata a una mappatura del- l’orizzonte conoscitivo, attraverso contributi di conoscenza esterni al mondo del diritto. Cercheremo di sviluppare un dialogo interdisciplinare esteso non soltanto alle scienze lato sensu psicologiche, ma anche alle discipline sociologiche e filosofiche, secondo un’apertura che dà rilievo ai ca- noni metodologici elaborati in seno alla branca di studi della dottrina statunitense denominata ‘Law and Emotion’. A seguito di tale sintetico ma importante excursus, entreremo nel- la dimensione normativa, analizzando sia le fattispecie penali del- l’ordinamento italiano in cui l’oggetto di tutela viene definito come ‘sentimento’, sia le peculiari sfumature di significato che emergono dai discorsi dei giuristi. Culminata tale parte della ricerca, la quale è finalizzata a delinea-  XVI Tra sentimenti ed eguale rispetto re il quadro di riferimento normativo e a fissare le coordinate meto- dologiche di fondo, cercheremo di analizzare una specifica declina- zione del problema della tutela di sentimenti: i rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione. L’approfondimento di tale questione assume oggi una peculiare ri- levanza dovuta alla crescente conflittualità che si registra nel discor- so pubblico delle società occidentali, con particolare riferimento ad argomenti ad alto tasso emotivo dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. L’asserita impossibilità che il diritto possa muoversi all’interno di coordinate eticamente neutrali impone di riflettere attentamente sul- la dimensione politica del problema penale, all’interno di una dialet- tica i cui poli opposti sono rappresentati da posizioni di individuali- smo democratico contrapposte a concezioni di tipo comunitarista- identitario. La parzialità dei sentimenti, la loro mutevolezza, la loro essenzia- lità per la persona acutizzano il problema degli equilibri fra coerci- zione e libertà. L’obiettivo è riuscire a bilanciare esigenze di rispetto per le persone con la salvaguardia di forme e contenuti comunicativi la cui libertà è anch’essa parte essenziale del reciproco rispetto dovu- to da ciascuno a tutti. Una misurata e accorta diffidenza verso il tessuto affettivo- emozionale è la premessa per un approccio critico che metta il diritto penale in condizione di distinguere richieste di riconoscimento da tentativi di sopraffazione, per «non confondere il pensiero e l’auten- tico sentimento – che è sempre rigoroso – con la convinzione fanatica e le viscerali reazioni emotive» 1. In questo senso, un confronto con i sentimenti sarà forse utile a meditare sugli spazi per una convivenza tra le diverse libertà che chiedono ascolto nella società pluralista.  1 MAGRIS, Laicità e religione, in AA.VV., a cura di Preterossi G., Le ragioni dei laici, Roma-Bari, 2006, p. 110.  PARTE I EMOZIONI E SENTIMENTI TRA FATTO E NORMATIVITÀ   2 Tra sentimenti ed eguale rispetto   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 3 CAPITOLO I FENOMENI AFFETTIVI E DIMENSIONE GIURIDICA: COORDINATE EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE «se trascuriamo tutte le reazioni emozionali che ci legano a questo mondo [...], noi trascuriamo anche gran parte della nostra umanità, e precisamente quella parte che sta alla base del perché noi abbiamo una legislazione civile e penale, e di quale aspetto essa prenda» NUSSBAUM M.C., Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, p. 24 SEZIONE I L’orizzonte di indagine SOMMARIO: 1. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi. – 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela. – 2.1. Oltre il lessico legislativo. 1. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei pro- blemi «Anche se nel diritto penale domina il fenomeno oggettivo ed esterno del comportamento, si trovano in esso frequenti espliciti ri- chiami ai fenomeni soggettivi e interiori del sentimento. Purtroppo si tratta di semplici richiami, dai quali nessuno finoggi ha tentato di as- surgere a una trattazione sistematica unitaria. Il peso di queste lacu- ne non può non accusarsi in sede di teoria generale perché sono gli  4 Tra sentimenti ed eguale rispetto istituti penalistici a offrire a uno studio giuridico del sentimento gli esempi più numerosi e più importanti» 1. Con queste parole, nel 1972, il civilista e teorico del diritto Angelo Falzea richiamava l’attenzione sulla rilevanza che i fenomeni affettivi assumono nella dimensione penalistica, lamentando l’assenza di stu- di specifici che avrebbero potuto giovare a un più esaustivo inqua- dramento teorico dei fatti di sentimento nella sfera giuridica. A distanza di decenni le parole di Falzea mantengono inalterato il loro valore di impulso a riflettere su ruolo e significato del sentimen- to nel diritto penale. Ad oggi il tema non è stato ancora compiuta- mente indagato in una prospettiva di sistema, per quanto l’attenzione della dottrina penalistica italiana sia andata crescendo negli ultimi decenni. I limiti dell’approfondimento, quasi una ‘presa di distanza’ dai fat- tori affettivi, non costituiscono una peculiarità del microcosmo pena- listico ma sono da contestualizzarsi in un atteggiamento del pensiero occidentale che ha considerato sentimenti ed emozioni come un fat- tore di distorsione del pensiero cognitivo e, conseguentemente, anche come elemento distonico in rapporto all’asserita ‘razionalità’ degli isti- tuti giuridici e delle riflessioni ad essi inerenti 2. 1 FALZEA, I fatti di sentimento, in AA.VV., Studi in onore di Francesco Santoro Passarelli, vol. VI, Napoli, 1972, p. 353. 2 «Si è soliti associare al concetto di “decisione” il qualificativo “razionale”, come garanzia di esattezza dei presupposti da cui promana e di “bontà”/coerenza delle ripercussioni che intende provocare. Ragione/razionalità come promessa di succes- so, di eliminazione dell’errore, di metodo fondato su argomentazioni logiche e su- scettibili di controllo critico», così CAPUTO, Occasioni di razionalità nel diritto penale. Fiducia nell’“assolo della legge” o nel “giudice compositore”?, in Jus, 2/2015, p. 213. Il tema della razionalità giuridica e penalistica affiora in innumerevoli scritti che non appare possibile menzionare esaustivamente; per un quadro di sintesi v. LA TORRE, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, Napoli, 2012; con riferimento all’ambito penalistico, v. ex plurimis, LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, in AA.VV., Logos dell’essere Logos della norma. Studi per una ricerca coordina- ta da Luigi Lombardi Vallauri, Bari, 1999, pp. 1151 ss. Un eloquente monito a non dare per scontata la razionalità del giuridico si deve a GRECO, Premessa, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurisprudenza, Bari, 1970, p. 29: «nel mondo del diritto [...] l’attenzione è tradizio- nalmente rivolta ai contenuti strettamente giuridici delle leggi e della giurispruden- za e v’è una propensione ad attribuire significati razionali o “ideali” non soltanto al reale giuridico, ma anche a quello che tale non è. Ora in un mondo ampiamente dominato da leggi economiche e dai corrispondenti dinamismi socio-politici, la pre- tesa di considerare il fenomeno giuridico in linea generale negli stretti limiti della “scienza giuridica” propriamente detta è illusoria e illusionistica». Per un’interes- sante prospettiva sui rapporti tra razionalità dell’intervento penale ed emozioni mo-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 5 Il modo di intendere le dinamiche del diritto, soprattutto del dirit- to penale, si è fondato implicitamente, forse anche inconsciamente, su una ‘narrazione convenzionale’ 3 che ha attribuito a sentimenti ed emozioni un ruolo negativo, quasi antagonistico rispetto alla ragione, e che ha portato in questo senso a marginalizzare il ruolo dei feno- meni affettivi, sia riguardo alla dimensione di razionalità della con- dotta del reo4, sia (soprattutto) in relazione al modo di concepire l’agire delle figure tecniche cui sono affidate le dinamiche applicative del diritto 5: soggetti, questi ultimi, idealmente assimilati, anche a li- vello di immaginario collettivo, a modelli di razionalità pura, secon- do veri e propri stereotipi che caratterizzano il modello culturale di diritto radicato nel mondo occidentale. Tale vulgata influisce tutt’og- gi sull’insegnamento per la preparazione di giudici e avvocati, ten- denzialmente, e forse talvolta ingenuamente, proiettati alla ricercadi una non ben definita ‘razionalità’, ma forse non ancora adeguata- mente messi in condizione di conoscere, studiare e gestire la com- plessità delle euristiche del pensiero e dei rapporti con l’emotività 6. rali v. MURPHY, Punishment and the Moral Emotions, Oxford, 2012. Quale testo di riferimento per un inquadramento in chiave socio-psicologica della razionalità umana, v. ELSTER, Ulisse e le Sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità, tr. it., Bologna, 2005, pp. 85 ss. 3 Definizione di BANDES, Introduction, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passion of Law, New York, 1999, pp. 1 ss. 4 Il tema è sviluppato principalmente in ambito criminologico; per una sintesi v. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Mila- no, 2000, pp. 207 ss.; cfr. PALIERO, L’economia della pena (un work in progress), in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, Mi- lano, 2006, p. 594, il quale, in superamento di tale teorica, afferma che ormai non è «pensabile immaginare un attore della scena penalistica che sia contempora- neamente affekt-, tradition- e wert-frei». 5 È la critica di BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, in 8 Annual Re- view of Law and Social Science, 2012, p. 162. 6 HARRIS, “A(nother) Critique of Pure Reason”: Toward Civic Virtue in Legal Education, in 45 Stanford Law Review, 1993, pp. 1773 ss.; per la critica al modello di pensiero sotteso all’insegnamento del diritto nel panorama occidentale vedi pp. 1785 ss. Emblematica è la figura del giudice, il quale per definizione si dovrebbe differenziare da figure atecniche, prive di una formazione giuridica e che dunque dovrebbero essere più esposte a condizionamenti emotivi (testimoni, imputato, pubblico), ma che andrebbe più realisticamente inteso, e studiato, anche come soggetto emotivo: «Judges are human and experience emotion when hearing ca- ses», v. MARONEY, Emotional Regulation and Judicial Behaviour, in 99 California Law Review, 2011, p. 1487; si veda soprattutto pp. 1532 ss. per il discorso sulla gestione delle emozioni; EAD., Angry Judges, in 65 Vanderbilt Law Review, 2012, pp. 1258 ss.; cfr. BANDES, Introduction, cit., p. 2. Sul tema delle emozioni del giu-   6 Tra sentimenti ed eguale rispetto I tempi sembrano però essere cambiati: i saperi sul mondo7, e dunque le scienze con cui anche il mondo del diritto deve confrontar- si – utilizziamo il termine ‘scienze’ in un’accezione lata che compren- de sia le scienze c.d. ‘dure’, sia le scienze sociali e le discipline filoso- fiche – inducono oggi a un ripensamento di fondo: non solo relativa- mente alla distinzione dicotomica ragione/emozioni 8, ma più in gene- rale al ruolo che emozioni e sentimenti assumono anche in rapporto alla qualità morale delle scelte di un individuo 9. dicante si veda anche WIENER-BORNSTEIN-VOSS, Emotion and the Law: A Fra- mework for Inquiry, in 30 Law and Human Behaviour, 2006, pp. 236 ss. L’emo- tività del giudice viene analizzata anche nel panorama italiano: fra le monografie v. FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozio- ne, Bologna, 2017, pp. 21 ss., 71 ss.; CALLEGARI, Il giudice fra emozioni, biases ed empatia, Milano, 2017. Fra gli articoli v. CERETTI, Introduzione, in Criminalia, 2011, pp. 347 ss.; LANZA, Emozioni e libero convincimento nella decisione del giudi- ce penale, in Criminalia, 2011, pp. 373 ss.; BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli, 2014, pp. 116 ss. Per una critica all’attuale formazione dei giuristi, e la proposta di introdurre le scien- ze cognitive nel percorso di studi universitario v. PASCUZZI, Scienze cognitive e formazione universitaria del giurista, in Sistemi intelligenti, 1/2007, pp. 137 ss.; si sofferma sulla debolezza del modello di ‘azione razionale’ fatto proprio dal dirit- to, in una prospettiva mirata principalmente al diritto civile, CATERINA, Processi cognitivi e regole giuridiche, in Sistemi intelligenti, 3/2007, pp. 381 ss. 7 Traggo tale definizione da PULITANÒ, Difesa penale e saperi sul mondo, in AA.VV., a cura di Carlizzi-Tuzet, La giustizia penale tra conoscenza scientifica e sapere comune, Torino, in corso di pubblicazione. 8 La bibliografia sul tema è sterminata. Ci limitiamo a indicare alcune opere che, anche in virtù dell’attitudine divulgativa, hanno contribuito a favorire un dia- logo interdisciplinare. Un Autore che in tempi recenti ha impresso una svolta, an- che dal punto di vista comunicativo, per la confutazione della dicotomia ragio- ne/emozioni è il neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, a partire del cele- bre studio intitolato L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, tr. it., Milano, 1995, al quale si sono aggiunti successivamente Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, tr. it., Milano, 2003 e Il sé viene alla mente. La co- struzione del cervello cosciente, tr. it., Milano, 2012. Si vedano anche gli scritti di Joseph Le Doux, il quale pone lo studio delle emozioni come base per la cono- scenza della mente umana, LE DOUX, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozio- ni, tr. it., Milano, 2014. Per una prospettiva interdisciplinare, di taglio socio- filosofico, opera di riferimento è NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, tr. it., Bologna, 2004; per un quadro di sintesi di taglio prettamente divulgativo v. EVANS, Emozioni. La scienza del sentimento, tr. it., Roma-Bari, 2004, pp. 27 ss. 9 «Il problema non è mai stato, soprattutto da Hume in poi, ammettere che le emozioni possano essere motivi dell’azione umana, ma semmai ammettere che ne siano ragioni morali, che abbiano un’autorità, una forza normativa, pari a quella che il razionalismo classico attribuiva a principi della ragione incontaminati dalle   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 7 Non è possibile in questa sede addentrarci nello sconfinato dibat- tito; riteniamo però di poter sintetizzare lo stato dell’arte con un’elo- quente affermazione di Jonathan Haidt, psicologo di matrice intui- zionista, e dunque incline a riconoscere la primazia dell’intuizione emotiva nell’economia dell’agire umano: «la razionalità umana di- pende in maniera cruciale da un’emotività sofisticata: è solo perché il nostro cervello emotivo lavora così bene che i nostri ragionamenti possono funzionare» 10. Un’‘emotività sofisticata’: se la razionalità umana è il risultato di una complessa combinazione in cui anche la dimensione emotiva ha un ruolo importante, ne deriva l’esigenza di un ridimensionamento delle pretese di razionalità ‘pura’ che ci si ostina (o ci si illude) a ri- cercare nei prodotti legislativi e anche nelle condotte degli operatori del diritto (giudici, avvocati). In altri termini, appare tutt’altro che in- scalfibile la plausibilità dell’impostazione veterorazionalistica cui la tradizione giuridica occidentale 11 ha conformato i propri paradigmi e alla cui ombra sembra ancora coltivare l’autorassicurante illusione della legge e del sistema giuridico come dominio della ‘razionalità’ 12. passioni e che il sentimentalismo, d’altra parte, finiva per trattare solo nella con- tingenza del loro incidere su una ragione pratica», v. PAGNINI, Il rispetto al centro della morale, in Il Sole-24Ore, 22/04/2012; sul rapporto fra emozioni e ragioni mo- rali, un’opera che riassume lo stato dell’arte è AA.VV., ed. by Bagnoli, Morality and the Emotions, Oxford, 2011. 10 HAIDT, Felicità. Un’ipotesi, tr. it., Torino, 2008, p. 16; per un’esplicazione più dettagliata v. ID., The Emotional Dog and Its Rational Tail: A Social Intuitionist Ap- proach to Moral Judgment, in 108 Psychological Review, 2001, pp. 814 ss. Il tema è sconfinato; per una sintesi del dibattito v. MACKENZIE, Emotions, Reflection and Mo- ral Agency, in AA.VV., ed. by Langdon-Mackenzie, Emotions, Imagination and Moral Reasoning, New York-London, 2012, pp. 237 ss.; OATLEY, Psicologia ed emozioni, tr. it., Bologna, 1997, pp. 239 ss., 300 s. Una posizione che afferma l’esigenza di non trascurare l’effetto di possibile alterazione della razionalità da parte delle emozioni è quella di ELSTER, Emotions and Rationality, in AA.VV., ed. by Mansted-Frijda- Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, 2004, pp. 30 ss. Un’efficace sintesi, anche sul piano comunicativo, è il libro di GOLEMAN, Intel- ligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, tr. it., Milano, 2013. Da ultimo, v. MORIN, Sette lezioni sul pensiero globale, tr. it., Milano, 2016, pp. 15 s. 11 Per un interessante quadro di sintesi sull’atteggiamento del pensiero giuridi- co occidentale teso a prendere le distanze dalla dimensione emotiva (senza peral- tro riuscirci), v. MUSUMECI, Emozioni, crimine e giustizia. Un’indagine storico- giuridica tra Otto e Novecento, Milano, 2015, pp. 15 ss. 12 «The mainstream notion of the rule of law greatly overstates both the de- marcation between reason and emotion, and the possibility of keeping reasoning processes free of emotional variables [...] It is also likely that emotion, by its very nature, threatens much of what law hopes to be. To the extent legal systems   8 Tra sentimenti ed eguale rispetto È emblematico l’assunto con cui la giurista statunitense Susan Ban- des apre un importante studio collettaneo intitolato ‘The Passions of Law’: «[l]e emozioni pervadono il diritto»13. Possiamo dire che ne im- pregnano sia la fase genetica sia la dimensione applicativa; la domanda cruciale non è se emozioni e sentimenti diano luogo a forme di intera- zione con la realtà giuridica, bensì in quali termini essi interagiscano e come possano essere ‘gestiti’ a livello teoretico e in ambito applicativo. L’osservazione della Bandes vale in misura ancora maggiore per il diritto penale, il quale intrattiene con le emozioni un rapporto di problematica contiguità, poiché coinvolge, e spesso travolge, beni che rivestono un ruolo importante nella scala dei bisogni e delle prefe- renze soggettive: per proteggere interessi rilevanti per la sopravviven- za e lo sviluppo della persona umana è chiamato a incidere su inte- ressi altrettanto essenziali (le libertà) 14. thrive on categorical rules, emotion in all its messy individuality makes such cat- egories harder to maintain [...] The notion of the rule of law is based, at least in part, on the belief that laws can be applied mechanically, inexorably, without human fallibility», v. BANDES, Introduction, cit., p. 7. Nella cospicua letteratura statunitense si vedano, ex plurimis, BRENNAN, Reason, passion, and “the progress of the law”, in 10 Cardozo Law Review, 1988-1989, pp. 3 ss.; DEIGH, Emotions, Values and the Law, Oxford, 2008, pp. 136 ss.; KARSTED, Emotion and Criminal Justice, in 6 Theoretical Criminology, 2002, pp. 299 ss.; MARONEY, The Persistent Cultural Script of Judicial Dispassion, in 99 California Law Review, 2011, pp. 630 ss. 13 BANDES, Introduction, cit., p. 1. Per una panoramica di taglio generale si ve- dano anche i contributi pubblicati in AA.VV., coord. Palma-Silva Dias-de Sousa Mendes, Emoções e Crime. Filosofia, Ciência, Arte e Direito Penal, Coimbra, 2013. 14 Il problema della razionalità del punire si identifica con anche l’esigenza di un equilibrato rapporto con la dimensione affettiva: nella sua versione più primi- tiva e brutale, la pena si manifesta come reazione istintiva a un torto: «Definendo la pena primitiva come ragione cieca, determinata ed adeguata soltanto agli istin- ti ed agli impulsi – in una parola, come azione istintiva – volevo innanzitutto ed in primo luogo porre con ciò in rilievo, nella maniera più efficace possibile, una caratteristica negativa della pena primitiva»: v. VON LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, tr. it., Milano, 1962, p. 15. Cfr. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, IX ed., Roma-Bari, 2008, p. 327. Il diritto penale costituisce il ramo dell’ordinamento in cui è maggiore è il rischio di assecondare istanze vendicative o bramosie punitive slegate da una razionalità strumentale e guidate da una ‘cieca’ emotività, esso vive in una continua dialettica con l’irrazionale: cfr., ex plurimis, DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a margine della categoria dell’“offense” di Joel Feinberg, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2008, pp. 1576 ss.; v. anche ID., Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, in AA.VV., a cura di Stortoni-Foffani, Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo. L’analisi critica della scuola di Francoforte, Milano, 2004, p. 85; BARTOLI R., Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2016, pp. 101   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 9 L’azione dello strumento penale è di per sé ‘emotigena’, ossia fat- tore di stimolo a emozioni 15. Vale per la fase precettiva, ossia l’espressione di divieti che, a se- conda degli interessi coinvolti, possono suscitare negli individui atteg- giamenti emotivi di diverso tipo 16 i quali finiscono per influire sul gra- do di adesione alla norma e dunque sulle condizioni di osservanza del precetto, in una dimensione che potremmo definire come ‘risvolto emozionale’ del problema della legittimazione delle norme penali 17. E vale, forse in modo più rilevante, per la fase applicativa, in cui si accertano le responsabilità e la sanzione ‘prende corpo’. Non è un ca- so che la dimensione emotiva nel diritto penale venga convenzional- mente collocata, e sovente circoscritta, a fasi e momenti in cui emo- zioni e sentimenti risultano più ‘visibili’18: la realtà delle aule di tri- ss.; PADOVANI, Alla ricerca di una razionalità penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1087 ss. 15 «In effetti, il reato è la mistura di un fatto che suscita reazioni immediate negative e di un’imputazione dalle origini spesso motivate politicamente e dagli effetti sempre stigmatizzanti», LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, cit., p. 1155. Per uno studio ad ampio spettro sulle emozioni suscitate dal fatto crimina- le, con particolare riferimento al sublime, v. BINIK, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea, Milano, 2017. 16 Sul richiamo ad atteggiamenti emotivi della collettività come parte di un più ampio problema concernente adesione a valori, consenso sociale e normazione penale, v., per tutti, PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/1992, pp. 852 ss. 17 Nella letteratura italiana v. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1125 ss. Sui rapporti fra la dimensione sociale delle emozioni e le scelte di politica del di- ritto si soffermano BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 172. 18 Sui rapporti tra dimensione ‘visiva’ del crimine e ruolo delle emozioni v., per un’ampia panoramica, AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimi- ne, Milano, 2005; per l’analisi di un caso emblematico, v. CERETTI, Il caso di Novi Ligure nella rappresentazione mediatica, in AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimine, cit., pp. 451 ss.; sul tema v. anche PALIERO, Verità e distor- sioni nel racconto mediatico della giustizia. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., a cura di Forti-Mazzucato-Visconti A., Giustizia e letteratura, vol. II, Milano, 2014, pp. 671 ss.; più diffusamente, ID., La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2006, pp. 523 ss.; PALAZZO, Mezzi di comunicazione e giustizia penale, in Politica del diritto, 2/2009, pp. 193 ss.; volendo, v. BACCO, Visioni ‘a occhi chiusi’: sguardi sul problema penale tra immaginazione, emozioni e senso di realtà, in The Cardozo Electronic Law Bul- letin, 2/2015, pp. 1 ss. Sull’approccio ‘visuale’ in criminologia v., per una sintesi globale e per le coordinate di fondo, v. BROWN, Visual Crimonology, in http://- criminology.oxfordre.com/view/10.1093/acrefore/9780190264079.001.0001/acrefore- 9780190264079-e-206?print=pdf, 4/2017, pp. 1 ss.   10 Tra sentimenti ed eguale rispetto bunale e la dialettica spesso tumultuosa fra i soggetti del processo 19. E infine il carcere, il dramma umano della pena, da sempre intriso di atteggiamenti emotivi che si dividono fra vendetta, odio per il tra- sgressore e compassione 20. Siamo solo alla punta affiorante di un intreccio che affonda le proprie radici in un substrato per lo più invisibile 21. È bene riflettere non solo sulle emozioni che il diritto penale su- scita, ma anche sugli atteggiamenti emotivi e di pensiero che sono alla base e che modellano la fisionomia dell’intervento punitivo22, nelle forme e nei presupposti23. L’esigenza di riconoscere e proble- 19 Sulle emozioni della vittima, v. da ultimo BANDES, Share your Grief but Not Your Anger. Victims and the Expression of Emotion in Criminal Justice, in AA.VV., ed. by Abell-Smith, The Espression of Emotion. Philosophical, Psychological an Legal Perspectives, Cambridge, 2016, pp. 263 ss. 20 Richiamiamo, nella sconfinata letteratura, alcune opere in cui viene affron- tato lo specifico tema delle matrici affettive; per una sintetica ricognizione filoso- fica, a partire da un’analisi etimologica, v. CURI, I paradossi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2013, pp. 1073 ss.; nella letteratura angloamericana, SOLOMON, Justice v. Vengeance. On Law and the Satisfaction of Emotion, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 123 ss.; POSNER, Emotion versus Emotional- ism in Law, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 317 ss.; MUR- PHY, Punishment and the Moral Emotions, cit., pp. 94 ss.; NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 525 ss.; EAD., Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it., Bologna, 2017, pp. 284 ss. 21 «Emotions pervades not just the criminal courts, with their heat-of-passion, and insanity defenses and their angry or compassionate jurors but the civil court- rooms, the appellate courtrooms, the legislatures. It propels judges and lawyers, as well as jurors, litigants, and the lay public. Indeed, the emotions that pervade law are often so ancient and deeply ingrained that they are largely invisible», v. BANDES, Introduction, cit., p. 2. Cfr. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, in 94 Minnesota Law Review, 2010, pp. 2033 s. 22 Secondo l’istanza razionalistica che è alla base del diritto penale postillumi- nistico, le emozioni sembrano subire una sublimazione che ne rende più difficol- toso riconoscerne la presenza pur avvertendone gli effetti: «The institutions of criminal justice thus find themselves in a paradoxical situation. They offer a space for the most intensely felt emotions – of individuals as well as collectivities – while simultaneously providing mechanisms that are capable of ‘coolig off’ emotions, converting them into more sociable emotions, or channelling them back into reasonable and more standardised patterns of actions and thought», v. KARSTED, Handle with Care: Emotions, Crime and Justice, in AA.VV., ed. by Karsted-Loader-Strang, Emotions, Crime and Justice, Oxford and Portland, 2011, p. 2. 23 Nella dottrina penalistica italiana è stata avviata una riflessione concernente il raffronto fra la logica razionalistico-consequenzialista e una diversa prospetti- va, più marcatamente intuitiva e a base emozionale, nell’approccio a problemi di   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 11 matizzare il ruolo della dimensione emotiva si pone dunque anche in rapporto al processo di deliberazione delle politiche penali e più in generale all’esercizio delle scelte pubbliche 24. Appare opportuna una tematizzazione delle connessioni fra diritto penale e dimensione affettiva, in relazione non solo al funzionamento di istituti del diritto vigente, ma più in generale all’assetto logico e te- leologico delle categorie penalistiche, le quali sono frutto di atteg- giamenti di pensiero e di cultura intrisi di emotività. In altri termini, il ruolo delle emozioni e dei sentimenti va concepito non solo come elemento da ‘incastrare’ all’interno di geometrie concettuali tradizio- nali, ma soprattutto come fattore che contribuisce, e ha contribuito fino ad oggi, a influire sulle geometrie. Le relazioni tra emozioni, sentimenti e diritto penale non sono dunque confinabili a singoli territori della c.d. ‘dogmatica’, né posso- no circoscriversi a particolari settori della parte speciale del codice 25. Il rapporto fra dimensione affettiva e diritto penale appare in defini- tiva come un intreccio di questioni che si dispiegano da monte (fase genetica) a valle (fase applicativa) dell’ordinamento normativo. Più radicalmente, è l’idea stessa della responsabilità penale, il suo dover essere e i suoi obiettivi, a essere in buona parte co-determinati da at- teggiamenti emotivi, dalla sensibilità sociale e dal sentire dei legisla- tori: un presupposto fondamentale per ogni riflessione penalistica, e che giustamente viene oggi evidenziato come dato preliminare nella presentazione del problema penale 26. regolamentazione normativa e a casi concreti: v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica, neuroetica, Torino, 2009, passim; EAD., Una let- tura evoluzionistica del diritto penale. A proposito delle emozioni, in AA.VV., a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, Padova, 2013, pp. 344 ss. 24 WESTEN, La mente politica, tr. it., Milano, 2008; più recentemente, sul ruolo della componente emotiva nelle scelte politiche e nell’adesione a orientamenti va- loriali, fedi, ideologie, si veda HAIDT, Menti morali. Perché le brave persone si divi- dono su politica e religione, tr. it., Milano, 2013, pp. 93 ss.; una sintesi dei proble- mi in ROSSI, Emozioni e deliberazione razionale, in Sistemi intelligenti, 1/2014, pp. 161 ss. 25 Un’analisi del ruolo del fattore emotivo nel contesto applicativo evidenzia come il richiamo a emozioni sia ben presente nelle argomentazioni giurispruden- ziali anche al di là di un definito inquadramento in particolari istituti, e rappre- senti in questo senso un ausilio argomentativo polivalente, adoperato soprattutto in relazione alla colpevolezza e ai criteri soggettivi dell’art. 133 c.p., v. AMATO, Di- ritto penale e fattore emotivo: spunti di indagine, in Riv. it. med. leg., 2/2013, pp. 661 ss.  26 FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari, 2017, pp. 9 ss.  12 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella defini- zione dell’oggetto di tutela La dottrina penalistica parla oggi espressamente di ‘ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali’, proponendo una classificazione dei profili di interazione fra stati affettivi e diritto penale basata su cinque piani prospettici i quali possono a nostro avviso sintetizzarsi in due macrocategorie: 1) profili pertinenti la genesi del diritto, della legge penale, e il dover essere della pena (ruolo della dimensione affettiva nelle scelte di politica del dirit- to e riflessi sulla configurazione del bene oggetto di tutela penale; in- fluenza sul modo di concepire i concetti o le categorie della teoria del reato, riflessi sul modo di concepire significato e scopi della pena); 2) profili concernenti la dimensione applicativa (ruolo di emozioni e sen- timenti nel giudizio di colpevolezza; influenza della dimensione affet- tiva nella riflessione del giudicante) 27. Questioni come l’influenza della dimensione affettiva sulla teoriz- zazione dei concetti della categoria del reato, sul modo di concepirele funzioni della pena e sulla graduazione della colpevolezza costitui- scono tematiche che, secondo un gergo ‘endopenalistico’, orientano la riflessione verso temi più vicini alla ‘parte generale’; appaiono maggiormente pertinenti a problemi di ‘parte speciale’ profili riguar- danti il ruolo di sentimenti ed emozioni nella configurazione di og- getti di tutela. Una prima ricognizione può essere condotta attraverso uno sguardo al diritto penale vigente, al testo prima che al contesto 28, alla ricerca di norme in cui vengano evocati fenomeni psichici lato sensu riconducibili a sentimenti ed emozioni; ed effettivamente nel codice penale italiano tali richiami non mancano. Un’avvertenza: partire da una lettura delle norme è funzionale a fornire delle coordinate di base per l’inquadramento delle questioni 27 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’ap- plicazione delle leggi penali, in AA.VV. a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neu- roetica, cit., pp. 215 ss. 28 Adoperiamo la diade testo/contesto per indicare due distinti livelli di analisi: il primo relativo alla dimensione letterale delle norme, il secondo, che non affron- teremo nella presente indagine, relativo all’emersione del lessico emotivo nelle applicazioni giurisprudenziali anche in relazione a disposizioni e istituti che non richiamano espressamente stati affettivi. Sul rapporto fra testo e contesto v. PA- LAZZO, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 525 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 13 che sono più strettamente legate al diritto vigente, evidenziando in questo modo le connessioni più immediate, ma non traduce una scel- ta metodologica tesa a ‘ontologizzare’ il lessico legislativo e a farne la chiave di lettura prioritaria. Al contrario, il lessico delle norme, con le sue approssimazioni, deve indurre a chiedersi quale sia, al di là delle formule, il ruolo dei fenomeni affettivi richiamati nelle dinami- che della penalità. Prendiamo le mosse dalla parte generale del codice penale29. Ri- chiami al lessico dei sentimenti e delle emozioni emergono in istituti relativi alla graduazione della colpevolezza: nel titolo relativo all’im- putabilità, l’art. 90 c.p. parla di stati emotivi e passionali 30; fra le cir- costanze del reato spiccano il riferimento allo ‘stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui’ e la ‘suggestione di una folla in tumulto’ (artt. 62 c.p. e 599, comma 2, c.p.). Menzioniamo le suddette norme poiché contengono richiami testuali, senza allargare il campo a ulte- riori situazioni in cui gli stati affettivi rappresentano un elemento che può concorrere a integrare, o a influire dal punto di vista naturalisti- co, sulla configurazione di importanti istituti: pensiamo al dolo e alla 29 Menzioniamo gli istituti e le fattispecie in cui vengono richiamati espressa- mente fenomeni psichici definiti come sentimenti ed emozioni, o comunque a essi riconducibili; non si tratta quindi dell’elencazione di tutti gli istituti che rimandi- no a concetti psicologici; per una sintesi in tal senso vedi di recente NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, Torino, 2012, pp. 25 ss. 30 La norma che stabilisce che gli stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità è una disposizione controversa e dibattuta fin dalla genesi; per una sintesi v. MUSUMECI, Emozioni, crimine, giustizia, cit., pp. 82 ss.; FORTUNA, Gli stati emotivi e passionali. Le radici storiche della questione, in AA.VV., a cura di Vinci- guerra-Dassano, Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, pp. 347 ss. La rigidità della disposizione normativa viene oggi criticata, fino a farla definire da attenta dottrina come una delle finzioni più odiose del sistema, v. DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, in www.penalecontemporaneo.it, 1/2017, p. 7; BARTOLI R., Colpevolezza: tra persona- lismo e prevenzione, Torino, 2005, pp. 137 ss.; ma è tuttora ben solida nella giuri- sprudenza, v., ex plurimis, Cass. pen., sez. VI, 20/04/2011, n. 17305, con nota di VISCONTI A., in Riv. it. med. leg., 4-5/2011, pp. 1243 ss.; cfr. Cass. pen., 26/06/2013, n. 34089. L’unico spazio di rilevanza per stati emotivi e passionali viene ammesso nel caso di fenomeni già radicati in un pregresso quadro di infermità, v. EAD., loc. ult. cit., p. 1246. In relazione alle circostanze dello stato d’ira e della suggestione della folla, secondo la giurisprudenza, nel primo caso lo stato emotivo deve corri- spondere a un impulso incontenibile, v. Cass. pen., sez. I, 13/04/1982, n. 10696; Cass. pen., sez. I, 26/04/1988; Cass. pen., sez. I, 12/11/1997, n. 11124; per le spora- diche applicazioni dell’attenuante della suggestione della folla v. Cass. pen., sez. VI, 27/02/2014, n. 11915; Cass. pen., sez. I, 13/07/2012, n. 42130.   14 Tra sentimenti ed eguale rispetto colpa e, più in generale, a tutta la materia dell’imputazione soggetti- va 31. 31 È oggetto di discussione se e in che misura la componente affettiva (emo- zioni e sentimenti) sia da prendere in considerazione quale fattore costitutivo dei coefficienti psichici che il diritto penale definisce ‘dolo’ e ‘colpa’, e, più in genera- le, si discute sul grado di rispondenza fenomenica della categoria della colpevo- lezza in rapporto allo stato soggettivo della persona; in relazione a tale aspetto il concetto di colpevolezza assume un ruolo che è stato definito ‘ambiguo’: «da un lato presidio del rilievo da attribuirsi allo stato soggettivo reale dell’imputato, on- de evitare una condanna che si fondi su mere istanze di esemplarità sanzionato- ria; ma nel contempo fattore che autorizza, quando la colpevolezza non viene esclusa, l’insignificanza di quel medesimo stato soggettivo (cioè della condizione vera in cui versi il soggetto agente) rispetto al contenuto della condanna», così EUSEBI, Le forme della verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità co- me «approssimazione», in AA.VV. a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della sanzione penale, cit., p. 173. L’impostazione dominante in dottrina tende a escludere una rilevanza degli stati affettivi sul piano normativo: «Estranei alla natura del dolo sono affetti, emozioni, motivi di qualsivoglia natura che stan- no ‘a monte’ della decisione di agire [...] In via di principio, elementi emozionali non servono a fondare il dolo, né valgono a escluderlo», così PULITANÒ, Diritto pe- nale, VII ed., Torino, 2017, p. 282. Cauta è l’apertura di FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Cor- te d’Assise, 1/2011, p. 87 il quale osserva che «[o]ccorrerebbe evitare, invero già nell’individuare l’essenza generale o nucleo centrale del dolo nella coscienza e vo- lontà del fatto, di concepire tali requisiti psicologici in termini eccessivamente razionalistici e idealisticamente depurati da corrispondenti componenti emotive». Appare difficilmente contestabile che a livello naturalistico la componente affetti- va sia un fattore costitutivo degli stati psicologici che fondano dolo e colpa; gli spazi per una eventuale considerazione del ruolo degli stati affettivi nella fisio- nomia del dolo e della colpa penale potrebbero eventualmente ampliarsi o re- stringersi a seconda che si propenda per una concezione ‘normativizzante’ dei coefficienti psichici oppure per una concezione più ‘naturalistica’, tema in rela- zione al quale il dibattito nella dottrina penalistica italiana è amplissimo: si veda- no, ex plurimis, VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino, 2000, pp. 71 ss., 165 ss.; EUSEBI, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass., S.U., 24 aprile 2014 (Thyssen- krupp), in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2015, pp. 623 ss., e più ampiamente ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993; DE VERO, Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, in AA.VV., a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. II, Napoli, 2011, pp. 883 ss.; DONINI, Il dolo eventuale, fatto-illecito e colpevolezza, in Diritto penale contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2014, pp. 83 ss.; 103 ss.; FIANDACA, Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, in Diritto penale contemporaneo-Rivista trimestrale, 1/2012, pp. 152 ss.; DEMURO, Il dolo. II. L’accertamento, Milano, 2010, pp. 3 ss.; PULITANÒ, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2013, pp. 22 ss. Per una riflessione sulla consistenza psicologica del dolo eventuale alla luce delle più recenti acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze v. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura di Forti-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 15 Si tratta di norme problematiche il cui specifico approfondimento non sarà oggetto della presente indagine; nondimeno va dato conto della rilevanza di tali disposizioni nell’impianto della responsabilità penale. Nella parte speciale del codice la definizione di oggetti di tutela in termini di sentimento rappresenta un’evidenza palmare: si parla di ‘sentimento religioso’, di ‘pietà dei defunti’, di ‘sentimento per gli ani- mali’, di condotte atte a ‘deprimere lo spirito pubblico’ (art. 265 c.p.), a ‘distruggere o deprimere il sentimento nazionale’ (artt. 271 – dichia- rato illegittimo dalla Corte costituzionale32 – e 272 c.p.) e a istigare all’odio fra le classi sociali (art. 415 c.p.), di atti finalizzati a incutere ‘pubblico timore’ (art. 421 c.p.), di ‘comune sentimento del pudore’ (art. 529 c.p.), di ‘perdurante e grave stato di ansia o di paura e timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto’ (art. 612 bis c.p.), di ‘passioni di una persona minore’ (art. 649 c.p.). Allargando lo sguardo al di là del codice, la legislazione comple- mentare offre ulteriori esempi: la legge n. 47 del 1948, nota come ‘Legge sulla stampa’, parla di ‘sensibilità e impressionabilità’ di fan- ciulli e adolescenti e incrimina condotte idonee a offendere il loro ‘sentimento morale’ (art. 14); sempre nell’ambito del medesimo testo normativo, è considerata penalmente rilevante la pubblicazione di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionan- ti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche sol- tanto immaginari, ‘in modo da poter turbare il comune sentimento della morale’ (art. 15). Estremamente significative sono infine le nor- me contro la discriminazione razziale (legge n. 654 del 1975), nelle quali la tipicità della condotta è fondata sulla nota caratterizzante di ciò che comunemente è definito come un sentimento, ossia l’odio. Abbiamo constatato che «nel linguaggio legislativo penale il rife- rimento a sentimenti è ben presente» 33 e che «sentimenti e stati emo- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 144 ss.; DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso co- mune, cit.; per una sintesi del ruolo delle scienze extranormative in rapporto al problema dell’imputazione soggettiva, v. da ultimo FIANDACA, Prima lezione, cit., pp. 168 ss. Nondimeno, nelle motivazioni dei giudici il richiamo alla dimensione affettiva figura quale corollario argomentativo in relazione all’elemento soggetti- vo, all’ipotesi di concessione di attenuanti generiche e più in generale in ordine alla commisurazione della pena; per un quadro di sintesi v. AMATO, Diritto penale e fattore emotivo, cit., pp. 662 s. 32 C. cost., 12/07/2001, n. 243. 33 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino, 2010, p. 41.   16 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivi non sono certo realtà sconosciute al diritto penale»34: «i “senti- menti”, [...] ancorché di natura psichico-emozionale, sono [...] delle realtà personalistiche innegabili» 35. Le disposizioni della parte speciale (sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti, sentimento per gli animali, sentimento nazionale) rappresentano la rispondenza più univoca e immediata di ciò che si suole definire ‘tutela di sentimenti’, con una formula tanto accatti- vante quanto ambigua e problematica nei contenuti, la quale soprat- tutto nell’attuale momento storico sta riscuotendo un inedito interes- se da parte della dottrina penalistica italiana 36. Le norme codicistiche forniscono una prima cornice, un panora- ma dalla capacità esplicativa simile a quella di una visione in contro- luce: sostanzialmente definiti appaiono i contorni, il tratteggio ester- no che inquadra il teatro dei fatti oggetto di interesse normativo; più nebuloso è il nucleo interno, legato al retroterra dei fenomeni e alle loro dimensioni di significato. Un primo ordine di problemi ha a che fare col profilo fattuale, le- gato all’inquadramento e alla decifrazione di ciò che i saperi sul mondo, e in particolare le scienze empirico-sociali, definiscono ‘sen- timenti’, soprattutto in rapporto ad altri fenomeni affettivi, come ad 34 FIANDACA, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Torino, 2014, p. 81. 35 PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, in Quaderni co- stituzionali, 2/2010, p. 441. 36 Menzioniamo gli scritti che si sono dedicati ex professo al tema, lasciando al momento da parte la cospicua produzione letteraria in cui l’argomento viene tocca- to in modo incidentale. Oltre al già menzionato saggio di FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215 ss., si segnala del medesimo Autore un ulte- riore approfondimento in occasione dello studio sul bene giuridico: v. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 81 ss. Si vedano quindi DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., pp. 1546 ss.; GIUNTA, Verso un rinnovato romantici- smo penale? I reati in materia di religione e il problema della tutela dei sentimenti, in AA.VV., a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. III, Napoli, 2011, pp. 1539 ss.; CAPUTO, Eventi e sentimenti nel delitto di atti persecutori, in Studi in onore di Mario Romano, vol. III, cit., pp. 1373 ss.; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 69 ss.; PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, cit., pp. 41 ss.; volendo, BACCO, Sentimenti e tutela penale: alla ricerca di una dimensione liberale, in Riv. it. dir. proc pen., 3/2010, pp. 1165 ss. Fra i costitu- zionalisti v. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero tra fatti di senti- mento e fatti di conoscenza, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 851 ss. Per un’ana- lisi del sentimento quale elemento che concorre a fondare ragioni e struttura di di- sposizioni normative non solo penalistiche, v. ITALIA, I sentimenti nelle leggi, Milano, 2017. Per una sintesi delle più recenti posizioni della dottrina continentale, nel con- testo di un’analisi incentrata sull’ordinamento spagnolo, v. ALONSO ALAMO, Senti- mientos y derecho penal, in Cuadernos del polìtica criminal, I, 106/2012, pp. 36 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 17 esempio le emozioni. In termini complementari si pone un problema concettuale che riguarda le regole d’uso dei termini sia nell’ambito extragiuridico e, di riflesso, nella specifica dimensione giuridico-pe- nalistica: si tratta di prendere in considerazione le tassonomie scien- tifiche in rapporto alle esigenze di normatività, alla chiarezza defini- toria e alla funzionalità comunicativa del diritto. Un secondo ordine di problemi concerne gli spazi di legittimità di norme finalizzate a una tutela penale di interessi legati alla sfera af- fettiva degli individui: tema che proietta verso percorsi differenti a seconda del significato e del senso normativo attribuibile all’evoca- zione del peculiare sentimento o dell’emozione, in un discorso che chiama in gioco pregiudiziali di tipo filosofico, morale, politico. In questo senso la problematica si presta a essere sviluppata ad un pri- mo livello su un piano generale (la tutelabilità di sentimenti come problema di principio), e, successivamente, in una prospettiva più circoscritta concernente lo specifico problema di tutela che sia dato individuare dietro il richiamo alla dimensione affettiva della persona. Come detto, prendere le mosse dalle norme positive è volto a faci- litare l’inquadramento dei problemi; una volta fotografato l’esistente, il lessico dei legislatori è destinato a divenire oggetto di analisi criti- ca, nel tentativo di superarne la cortina di artificialità. 2.1. Oltre il lessico legislativo Un primo obiettivo è dissolvere l’alone di retorica e guardare ‘in trasparenza’, oltre le formule. La tendenza a costruire norme penali attraverso richiami alla di- mensione affettiva, pur manifestatasi in momenti storici differenti 37, rivela una sostanziale continuità 38, animata da variabili che si legano a fattori sociali e culturali i quali hanno concorso a dare stimolo a una sensibilità dei legislatori39. Si tratta di scelte culturalmente 37 Più remoti sono il codice penale e la c.d. ‘legge sulla stampa’, distanti anche culturalmente dall’attuale momento storico; più prossima cronologicamente è la c.d. ‘Legge Mancino’ (incriminazione di condotte d’odio razziale), mentre è relati- vamente recente la scelta di dare riconoscimento a esigenze di tutela di animali non umani attraverso la formula ‘Delitti contro il sentimento per gli animali’. 38 Una panoramica in MUSUMECI, Emozioni crimine, giustizia, cit., pp. 30 ss. 39 «I testi legislativi, che parlano di sentimenti, sono spia di un sentire dei legi- slatori che, ieri come oggi, hanno adottato quel lessico», così PULITANÒ, Introdu- zione alla parte speciale, cit., p. 41.   18 Tra sentimenti ed eguale rispetto orientate, nel contesto di una complessità di fondo 40 che è confluita in determinazioni di politica del diritto le quali, secondo un processo ricorsivo 41, si caratterizzano a loro volta per un elevato grado di pre- gnanza culturale e una forte valenza simbolica, nel senso che le nor- me giuridiche a loro volta contribuiscono a modellare atteggiamenti di pensiero ed emotivi. Seguendo le traiettorie del pensiero di Edgar Morin troviamo un efficace quadro riassuntivo della complessità di ciò che chiamiamo ‘cultura’: «La cultura, peculiarità della società umana, è organizzata/organiz- zatrice attraverso il veicolo cognitivo costituito dal linguaggio, a parti- re dal capitale cognitivo collettivo delle conoscenze acquisite, dei sa- per-fare appresi, delle esperienze vissute, della memoria storica, delle credenze mitiche di una società. Così si manifestano “rappresentazio- ni collettive”, “coscienza collettiva”, “immaginario collettivo”. E la cul- tura, sfruttando il suo capitale cognitivo, instaura le regole/norme che organizzano la società e governano i comportamenti individuali. Le regole/norme culturali generano processi sociali e rigenerano global- mente la complessità sociale acquisita dalla stessa cultura» 42. In che termini il giurista penale deve rapportarsi a tale complessità? «[S]olo se lo si considera da una prospettiva esterna, il diritto penale è un coacervo di norme: se si guarda con più attenzione, però, esso si ri- vela come una parte della cultura in cui viviamo», ricorda Winfried 40 Nel senso in cui il concetto è stato sviluppato da Edgar Morin: «Complexus significa ciò che è tessuto insieme; in effetti, si ha complessità quando sono inse- parabili i differenti elementi che costituiscono un tutto (come l’economico, il poli- tico, il sociologico, lo psicologico, l’affettivo, il mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto, le parti e il tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità è, perciò, legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della nostra era planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le sfide della complessità», v. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, tr. it., Mi- lano, 1999, p. 38; sempre Morin afferma che «Il problema della complessità è quello che pongono i fenomeni non riducibili agli schemi semplici dell’osser- vatore», v. ID., Scienza con coscienza, tr. it., Milano, 1987, p. 171; cfr. più diffusa- mente, ID., Introduzione al pensiero complesso, tr. it., Milano, 1993, pp. 56 ss. 41 «I prodotti e gli effetti generati da un processo ricorsivo sono contempora- neamente co-generatori e co-causanti di tale processo», MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi, tr. it., Milano, 1993, p. 88.  42 MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi, cit., p. 19.  Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 19 Hassemer43. L’osservazione dello studioso tedesco è un invito a riflet- tere sul diritto penale munendosi di ‘lenti’ che sappiano mettere a fuo- co non solo norme ma anche la cultura che fa loro da sfondo: gli uni- versi fattuali, valoriali, simbolici ed emotivi che la formano. Il giurista penale dovrebbe volgere il proprio sguardo verso i fe- nomeni al fine di costruire esplorazioni ‘a partire dal capitale cogni- tivo collettivo delle conoscenze acquisite’: delle conoscenze che han- no contribuito a dare un’impronta alla cultura, e dunque anche alla sensibilità dei legislatori; e del panorama di conoscenze del tempo presente, con l’annesso potenziale epistemico. Un approccio critico al lessico del diritto significa in questo senso presa di distanza da ‘ontologismi giuspositivistici’ o da ‘riduzionismi pangiuridici’ della realtà, e traduce l’esigenza di tenere ben presente la distanza tra il diritto, inteso come ideale regolativo, e i fatti della vita 44. L’‘inemendabilità’ di cui parla il filosofo Maurizio Ferraris, «il fatto che ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasforma- to attraverso il mero ricorso a schemi concettuali»45, suona per il giurista come un monito aprendere sul serio la distinzione tra di- mensione ‘costruttivistica’ degli schemi del diritto e il piano ontologi- co dei fenomeni 46. 43 HASSEMER, Perché punire è necessario, tr. it., Bologna, 2012, p. 12. 44 «Non è vero e completo giurista colui che, pure conoscendo con scientifica precisione il diritto positivo di un determinato paese, non si rende conto della in- colmabile distanza tra il diritto e la vita, ossia della assoluta impossibilità di sod- disfare totalmente l’esigenza, presente in tutte le società, di razionalizzare le azioni degli uomini dando a esse un ordine stabile mediante regole». v. CESARINI SFORZA, Filosofia del diritto, Milano, 1958, p. 1. 45 FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari, 2012, p. 48; si veda an- che la riflessione di un filosofo del diritto di matrice analitica SCARPELLI, Filosofia analitica, norme e valori, Milano, 1962, p. 52: «[l]e norme e le asserzioni svolgono nell’esperienza dell’uomo una differente funzione, ma le une e le altre possono svolgere la loro funzione solo se si riferiscono a stati ed eventi dentro l’esperienza e distinguibili dagli altri stati ed eventi dentro l’esperienza». 46 Non intendiamo prendere posizione sui rapporti tra ontologia ed epistemo- logia, addentrandoci nel ginepraio di problemi legati alla dialettica fra concezioni ‘realiste’ e ‘postmoderne’. Nella letteratura italiana, oltre al citato ‘manifesto’ di Maurizio Ferraris, si veda ID., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, 2009, pp. 62 ss.; per una cristallina sintesi del dibattito sul realismo vedi D’AGOSTINI, Realismo? Una questione non controversa, Torino, 2013, pp. 12 ss., 59 ss. In termini generali, segnaliamo come tale produzione letteraria sia da inquadrarsi quale risposta al trend postmoderno che nella seconda metà del No- vecento ha sottoposto i concetti di ‘verità’ e di ‘realtà’ a tentativi di destruttura- zione da parte di correnti filosofiche che possiamo approssimativamente definire   20 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nella dottrina penalistica italiana si parla di ‘vincoli di realtà’ 47, e si potrebbero definire tali istanze anche attraverso il richiamo a con- cetti meno abituali ma oggi non più alieni al discorso penalistico, come quello di ‘verità’ 48. Lo specifico caso dei sentimenti come pro- blema di tutela porta a riflettere sulla «verità dei presupposti su cui si fonda il ragionamento funzionalistico all’origine dei precetti»49. Si tratta di un impegno anche sul piano metodologico: come approccio di studio che pone la conoscenza dei fenomeni a fondamento di ana- lisi volte a testare la qualità delle scelte e delle possibili risposte da parte del diritto, emancipandosi dalla prospettiva di patenti ‘ontolo- giche’ alle formule coniate dal legislatore 50. Il punto di osservazione dello studioso non dovrebbe pertanto col- locarsi in un’ottica del tutto interna al linguaggio e agli schemi con- cettuali del diritto posto, ma, come ogni punto di osservazione, ne- cessita di una collocazione anche esterna rispetto all’oggetto che si come relativistico-ermeneutiche. La bibliografia è sterminata; ci limitiamo a menzionare il testo forse più emblematico, e raffinato, del trend postmoderno, ossia RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, tr. it., Milano, 2004. 47 «Come impresa ‘di ragione’, il diritto è vincolato al principio di realtà. Il le- gislatore deve fare i conti con la realtà che intende regolare, nella quale ha da ri- tagliare gli oggetti e cercare le condizioni di una regolazione possibile e razionale rispetto agli scopi. Nei concreti orizzonti storici, i vincoli di realtà (ontologici) si traducono in vincoli epistemologici di razionalità rispetto al sapere disponibile», v. PULITANÒ, Il diritto penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2006, pp. 798 ss. 48 Le questioni di fondo sono oggi compendiate nell’importante volume di AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione pena- le, cit.; si veda inoltre il denso scritto di DI GIOVINE O., A proposito di un recente dibattito su “Verità e diritto penale”, in Criminalia, 2014, pp. 539 ss., quale tentati- vo di superamento,  nella prospettiva giuridica, della radicalità insita nell’alter- nativa tra teorie corrispondentiste e pragmatiste. 49 PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione. Fatti e valori nella formulazione del precetto penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p. 101. 50 Umberto Vincenti afferma la necessità di «combattere ogni formalismo in- terpretativo che ha la pretesa, per malintese aspirazioni di autonomia della scien- za giuridica, di risolvere ogni questione – e gli stessi casi della pratica – ragionan- do esclusivamente all’interno del testo normativo, levigando e combinando le sua parole, per comporre un certo prodotto linguistico – una certa massima di deci- sione – da accollare all’esperienza: alla nuova esperienza da conoscere e, nei fatti, destinata a rimanere, non volendosi andare oltre le parole di un testo (o, anche, di molti testi), di necessità sconosciuta (o quasi) perché impenetrabile attraverso il solo strumento verbale», v. VINCENTI, voce Linguaggio normativo, in Enciclopedia del diritto, Annali, vol. VII, Milano, 2014, pp. 683 s.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 21 vuole indagare: «a partire dall’insopprimibile “eccedenza” della vita rispetto a tutte le forme», e nella consapevolezza che il diritto, rispet- to ai fenomeni che ne costituiscono il campo applicativo, «costituisce ormai una “semantica influente” in cui “quello di cui si parla” è mol- to di più di “quello che si dice”» 51.  51 Le citazioni sono tratte da RESTA, Diritto vivente, Roma-Bari, 2008, p. X. Si veda anche RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2007, p. 17, p. 31, il quale sembra farsi sostenitore di istanze simili quando afferma che il ri- chiamo alla ‘verità’ dei presupposti implica che è in gioco qualcosa di più profon- do della precisione linguistica e dell’efficacia descrittiva di una norma: osserva Rodotà che «In realtà il diritto è più che una regola. Prima di tutto è un linguag- gio. Si può davvero dire tutto con le parole del diritto o è proprio la grammatica dei diritti a dimostrarsi povera di fronte alla complessità sociale e alla sua ric- chezza? [...] Il radicarsi del diritto nella realtà segue itinerari complessi, e meno lineari, di quello che misura l’effettività della norma unicamente da una sua diret- ta e immediata applicabilità in una situazione determinata. Già la sola trascrizio- ne nell’ordine giuridico di un valore o di un principio o di un fine pubblico porta con sé una variazione del contesto in cui collocare gli atti della vita, del discorso giuridico a cui fare riferimento, del sistema normativo con il quale misurarsi».   22 Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Percorsi concettuali e interdisciplinari SOMMARIO: 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’. – 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio. – 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? – 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’. – 5. Sinossi. 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’ Un approccio orientato a problematizzare il profilo ontologico- fattuale dei fenomeni affettivi, e dunque a dialogare con ambiti disci- plinari diversi dalla scienza giuridica, trova un importante punto di riferimento dal punto di vista metodologico nel campo di studi di matrice statunitense denominato ‘Law and Emotion’ 52. Si tratta di un’area di discussione orientata a rimeditare i termini dell’interazione fra diritto e dimensione emotiva per ragioni che si le- gano non solo a un complessivo aggiornamento delle conoscenze ex- tragiuridiche sul tema, ma soprattutto per favorire una maggiore con- sapevolezza e un ‘uso’ più intelligente delle emozioni nel campo giuri- dico («intelligent and responsible engagement by law») 53. Secondo i teo- rici di ‘Law and Emotion’ i giuristi tendono a non prendere sufficien- temente in considerazione le acquisizioni delle scienze extragiuridiche sugli stati affettivi, rivelando un’autoreferenzialità frutto di mentalità chiusa e una riluttanza ad apprendere da altre discipline 54. 52 Per un inquadramento dei temi trattati e delle diverse impostazioni v. BANDES- BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., passim; MARONEY, Law and Emotion: A Proposed Taxonomy of an Emerging Field, in 30 Law and Human Behavior, 2006, pp. 119 ss.; cfr. anche ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., pp. 1997 ss. 53 ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2000. 54 BANDES, Introduction, cit., p. 7.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 23 Gli studi di ‘Law and Emotion’ mirano a mettere in luce l’influenza che la dimensione affettiva esplica sul modo di concepire ratio e struttura di istituti di diritto positivo e, più in generale, sulle ragioni addotte per legittimare l’essere e il dover essere del diritto 55, soprat- tutto del diritto penale. Si approfondisce la conoscenza dei fenomeni affettivi attraverso una base epistemica che non si limita alla dimen- sione bio-psicologica, ma che si apre alla sfera sociologico-umani- stico-letteraria, attraverso la filosofia, la letteratura, l’antropologia, la sociologia, in una prospettiva volta a dischiudere orizzonti di senso 56 e a guardare ai fenomeni affettivi attraverso un filtro interpretativo multidisciplinare 57. Ciò che sembra meglio riassumere l’istanza sottesa agli studi di ‘Law and Emotion’ è la ricerca di un dialogo finalizzato non solo a in- crementare consapevolezza e competenze dei giuristi sul tema delle emozioni, e dunque a favorire una maggiore attendibilità scientifica dei lavori dei giuristi, ma anche a promuovere un feedback virtuoso fra scienza giuridica e saperi empirico-sociali sugli stati affettivi 58. I contributi di ‘Law and Emotion’ non si identificano con una li- nea teorica univoca 59, ma si articolano in diverse correnti; una fra le 55 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 162. 56 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 162; MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss.; ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2033. 57 Sotto tale profilo sembrano esservi sostanziali differenze rispetto ad altre branche di studi, affini ma distinte da ‘Law and Emotion’: in particolare ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’, le quali, peraltro, sembrano essere tenute in maggiore considerazione dai giuristi. Una possibile chiave di lettura di tale atteg- giamento è il fatto che ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’ sembrano basarsi su assunzioni che sono più vicine al modello di razionalità ‘classica’ con cui i giuristi hanno maggiore confidenza, v. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, cit., p. 2018. 58 MARONEY, Law and Emotion, cit., p. 135: «We see as well a persistent divide between empiricists and theorists. The lack of dialogue across these dividing lines lessens opportunities for cross-fertilization. We therefore would do well to foster dynamic collaborations among social scientists, those trained in the life sciences, philosophers, lawyers, and legal scholars. The exercise of forging such collabora- tions would encourage creation of a common language, and resulting scholarship would be both more complex and more accessible to those across the range of implicated disciplines». 59 Quali caratteristiche deve avere uno studio per potersi inquadrare come contributo su ‘Law and emotion’? Questa la risposta di MARONEY, Law and Emo- tion, cit., p. 124: «The question as to at what point any given project is sufficiently about both “law” and “emotion” to productively be claimed for this particular en-   24 Tra sentimenti ed eguale rispetto più autorevoli studiose, la giurista Terry Maroney, individua ben sei tipologie di approccio60. Tale schematizzazione assume in primo luogo un valore descrittivo, individuando snodi concettuali che carat- terizzano le peculiarità dei singoli contributi nel contesto della pro- duzione scientifica sul tema; sotto un diverso profilo, la tassonomia degli approcci possiede anche la funzione di canone metodologico volto a evidenziare questioni fondamentali con cui il singolo studioso che intenda approfondire il tema delle interazioni fra diritto e dimen- sione affettiva si troverà a fare i conti 61. I percorsi individuati da Ter- ry Maroney fissano in questo senso delle coordinate che possono con- tribuire a suggerire al singolo studioso l’impostazione che meglio si attaglia al tipo di indagine che intende affrontare: la conoscenza dei nodi teorici fondamentali e, correlativamente, della possibilità di percorsi e di approcci alternativi, dovrebbe costituire un impegno ad acquisire consapevolezza riguardo l’impostazione adottata, anche al fine di renderne esplicita l’adesione 62. clave is worthy of greater exploration than is possible here. I offer, nonetheless, two premises, one pertaining to motivation and the other to method. First, con- temporary law and emotion scholarship is based on the beliefs that human emo- tion is amenable to being specifically and searchingly studied, that it is highly rel- evant to the theory and practice of law, and that its relevance is deserving of clos- er scrutiny than it historically has received. Second, such scholarship explicitly directs itself to both sides of the “and”; it takes on a question regarding law and brings to bear a perspective grounded in the study or theory of emotions». 60 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 125 ss. Nel dettaglio, si parla di: 1) ‘emotion centered approach’, come approccio che si focalizza su una singola emo- zione e ne analizza le possibili interazioni con la dimensione giuridica; 2) ‘emo- tional phenomenon approach’, il quale muove dallo studio di processi mentali e comportamentali che non corrispondono propriamente a emozioni, ma che rap- presentano condizioni per l’elicitazione o la esternazione di stati emozionali 3) ‘emotion theory approach’, approccio porta a sviluppare riflessioni in linea con una o più teorie interpretative delle emozioni; 4) ‘legal doctrine approach’, il quale mira a far interagire il sapere su emozioni e stati affettivi con aree determinate del diritto o con particolari istituti; 5) ‘theory of law approach’, il quale studia i nessi tra emozioni e diritto a un livello puramente teoretico, facendo interagire teorie sulle emozioni con teorie generali sul diritto; 6) ‘legal actor approach’, il quale si occupa di analizzare come la dimensione emotiva influisce sull’attività dei soggetti che operano nell’ambito applicativo: giudici, avvocati, ecc. 61 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss. 62 «[c]areful consideration of the analytical approaches potentially implicated in any given project will help identify blind spots or force unstated assumptions to the surface, and may further encourage scholars to justify why they make the choices they do. Thus, academic inquiry into the intersection of law and emotion should identify which emotion(s) it takes as its focus; carefully distinguish be- tween those emotions and any implicated emotion-driven mental processes or   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 25 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio Gli studi su ‘Law and Emotion’ mettono in evidenza questioni teo- riche le quali riteniamo debbano essere prese in considerazione an- che nella presente indagine: in particolare, un importante step è rap- presentato dalla ricerca di punti di convergenza fra contributi di ma- trici scientifiche eterogenee, e dunque dall’esigenza di uno sguardo d’insieme alle acquisizioni elaborate dalle discipline che studiano gli stati affettivi. Sentimenti ed emozioni sono fenomeni relativi al sentire della persona: per comprenderne i profili di rilevanza nella dimensione del singolo e l’incidenza nelle dinamiche relazionali il giurista penale de- ve necessariamente rivolgersi a saperi esterni al diritto che potremmo definire lato sensu ‘psicologici’, ma che non si limitano alla sola psi- cologia 63. Nell’attuale momento storico le dinamiche interiori dell’in- dividuo sono poste sotto osservazione da una molteplicità di punti di vista: un’interazione fra discipline che dà luogo a complesse mappe epistemiche. Difficilmente potrà trovare appagamento la bramosia di defini- zioni che spesso anima le operazioni intellettuali dei giuristi quando si addentrano in campi di conoscenza diversi dal proprio. La lettera- tura sugli stati affettivi non è semplicemente una sovrapposizione di varianti tassonomiche e definitorie; differenti sono le discipline coin- volte, con angolazioni prospettiche e linguaggi che valorizzano profili differenti e complementari: non esiste un’unica ‘scienza dell’emozio- ne e dei sentimenti’. Come modello di approccio penalistico alle scienze extranormati- ve si è recentemente parlato di una prospettiva ‘separatista’ e di una ‘dialogante’64. La soluzione a nostro avviso preferibile è la seconda; nel presente caso, il dialogo si caratterizza per una particolare com- plessità, poiché le voci che il giurista si trova di fronte rappresentano una variegata polifonia da cui emergono prospettive di ricostruzione behaviors; explore relevant and competing theories of those emotions’ origin, purpose, or functioning; limit itself to a particular type of legal doctrine or legal determination; expose any underlying theories of law on which the analysis rests; and make clear which legal actors are implicated», v. MARONEY, Law and Emo- tion, cit., pp. 133 s. 63 Condividiamo in questo senso l’impostazione metodologica di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 18.  64 FIANDACA, Prima lezione, cit., pp. 152 ss.  26 Tra sentimenti ed eguale rispetto e di classificazione alquanto diverse. Sarebbe segno di chiusura cul- turale se ci si accontentasse di identificare le rispondenze fenomeni- che del richiamo a sentimenti sulla base del senso comune, senza ap- profondire le articolate classificazioni proposte dai diversi saperi sul mondo 65; nondimeno, la non omogeneità del panorama di conoscen- ze grava il giurista di un compito severo. In primo luogo appare opportuno individuare le branche della co- noscenza che oggi tracciano le coordinate di riferimento. Al fine di delineare i presupposti di un’interazione fra scienza penale e saperi sugli stati affettivi, nella dottrina penalistica italiana è stata proposta una schematizzazione utile a mappare l’orizzonte conoscitivo. Tre le tipologie di approccio evidenziate: 1) approccio psicologico; 2) ap- proccio neurofisiologico e neuroscientifico; 3) approccio filosofico 66. La dimensione biologica e quella psicologica offrono un quadro in- centrato sulle dinamiche interne alla persona, ossia relativo a come gli stati affettivi si manifestano e a quale influenza possono avere sul- l’agire, sull’autodeterminazione individuale e dunque nella globale eco- nomia di vita di un soggetto. Prospettive come quella filosofica e so- ciologica forniscono chiavi di lettura differenti, facendo luce non solo sulla dimensione soggettivo-interiore e solipsistica dei fenomeni af- fettivi, ma proiettandoli nelle complesse dinamiche della vita di rela- zione e dunque nella sfera interpersonale. Nella prospettiva penalistica sono importanti entrambi i profili, sia quelli più legati al ruolo degli stati affettivi nella dimensione indi- viduale, sia quelli concernenti l’intersoggettività e la dimensione col- lettiva, i quali potranno assumere una maggiore o minore pertinenza a seconda dei problemi esaminati dal giurista. Rispetto ai temi oggetto della presente indagine, la parte definitoria è in larga pare debitrice di contributi di ambito psicologico; quanto al- lo sviluppo che riguarderà la specifica connessione della tutela di sen- timenti al tema del rispetto reciproco e dei limiti penali alla libertà di espressione, le traiettorie di pensiero a nostro avviso più feconde risul- tano intrecciate alla filosofia politica e a recenti sviluppi della filosofia fenomenologica. Non va infine dimenticata un’ulteriore branca del sa- pere che si focalizza su dinamiche di intersoggettività nella dimensione 65 Per una critica all’habitus culturale del penalista, talvolta poco propenso al confronto con il mondo dei fatti, e una conseguente esortazione a fare proprio uno spirito scientifico e una modalità di pensiero diversi dal mero senso comune, v. FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 44 ss. 66 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 219 ss.; cfr. NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 57 ss.   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 27 sociale: parliamo della sociologia delle emozioni67, un campo di studi relativamente giovane68 e alquanto promettente per le prospettive di interazione con la riflessione giuridica 69. Nel prosieguo cercheremo di compiere un excursus, necessaria- mente approssimativo, al fine di fare maggiore chiarezza sui tratti che distinguono in particolare il sentimento da un’altra manifesta- zione del sentire: l’emozione. Si tratta di un compito spinoso70. Eloquente è quanto affermato nella letteratura psicologica italiana negli anni ’60: «Nell’affrontare lo studio della vita emotiva si resta colpiti [...] dal disaccordo che vi è tra gli psicologi sull’uso e sul si- gnificato dei termini fondamentali, sulla classificazione e sui carat- teri differenziali degli stati affettivi, sul meccanismo della loro pro- duzione» 71. L’ambiguità e la vaghezza presenti nel linguaggio comune non do- vrebbero rinnovarsi nel linguaggio scientifico 72, e, soprattutto, quan- do si tratta di gestire l’interazione fra discipline differenti «le parole [non dovrebbero essere] introdotte in un sistema di linguaggio scien- tifico, serbando a tradimento il significato che loro viene dal modo in 67 Sul tema, amplius, v. AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emo- zioni, tr. it., Milano, 1995. 68 TURNATURI, Introduzione, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, cit., p. 7. 69 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 174. 70 SCHERER, What are emotions? And how can they be measured?, in 44 Social Science Information, 2005, p. 696. 71 ZAVALLONI, La vita emotiva, in AA.VV., a cura di Ancona, Questioni di psico- logia. Principi e applicazioni per psicologi, medici, insegnanti ed educatori, Milano, 1962, p. 367. Problemi di natura terminologica sono posti in evidenza anche da ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni, in GALATI, Prospettive sulle emozioni e teorie del soggetto, Milano, 2002, p. 36. 72 Oltre ai complessi rapporti tra definizioni scientifiche, l’inquadramento di profili di rilevanza giuridica di sentimenti ed emozioni richiede di non trascurare il vocabolario tramite cui gli attori sociali connotano gli stati affettivi, e dunque le sfumature del linguaggio che possono concorrere a illuminare dimensioni di sen- so dei fenomeni. In altri termini, la ricerca di una tendenziale coerenza tra cate- gorie giuridiche e concettualizzazioni scientificamente fondate dovrebbe essere veicolata anche attraverso un esame di usi linguistici che, pur caratterizzati da approssimazioni e da una logica comunicativa incline al ‘senso comune’ o alla c.d. ‘psicologia ingenua’, possono nondimeno contribuire ad additare problemi di fondo e a identificare l’area di significato dei termini. Sul ‘senso comune’ come categoria che definisce ciò che è ritenuto ovvio e condiviso all’interno di una cer- chia sociale, v., per tutti, JEDLOWSKY, “Quello che tutti sanno”. Per una discussione sul concetto di senso comune, in Rass. it. sociologia, 1994, pp. 49 ss.   28 Tra sentimenti ed eguale rispetto cui sono usate in un altro sistema, o nel linguaggio comune» 73. Tale monito, proveniente da un filosofo italiano del diritto, trova rispondenza in ambito anglo-americano proprio negli scritti legati a ‘Law and Emotion’ 74: il lessico degli stati affettivi muta a seconda dei contesti di studio, e l’opera di consultazione di saperi esterni da parte del giurista penale dovrebbe essere accompagnata da una rielabora- zione dei contenuti, poiché le ipotesi definitorie e classificatorie pro- poste in ambito extragiuridico possono non assumere una corrispon- dente rilevanza nella prospettiva della valutazione penalistica75. I concetti di emozione e di sentimento vanno conseguentemente mo- dulati sulla dimensione giuridica, tenendo ben presente la base epi- stemica alla quale si sta facendo riferimento, ma senza vincoli sul piano strettamente lessicale né concettuale. Il problema non è certo inedito, e può essere ricollegato agli inter- rogativi formulati, ormai qualche decennio fa, da autorevole dottrina, relativi a come rendere metodologicamente compatibili il punto di vista normativo e quello delle scienze empirico-sociali di fronte al- l’esigenza di definire la rilevanza giuridica di fenomeni psichici 76. 73 Uberto Scarpelli richiama l’attenzione sull’esigenza di ‘pulitura’, ed even- tualmente di ri-strutturazione, del lessico giuridico, con l’importante avvertenza di non limitarsi a importare terminologie ‘esterne’ in modo pedissequo e irrifles- sivo, senza procedere a un’adeguata concettualizzazione: v. SCARPELLI, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, ora in AA.VV., a cura di Scarpelli-Di Lucia, Il lin- guaggio del diritto, Milano, 1994, p. 89. 74 MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 124 ss.; BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 163. 75 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 226: «il giurista contemporaneo, se da un lato non può fare a meno di rivisitare i concetti di emo- zione e sentimento alla luce delle acquisizioni scientifiche e della riflessione filo- sofica più recenti, rimane per altro verso pur sempre vincolato all’esigenza di ri- pensare i concetti elaborati in altri ambiti disciplinari secondo la sua specifica ottica». Dello stesso avviso, BANDES, Introduction, cit., p. 8, secondo la quale «it is also true that law has its own set of purposes, demands and limitations. [...] The knowledge we gain about emotion is usable in a legal context only if it can be translated in light of law requities». 76 FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze so- ciali, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova, 1988, pp. 29 ss. L’analisi di Fiandaca è in questo caso incentrata sui presupposti soggettivi della responsabilità penale, e pone in evidenza due distinti ordini di problemi: da un lato, il grado di affidabili- tà del sapere metagiuridico, che, specie con riferimento alle scienze psicologiche, offre contributi i cui esiti si prestano a letture non univoche. Dall’altro lato, evi- denzia come determinate acquisizioni in ambito psicologico siano tali da porre in dubbio la base fattuale di principi normativi come la colpevolezza, esponendone   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 29 Nello scenario contemporaneo, l’ampliamento dell’offerta epistemi- ca, ossia l’incremento delle branche della conoscenza che oggi si sof- fermano sullo studio dei fenomeni affettivi, rende ancora più com- plesso tale compito. A fronte di tali difficoltà, e nella consapevolezza che sia opportuno tenere distinte le finalità delle categorizzazioni dei saperi sul mondo dalla teleologia delle categorie penalistiche77, resta l’obiettivo di ridurre la distanza fra l’artificialità delle concettualizza- zioni giuridiche e la realtà dei fenomeni 78, sia al fine di individuare re- gole d’uso dei termini non ‘arbitrarie’, ossia fondate su connessioni fra le diverse proposte in ambito extragiuridico le quali siano adeguata- mente esplicative rispetto ai problemi in gioco; sia nella prospettiva di dare anche un impulso alla rivisitazione di categorie e di modelli con- cettuali presenti nel discorso giuridico 79 – non solo dei teorici ma an- che, soprattutto, degli applicatori – che risentono di schemi di pensiero legati al senso comune e alla cosiddetta psicologia ingenua 80. però a rischio anche il ruolo individual-garantistico; oppure, con riferimento a un possibile allineamento con quanto espresso da determinate teorie sociologiche, rimarca il rischio di una funzionalizzazione del diritto penale all’ascolto di istan- ze di mera difesa sociale. 77 Rileva tale problema, con riferimento al tema dell’imputabilità, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, pp. 25 ss., 44 ss. Sul tema della costruzione di un modello di scienza penale integrale, non asservi- ta ai saperi empirici ma comunque attenta a limiti epistemologici, v. DONINI, La scienza penale integrale fra utopia e limiti garantistici, in AA.VV., a cura di Moccia- Cavaliere, Il modello integrato di scienza penale di fronte alle nuove questioni socia- li, Napoli, 2016, pp. 26 ss. 78 Anche aprendo la riflessione verso un’eventuale ‘rivisitazione’ di categorie che dovessero risultare mero riflesso di una psicologia cosiddetta ‘esoterica’: su tale definizione v. FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie, cit., p. 83; cfr. VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, cit., pp. 71 ss. 79 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 165. 80 Si è osservato che «il diritto può venire considerato un caso particolarmente brillante di scienza “ingenua”. Esso infatti impiega massicciamente una propria concezione della psicologia ma senza dichiararne i teoremi ed i postulati», v. PE- RUSSIA, Criteri giuridici e criteri psicologici: note sullo scambio epistemologico fra psicologia e diritto, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere, cit., p. 89. Per un quadro generale sulla ‘psicologia inge- nua’, con cui si intende la capacità spontanea degli esseri umani «di interpretare i comportamenti di un agente attribuendogli stati mentali quali credenze, desideri, piacere, interesse», v. MEINI, Alle origini della psicologia ingenua: interpretare se stessi o interpretare gli altri?, in Sistemi intelligenti, 1/2001, p. 119; con riferimento alla dimensione giuridica, v. di recente FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emoti- vo, cit., pp. 93 ss. Per una sintesi del ruolo della commonsense psychology nel di- ritto penale, in una prospettiva tesa a non demonizzarne il ruolo ma ad analiz-   30 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? Non si tratta dunque di effettuare un travaso lessicale che intro- duca nomenclature e classificazioni ab externo; le diverse ‘emotion theories’ si prestano a sviluppi fra loro profondamente differenti, e il giurista non può limitarsi a importazioni passive di saperi 81. zarne i risvolti positivi quale alternativa a prospettive ‘comportamentiste’ e ‘ridu- zioniste’, v. SIFFERD, In defense of the Use of Commonsense Psychology in the Cri- minal Law, in 25 Law and Philosophy, 2006, pp. 571 ss.; per un’opinione differen- te v. COMMONS-MILLER, Folk Psychology and Criminal Law: Why We Need to Repla- ce Folk Psychology with Behavioral Science, in 39 The Journal of Psychiatry and Law, 2011, pp. 493 ss. Quando si parla di psicologia folk ci si riferisce a un terri- torio che non corrisponde a un sistema armonico di concetti (peraltro si tende anche a distinguere folk psychology da commonsense psychology), ma che è un campo variegato, caratterizzato anche da incongruenze interne, nel quale i saperi scientifici costituiscono l’humus di concettualizzazioni che vanno ad assumere forme differenti in relazione ai momenti storici; è più corretto parlare al plurale di ‘folk conceptions’ piuttosto che di un’unica visione ‘folk’ dei fenomeni affettivi. La dimensione folk resta eminentemente esplicativa, ma non descrittiva: è condi- zionata da un sapere approssimativo sulla fisiologia degli stati affettivi, e accom- pagna tale gap epistemico con congetture che rivelano un approccio tendenzial- mente valutativo del fenomeno emotivo, il quale trova espressione in immagini significative che traspongono in termini metaforici i caratteri del fenomeno. In generale possiamo affermare che la vita di relazione è in larga parte regolata da deliberazioni interiori assunte sulla base di postulati di ‘folk psychology’, in parte come frutto di competenze innate, e in parte effetto di deduzioni influenzate della cultura. Si osserva che nella dimensione penalistica la ‘folk psychology’ può rap- presentare un formante in relazione a tre distinti profili: influisce sulla confor- mazione categorie generali del diritto penale; influenza le argomentazioni degli studiosi di diritto; si insinua concretamente nel sistema legale attraverso argo- mentazioni che gli operatori pratici adoperano nella loro professione (giudici, av- vocati, e, con riferimento al sistema americano, giurati), v. FINKEL-GERROD PAR- ROT, Emotions and culpability. How the Law is at Odds with Psychology, Jurors, and itself, Washington, 2006, p. 48. Sull’interazione fra senso comune e studio delle emozioni, in una prospettiva che ne rimarca le reciproche implicazioni, v. GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., pp. 93 ss. Si veda anche CALABI, Le varietà del sentimento, in Sistemi intelligenti, 2/1996, pp. 274 ss., la quale afferma che la psicologia del senso comune contribuisce a fornire una rappresentazione del fe- nomeno emotivo che ne comunica la complessità in modo più coerente e attendi- bile rispetto alle tendenze riduzioniste o eliminativiste. 81 Per il giurista, oltre alla necessità di riuscire a districarsi fra gli ‘overlap- ping fields’ sulle emozioni (secondo la definizione di BANDES, Introduction, cit., p. 8) si pone l’esigenza di non introdurre tali conoscenze in termini meramente strumentali alla costruzione delle proprie teorie, importandoli e magari ‘co- stringendoli’ all’interno di argomentazioni giuridiche senza renderne manifesto il margine di opinabilità e la possibilità di ricostruzioni alternative, e senza dunque osservare il dovuto rispetto per la complessità a cui si sta facendo ri-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 31 Il richiamo a vincoli di realtà si potrebbe così articolare: un primo livello, relativo all’esplorazione del panorama di conoscenze disponi- bili, all’esame di nozioni, di tassonomie e di differenti prospettive di ricostruzione; un secondo livello, incentrato su una concezione di sentimento e di emozione che sia suscettibile di entrare in connes- sione con i fatti e con le dinamiche che interessano i problemi di re- golamentazione penale. Nel complesso, a una fase di ricognizione epi- stemica si aggiunge un processo interpretativo e al tempo stesso ‘crea- tivo’, nel senso che il giurista finisce per concepire una particolare idea di emozione e di sentimento. Una critica mossa ad alcuni fra i primi contributi sul tema di ‘Law and Emotion’ è stata quella di non aver adeguatamente problematiz- zato ed esplicitato un importante passaggio metodologico, ossia di- scutere apertamente quale sia la concezione di emozione assunta alla base delle riflessioni 82. Parallelamente a tale critica, riteniamo che si attaglino anche al giurista le osservazioni del sociologo Sergio Manghi, quando afferma che per lo studioso di scienze sociali non è possibile limitarsi a de- scrivere il modo in cui le emozioni vengono socialmente definite: allo stesso modo per il giurista non è possibile far interagire la dimensio- ne giuridica con le diverse prospettive attraverso cui emozioni e sen- timenti vengono socialmente e scientificamente definiti, senza pren- dere al contempo una posizione che traduca maggiore o minore pre- ferenza per una determinata impostazione. Va dunque inoculato an- che nella riflessività dello studioso di diritto l’interrogativo di natura epistemologica su quale sia la concezione di emozione alla base del proprio discorso: «attraverso quale idea di ‘emozione’ parlo di ‘emozioni’? Essere o me- no dotati di un’idea di ‘emozione’, o per dirla con una parola più im- pegnativa, di una teoria delle emozioni, non è questione di scelta, per nessun essere umano che ricorra alla parola ‘emozione’. A maggior ra- gione, non è una questione di scelta per uno scienziato sociale. Una teoria c’è comunque. Possiamo scegliere solo se mantenerla implicita, colludendo con il senso comune, o [...] possiamo cercare di esplicitar- mando: «Legal scholars, as well as lawyers, legislators, judges, need to guard against this temptation to pillage other fields without regard for their full com- plexity and to use the spoils selectively to make legal arguments», v. BANDES, Introduction, cit., p. 8. 82 LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, in 86 Cornell Law Re- view, 2001, p. 981.   32 Tra sentimenti ed eguale rispetto la: ben sapendo, beninteso, che l’esplicitazione non tocca che uno scam- polo del vasto sistema delle nostre premesse implicite. L’assunzione di un’idea da altri ambiti testuali rimane [...] comunque un gesto attivo, un atto linguistico generativo, del quale non possiamo non assumerci la responsabilità epistemologica» 83. Il problema non è solo definitorio ma implica una presa di posi- zione sul piano epistemologico, con conseguenze sul merito delle ri- flessioni84: tematizzare problemi concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva porta anche il giurista a prediligere e a identifi- carsi con una o più proposte ricostruttive. Formarsi un’idea di cosa siano l’emozione e il sentimento, e in quale accezione si intenda in- trodurre tali concetti nel discorso penalistico, rappresenta in primo luogo un’acquisizione importante dal punto di vista della qualità epi- stemica dell’indagine e delle proposte eventualmente avanzate, e co- stituisce un impegno sul piano metodologico. 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’ Esigenze di chiarezza e di coerenza con le fonti bibliografiche ri- chiedono una puntualizzazione sul piano lessicale, o più precisamen- te, meta-lessicale. Nella lingua italiana i termini che definiscono gli stati affettivi so- no diversi: ‘sentimento’ ed ‘emozione’ sono quelli probabilmente più noti, cui si affiancano anche vocaboli come ‘passione’, ‘sensazione’, ‘impressione’, ‘affezione’, ‘stato d’animo’. In lingua inglese il termine di uso più comune e dal significato più ampio è ‘emotion’, il quale, a seconda dei diversi contesti, sembra po- tersi tradurre in italiano sia con ‘emozione’, sia con ‘sentimento’. Più circoscritto appare l’uso del termine ‘feeling’, il quale si presta a esse- re tradotto letteralmente come ‘sentimento’, al pari dell’ancor più univoco, ma meno frequente, ‘sentiment’. Diffuso è inoltre l’uso del termine ‘passion’, il quale sembra connotare un particolare modo 83 MANGHI, Le emozioni come processi sociali. Considerazioni teorico-epistemo- logiche, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Milano, 2000, p. 40. 84 LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, cit., p. 982: «The tax- onomy issue is not a battle just about what goes on the list; the issue also goes to the core of what constitutes an emotion and how emotions emerge and transform».   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 33 d’essere degli stati affettivi, ossia l’effetto condizionante nei confronti dell’agire umano 85. Se si cerca una corrispondenza in lingua inglese con la formula ‘tutela di sentimenti’ non si trova praticamente mai il vocabolo ‘fee- ling’: il discorso giuridico sugli stati affettivi è fondamentalmente in- centrato sul termine ‘emotion’. Quando si parla di ‘Law and Emotion’, tale ultimo vocabolo non si riferisce solo ai fenomeni psichici che possono ricondursi a emozioni in senso stretto, ma comprende anche gli stati che, come avremo modo di osservare, in lingua italiana corrisponderebbero a ‘sentimen- ti’. Le questioni che nel panorama di studi giuridici in lingua italiana richiamano espressamente ‘sentimenti’ trovano dunque nella dottrina nordamericana una rispondenza col termine, più generico e com- prensivo, ‘emotion’ 86. Tale ambivalenza, se da un lato appare foriera di ambiguità, da un altro lato mostra una compenetrazione fra i due fenomeni che sugge- risce, in fase di esposizione e di impostazione dei problemi, l’uso del termine ‘emozione’ quale traduzione di ‘emotion’ in tutta la sua porta- ta semantica87, e dunque in modo sostanzialmente intercambiabile col termine ‘sentimento’. 85 Una panoramica in DIXON, “Emotion”: The History of a Keyword in Crisis, in 4 Emotion Review, 2012, pp. 338 ss. Da notare l’interessante equivoco linguistico nella traduzione del titolo del celeberrimo romanzo di JANE AUSTEN, Sense and Sensibility, tradotto, come noto, in italiano come Ragione e sentimento. In realtà in inglese ‘sensibility’ indica la sensibilità come emotività; sarebbe stato preferibi- le, come segnalato da Hugh Griffith e Helen Davies, autori di un saggio sull’opera di Jane Austen citato in http://www.unteconjaneausten.com/senno-e-sensibilita- piu-che-ragione-e-sentimento/, intendere ‘sense’ come risposta ragionata o pratica a una situazione, mentre ‘sensibility’, come percezione emotiva di tale situazione. Debbo la segnalazione di tale interessante questione all’amico Alessandro Corda, che ringrazio. Sull’uso del termine ‘passione’ v. anche infra, cap. II, nota 1. 86 Un’eccezione da noi riscontrata è relativa a un saggio di FEINBERG, Senti- ment and Sentimentality in Practical Ethics, in 56 Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 1982, pp. 21 ss., nel quale il termine ‘senti- ment’ è utilizzato per indicare stati affettivi non episodici, distinti dall’‘emotion’ sia per la durata, sia per la presenza di un oggetto cognitivo. In controluce a tale impostazione emerge un complementare uso del termine emotion volto a indicare stati psicologici privi un oggetto cognitivo definito, in controtendenza dunque all’opinione di autori come Kahan e Nussbaum (v. infra, cap. II, par. 2.2). 87 Osserva DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, 2008, pp. 21 ss. che «nella lingua franca della filosofia contemporanea la parte del leone affettivo la fa oggi la parola “emozione”. È questo il termine che viene di pre- ferenza usato con la stessa generosità onnicomprensiva di “passioni” in Cartesio, anche se a volte l’uso italiano è stridente, come lo sono spesso, prima che l’abitu-   34 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il problema di un uso più sorvegliato si porrà al momento di in- quadrare i profili naturalistici che caratterizzano il sentimento e l’emozione al fine di verificare, nella prospettiva giuridica, il senso di una distinzione fra una ‘tutela di sentimenti’ e una ‘tutela di emozio- ni’ (v. infra, cap. IV). 5. Sinossi Il significato e il ruolo del sentimento nel diritto penale costitui- scono un argomento poco esplorato, il quale può inquadrarsi all’in- terno di un macroambito riguardante i rapporti fra diritto penale e stati affettivi. L’insufficiente attenzione ad oggi riservata a tali temi si motiva anche come effetto di un più generale atteggiamento del pen- siero occidentale tendente a relegare la dimensione affettiva nella sfe- ra dell’indominabile e dell’irrazionale; una vulgata attualmente in fa- se remissiva alla quale sta subentrando una nuova considerazione di sentimenti ed emozioni come elementi dotati di una peculiare forza non necessariamente negativa, ma anche potenzialmente virtuosa, nelle dinamiche del pensiero e dell’agire umano. Fra i diversi problemi concernenti il ruolo degli stati affettivi nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali, quello che ci sembra di più immediata evidenza, quantomeno se si ha riguardo al lessico dei legislatori, ha a che fare con la c.d. ‘tutela penale di sentimenti’, o, in termini meno retorici, con il ruolo del sentimento quale oggetto di tutela. Per tematizzare tale problema, e più in generale tutte le questioni concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva, si rendono necessarie delle riflessioni preliminari sul piano epistemologico e me- todologico, profili teorici su cui si è mostrata particolarmente sensi- bile la dottrina giuridica statunitense attraverso il filone di studi noto come ‘Law and Emotion’. Seguendo i percorsi tracciati dai contributi afferenti al suddetto ambito, riteniamo che la presente indagine debba prendere le mosse da un inquadramento dei fenomeni cui le norme fanno richiamo. Un impegno che non dovrebbe limitarsi a un’importazione passiva di sa- peri e definizioni, e che sollecita piuttosto il giurista a interrogarsi su quale sia la concezione di emozione e di sentimento più funzionale e dine spenga il disagio, gli anglicismi (sospettiamo infatti che il senso del termine inglese “emotions” sia più lato di quello del suo falso amico italiano [...])».   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 35 meglio esplicativa rispetto ai diversi problemi in gioco. Vedremo nel prossimo capitolo quali siano i principali criteri di differenziazione fra stati affettivi, e quali profili distintivi appaiano più funzionali al discorso sul problema del sentimento come oggetto di tutela.   36 Tra sentimenti ed eguale rispetto  CAPITOLO II SENTIMENTI ED EMOZIONI: CLASSIFICAZIONI E DISAMBIGUAZIONI «Capire tu non puoi Tu chiamale se vuoi Emozioni» BATTISTI L.-MOGOL, 1971 «Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio... una specie di cinghiale laureato in matematica pura» DE ANDRÈ F., intervista tratta dal documentario ‘Dentro Faber, l’anarchia’ SOMMARIO: 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua. – 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze. – 2.1. Le emo- zioni come giudizi di valore: la concezione di Martha Nussbaum. – 2.2. Con- cezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative dell’emozione: profili di rile- vanza giuridica. – 2.3. La dimensione sociale delle emozioni. – 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale. – 3.1. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpretazione fenomenologica. – 4. Emozioni e sen- timenti: il senso della distinzione concettuale. – 5. Sinossi. 1. Definire gli stati affettivi: una sfida continua I termini ‘sentimento’ ed ‘emozione’ definiscono fenomeni appar- tenenti alla categoria dei cosiddetti ‘stati affettivi’, e additano in que- sto senso differenze fattuali il cui approfondimento richiede di attin- gere da saperi esterni al mondo del diritto, tenendo presente che ri- spondere alla domanda ‘che cosa sia un’emozione o un sentimento’ rappresenta ancora oggi una sfida continua 1, data la difficoltà di cri-  1 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 163; cfr. SCHERER, What  38 Tra sentimenti ed eguale rispetto stallizzare nozioni univocamente condivise a livello interdisciplinare. Nella prospettiva giuridica è opportuno avere chiaro a quali fini si intenda evidenziarne le differenze2: non si tratta di perseguire una fedeltà al linguaggio dei legislatori ove adoperino una terminologia più o meno dettagliata, ma piuttosto di dotarsi di strumenti episte- mici per un’adeguata interpretazione delle situazioni descritte in eventuali norme e per una comprensione delle questioni di fondo, anche in una prospettiva de jure condendo 3. Il rinvio alle scienze psicologiche è funzionale a elaborare delle definizioni operative idonee a essere impiegate quale chiave di lettura di problemi penalistici. Ad esempio, in relazione a un interrogativo particolarmente rilevante nella presente indagine: per quale motivo si tende a parlare di tutela di ‘sentimenti’ e non di ‘emozioni’? Da un la- to vi è il riflesso condizionato dal lessico delle disposizioni, ma si tratta ovviamente di una spiegazione insufficiente ad accreditarne la coerenza. Appare invece necessario fare chiarezza sulla distinzione fattuale tra i suddetti stati affettivi e sulle conseguenti ripercussioni sul piano concettuale, al fine di chiedersi quali differenze possano di- scendere dall’orientare un’eventuale prospettiva di intervento sulle emozioni piuttosto che sui sentimenti. are emotions? And how can they be measured?, cit., p. 696. Non adoperemo il ter- mine ‘passione’, il quale è spesso utilizzato quale sinonimo di ‘emozione’ soprat- tutto in relazione agli aspetti di reattività e di passività, ma assume un significato più esteso, il quale non si limita al piano psicologico e fenomenico ma tende a includere una dimensione sociale e culturale, specie nel discorso che storicamen- te contrappone ‘passione’ e ‘ragione’. Come osserva BODEI, Geometria delle passio- ni, Milano, 2007, pp. 7 s.: «“Ragione” e “passioni” [fanno] parte di costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate [...] sono cioè termini pre-giu- dicati, che occorre abituarsi a considerare come nozioni correlate e non ovvie, che si definiscono a vicenda (per contrasto o per differenza) solo all’interno di de- terminati orizzonti concettuali e di specifici parametri valutativi»; cfr. CURI, Pas- sione, Milano, 2013, pp. 7 ss. Il termine ‘passione’ connota in definitiva una tipo- logia di stati affettivi caratterizzati dalla durata transitoria, fra cui rientrano an- che le emozioni, ma non, ad esempio, i sentimenti; per una ricostruzione in tal senso v. GOZZANO, Ipotesi sulla metafisica delle passioni, in AA.VV., a cura di Ma- gri, Filosofia ed emozioni, Milano, 1999, pp. 13 ss. Vedi anche infra, nota 71. 2 Nella dottrina penalistica si soffermano sulla distinzione fra sentimento ed emozione FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., pp. 215 ss.; NI- SCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 54 ss.; volendo si veda anche BACCO, Sentimenti e tutela penale, cit., pp. 1186 ss. 3 Si veda l’indagine di NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 54 ss., il quale procede a una distinzione fra emozione e sentimento nell’ambito di una più ampia analisi volta a definire i tratti identificativi della ‘sofferenza’ come categoria esplicativa dell’offesa dei processi psichici.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 39 Non si possono sviluppare adeguatamente tali problemi affidan- dosi alla sola psicologia del senso comune, senza tener conto di come i saperi sugli stati affettivi configurano oggi il rapporto fra emozioni e sentimenti, e, più in generale, il ruolo della dimensione affettiva nella vita della persona. Cerchiamo pertanto di procedere a una di- sambiguazione che evidenzi i tratti distintivi fra i fenomeni definiti ‘emozione’ e ‘sentimento’. 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze Prendiamo le mosse dalle emozioni; la definizione di altri stati af- fettivi viene formulata spesso in termini di comparazione e di differen- za con l’emozione, la quale mostra pertanto una rilevanza primaria. Ripercorreremo in estrema sintesi alcuni degli snodi fondamentali della storia delle emozioni, con particolare attenzione alle teorie del- l’età moderna e contemporanea, ossia quelle elaborate a partire da quando la psicologia ha assunto lo statuto di disciplina autonoma 4. Non va però dimenticato che l’interrogativo su cosa siano le emozioni ha interessato il pensiero umano fin dall’antichità, ed è a partire dai classici del pensiero filosofico che si aprono oggi buona parte delle trattazioni sulle emozioni 5. Osserva lo psicologo Dario Galati che lo studio delle emozioni na- sce come indagine filosofica; i fenomeni affettivi sono stati conside- rati da sempre una fondamentale chiave di lettura per lo studio della natura umana, e anche nell’attuale variegato panorama di branche della conoscenza la matrice filosofica mantiene una rilevanza pecu- liare: «[n]on si può fare psicologia delle emozioni senza avere un’opi- nione generale – e diciamo pure filosofica – su ciò che le emozioni sono, sul valore che hanno e sul ruolo che svolgono nell’esistenza quotidiana degli esseri umani» 6. 4 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, tr. it., Bologna, 2008, p. 29. 5 Un importante esempio è l’opera di GRIFFITHS, What Emotions Really Are. The Problem of Psychological Categories, Chicago, 1997; SOLOMON, The Philosophy of Emotions, in The Psychologists’ Point of View, in AA.VV., ed. by Lewis–Haviland- Jones, Handbook of Emotions, II ed., New York-London, 2004, pp. 3 ss. Per un’in- teressante prospettiva sulla ‘priorità’ delle emozioni da un punto di vista filosofico si veda VECA, Sulle emozioni, in Iride, 2000, pp. 529 ss.  6 GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., p. 29. Sulla stessa linea di pensiero v.  40 Tra sentimenti ed eguale rispetto In questa sede possiamo solo limitarci a rinviare alle belle pagine con cui il filosofo Nicola Abbagnano riassume la storia filosofica del- le emozioni, descrivendo la concezione platonica del Filebo («la pri- ma analisi delle emozioni che la filosofia occidentale ci ha dato») e la teorizzazione aristotelica della Retorica («una delle più interessanti analisi di cui la filosofia dispone»)7. Ai fini della presente indagine appare opportuno compiere un salto cronologico a epoche caratte- rizzate da una più definita differenziazione tra approcci di studio, e a prospettive che si estendono anche ai profili fisiologici e ‘corporali’ dei fenomeni affettivi. Arriviamo dunque all’Ottocento, cioè quando lo studio delle emo- zioni viene a focalizzarsi su un approccio empirico-sperimentale in relazione a movimenti corporei e pattern comportamentali. L’opera di Charles Darwin segna in questo senso uno spartiacque e la sua teoria evoluzionistica dell’emozione rappresenta il primo studio pro- priamente moderno 8. Ma è soprattutto un articolo di William James 9 a consolidare l’approccio empirico, con la celebre teoria secondo cui lo stato emotivo scaturisce dalla percezione dei cambiamenti biologi- ci e neurovegetativi innescati da uno stimolo emotigeno. Il carattere innovativo, ma anche l’aspetto più criticato di tale teoria, è l’inver- sione del rapporto tra elaborazione cognitiva e stimolo viscerale: l’espe- rienza emotiva come esito dalla percezione di mutamenti a livello corporeo, e non viceversa. Altrettanto importante, ma di opinione opposta, è la posizione di Walter Cannon, il quale, al contrario di James, riteneva che i centri di attivazione dei processi emotivi siano localizzati in regioni periferi- che del corpo (da cui la denominazione ‘teoria periferica’), propo- nendo un radicamento del processo di elaborazione emotiva nella re- gione talamica, in un’area che interessa principalmente le strutture dell’ipotalamo e dell’amigdala 10. Su tale ultima regione del sistema limbico si sono concentrati gli studi in epoca contemporanea; in particolare, secondo il neuroscien- FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, 1997, pp. 559 s. 7 Sono parole di ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni, cit., pp. 42 ss. 8 DARWIN, L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, tr. it., Torino, 2012. 9 JAMES, What is an emotion, in 9 Mind, 1884, pp. 188 ss. 10 CANNON, The James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative Theory, in 39 The American Journal of Psychology, 1927, pp. 106 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 41 ziato Joseph LeDoux, è l’amigdala ad assumere un ruolo primario nelle dinamiche dei fenomeni emozionali: non solo nella generazione delle emozioni, ma anche nella gestione della vita emozionale di un soggetto 11. Questi, in estrema sintesi, alcuni dei contributi più significativi che orientano verso una descrizione che pone in primo piano aspetti di attivazione a livello corporeo. Una prospettiva più genuinamente psicologica 12 si deve agli studi condotti da Stanley Schachter con la teoria c.d. ‘cognitivo-attivazio- nale’ 13. Lo psicologo statunitense riconduce l’emozione all’attivazione di una componente di tipo materiale-corporeo compresa fra due atti cognitivi: il primo è rappresentato dalla percezione e dalla valutazio- ne di uno stimolo elicitante; il secondo, successivo all’attivazione dell’arousal14, è costituito dalla riflessione sul legame causale fra lo stimolo esterno e l’attivazione emozionale interna, secondo un pro- cesso che viene letteralmente definito come ‘etichettamento’ (label- ling) e che corrisponde a un’elaborazione e a un’interpretazione del rapporto tra stimolo emotivo ed arousal. Si tratta di un significativo passo oltre la dimensione fisica delle emozioni, nel quale viene in considerazione l’esperienza cognitiva del soggetto: l’emozione assu- me una fisionomia complessa e multifattoriale rivelandosi come mo- mento dialettico fra mente e corpo, secondo un’interazione guidata da processi non meramente istintuali. Su tali premesse troveranno sviluppo teorie che assegnano impor- tanza centrale alle elaborazioni cognitive e alle valutazioni di cui si compone l’esperienza emotiva, meglio note come ‘teorie dell’appraisal’. Opera di riferimento è uno studio di Magda Arnold15, che definì 11 LE DOUX, Emotion circuits in the brain, in 23 Annual review of neuroscience, 2000, pp. 155 ss.; ID., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit., pp. 49 ss. 12 Sulla definizione del punto di vista psicologico sulle emozioni v. FRIJDA, The Psychologists’ Point of View, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit., p. 60. 13 SCHACHTER-SINGER, Cognitive, Social and Psychological Determinants of Emo- tional State, in 69 Psychological Review, 1962, pp. 379 ss. 14 L’arousal (significato letterale: eccitazione, risveglio) rappresenta il risvolto più propriamente fisico dell’emozione, ossia l’attivazione nervosa che viene per- cepita dal soggetto a seguito di uno stimolo emotigeno, la quale può avere diverse gradazioni di intensità e provocare differenti stati affettivi: ad esempio nell’emo- zione vi sarebbe un intenso arousal provocato da eventi edonicamente rilevanti che sollecitano una risposta comportamentale, v. voce Arousal, in Enciclopedia della scienza e della tecnica, Roma, versione online.  15 ARNOLD, Emotion and Personality, New York, 1960.  42 Tra sentimenti ed eguale rispetto l’emozione come una spinta tendente all’attrazione o all’allontana- mento da un determinato oggetto a seguito di una valutazione di es- so; tale fase, cosiddetto ‘appraisal’, è seguita da una valutazione se- condaria, detta ‘reappraisal’, la quale di fatto implica una riflessività sugli stati che il soggetto ha percepito. Nel solco tracciato delle teorie dell’appraisal si sviluppano le elabo- razioni di Nico Frijda, secondo il quale le emozioni costituiscono ri- sposte modulate sulla struttura di significato di una determinata situa- zione: ‘significato’ da intendersi come attribuzione di senso in termini di positività o negatività da parte di un individuo. Elemento centrale dell’esperienza emotiva è la soggettività: la dimensione individuale è chiave di lettura della complessità e della variabilità delle emozioni 16. Le considerazioni di Frijda, e più in generale le teorie dell’appraisal, conducono verso l’inquadramento delle emozioni come «mediatori complessi fra il mondo interno e quello esterno [che] variano secon- do alcune dimensioni continue, quali la valenza edonica (piacevolez- za o spiacevolezza), la novità (o meno) degli eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento» 17. La prospettiva intrapsichica si apre in questo modo all’inclusione di aspetti cognitivo-valutativi che sono esito del continuo processo di giudizio che il soggetto compie nel suo rapportarsi alla realtà: «l’indi- viduo è continuamente impegnato in operazioni di valutazione cogni- tiva, con le quali egli mette a confronto la sua percezione della situa- zione attuale con una sorta di visione prospettica, che gli deriva dalla conoscenza del mondo, dalle sue credenze di base, dalle norme a cui si conforma e dai diversi obiettivi temporanei e permanenti che per- segue» 18. Negli anni a noi più vicini il panorama di conoscenze e di approc- ci di studio è andato arricchendosi, anche a seguito dell’avvento delle neuroscienze cognitive, una disciplina che nasce all’inizio degli anni Ottanta del Novecento e che porta a una nuova auge la dimensione neurobiologica19, grazie a innovative tecniche che consentono di vi- 16 FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, cit., p. 568; più ampiamente v. ID., Emo- zioni, tr. it., Bologna, 1990. 17 ANOLLI-LEGRENZI, Psicologia generale, Bologna, 2009, p. 254. 18 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44. 19 DAMASIO, Emotions and feelings: a neurobiological perspective, in AA.VV., ed. by Mansted-Frijda-Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, 2004, pp. 49 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 43 sualizzare l’attività del sistema neurale delle emozioni 20. Si deve soprattutto all’opera scientifica e divulgativa del neuro- scienziato Antonio Damasio un importante tentativo di definire l’emo- zione e di studiarne le strette connessioni con il ragionamento e con l’agire che definiamo ‘razionale’. L’articolata proposta di Damasio per dare una fisionomia all’emozione è la seguente: «l’insieme dei cambiamenti dello stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle cellule nervose, sotto il controllo di un apposito sistema del cervello che risponde al contenuto dei pen- sieri relativi a una particolare entità, o evento. [...] Per concludere, l’emo- zione è frutto del combinarsi di un processo valutativo mentale, sem- plice o complesso, con le risposte disposizionali a tale processo, per lo più dirette verso il corpo, che hanno come risultato uno stato emotivo del corpo, ma anche verso il cervello stesso [...] che hanno come risul- tato altri cambiamenti mentali» 21. 20 Per un quadro generale v. DE PLATO, Il modello delle emozioni, in AA.VV., a cu- ra di De Plato, Psicologia e psicopatologia delle emozioni, Bologna, 2014, pp. 25 ss.; BELLODI-PERNA, Emozioni e neuroscienze, in AA.VV., a cura di Rossi, Psichiatria e neuroscienze, in Trattato italiano di psichiatria, Milano, 2006, pp. 35 ss. Fra gli studi sulle emozioni che si avvalgono di tecniche neuroscientifiche possiamo includere i già citati contributi di Antonio Damasio e di Le Doux (v. supra, nota 11); di quest’ul- timo ricordiamo inoltre LE DOUX, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diven- tare quello che siamo, tr. it., Milano, 2002. L’oggetto di studio delle neuroscienze co- gnitive si estende anche al di là delle emozioni, e le acquisizioni delle neuroscienze sono sempre più frequentemente oggetto di interesse da parte dei giuristi penali: per una sintesi v. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016; BERTOLINO, Il vizio di mente tra prospettive neuro- scientifiche e giudizi di responsabilità penale, in Rass. it. criminologia, 2/2015, pp. 84 ss.; EAD., Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale, in AA.VV., a cura di Pa- lazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze. Non “siamo” i nostri cervelli, Torino, 2013, pp. 145 ss.; EAD., L’imputabilità penale fra cervello e mente, in Riv. it. med. leg., 2012, pp. 925 ss.; DI GIOVINE O., Chi ha paura delle neuroscienze, in Arch. pen., 3/2011, pp. 842 ss.; EAD., voce Neuroscienze (diritto penale), in Enciclopedia del dirit- to, Annali VII, 2014, pp. 711 ss. EUSEBI, Neuroscienze e diritto penale: un ruolo diver- so del riferimento alla libertà, in AA.VV., a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze, cit., pp. 121 ss.; CORDA, Riflessioni sul rapporto tra neuroscienze e im- putabilità nel prisma della dimensione processuale, in Criminalia, 2013, pp. 497 ss.; ID., Neuroscienze forensi e giustizia penale tra diritto e prova (Disorientamenti giuri- sprudenziali e questioni aperte), in Arch. pen. (Rivista web), 3/2014, pp. 1 ss.; ID., La prova neuroscientifica. Possibilità e limiti di utilizzo in materia penale, in Ragion Pra- tica, 2/2016, pp. 355 ss.; FUSELLI, Le emozioni nell’esperienza giuridica: l’impatto delle neuroscienze, in AA.VV, a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze, cit., pp. 53 ss.  21 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., pp. 201 s.  44 Tra sentimenti ed eguale rispetto Com’è evidente anche da questa sintetica trattazione, la mole di approcci e di contributi è tale da rendere difficoltoso definire l’emo- zione: è possibile individuare dei punti di convergenza tali da poter indicare al giurista dei tratti caratterizzanti? Nella dottrina giuridica americana gli studiosi Bandes e Blumen- thal, dopo aver formulato il caveat metodologico di non avventurarsi alla ricerca di ‘definizioni universali’, propongono una sintesi di ciò che a loro avviso può ritenersi condiviso nei diversi ambiti disciplina- ri, inquadrando le emozioni come: «un insieme di processi valutativi e motivazionali, che coinvolgono completamente il cervello, i quali ci aiutano a valutare e a reagire agli stimoli, e che prendono forma, significato e vengono comunicati in un contesto sociale e culturale. Le emozioni influiscono sul modo in cui selezioniamo, classifichiamo e interpretiamo informazioni; influenza- no le nostre valutazioni sulle intenzioni e sulla credibilità degli altri; e ci aiutano a decidere cosa sia importante o abbia valore. Cosa forse più importante, ci guidano nel fare attenzione ai risultati del nostro agire e forniscono motivazioni per agire o per astenersi dall’agire nelle situazioni che valutiamo» 22. Riteniamo tale definizione una buona base per il prosieguo dell’in- dagine, in quanto l’ampiezza è tale da coinvolgere diversi profili del- l’esperienza affettiva: è presente la dimensione neurobiologica, si fa riferimento all’interazione col contesto sociale e culturale, viene evi- denziato che le emozioni contribuiscono a guidare sia il pensiero co- gnitivo sia, conseguentemente, l’azione umana. Approfondiamo alcuni dei suddetti aspetti, a partire dal chiari- mento di cosa si intenda per emozione come ‘giudizio di valore’23, analizzando di seguito due prospettive di approccio alle emozioni nel discorso giuridico, ossia la concezione meccanicistica e quella valuta- tiva. 22 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 163 s. (traduzione del- l’autore). 23 Ex plurimis, v. VECA, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano, 2006, pp. 301 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 45 2.1. Le emozioni come giudizi di valore: la concezione di Martha Nussbaum Un’opera che a nostro avviso sintetizza emblematicamente la ri- scoperta della dimensione emozionale nella vita di relazione, e so- prattutto nella dimensione politica, è lo studio di Martha Nussbaum intitolato ‘Upheveals of Thought’24, autentico esempio di approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni emotivi: psicologia cogniti- va, neuroscienze, antropologia, etologia, filosofia morale vengono convogliate in un flusso epistemico nel quale non si avverte disomo- geneità ma sincretismo. Uno studio non collocabile in una corrente definita, il quale interseca differenti campi e prospettive al fine di in- terpretare il ruolo delle emozioni nelle scelte del singolo e nella di- mensione collettiva. Il titolo italiano si distacca dalla traduzione letterale (‘sommovi- menti del pensiero’25), e con enfasi retorica forse eccessiva recita ‘L’intelligenza delle emozioni’; il messaggio dell’opera è più comples- so, ma il tema di fondo può essere sostanzialmente identificato con una ricerca sull’intelligenza nelle emozioni: un dato non scontato ma da valutarsi con attenzione, intendendo con ‘intelligenza’ un giudizio sulla ‘bontà’ e sull’affidabilità dell’emozione. Secondo Martha Nussbaum l’emozione si fonda su un giudizio di valore: ha cioè un contenuto proposizionale di tipo valutativo e una componente intenzionale-cognitiva26 che la pone in relazione con un oggetto (c.d. ‘oggetto intenzionale’). Non è un evento prettamen- te fisico, ‘meccanico’ e viscerale, ma si articola in un giudizio sulla realtà esterna il quale è a sua volta modulato sulle credenze del sog- getto. Sono le credenze a influire in modo determinante sulla qualità dell’emozione, la quale non è giudicabile in sé come ‘vera’ o ‘falsa’ 27, bensì come più o meno appropriata. Credenze errate possono gene- 24 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit. 25 Viene fatto notare come tale traduzione avrebbe consentito di salvare la ci- tazione di Proust, il quale definì le emozioni ‘soulèvements géologiques de la pen- sée’, v. FURST, Sommovimenti del pensiero: la teoria delle emozioni di Martha Nus- sbaum, in http://www.athenenoctua.it/sommovimenti-del-pensiero/. 26 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 44. 27 Ciò che può essere valutato in termini di verità o falsità sono le credenze re- trostanti l’emozione; credenze false generano emozioni che possono essere valu- tate come più o meno appropriate, ma si tratta comunque di emozioni ‘vere’, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 68 ss.   46 Tra sentimenti ed eguale rispetto rare emozioni inappropriate a seconda dei contesti: le emozioni pos- sono essere dunque, a loro volta, valutate. Questo rapporto fra ‘nor- matività interna’ e ‘normatività esterna’ all’emozione risulta cruciale per l’evoluzione degli sviluppi del pensiero della studiosa americana: è infatti su tale presupposto che si fondano i successivi studi sull’affi- dabilità politica delle emozioni. A quali condizioni un determinato atteggiamento emotivo dei sin- goli e, soprattutto, della collettività – inteso come emozione social- mente diffusa – può essere assecondato dalle istituzioni e ‘riconosciu- to’ anche attraverso norme giuridiche? L’interrogativo rimanda al raffronto tra il giudizio di valore sulla base del quale l’emozione si genera, e l’orizzonte assiologico che si assuma a riferimento per gli assetti sociali e istituzionali. Martha Nussbaum ha il merito di aver messo a tema la dimensio- ne politica delle emozioni evidenziandone le profonde connessioni con l’etica pubblica, con i valori costitutivi di un ordinamento e dun- que con la genesi e le ricadute applicative di istituti giuridici, in un discorso che attraversa numerose discipline ma che cerca costante- mente nel diritto e nella teoria politica gli interlocutori privilegiati. La sua opera, dall’eloquente titolo ‘Emozioni politiche’, rappresenta in questo senso una proposta teorica ispirata ai canoni del liberali- smo, nella quale si esorta al buon uso delle emozioni in sede pubblica quale strumento di pedagogia civile (vedi infra, cap. VI) 28. Non vanno però dimenticati ulteriori contributi della studiosa americana, incentrati su profili più vicini alla dimensione giuridica 29, e in particolare sulla concezione di emozione che dovrebbe essere adottata dal giurista come punto di partenza nelle riflessioni perti- nenti Law and Emotion, alla luce dell’alternativa fra un modello bio- logico-meccanicistico e un modello cognitivo-valutativo30. Vediamo in dettaglio quanto osservato in tale studio. 28 NUSSBAUM, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, tr. it., Bologna, 2014. 29 Anche in relazione alla figura del giudicante e alle sue emozioni, e con par- ticolare riguardo alla giusta compassione che dovrebbe accompagnarne le deci- sioni, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 525 ss.; NUSSBAUM, Giu- stizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, tr. it., Milano, 2012, p. 40. 30 KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, in 96 Co- lumbia Law Review, 1996, pp. 269 ss.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 47 2.2. Concezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative del- l’emozione: profili di rilevanza giuridica Nella prospettiva giuridica è fondamentale interrogarsi sull’alter- nativa fra interpretazioni dell’emozione legate a paradigmi stretta- mente fisicalistici e concezioni incentrate sull’emozione come giudi- zio di valore. Dan Kahan e Martha Nussbaum riassumono tali ap- procci nella diade composta da ‘concezione meccanicistica’ e ‘conce- zione valutativa’ (‘mechanistic’ and ‘evalutative’ conception). Secondo la visione meccanicistica, le emozioni sono equiparabili a forze ‘non pensanti’ che spingono una persona all’azione31; per la ‘evalutative conception’ invece l’emozione scaturisce dalla relazione, definibile in base a un valore edonico (ossia di maggiore o minore piacere), con un oggetto cosiddetto ‘intenzionale’. Le emozioni sono ‘rivolte’ a un quid materiale, cognitivo o immaginativo: non sono energie naturali prive di oggetto ma «sono in relazione (about) a qualcosa [...] In secondo luogo l’oggetto è intenzionale: ovvero, esso appare nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la per- sona che prova l’emozione stessa» 32. L’approccio valutativo mostra una migliore rispondenza in rap- porto ai fenomeni e trova oggi un maggiore consenso rispetto all’al- ternativa meccanicistica. Ma quali conseguenze discendono dall’aval- lo di concezioni valutative piuttosto che meccanicistiche in relazione ai problemi penali? Ragionare in termini di approccio meccanicistico, e trattare le emozioni come meri impulsi senza considerarne la componente co- gnitiva, non offre strumenti per spiegare come le emozioni si possano differenziare ‘qualitativamente’ e dunque valutare. Come abbiamo precedentemente osservato, il nucleo della concezione valutativa po- 31 «without embodying ways of thinking about or perceiving objects or situa- tions in the world», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, cit., p. 278. 32 «thought of a particular sort, namely appraisal or evaluation and, moreover, evaluation that ascribes a reasonably high importance to the object in question», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 286; il concetto è ripre- so in NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 50 ss.; cfr. CALABI, Le varietà del sentimento, cit., pp. 276 ss., la quale ricostrusce il concetto di ‘razionalità’ del- l’emozione in base al rapporto tra fondamenti cognitivi e antecedenti cognitivi. Sulla definizione di ‘cattive emozioni’ intese come fallimentari dal punto di vista cognitivo, v. TAPPOLET, Le cattive emozioni, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni- Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative, tr. it., Milano, 2013, pp. 16 ss.   48 Tra sentimenti ed eguale rispetto stula che l’emozione nasca da un giudizio che il soggetto elabora sul- la base di credenze; si può parlare in questo senso di una ‘razionalità’ dell’emozione in termini normativi, ossia modulata su pretese e aspettative che hanno a che fare con gli equilibri della convivenza 33. Secondo Kahan e Nussbaum il significato, e il disvalore, di una condotta non coincidono semplicemente con le conseguenze prodotte ma sono l’esito di una contestualizzazione che deve prendere in esame anche le motivazioni, e dunque, la matrice emozionale dell’agire 34. Un’implicita adesione alla concezione valutativa è alla base del modello di responsabilità che fa leva sul principio di colpevolezza 35 e sulla rieducazione36: è l’idea di emozione come giudizio di valore piuttosto che come moto irriflessivo a porsi come criterio per la valu- tazione della responsabilità penale e anche come chiave di lettura criminologica delle condotte 37. La concezione meccanicistica non riesce a dar conto dell’intreccio fra stati soggettivi e percezioni di valore, e configura una sensibilità meramente epidermica senza coloriture di senso, la quale non appare funzionale a tematizzare la problematica dell’attendibilità del giudi- zio sulla situazione che abbia cagionato un’emozione negativa 38. 33 Rileva Martha Nussbaum che il diritto definisce l’adeguatezza di una rea- zione emotiva adottando una prospettiva basata sull’immagine di ‘uomo ragione- vole’, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it., Bari, 2007, p. 30. 34 KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 352. 35 La concezione normativa della colpevolezza come ‘atteggiamento antidove- roso’ sottende la possibilità di un giudizio concernente ciò che è stato fatto in rapporto a ciò che si sarebbe dovuto fare. Le diverse articolazioni di questo giudi- zio, soprattutto il nesso psichico (dolo e colpa) e la verifica dell’imputabilità, non funzionerebbero se si attribuisse all’agente un’emotività priva di contenuti cogni- tivi apprezzabili sotto il profilo della normatività, ossia ‘giudicabili’ in base a cri- teri di ragionevolezza e adeguatezza alle situazioni; per una sintesi, v., ex pluri- mis, BARTOLI R., Colpevolezza, cit., pp. 47 ss., 70 ss. 36 L’approccio valutativo apre alla possibilità che le emozioni di un soggetto si prestino anche a percorsi (ri)educativi, v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., pp. 273 ss., 351 ss. 37 Per un’analisi criminologica dei rapporti tra emozioni, riflessività ed agire violento v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Milano, 2009, pp. 326 ss. 38 È emblematico lo studio di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, cit., pp. 19 ss., avente ad oggetto problemi del tutto collimanti con la tutela di sentimenti del codice penale italiano, nel quale l’Autore dichiara espressamente che la nozione di ‘sentimento’ da lui adoperata si caratterizza per il fatto di avere un oggetto cogniti- vo, di essere ‘riguardo a qualcosa’: «there is an irreducible “aboutness” to it».   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 49 Anche con riferimento al problema della tutela di sentimenti (e/o di emozioni), assumere come presupposto la concezione meccanici- stica non avrebbe semplicemente senso, poiché non consentirebbe di focalizzare l’attenzione sulla cause emotigene e sugli oggetti inten- zionali, e non sarebbe pertanto funzionale allo sviluppo di un discor- so sui criteri di rilevanza normativa (di adeguatezza e di meritevolez- za) di un determinato atteggiamento del sentire. 2.3. La dimensione sociale delle emozioni Analizzata l’emozione come giudizio di valore, è importante prenderne in considerazione la dimensione sociale: una prospettiva incentrata non sul versante solipsistico bensì sul piano interperso- nale e collettivo, e dunque sul ruolo cognitivo e comunicativo delle emozioni 39, considerate come oggetto di costruzione sociale il quale è in grado di influenzare, a sua volta, l’esperienza delle situazioni sociali 40. La principale disciplina che si occupa di questi temi è la sociolo- gia delle emozioni, la cui nascita viene convenzionalmente collocata a metà degli anni Settanta 41. Ciò non significa che i sociologi avesse- ro ignorato le emozioni, ma fino ad allora gli studi ad esse specifica- mente dedicati risultavano di pertinenza di altre discipline. Il muta- mento di paradigma coincide con una diversa considerazione del fe- nomeno emotivo, visto non più come espressione irrazionale e di- storsiva dell’organizzazione sociale, ma come fattore indispensabile per la comprensione dei fatti sociali. L’attore sociale si sveste dell’aura di pura razionalità per divenire anche attore emozionale, il quale non è in contrapposizione con l’attore razionale «ma ne è invece un’altra faccia, una sua parte costi- tutiva e ineliminabile e non va inteso come un soggetto spontaneo, 39 Per una panoramica di sintesi e per richiami bibliografici su approccio in- tra-personale e inter-personale, v. VELOTTI-ZAVATTINI-GAROFALO, Lo studio della regolazione delle emozioni: prospettive future, in Giornale italiano di psicologia, 2/2013, pp. 249 ss.; PULCINI, Per una sociologia delle emozioni, in Rassegna italiana di sociologia, 4/1997, p. 642. 40 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, cit., p. 44; WENTWORTH-RYAN, L’equilibrio fra corpo, mente e cultura: il posto dell’emozione nella vita sociale, in AA.VV., La sociologia delle emozioni, cit., pp. 208 ss. 41 CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni nella riflessione sociologica, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, cit., p. 19.   50 Tra sentimenti ed eguale rispetto libero da vincoli e costrizioni»42. Da un lato le emozioni vengono considerate come un importante elemento per la comprensione del- l’agire sociale 43, e simmetricamente l’ambiente sociale si pone a sua volta come chiave di lettura di atteggiamenti emozionali dei singoli, in un rapporto di influenza reciproca 44. Questa prospettiva rappresenta un importante contributo non solo allo studio delle emozioni45, ma anche in relazione all’approfondi- mento dei temi di Law and Emotion, poiché gli approcci focalizzati sulla dimensione individuale rischiano di essere limitanti, in ragione del fatto che esistono emozioni la cui genesi e le cui dinamiche sono meglio definibili attraverso il riferimento all’ambiente sociale 46. Uno sguardo alla dimensione sociale e culturale dei fenomeni emotivi può favorire un più esaustivo approfondimento delle intera- zioni fra emozioni e diritto, aprendo la strada a molteplici traiettorie di ricerca, come sottolinea la dottrina statunitense 47. Basta uno sguar- do ad alcuni dei capisaldi teorici che la sociologa Gabriella Turnaturi inquadra come linee conduttrici dell’analisi sociologica delle emo- zioni48 per individuare questioni che possono intrecciarsi virtuosa- mente con la riflessione giuridica. Qualche cursorio esempio: ci sem- 42 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni, cit., p. 14. 43 DOYLE MCCARTHY, Le emozioni sono oggetti sociali. Saggio sulla sociologia delle emozioni, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, cit., pp. 77 ss. 44 «Il termine sociale, molto semplicemente, vuole qui richiamare l’idea che la parola “emozioni” possa/debba evocare eventi e processi che hanno luogo entro contesti interattivi e comunicativi, piuttosto che eventi e processi che hanno luo- go entro i confini del singolo organismo e/o della singola psiche», v. MANGHI, Le emozioni come processi sociali, cit., p. 40. 45 La sociologa Arlie Hochschild identifica quale ostacolo a un serio studio sul- la natura delle emozioni la tendenza a considerarle esclusivamente come un fe- nomeno affettivo individuale, v. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 172. Osserva KEMPNER, Social Models in the Explanation of Emotions, in AA.VV., Handbook of Emotions, cit., p. 45 che lo sviluppo di una larga parte di ciò che chiamiamo ‘personalità’ è un prodotto sociale. 46 Pensiamo ad esempio alla vergogna, e al radicamento che essa può raggiun- gere fino a connotare la fisionomia di una società; si parla di questo senso di ‘cul- ture della vergogna’ in alternativa alle cosiddette ‘culture della colpa’. Su tale di- stinzione, originariamente elaborata dall’antropologa statunitense Ruth Benedict, v., sintenticamente, CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni, cit., p. 28. Per un’ana- lisi della dimensione pre-sociale della vergogna, v. NUSSBAUM, Nascondere l’uma- nità, cit., pp. 212 ss. 47 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., pp. 171 ss. 48 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni, cit., p. 17.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 51 bra di particolare interesse l’osservazione secondo cui ogni società ha delle regole implicite concernenti le situazioni attivanti e le modalità espressive delle emozioni: le cosiddette feeling rules 49. Ebbene, il te- ma potrebbe assumere rilevanza anche in relazione al problema del sentimento quale oggetto di tutela: le regole, più o meno implicite, che definiscono quali emozioni siano giustificate, accettabili, dovero- se o immotivate rappresentano una coordinata importante, forse l’elemento più significativo, per la definizione di quello che il diritto penale ha spesso evocato sotto le forme del ‘sentire comune’ 50. Po- tremmo in questo senso parlare di feeling rules come elemento del contesto sociale che contribuisce a imprimere una fisionomia a ciò che i legislatori hanno definito ‘sentimenti’. Ma sono diversi, e non analizzabili in questa sede, gli ulteriori profili in rapporto ai quali l’analisi sociologica dell’emozione può fornire importanti chiavi di lettura di problemi afferenti al diritto pe- nale 51. Si tratta quindi di non limitare l’angolo visuale alla dimensio- ne soggettiva del fenomeno emotivo, soprattutto in relazione a temi in cui risulta fondamentale la riflessione sugli equilibri politico- deliberativi e sulla ‘normatività’ delle emozioni. 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale Veniamo ora a esaminare il sentimento, e prendiamo le mosse dalla dimensione neurobiologica. Sono d’aiuto ancora una volta gli spunti di Antonio Damasio, il quale nel suo primo studio intitolato ‘L’errore di Cartesio’ ha definito l’emozione come processo valutativo mentale che induce cambiamenti a livello corporeo, e ha successiva- mente distinto i sentimenti in due categorie: ‘sentimenti delle emo- zioni’ e ‘sentimenti di fondo’. I primi, strettamente legati alle emozio- ni, sono costituiti dall’esperienza che il soggetto prova a seguito dei 49 Sulla genesi del concetto, v. HOCHSCHILD, Emotion Work, Feeling Rules, and Social Structure, in 85 American Journal of Sociology, 1979, pp. 551 ss. 50 In questo senso si potrebbero teorizzare connessioni anche con il tema pe- nalistico delle c.d. Kulturnormen; v., per tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Profili introduttivi e politico criminali, Padova, 1988, pp. 673 ss. 51 Si veda ad esempio NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., p. 66, quando afferma che «“strutturare” le emozioni, a partire dal tipo di situazione sociale in grado di generarle, può aiutare, nell’analisi delle norme penali, ad indi- viduare una soglia di rischio illecito all’interno della condotta tipica».   52 Tra sentimenti ed eguale rispetto cambiamenti indotti dalle emozioni: «l’essenza del sentire un’emo- zione è l’esperienza di tali cambiamenti in giustapposizione alle im- magini mentali che hanno dato avvio al ciclo» 52; mentre i ‘sentimenti di fondo’ appaiono come stati duraturi, radicati nel soggetto e non legati a emozioni contingenti 53. La distinzione viene affinata in uno studio successivo, ove si os- serva che nel sentimento vi è qualcosa di più che la percezione di un oggetto intenzionale; secondo Damasio ad essere oggetto di perce- zione è lo stato edonico che si manifesta a seguito del contatto con un determinato stimolo emotigeno: «un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 54. Le emozioni sono movimenti in larga misura pubblici, ossia percepi- bili e visibili; i sentimenti appaiono invece come moti di pensiero di tipo riflessivo, «invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo pro- prietario [...] Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i senti- menti in quello della mente» 55. Al di là delle osservazioni sul piano neuroscientifico, ciò che in questa sede è bene sottolineare sono le implicazioni su un piano più propriamente antropologico-filosofico56, e in particolare sul ruolo che i sentimenti assumono nelle dinamiche comportamentali. L’ipo- tesi di Damasio è che il sentimento rappresenti una guida nei proces- si decisionali57, e risulta particolarmente interessante l’osservazione secondo cui tale fenomeno affettivo assume una funzione riflessiva in grado di fornire coordinate e criteri di demarcazione fra piacere e do- lore più complessi e stratificati rispetto a quelli che la mappe neurali trasmettono sulla base delle sole funzioni vitali a livello biologico: «I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno anche un sé autobiografico – il senso di un passato personale e di un 52 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., p. 210. 53 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., p. 219. 54 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 108, 115 ss. 55 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 40. 56 Per la verità tutt’altro che trascurate dallo stesso Damasio, il quale inquadra la propria opera come ideale prosecuzione del pensiero di Baruch Spinoza, v. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 315 ss.  57 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 215.  Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 53 futuro anticipato, senso noto anche come coscienza estesa – lo stato del sentimento induce il cervello a porre in posizione saliente gli og- getti e le situazioni legate all’emozione. Se necessario, il processo di stima che porta dall’isolamento dell’oggetto al sorgere dell’emozione può essere rivisitato e analizzato. Poiché hanno luogo in uno scenario autobiografico, i sentimenti generano un interesse per l’individuo che li sperimenta. Il passato, il presente e il futuro anticipato ricevono la giusta attenzione e hanno maggiori possibilità di influenzare il ragio- namento e il processo decisionale» 58. La teorizzazione di Damasio descrive sentimenti ed emozioni co- me parti complementari di un processo, non come fenomeni dicoto- mizzati: richiamare l’emozione significa additare l’esteriorità e la di- namicità di uno stimolo, le contingenze dovute al contatto con un certo tipo di fattori emotigeni; richiamare il sentimento significa en- trare ‘in interiore homine’, confrontarsi con l’elaborazione che analiz- za lo stimolo emotivo e ne valuta il peso nella soggettività dell’indi- viduo: «un sentimento [è] la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 59. Il sentimento appare in definitiva come esito di una mediazione riflessiva che può avvenire non in tutti gli organismi, ma solo in quel- li che posseggono la capacità di rappresentarsi il proprio corpo all’in- terno di sé stesso 60. 3.1. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpreta- zione fenomenologica Quanto osservato in ambito neuroscientifico sembra accreditare la portata del tutto peculiare che il sentimento assume nella dimen- sione affettiva dell’individuo come momento di incontro tra perce- zione e riflessione, ossia come «medio necessario tra il sentire sensi- tivo e l’intelligenza concettuale» 61. Passando ora a un approccio incentrato più sulla dimensione teo- retico-concettuale che sulla distinzione fenomenica, va specificato 58 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 216. 59 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., p. 108. 60 DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza, cit., pp. 133 ss. 61 MASULLO, voce Sentimento, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, Milano, 2010, p. 10500.   54 Tra sentimenti ed eguale rispetto che l’inquadramento di una specifica nozione di sentimento non fi- gura nei classici della filosofia, da Aristotele, a Cartesio e fino a Hu- me 62, ma comincia a delinearsi a partire dal XVIII secolo. Sottolinea Aldo Masullo che un simile affinamento è legato anche a sviluppi del- la teoria politica: «L’assunzione da parte del sentimento di una sua specificazione forte è promosso dalla diffusa tensione della cultura illuministica che, per la nuova esigenza storica di fondare un’etica cosmopolitica, è assillata dal bisogno di scoprire un principio coesivo razionalmente argomen- tabile e nient’affatto razionalmente relativistico, generalmente ricono- scibile ma non dommaticamente irrigidibile» 63. Sono soprattutto alcuni studi dei cosiddetti filosofi moralisti in- glesi a definire il sentimento ‘forma sintetica dell’universale’ e fon- damento dell’umana convivenza, ossia principio coesivo nei rapporti umani, come recita l’opera di Adam Smith sui sentimenti morali 64. Si tratta di un indirizzo filosofico che ha come esponente di spicco Da- vid Hume, e che affonda le proprie radici nel sentimentalismo inglese di Shaftesbury e Hutcheson 65. Idea portante è la riconducibilità della moralità dell’agire a una matrice affettiva (per Hume, il cosiddetto principio della simpatia) 66. 62 CURI, Passione, cit., p. 9. 63 MASULLO, voce Sentimento, cit., p. 10501 ss. 64 SMITH, Teoria dei sentimenti morali, tr. it., Milano, 1995; per una riflessione sulle interazioni fra le teorie smithiane, in particolare il concetto di ‘simpatia’, e il diritto penale, v. CADOPPI, Simpatia, antipatia e diritto penale, in AA.VV., a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, cit., pp. 241 ss. 65 MORRA-BONAN, voce Sentimentalismo, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, vol. XVI, Milano, 2010, pp. 10497 ss. 66 Per una sintesi v. LECALDANO, Prima lezione di filosofia morale, Roma-Bari, 2010, p. 27. L’Autore osserva che «non bisogna confondere il piano della rico- struzione genealogica o genetica della nostra capacità di trarre distinzioni mo- rali, con la riflessione su quali siano i giudizi morali corretti». L’opzione per una teoria sentimentalistica ha una valenza in primo luogo metaetica; a livello di etica sostantiva si apre infatti il problema di «[affiancare] una concezione normativa sul contenuto da privilegiare come moralmente rilevante», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 17; 79. Da ciò, la critica a concezioni che, sulla base degli studi di neuroscienze, si sono mosse nella direzione di offrire una ricostruzione in termini ‘realistico-emozionali’ del sentimentalismo morale: «queste ricerche [...] suscitano dubbi laddove accampano la pretesa di aver identificato una base fisiologica o biologica a cui l’etica può essere ridotta nella sua interezza [...] Il sentimento morale non va caratterizzato sostantivamente, anche per non con-   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 55 Venendo a sviluppi più recenti, relativamente ai rapporti tra senti- re e dimensione morale appare a nostro avviso particolarmente inte- ressante per il giurista uno studio di matrice fenomenologica67 di Roberta De Monticelli, nel quale il tema del sentire diviene oggetto di un problema etico in relazione sia alla formazione del singolo indivi- duo (l’etica del sentire intesa come qualità etica – maggiore o minore ‘correttezza’ – delle disposizioni del sentire di un soggetto) sia ad aspetti relazionali (la ricerca del giusto spazio – e dunque di limiti eticamente tollerabili – alla ‘fioritura’ dell’individuo, intesa come rea- lizzazione della sua personalità, resa unica e peculiare dalle disposi- zioni del sentire). Secondo tale studio, l’esperienza affettiva è riconducibile a due di- mensioni essenziali: il sentire e il tendere. Il sentire implica un recepi- re, il tendere è invece un vettore d’azione: «se diciamo che una persona è sensibile non intendiamo affatto dire che è eccitabile, e neppure che manca di obiettività, al contrario intendiamo dire che è più di altri ca- pace di discriminazione, e quindi di verità nell’esercizio del sentire» 68. Negli individui non è infatti riscontrabile il medesimo livello di matu- razione affettiva: «una sensibilità si attiva per strati o segmenti – e in- tendiamo dire con questo che uno sentirà [...] più o meno realtà a se- conda che più o meno “strati” della sua sensibilità siano attivati» 69. Ta- le soglia può variare ed essere incrementata positivamente durante l’esistenza; nondimeno, la diversità insita nelle molteplici varianti di sviluppo del sentire fonda le diversità di ordini assiologici dei singoli, quella che è in definitiva la loro identità morale 70. fonderlo con qualche emozione immediata: è invece proprio del sentimento morale il punto di vista riflessivo su tutte le passioni che si presentano senza qualificazione valutativa nella mente di una persona», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 42 s. Per una differente impostazione, non propriamente ‘riduzionista’ ma comunque orientata a ricercare dei fondamenti naturalistici della morale v., ex plurimis, CHANGEUX, Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale, tr. it., Milano, 2013, pp. 75 ss., 101 ss. 67 La fenomenologia del sentire e l’approccio fenomenologico ai sentimenti sono debitori dell’opera di SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., a cura di Guccinelli, Milano, 2013, il quale inquadra il sentimento come fattore costitutivo nell’ontologia della persona e come interfaccia tra sogget- tività e valori. Per una sintesi dei tratti caratterizzanti la fenomenologia come corrente filosofica v. GALLAGHER-ZAHAVI, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it., Milano, 2009, pp. 9 ss. 68 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 26. 69 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 79. 70 «L’ethos di una persona è la sua identità morale, ma questa identità morale   56 Tra sentimenti ed eguale rispetto Così definito il fenomeno del sentire e delle sue manifestazioni, si pone il problema di inquadrare specificamente il sentimento: è uno stato momentaneo? un evento? un atto? Roberta De Monticelli af- ferma che esso è: «una disposizione reale – e non semplicemente virtuale – del sentire [...] È una disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita, un più o meno profon- do dissentire da questo, e un atteggiamento caratteristico nei confron- ti di questo essere, capace di motivare altri sentimenti, emozioni, pas- sioni, scelte, decisioni, azioni, comportamenti» 71. Il sentimento è ciò che forma le risposte all’esperienza dei valori: in questo senso viene definito ‘matrice di risposte’. Le emozioni sono maggiormente legate all’attualità contingente, poiché costituiscono un’alterazione reattiva e presuppongono l’attivazione di uno strato minimo di sensibilità, anche di livello puramente sensoriale 72. I sen- timenti hanno un ruolo fondante nell’approccio dei singoli alla realtà, agli eventi, e, soprattutto, al rapporto con i propri simili: «[i] senti- menti costituiscono lo strato del sentire propriamente diretto sulla realtà personale. Se il sentire, in generale, è percezione di valore, i sentimenti sono, o perlomeno implicano, disposizioni a sentire gli al- tri sotto l’aspetto dei valori che la loro esistenza realizza o delle esi- genze che essa pone» 73. [...] si manifesta primariamente nella vita affettiva che queste scelte e comporta- menti motiva, e nella quale si esprime infine il modo di sentire che le è irrepeti- bilmente, inconfondibilmente proprio. Il modo di sentire è segnato da una storia individuale, “ancorato” agli incontri di una vita: è, come vedremo, il profilo stesso dell’individualità essenziale»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 81. 71 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 113, 121. 72 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 124 ss. In presenza di una sensi- bilità strutturata la quantità di reazioni affettive è maggiore, ed è anche possibile che da emozioni scaturiscano risposte strutturanti, ossia che le emozioni stesse inducano alla formazione di nuovi sentimenti. Diverso discorso per le passioni, le quali costituiscono una manifestazione del volere e del tendere, e presuppongono la strutturazione di sentimenti, v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 130 ss. La tradizionale contrapposizione delle passioni alla ragione non è intrinseca alle passioni stesse, ma risale a un livello precedente, ossia al sentimento di cui quelle passioni sono manifestazione: «“irrazionali” sono dunque le passioni nella misura in cui sono “disordini del cuore”, ovvero ordinamenti assiologici perversi o inadeguati – per quanto difficile sia stabilire in positivo lo standard rispetto a cui definire la deviazione»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 131.  73 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 111.  Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 57 4. Emozioni e sentimenti: il senso della distinzione concettuale In questa sede non è nostro obiettivo individuare un’esaustiva on- tologia dei fenomeni, bensì intendiamo verificare se vi siano diffe- renze che possano assumere una rilevanza concettuale nella prospet- tiva giuridica. Sentimenti ed emozioni hanno la funzione di classificare, in base al binomio piacere-dolore, le esperienze del sentire individuale. Un punto di contatto utile al fine di ricercare coerenza nella complessità delle de- finizioni, è il fatto che entrambi i fenomeni – naturalisticamente distin- guibili in base a criteri basati sull’intensità e la durata – da un punto di vista adattivo-funzionale rappresentano ‘proiezioni del sé’, ossia marca- tori dell’originalità che rende unico ogni individuo: «le emozioni guar- dano al mondo dal punto di vista del soggetto, e [...] ordinano gli eventi in base alla cognizione della loro importanza o valore per il soggetto» 74. Relativamente alle differenze, una prima, fondamentale, distinzione tra sentimento ed emozione è relativa ad aspetti di tipo ‘fisico-quan- titativo’, legati alla durata e all’intensità dell’esperienza affettiva: più bre- ve e accentuata nell’emozione, più duratura, ma meno intensa, nel sen- timento75. Secondo una definizione offerta da uno studio di psicologia: «[s]entimento e umore si riferiscono a stati affettivi di bassa intensità, durevoli e pervasivi, senza una causa direttamente percepibile e con la capacità di influenzare eventi inizialmente neutri»76. Il sentimento, co- me stato affettivo ‘radicato’, non si esaurisce in stimoli momentanei. Un tratto caratterizzante l’emozione è la componente reattiva: «il termine emozione dovrebbe indicare, in accordo anche con il senso comune, stati affettivi intensi di breve durata, con una causa precisa, esterna o interna, un chiaro contenuto cognitivo e la funzione di rio- rientare l’attenzione» 77. Uno stato affettivo di durata limitata, diverso dunque da stati duraturi 78. 74 NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., p. 53. Si veda anche OATLEY, Psicologia ed emozioni, cit., pp. 77 ss., il quale parla di ‘condizioni di elicitazione’ per indicare che le emozioni insorgono sulla base della valutazione soggettiva di un evento da parte dell’agente in relazione alla sua condizione e ai suoi scopi. 75 Cfr. OATLEY, Breve storia delle emozioni, tr. it., Bologna, 2015, p. 20. 76 D’URSO-TRENTIN, Introduzione alla psicologia delle emozioni, Roma-Bari, 1999 p. 9; cfr. CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni, cit., p. 15. 77 PIETRINI, Dalle emozioni ai sentimenti: come il cervello anima la nostra vita, in AA.VV., a cura di Colombo-Lanzavecchia, La società infobiologica, Milano, 2003, pp. 322 ss.  78 Per un esempio di tassonomia degli stati affettivi e per una conseguente ap-  58 Tra sentimenti ed eguale rispetto Passando a un piano di lettura differente, non limitato alla ‘di- mensionalità’ (intensità, durata), richiamiamo quanto osservato in ambito neuroscientifico da Damasio, secondo il quale il sentimento costituisce il momento della rappresentazione cosciente dell’emo- zione: la percezione che il soggetto ha di sé stesso. Viene evidenziata in questo modo una dimensione riflessivo-speculativa che trova ri- scontro anche nell’analisi di un altro neuroscienziato, Joseph Le Doux, il quale osserva le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di sopravvivere in un am- biente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono un prodotto del- la coscienza, «stati di consapevolezza legati all’esperienza interna dell’emozione»79. Emerge qui una differenziazione che attiene a un piano funzionale, e che vede il sentimento come fenomeno che ha più a che fare con la sfera cognitivo-riflessiva del soggetto 80. E veniamo infine a un terzo criterio distintivo, quello forse più importante ai fini della presente indagine. L’analisi fenomenologica di Roberta De Monticelli ha richiamato il carattere disposizionale del sentimento, l’essere una matrice che può generare e formare ulteriori stati affettivi. Introduciamo dunque l’importante distinzione tra fe- nomeni affettivi ‘in atto’ e ‘disposizioni’ del sentire: «un’emozione in atto è un episodio nel quale proviamo effettivamente collera, paura, gioia o altro. Una disposizione emotiva è la suscettibilità a provare emozioni in atto» 81. Cosa significa ‘disposizionale’? Il concetto è stato approfondito in particolare da Gilbert Ryle, secondo il quale le espressioni disposi- zionali contengono l’affermazione che un uomo o un animale o una plicazione a un tema penalistico-criminologico, v. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, Milano, 2008, p. 71. 79 LE DOUX, Feelings: What Are They & How does the Brain Make Them?, in 144 Daedalus, 2015, p. 97. 80 Si osserva che «[l]e concezioni speculative del sentimento, da Platone a Vi- co, sottolineandone l’ambiguità di regione “intermedia” tra il senso e l’intelletto, cioè il suo partecipare marginale tanto all’uno quanto all’altro, tematizzano il sen- timento come una delle categorie o generi sommi della vita umana. Questa infatti è tale – umana –, solo in quanto è “soggettività”, il modo di essere che consiste nel- l’avvertire stimoli dal mondo esterno (senso) e ordinare gli avvertimenti in rap- presentazioni generali e ben connesse (intelletto), avendo come necessaria condi- zione il riferimento dei primi e delle seconde a un chiaramente o oscuramente avvertito “sé”, ossia comportando un sentimento fondamentale», v. MASULLO, vo- ce Sentimento, cit., p. 10500. 81 ELSTER, Sensazioni forti, tr. it., Bologna, 2001, p. 32, il quale cita, quali esempi di disposizioni emotive, la misoginia e l’antisemitismo.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 59 cosa ha una certa capacità o una certa inclinazione, o è esposto ad una determinata tendenza 82. Le definizione ‘disposizionale’ può rap- presentare in questo senso un’antitesi rispetto a ‘episodico’, poiché «possedere una proprietà disposizionale non vuol dire trovarsi in un certo stato particolare o essere soggetto a un certo cangiamento» 83. Più in generale la distinzione fra stati ‘episodici’ e ‘disposizionali’ descrive una diversità funzionale nella complessiva esperienza affet- tiva della persona, e si presta a evidenziare il rapporto fra mera reat- tività soggettiva contingente e carattere fondativo e ‘personologico’ (vedi infra, cap. IV) degli stati affettivi, i quali appaiono in questo senso come strutture di base della soggettività. È questa a nostro avviso un’importante chiave di lettura per la presente indagine: ciò che appare decisivo nel problema della tutela di sentimenti non è capire se si debba far riferimento a emozioni in senso stretto o ad altri fenomeni affettivi, ma è invece importante de- cidere se il fulcro dei problemi debba riguardare la reattività emozio- nale, oppure se si debba assumere quale vettore di senso l’affettività come base di stati disposizionali non episodici, ossia come strutture portanti della identità morale degli individui. Un richiamo alla sfera affettiva intesa come ‘struttura disposizionale’ orienta l’attenzione sul sentire quale marcatore della personalità, e pone in questo modo sen- timenti ed emozioni al centro di questioni concernenti la diversità di preferenze e di ordini assiologici fra individui. Tale ultima opzione è quella a nostro avviso più funzionale a in- staurare connessioni con le accezioni del termine ‘sentimento’ che emergono nel discorso penalistico: l’uso dei legislatori e della dot- trina. Nel prosieguo dell’indagine approfondiremo entrambi gli aspetti. 5. Sinossi Il panorama di fenomeni che costituiscono il tessuto affettivo de- gli individui è oggetto di definizioni dall’uso non univoco e talvolta polisenso. Il rimando a saperi lato sensu psicologici, pur assumendo 82 RYLE, Il concetto di mente, tr. it., Roma-Bari, 2007, pp. 121 ss. 83 RYLE, Lo spirito come comportamento, tr. it., Roma-Bari, 1982, p. 34; cfr. ID., Il concetto di mente, cit., p. 27: «Le tendenze sono cosa diversa dalle capacità e dalle suscettibilità».   60 Tra sentimenti ed eguale rispetto una notevole complessità, sembra nondimeno costituire per il giuri- sta penale un indispensabile tassello. Lo studio di contributi prodotti in ambito neuroscientifico, psico- logico e filosofico evidenzia come, al di là di possibili aree di contat- to, sentimenti ed emozioni non siano fenomeni del tutto accomuna- bili. Vi è una connessione di fondo relativa al fatto che entrambi, pur in modo differente, sono funzionali a classificare in base al binomio piacere-dolore le esperienze e le inclinazioni del sentire individuale, e contribuiscono così a definire l’identità e la peculiare originalità di ogni individuo. Da un altro lato, emergono differenze relative sia al- l’intensità, sia alla consistenza e alla durata. La distinzione che sembra maggiormente funzionale alla riflessio- ne sul problema del sentimento come oggetto di tutela concerne la nozione di stati episodici e disposizionali: con la prima accezione si definiscono fenomeni che si esauriscono in una contingente reattività psichica, con la seconda si indicano stati duraturi a loro volta matrici di ulteriori reazioni, i quali si intrecciano con le trame costitutive del- la personalità. Alla luce di tale ultimo distinguo cercheremo di trovare connes- sioni con le categorizzazioni che emergono dal diritto positivo e dal discorso dottrinale.  CAPITOLO III DIMENSIONE CODICISTICA E FUNZIONE DISCORSIVA DELLA FORMULA ‘TUTELA PENALE DI SENTIMENTI’ SOMMARIO: 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula. – 2. Le tipolo- gie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘sentimenti-valori’ e disagio psi- chico. – 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’. – 2.1.1. Il sentimento religioso. – 2.1.2. Il pudore. – 2.1.3. La pietà dei defunti. – 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali. – 2.1.5. Il sentimento per gli animali. – 2.1.6. Il comune sentimento della morale. – 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emozioni? – 2.3. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodeterminazione. – 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico. – 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali. – 4. Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula Volgiamo ora lo sguardo alla dimensione giuridica e cerchiamo di inquadrare le rispondenze della formula ‘tutela di sentimenti’. Sono a nostro avviso distinguibili due accezioni: la prima, di tipo descrittivo-classificatoria, è strettamente legata al diritto positivo, e si presta a sintetizzare le disposizioni in cui l’interesse protetto viene de- finito nei termini di un sentimento o di un’emozione: si pensi alle nor- me codicistiche che parlano di sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti et similia. La seconda accezione, che definiamo connotativa, è funzionale a tematizzare norme e problemi di tutela in cui la matrice emozionale non traspare da definizioni normative, ma emerge nei discorsi della dottrina penalistica in sede di speculazione teorica o di interpreta- zione, tendenzialmente per richiamare beni dalla fisionomia protei- forme, suscettibili di ricostruzioni profondamente differenti in quan-  62 Tra sentimenti ed eguale rispetto to esposte al condizionamento emotivo: interessi parificati dunque a sentimenti per via di un’intrinseca inafferrabilità 1. L’accezione connotativa enfatizza in chiave critica l’associazione tra fenomeni affettivi e oggetti di tutela dai confini incerti, disancora- ti da una base oggettiva e tendenti a sfociare in ricostruzioni di ma- trice soggettivistica. Parlare di sentimenti attiva nel lettore e nell’in- terprete frames psicologici che risentono della nebulosità epistemica che caratterizza le condizioni di conoscenza dei fenomeni psichici, contribuendo in questo modo a comunicare una sostanziale diffiden- za: «[le] parole non sono semplicemente dei mezzi per individuare gli oggetti. Le parole intervengono nella nostra percezione degli oggetti, e infatti trasmettono interpretazioni e attribuiscono senso ai loro refe- renti» 2. Associare un oggetto di tutela penale a un sentimento equivale a sottolinearne il potenziale di criticità, come coacervo di interessi ‘su- blimati’ che non rispondano a requisiti di razionalità e coerenza ri- spetto a principi ‘di sistema’ 3. Menzioniamo, per ora a titolo esempli- ficativo, il richiamo alla dignità umana, e pensiamo anche alla cosid- detta ‘sicurezza pubblica’ la quale è stata in tempi recenti associata criticamente a uno stato di tranquillità soggettiva dei singoli; si può inoltre ascrivere a tale categoria anche il concetto di onore, ben noto ai penalisti e da sempre oggetto di faticosi sforzi ermeneutici. Si trat- ta di interessi che non a caso vengono additati come ‘problematici’ dalla dottrina4, i quali evidenziano tutti una forte connessione con matrici emotive, tale da indurre a definirli anche come ‘sentimenti’. Nel prosieguo approfondiremo gli ambiti e i problemi connessi sia all’accezione descrittiva, sia a quella connotativa, a partire da una panoramica sulle fattispecie dell’ordinamento italiano in cui il senti- 1 Con riferimento alla dottrina tedesca si veda la ricostruzione di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 84, il quale sottolinea come anche in Germania l’espressione ‘Gefühlschutzdelikte’ sia intesa in chiave essenzialmente critica. 2 SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna, 2011, p. 102. 3 Sulla specifica accezione del diritto penale come ‘sistema’ – definizione che attiene al piano del dover essere piuttosto che alla descrizione della realtà del- l’ordinamento – e sulle distinzioni tra principi di rilevanza normativa che entrano in gioco nel diritto penale, v. per tutti FIANDACA, Diritto penale, in FIANDACA-DI CHIARA, Un’introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli, 2003, pp. 3 ss.  4 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 71 ss.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 63 mento figura testualmente come coordinata descrittiva dell’interesse protetto 5. 2. Le tipologie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘senti- menti-valori’ e disagio psichico Nel codice penale il sentimento viene espressamente evocato dalle norme poste a tutela del sentimento religioso, del pudore, della pietà dei defunti, del sentimento nazionale; nella legislazione complemen- tare viene menzionato come oggetto di tutela il ‘comune sentimento della morale’ 6. Oltre a tali ipotesi, riteniamo, in accordo con autorevole dottrina, che la problematica del sentimento come oggetto di tutela investa, pur con i dovuti distinguo, anche una norma di più recente introdu- zione, ossia l’art. 612 bis c.p., la quale incrimina il delitto di atti per- secutori. Si tratta di una fattispecie la cui tipicità appare fortemente improntata in senso emotivistico: ‘perdurante e grave stato d’ansia e di paura’, ‘fondato timore’ sono eventi di tipo psichico, e precisamen- te sono assimilabili a emozioni negative. Anche il delitto di atti per- secutori appare orientato a tutelare un sentire, o, più propriamente, 5 Non analizzeremo in questa sede ulteriori fattispecie codicistiche il cui so- strato di offensività sembra rimandare a un retroterra di tipo emozionale. Al di là dell’onore, che è unanimemente riconosciuto come interesse della persona caratterizzato da un’evidente componente ‘di sentimento’ che la dottrina si è impegnata a razionalizzare mediante il richiamo, comunque problematico, alla ‘dignità sociale’, v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, pp. 147 ss., vi sono altre norme la cui afferenza al tema in esame appare meno uni- voca. Una recente ricostruzione include ad esempio il vilipendio alla bandiera (come forma di offesa al sentimento nazionale), la corruzione impropria susse- guente (offesa al sentimento di onestà che dovrebbe guidare i pubblici ufficiali), l’ingiuria semplice, l’incesto (offesa al sentimento della morale familiare), la pedopornografia (sentimenti moralistici inerenti la sessualità) e infine il nega- zionismo: si tratta di un panorama variegato ed eterogeneo, il quale meritereb- be una dettagliata analisi volta a verificare in che termini dietro i casi menzio- nati si possa davvero parlare di sentimenti, v. GIUNTA, Verso un rinnovato ro- manticismo penale?, cit., pp. 1556 ss. 6 Si pongono al di fuori dell’area concettuale della tutela di sentimenti le pro- blematiche concernenti gli stati emotivi e passionali e le circostanze attenuanti fondate su emozioni; il profilo che viene qui in gioco è il ruolo che i fenomeni af- fettivi possono assumere in relazione alla graduazione della responsabilità pena- le, attraverso gli istituti dell’imputabilità e delle circostanze del reato (vedi anche supra, cap. I, nota 30).   64 Tra sentimenti ed eguale rispetto presidia l’equilibrio emotivo di un soggetto in chiave strumentale ri- spetto alla libertà di autodeterminazione 7. È plausibile definire tale ultima fattispecie come una forma di tu- tela di sentimenti8 (fatte salve le criticità che possono derivare da un’interpretazione meramente emozionale e soggettivistica degli even- ti), ma è altrettanto evidente che rispetto alle ipotesi precedentemen- te menzionate in cui il legislatore parla espressamente di ‘sentimento’ vi sono delle differenze: nel caso della religione, del pudore, della pie- tà dei defunti et similia, la parola ‘sentimento’ viene associata a ulte- riori concetti che indicano valori e oggetti significativi per il singolo e per la collettività, dando vita a un’entità in parte psicologica e in par- te di consistenza prettamente socio-valoriale. Nel caso dello stalking lo stato psichico assume una rilevanza autonoma, senza alcuna cor- relazione con specifici oggetti del sentire, ed è proprio il turbamento emotivo a rivestire importanza centrale nell’economia della fattispe- cie, precisamente come evento tipico 9. Si tratta di due diverse declinazioni del sentimento come oggetto di tutela, le quali necessitano di una trattazione distinta. 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’ Con riferimento ai delitti contro il sentimento religioso, contro il pudore e contro la pietà dei defunti, sia l’interpretazione oggi do- minante in dottrina sia la realtà applicativa depongono per una li- nea ‘depsicologizzante’, secondo la quale il disvalore del fatto non dipende dall’impatto della condotta tipica sullo stato psichico del soggetto passivo. Si è osservato che l’ordinamento penale non tutela sentimenti, 7 Sul tema, pur con diversità di accenti, v. MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, p. 104; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 223 ss.; COCO, La tutela della libertà indivi- duale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 116 s. 8 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 82 ss. 9 Uno tra gli aspetti più discussi della fattispecie di atti persecutori concerne l’alternativa fra reato di danno o di pericolo; per un’interessante prospettiva in- terpretativa MAUGERI, Lo stalking, cit., pp. 153 ss.; sulla stessa linea di pensiero, CADOPPI, Efficace la misura dell’ammonimento del questore, in Guida dir., 19/2009, p. 52. In giurisprudenza tende a prevalere la qualificazione come reato di danno; v., ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 16/04/2012, n. 14391; Cass. pen., sez. V, 15/05/2015, n. 20363.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 65 «anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini [...], ma [tutela] la loro obiettivazione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescindere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato» 10. Tale osservazione è ineccepibile, e trova riscontro nel panorama applicativo: la prova di un effettivo turbamento psichico soggettivo non è mai venuta seriamente in considerazione11. Le situazioni de- scritte nelle disposizioni codicistiche non richiedono la verifica di una concreta ‘elicitazione’ 12 della sensibilità di singoli individui: l’as- serita attitudine lesiva della sensibilità costituisce esito di un proces- so interpretativo di elementi di fatto e di condizioni di contesto esa- minati alla luce di criteri di adeguatezza e di tollerabilità modulati su parametri di tipo socio-culturale, in base a un’ipotizzata sensibilità media dei consociati. Come osserva Angelo Falzea, non è il mero fatto emozionale ad assumere ruolo decisivo, ma è piuttosto la sua traducibilità in valori e disvalori secondo un punto di vista sociale. Nel complesso, il senti- mento assume rilevanza sub specie iuris e non sub specie facti: «Non ogni volta che il diritto pone a base delle sue regole il sentimen- to si è in presenza di un fatto giuridico affettivo. Vi sono norme giuri- diche ispirate all’esigenza di tutelare un sentimento condiviso dalla 10 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1578. 11 Si prendano a riferimento gli ambiti della tutela penale della religione e del pudore, nei quali si registra un congruo numero di pronunce. Per una panorami- ca sulla tutela del sentimento religioso in Italia fino agli anni Ottanta v. SIRACUSA- NO, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Mi- lano, 1983, pp. 96 ss.; per uno sguardo sugli sviluppi più recenti v. BASILE, art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale commentato, diretto da Dolcini-Gatta, vol. II, 4a ed., Milano, 2015, pp. 1461 ss.; PECORELLA, Delitti contro il sentimento religioso, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, II ed., Torino, 2014, pp. 382 ss.; per una panoramica della giurispruden- za in materia di offese al pudore v. PROTETTÌ-SODANO, Offesa al pudore e all’onore sessuale nella giurisprudenza, Padova, 1972, pp. 3 ss.; PULITANÒ, Il buon costume, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio- culturali della giurisprudenza, cit., pp. 172 ss.; FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984, pp. 33 ss.; sugli sviluppi più recenti sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, cit., pp. 300 ss. 12 In psicologia è d’uso il termine ‘elicitazione’ per indicare l’azione di stimolo volta a suscitare emozioni e/o a indurre comportamenti.   66 Tra sentimenti ed eguale rispetto comunità o di reprimere un sentimento che la comunità disapprova, ma nelle quali la considerazione del fenomeno emozionale resta al li- vello dell’interesse normativo e non si traduce in elemento della fatti- specie [...]: il sentimento tende allora a svincolarsi dalla necessità di una sua specifica manifestazione e a confondersi coi valori etici ogget- tivi» 13. Ciò che rileva è la ‘personalità affettiva comune’, ossia «l’insieme dei fatti biologici e psichici che influiscono sul comportamento emo- zionale affettivo e reattivo della persona» definito «in relazione al pa- trimonio sentimentale e alla sensibilità che sono propri in linea di principio dell’intero gruppo sociale» 14. Il sentimento viene in questo modo proiettato in una dimensione collettiva come modo di sentire diffuso che accomuna più individui (c.d. ‘atmosfera emozionale’). Alla luce di tale fisionomia dell’oggetto di tutela, il sentire indivi- duale viene filtrato «in funzione e sotto l’angolo visuale del sistema dei valori di un gruppo diverso e più comprensivo [...] la valutazione contenuta nel sentimento di certe persone o comunità diventa ogget- to di un’altra valutazione contenuta nel modo di sentire o comunque nel sistema dei valori di altre persone o comunità» 15. In definitiva, attraverso le «regole e [gli] istituti con cui il legislatore predispone una tutela penalistica a salvaguardia di sentimenti che nel- l’animo e nel costume dei consociati assumono un alto valore» 16, il di- ritto penale finisce per tutelare non un stato soggettivo della persona, bensì l’oggetto e il valore impersonale che fonda quel dato modo di 13 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 368. 14 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 380. 15 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 332. 16 FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 356. L’Autore inoltre distingue fra ‘reati di sentimento’, ossia quelli in cui il diritto «punisce il disprezzo [...] verso valori ritenuti fondamentali», ossia le varie forme di vilipendio alle istituzioni (Repub- blica, nazione, bandiera), dai casi in cui il sentimento dell’agente è tale da influire sulla gravità della pena in funzione di circostanza (crudeltà, futilità dei motivi etc.). A ben vedere, una simile prospettazione potrebbe creare fraintendimenti: nella definizione del vilipendio quale reato di sentimento (la cui ragion d’essere trova dunque spiegazione nella mera censura di uno stato interiore considerato contrario a valori ‘oggettivi’) l’occhio del penalista non può fare a meno di riscon- trare una sottile caratterizzazione soggettivistica, secondo tecniche di incrimina- zione tipiche del Gesinnungsstrafrecht. Il suddetto schema non sembra inoltre funzionale ad una prospettiva di bilanciamento, poiché se l’aver provato disprez- zo diviene motivo di incriminazione tout court, relegando in secondo piano i pro- fili di turbamento del sentimento di altri, risulta assai più difficoltoso procedere sulla strada di un equilibrio tra posizioni.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 67 sentire. Il lessico degli stati affettivi si rivela dunque un orpello retorico volto a porre sotto protezione penale gli oggetti del sentire, ossia valori e simboli ritenuti socialmente significativi nella comunità: «nell’apprestare tutela a determinati sentimenti, il codice non tende a proteggere stati affettivi duraturi in quanto tali: si tratta, piuttosto, di sentimenti – individuali e/o collettivi – concepiti altresì come atteg- giamenti intrisi di valore in una accezione culturale e normativa. Sic- ché si può dire, da questo punto di vista, che la legge penale mira a proteggere più che sentimenti in sé, sentimenti-valori, se non valori tout court» 17. Vediamo nel dettaglio quali sono i valori che, dietro le effigie del sentimento, sono entrati nel catalogo dei beni tutelati dal diritto pe- nale italiano. 2.1.1. Il sentimento religioso I delitti in tema di religione sono un elemento sintomatico del tas- so di secolarizzazione del sistema 18. Nelle legislazioni penali moder- ne, la religione è stata di rado identificata come bene di esclusiva per- tinenza del singolo, e più frequentemente come forma di adesione collettiva o come sentimento istituzionalizzato, ossia entità storica- mente e culturalmente determinata nella quale sono trasfusi valori e patrimoni propri di una o più confessioni. Il codice Rocco parla di ‘sentimento religioso’ 19, ma la legislazione del 1930, fedele nelle rubriche e nella sostanza alla sola religione di Stato, si identificava nel modello di tutela definito come ‘bene di ci- viltà’ 20: era la religione cattolica, affiancata dalla timida presenza dei culti ammessi, e non un qualsiasi sentimento religioso individual- 17 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 18 FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, pp. 180 ss.; SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del fattore religioso nell’ordinamento italiano, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Torino, 2009, pp. 70 s. Per una panoramica, v. AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino, 2010. 19 Cfr. MARCHEI, Sentimento religioso e bene giuridico. Tra giurisprudenza costi- tuzionale e novella legislativa, Milano, 2006, pp. 35 ss.; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose dopo la legge 24 febbraio 2006 n. 85, Milano, 2007, pp. 16 ss.  20 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., Milano, 1983, pp. 10 s.  68 Tra sentimenti ed eguale rispetto mente avvertito, a godere di un privilegiato regime di tutela 21. L’impianto codicistico ha subito profonde modifiche ad opera del- la Corte costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha ‘rabbercia- to’ 22 il sistema dei reati riducendo le distonie con i principi codificati nella Carta costituzionale. Particolarmente significativa è la linea giu- risprudenziale inaugurata con la pronuncia n. 440/1995 (sulla con- travvenzione di bestemmia) 23 e seguita dalle pronunce n. 329/1997 (equi- parazione del trattamento sanzionatorio fra religione di Stato e culti ammessi, in relazione all’art. 403 c.p.) e soprattutto n. 508/2000 (ablazione della fattispecie di vilipendio della religione di Stato, art. 402 c.p.) 24: decisioni che attuano un cambio di rotta rispetto alla giu- risprudenza costituzionale che, fino a pochi decenni prima, ancora legittimava il trattamento privilegiato della religione cattolica sulla base di criteri quantitativi e sociologici 25. Argomentando sulla base del principio di laicità, la Corte ha iden- tificato nella dimensione religiosa individuale il corollario di una li- 21 In linea con l’afflato statocentrico che ispira l’intera codificazione, le fatti- specie in tema di religione sono espressione di autoritarismo etico da parte del governo fascista, congeniale al sodalizio politico con la Chiesa Romana formaliz- zato nei Patti Lateranensi: «La religione» dice Rocco «è [...] non tanto un feno- meno attinente alla coscienza individuale, quanto un fenomeno sociale della più alta importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato», v. Codice penale, illustrato con i lavori preparatori, a cura di Mangini-Gabrieli-Cosentino, Roma, 1930, pp. 331. Per una sintesi, v., ex plurimis, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 6 ss. 22 L’espressione è di FIANDACA, Altro passo avanti della Consulta nella rabbercia- tura dei reati contro la religione, in Foro it., 1998, I, pp. 26 ss. Per un’ampia e pun- tuale sintesi della giurisprudenza costituzionale vedi il saggio di VISCONTI C., La tutela penale della religione nell’età post-secolare e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2005, pp. 1041 ss. 23 Sul tema v., ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della bestem- mia), in Cass. pen., 1/1996, pp. 47 ss.; DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2-3/1996, pp. 824 ss. 24 Ex plurimis, VENAFRO, Il reato di vilipendio della religione non passa il vaglio della Corte Costituzionale, in Legislazione penale., 2001, pp. 1073 ss. 25 Cfr. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, entro la nuova tipici- tà dei delitti contro le confessioni religiose, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino, 2010, p. 33; MORMANDO, Religione, laicità, tol- leranza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2005, pp. 657 ss.; MARCHEI, Sen- timento religioso e bene giuridico, cit., pp. 95 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 69 bertà costituzionale 26; parametro costituzionale decisivo che ha sup- portato le modifiche più rilevanti è stato il principio di uguaglianza 27. La riforma del 2006, nel dichiarato intento di superare l’anacro- nistico e illiberale modello del codice fascista, ha eliminato il riferi- mento alla religione introducendo il concetto di ‘confessione religio- sa’. In merito all’interesse protetto, la lettura critica offerta dalla pre- valente dottrina individua una sostanziale continuità con la vecchia normativa28, identificando l’oggetto di tutela in una prospettiva che oscilla tra il bene di civiltà ‘pluriconfessionalmente articolato’ e il sentimento collettivo della pluralità dei fedeli che si riconoscono in una determinata confessione religiosa29. Non mancano però letture alternative che cercano di armonizzare la duplice natura, individuale e collettiva, del bene protetto, sottolineando come «la nozione di sen- 26 Pur aderendo sostanzialmente al principio di laicità dello Stato, la giuri- sprudenza costituzionale presenta sensibili oscillazioni circa l’effettiva portata del concetto: cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino, 2008, pp. 45 ss.; ID., La tutela penale della religione, cit., p. 1050. Istanze personalistiche sono emerse quando si è parlato di «sentimento religioso, [il] quale vive nell’in- timo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune», v. C. cost. n. 188/1975; cfr. MARCHEI, Sentimento religioso, cit., p. 143. 27 Così PULITANÒ, Laicità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, Milano, 2007, p. 309; cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 39. Sui rapporti tra uguaglianza e diritto penale, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio di giurisprudenza costituzionale, Milano, 2013; FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, in AA.VV, a cura di Cartabia-Vettor, Le ragioni del- l’uguaglianza, Milano, 2009, pp. 115 ss. 28 Si rileva che la Corte non ha assunto decisioni dirompenti, tali da condur- re all’abbattimento del sistema esistente, talvolta riducendo a un semplice pas- saggio ermeneutico, secondo alcuni Autori, lo stesso richiamo alla realtà reli- giosa individuale, nei fatti seguito dalla (ri)legittimazione del paradigma esi- stente: cfr. l’analisi di MARCHEI, Sentimento religioso, cit., pp. 143 ss. Osserva PIEMONTESE, Offese alla religione e pluralismo religioso, in AA.VV., Religione e re- ligioni: prospettive di tutela, tutela delle libertà, a cura di De Francesco-Piemon- tese-Venafro, Torino, 2007, p. 230, che «la libertà individuale parrebbe valoriz- zata, qui, solo in chiusura e ad abundantiam, all’interno di un iter argomentati- vo volto a preservare comunque l’originaria dimensione pubblica ed istituziona- le della tutela»; cfr. PADOVANI, Un intervento normativo scoordinato che investe anche i delitti contro lo Stato, in Guida dir., 14/2006, pp. 23 ss.; BASILE, art. 403 c.p., cit., pp. 1462 ss. 29 Nel primo senso SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 83; per la seconda opzione v. BASILE, art. 403 c.p., cit., p. 1471. Cfr. anche VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit., p. 196. Ritiene che la riforma del 2006 abbia fatto assurgere il sentimento religioso individuale a bene protetto in via diretta e im- mediata, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., p. 26.   70 Tra sentimenti ed eguale rispetto timento è solamente un connotato – innegabile quanto imprescindi- bile – di un ben più articolato valore di libertà religiosa» 30. 2.1.2. Il pudore Il richiamo al sentimento è centrale nella definizione delle osceni- tà penalmente rilevanti: sono da considerarsi osceni gli atti e gli og- getti che ‘secondo il comune sentimento’ offendono il pudore (art. 529 c.p.). L’elemento normativo ‘comune sentimento del pudore’31 attinge da un fenomeno di reattività interiore dell’individuo: il pudo- re, genericamente definibile come disposizione soggettiva che induce al riserbo su quanto attiene alla vita sessuale, fonda la soglia sogget- tiva di eventuale disagio avvertibile di fronte a manifestazioni della sessualità 32. Inteso nella dimensione comunitaria il pudore si emancipa dal rapporto di implicazione emotiva individuale e dalla sua concreta sussistenza, scivolando verso un’identificazione con concezioni della morale sessuale: la valorizzazione normativa del pudore diviene in questo modo funzionale a introdurre soglie atte a delimitare manife- stazioni e rappresentazioni aventi contenuto sessuale 33. Il problema del buon costume e della pubblica moralità quali beni di categoria in ambito penalistico ha finito per tradursi nel richiamo a canoni di moralità sessuale 34, concetto quest’ultimo la cui delimita- 30 È la condivisibile notazione di FALCINELLI, Il valore penale del sentimento re- ligioso, cit., p. 48, la quale definisce l’interesse protetto dalle norme post riforma 2006 come sentimento religioso collettivo e al contempo individuale (pp. 39 ss.). 31 Sul tema degli elementi normativi, e in particolare sui rapporti fra il coeffi- ciente di certezza degli elementi normativi culturali e giuridici, v. lo studio di BO- NINI, L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e costitu- zionali, Napoli, 2016, pp. 320 ss.; sul tema v. anche RISICATO, Gli elementi norma- tivi della fattispecie penale. Profili generali e problemi applicativi, Milano, 2004. 32 Per un’analisi in chiave psicanalitica v., ex plurimis, APPIANI, Tabù. Elogio del pudore, Milano, 2004, pp. 292 ss. 33 Fondamentale FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 4 ss. Sul proble- ma definitorio del pudore, nella letteratura penalistica più risalente v. ALLEGRA, Il “comune” sentimento del pudore, in Iustitia, 1950, pp. 78 ss.; LATAGLIATA, voce Atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Mi- lano, 1959, pp. 49 ss.; VENDITTI, La tutela penale del pudore e della pubblica decen- za, Milano, 1963; GALLISAI PILO, voce Oscenità e offese alla decenza, in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, pp. 204 ss.; FARINA, Il reato di atti osceni in luogo pub- blico: tensioni interpretative e prospettive personalistiche nella tutela del pudore, in Dir. pen. proc., 7/2005, pp. 867 ss.  34 Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 78 ss.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 71 zione è però nondimeno ardua, al punto da costituire classicamente un luogo di forti tensioni tra il diritto punitivo e i principi liberali 35. Ad oggi gli sviluppi giurisprudenziali, incentivati e affinati da im- portanti contributi della dottrina 36, depongono per una riconversione dell’interesse di tutela, il quale è identificato nel diritto a essere pro- tetti da indebite violazioni del proprio riserbo sessuale: esempio tipi- co, l’assistere a manifestazioni di contenuto erotico senza avervi pre- ventivamente acconsentito. Ciò ha condotto a un modello di interven- to incentrato non più su una lesione astratta e potenziale del pudore collettivo, ma teso a reprimere solo le manifestazioni oscene che si impongano a determinati soggetti senza che questi abbiano prestato un preventivo consenso 37. È il carattere della pubblicità più o meno indesiderata dell’atto o della pubblicazione, inteso come capacità di diffusione e percepibilità da parte di soggetti non consenzienti, a fondare l’illiceità, e non la sua natura eventualmente oscena. Si tratta di un ragionevole distacco da modelli di intervento non 35 Sul punto rimarca FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99, che «[...] il principio della tolleranza ideologica e della tutela delle minoranze impediscono di trasformare il diritto penale di uno Stato democratico in tutore della virtù. [...] Ciò induce a dover giustificare sotto ogni aspetto l’assunto, secondo il quale la punizione dell’immoralità non può rientrare tra gli scopi del diritto penale con- temporaneo. Tanto più che l’esplicito riferimento, contenuto nella Costituzione, alla tutela del buon costume potrebbe essere da taluno interpretato – come di fat- to è avvenuto – appunto in chiave di “copertura” costituzionale all’incriminazione di fatti lesivi di semplici valori morali». Cfr. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico? Pro- blemi di legittimazione da una prospettiva europea continentale e da una angloame- ricana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale. Culture europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino, 2008, pp. 125 ss. 36 Il riferimento è sempre a FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit. 37 In giurisprudenza, sentenza capostipite è quella del Tribunale di Torino, 2/04/1982, in Foro it., 1981, II, cc. 529 ss. Nella giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., sez. III, 21/01/1994, in Foro it., 1996, II, c. 21; v. anche Cass. pen., SS. UU., 24/03/1995, in Foro it., 1996, II, c. 17 ss. Da ultimo, v. Cass. pen., sez. III, 17/12/2004, n. 48532 e Cass. pen., sez. III, 6/07/2005, n. 34417, che conferma la per- cepibilità dell’osceno da parte del pubblico come elemento costitutivo della fattispe- cie il cui onere probatorio deve essere fornito dall’accusa. Per un avallo del suddetto orientamento da parte della Corte costituzionale, v. la sentenza n. 368/1992, secon- do cui «la misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di questo verso gli altri, considerata in relazione alle modalità di espressione e alle circostan- ze in cui l’osceno è manifestato», v. C. cost., n. 368/1992; sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, cit., pp. 303 ss.   72 Tra sentimenti ed eguale rispetto compatibili con uno Stato liberale e pluralista38. Ad oggi l’ordina- mento italiano non tutela un moralistico pudore collettivo 39, ma ap- presta gli strumenti affinché le persone non assistano a manifesta- zioni della sessualità per loro indesiderate: l’equilibrio si fonda su po- tenzialità nell’agire che trovano un limite nell’altrui pretesa di non subire contatti sgraditi. Vi è sì una depsicologizzazione dell’interesse protetto, presentato nelle fogge di una libertà negativa, ma va non- dimeno riconosciuto che il problema della tutela del pudore resta profondamente legato, nella sua matrice, anche a una sensibilità di tipo ‘epidermico’40, non semplicemente morale, ma saldamente in- trecciata alla reattività emotiva della persona. 2.1.3. La pietà dei defunti Pochi termini denotano un’appartenenza al lessico emozionale come la pietà: traduzione del latino pietas, essa, al di là dell’uso gene- rico che connota il sentimento di solidale comprensione nei confronti della sofferenza altrui, designa ancora oggi la dimensione psicologica che scaturisce dall’esperienza della morte dei propri simili, e fa la sua comparsa nel codice penale al capo II del titolo IV. 38 Esigenze di riforma sono state invocate evidenziando un ormai critico rap- porto tra il diritto vivente e la tipicità formale, sottolineando come lo stesso rein- quadramento in termini personalistici del bene giuridico disveli, in definitiva, un’irragionevole disparità sanzionatoria tra l’offesa al pudore (rectius, libertà da visioni indesiderate) e altre offese alla persona: v. FARINA, Il reato di atti osceni, cit., pp. 872 ss. 39 I sentimenti individuali rimangono sullo sfondo, preservati nella loro auto- nomia e senza dover render conto dei propri contenuti: le generalizzazioni e i giudizi su base quantitativa dovrebbero rimanere al di fuori della norma, poiché la libertà del singolo è anche libertà di usufruire e concedersi quello che per molti dei suoi simili potrebbe apparire indecoroso o ripugnante, ovviamente senza in- vadere le altrui sfere di libertà. Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno affermato in questo senso la necessità di una politica ‘anticollettivista’, nella quale cioè «gli interessi della maggioranza non possono mettere a tacere i diritti fon- damentali dell’individuo, se non in circostanze eccezionali, solitamente laddove siano ipotizzabili danni ad altre persone o qualche grave pericolo per l’intera na- zione», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, tr. it., Milano, 2011, p. 68; cfr. HART, Diritto, morale e libertà, tr. it., a cura di Gavazzi, Acireale, 1968, p. 97. 40 È stato osservato come sia doveroso un approfondimento delle ragioni psi- cologiche alla base di atteggiamenti repulsivi dell’altro, al fine di disvelare (e ar- ginare) l’irrazionalità di fondo che, se trasfusa in dettami normativi, potrebbe condurre a esiti discriminatori: un tipico esempio sono istanze di tutela che tro- vino la propria motivazione in un mero ‘disgusto collettivo’, v. NUSSBAUM, Na- scondere l’umanità, cit., pp. 95 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 73 L’interpretazione consolidatasi in dottrina individua in tali norme un presidio a un sentimento universale, non una forma di difesa della salute pubblica 41. La tutela è incentrata su oggetti materiali e postula la rilevanza simbolica delle res: oggetti la cui violazione integra il pa- radigma delittuoso in quanto la materialità delle azioni assuma il si- gnificato di dileggio alla memoria 42. Al di là della topografia codicistica, pare opportuno rimarcare l’autonomia concettuale del sentimento di pietà per i defunti dalle eventuali caratterizzazioni religiose43: è sul presupposto di una di- mensione laica di tale sentimento 44, oltre il manto di ritualità cultua- li, che si pone la discussione sulla legittimità e opportunità di un pre- sidio sanzionatorio. Autorevole dottrina è critica nei confronti della scelta politico criminale del codice Rocco: «la previsione autonoma di delitti contro la pietà dei defunti non appare, nell’attuale momento storico, perfet- tamente congrua con la funzione propria di un diritto penale di uno Stato democratico e secolarizzato: il mero sentimento non sembra infatti poter assurgere al rango di bene giuridico, non intaccando la sua semplice violazione quelle condizioni minime della vita in comu- ne la cui salvaguardia legittima l’uso dello strumento penalistico» 45. L’osservazione ha il merito di evidenziare uno dei punti critici del rapporto tra sentimenti e tutela penale: libertà che rischiano di essere soggette alla coercizione di fronte a moti dell’animo umano, il cui turbamento, pur intenso, non dovrebbe essere destinatario di una priorità assoluta all’interno di un contesto pluralista. 41 FIANDACA, voce Pietà dei defunti (Delitti contro la), in Enc. giur., vol. XXIII, Roma, 1990, p. 1; per l’orientamento incline all’interpretazione della norma come tutela della salute pubblica, v. GABRIELI, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, 1961, p. 371. 42 ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti (delitti contro), in Dig. disc. pen., vol. IX, Torino, 1995, p. 571. 43 Ex plurimis, cfr. FIANDACA, voce Pietà dei defunti, cit., p. 1; ROSSI VANNINI, vo- ce Pietà dei defunti, cit., p. 570. 44 Non potendo in questa sede offrire un quadro della sconfinata bibliografia, ci limitiamo a segnalare le intense riflessioni contenute nella pubblicazione di AA.VV., a cura di Monti, Che cosa vuol dire morire, Torino, 2010. Argomentazioni condivise da parte di autori di estrazione laica e autori cattolici emergono nei saggi di BODEI, L’epoca dell’antidestino, pp. 57 ss.; DE MONTICELLI, La libertà di divenire sé stessi, pp. 83 ss.; per i secondi, v. REALE, L’uomo non si accorge più di morire, pp. 25 ss.; MAN- CUSO, Se si ha paura della morte, si ha paura della vita, pp. 109 ss. 45 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, IV ed., Bologna, 2007, pp. 450 s.   74 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’attuale configurazione normativa, tuttavia, la tutela del de- funto evoca sentimenti, ma non ha ad oggetto stati psicologici di pa- renti o delle persone ad esso affettivamente legate. Si tratta di un ri- conoscimento dovuto all’essere umano in quanto tale, a prescindere da metafisiche ultraterrene, ma anzi ben ancorato a una concezione secolare dell’esistenza, secondo cui il soggetto può e deve meritare rispetto anche dopo il trapasso 46. È in quest’ottica che può eventual- mente valutarsi l’opportunità del mantenimento di un presidio e i suoi limiti: secondo logiche non pervasive ma ragionevolmente orien- tate alla salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto verso chi ha abbandonato la dimensione fisica dell’esistenza. 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali Fra i delitti contro la personalità dello Stato troviamo menzionati lo ‘spirito pubblico’ e il ‘sentimento nazionale’. Si tratta di fattispecie cadute ormai nel dimenticatoio e sostanzialmente inapplicate: l’am- bito di operatività dell’art. 265 (disfattismo politico) è circoscritto, per espressa previsione legislativa, al tempo di guerra; gli artt. 271 e 272 (nella parte in cui faceva riferimento al ‘sentimento nazionale’) sono stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità con le senten- ze n. 87/1966 e n. 243/2001 47. Al di là del valore di ‘archeologia giuridica’, fra gli elementi costi- tutivi delle suddette fattispecie troviamo il cosiddetto ‘spirito pubbli- co’ e il ‘sentimento nazionale’: concetti strettamente legati, i quali evocano una disposizione affettiva, ossia l’atteggiamento di fede e di attaccamento del cittadino alla nazione. 46 GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., p. 1554.; cfr. DONINI, “Danno” e “ offesa”nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1587, il quale sot- tolinea la possibilità che dall’assenza di tali presidi scaturiscano esiti negativi per la stessa pace sociale; ERONIA, La turbatio sacrorum tra legge e cultura: il caso del- la riesumazione della salma di S. Pio, in Cass. pen., 2/2009, p. 747. Nella relazione al progetto di riforma del codice penale elaborato dalla commissione Pagliaro era stato osservato che: «il bene personalistico della dignità della persona defunta appare costituire l’oggetto primario e costante della tutela contro gli atti irriguar- dosi delle spoglie umane e dei sepolcri, mentre il pur rilevante bene collettivo del suddetto sentimento si presenta come bene secondario ed eventuale», v. Relazione alla bozza di articolato per un progetto di riforma del Codice Penale, consultabile in http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/riforma/relazionepagliaro.htm. 47 L’art. 272 c.p. è stato poi integralmente abrogato dalla legge n. 85 del 2006. Sul tema, v. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006, pp. 275 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 75 Il concetto di spirito pubblico appare più generico e va delimitato a contesti in cui, a causa dello stato di guerra, viene richiesta al citta- dino fiducia nelle sorti del Paese. Non si tratta di una disposizione da accertarsi in capo a singoli soggetti, bensì di un atteggiamento di col- lettiva partecipazione al sostegno morale della nazione, il quale, se- condo il legislatore del 1930, poteva essere frustrato dalla diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose così da menomare la resisten- za della nazione di fronte al nemico. Il ‘sentimento nazionale’, secondo le parole della Corte costituzio- nale, è da intendersi come corrispondente «al modo di sentire della maggioranza della Nazione e contribuisce al senso di unità etnica e sociale dello Stato» 48. Anche in questo caso il pensiero giurispruden- ziale rifugge da interpretazioni emotivistiche e incentra la tutela pe- nale su un nucleo di valori asseritamente condivisi. La natura puramente ideologica di tale oggetto di tutela ne ha de- cretato l’incompatibilità con la libertà di manifestazione del pensiero. Va però evidenziato che, mentre nella prima parte della motivazione della sentenza n. 87/1966 la Corte descrive tale interesse in termini col- lettivistici, al momento di decretare l’illegittimità della norma incrimi- natrice la fisionomia dell’oggetto di tutela viene riproposta ponendo l’accento in chiave critica sulla componente soggettivo-emozionale: di- ce infatti la Corte che «è pur tuttavia soltanto un sentimento, che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità». Facendo leva su tale carattere impalpabile 49 viene affermata l’ille- gittimità anche dell’art. 27250 nella parte in cui incrimina la propa- ganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, salvando invece (fino alla formale abrogazione del 2006) l’incriminazione della propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura, per la sop- pressione violenta di una classe sociale e per il sovvertimento violen- to degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, rico- noscendo in tali norme una tutela del metodo democratico da forme di pensiero prodromiche ad azioni violente. Diversamente da altri ambiti in cui il richiamo a un sentire collet- 48 C. cost. n. 87/1966. 49 Lo sottolinea, ex plurimis, CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, i principi di offensività e libera manifestazione del pensiero e la funzione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1009. 50 «Mero reato di opinione, sia pure in senso lato» secondo VASSALLI, Propa- ganda “sovversiva” e sentimento nazionale, in Giur. cost., 1966, II, p. 1100.   76 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivo è stato riconvertito dagli interpreti in una prospettiva di tutela della persona, il sentimento nazionale non è riuscito a beneficiare di alcun maquillage ermeneutico, e, dissipatosi il manto della retorica di regime, è scomparso dai beni penalmente tutelati in quanto non in grado di sostenere il confronto con la libertà di espressione. Una vicenda similare ha caratterizzato la problematica disposi- zione dell’art. 415 c.p. (istigazione all’odio fra le classi sociali), che la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere at- tuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». L’eccezione sollevata con riferimento al contrasto con l’art. 21 Cost. viene accolta dalla Corte motivando che la norma, poiché non indica come oggetto dell’istigazione un fatto criminoso specifico o un’attività diretta con- tro l’ordine pubblico o verso la disobbedienza alle leggi, ma sempli- cemente l’ingenerare un sentimento senza nel contempo richiedere che le modalità con le quali ciò si attui siano tali da costituire perico- lo all’ordine pubblico e alla pubblica tranquillità, «non esclude che essa possa colpire la semplice manifestazione ed incitamento alla persuasione della verità di una dottrina ed ideologia politica o filoso- fica della necessità di un contrasto e di una lotta fra portatori di op- posti interessi economici e sociali» 51. Si tratta di una piana applicazione di principi già evidenziati nella sentenza n. 87/1966 (v. supra), che culmina in questo caso in una pronuncia additiva la quale di fatto espunge dall’ordinamento l’incri- minazione dell’istigazione all’odio fra le classi sociali, riconoscendo la preminenza del diritto di libertà alla manifestazione di «teorie del- la necessità del contrasto e della lotta tra le classi sociali [...] che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza e delle concezioni e convinzioni politiche, sociali e filosofiche dell’individuo appartengo- no al mondo del pensiero e dell’ideologia» 52. 2.1.5. Il sentimento per gli animali Un ambito del tutto peculiare è costituito dalle norme codicistiche a tutela del cosiddetto ‘sentimento per gli animali’. Nel 2004 è stata introdotta nel codice penale la disciplina che sanziona, in forma di delitto, le condotte di uccisione e maltrattamento di animali; stando alle parole del legislatore, l’interesse tutelato sarebbe il sentimento 51 C. cost., n. 108/1974. 52 C. cost., n. 108/1974.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 77 per gli animali, ossia l’umana compassione che scaturisce dal rappor- to con la sofferenza dell’animale. L’evidenza testuale suggerisce una connessione con i problemi og- getto della presente indagine, ma l’inquadramento dell’interesse pro- tetto in ossequio al verbo legislativo appare una lettura superficiale. Le tesi dottrinali nel panorama italiano sono espressione di diversi orientamenti53: il primo tendente a dare rilievo alla definizione del legislatore 54; il secondo proiettato all’affermazione di una soggettività giuridica dell’animale 55; un terzo orientamento ‘di compromesso’ 56, e infine una quarta soluzione che appare protesa al riconoscimento di una tutela diretta dell’essere non umano, senza scivolare in proble- matiche (soprattutto da un punto di vista filosofico) ‘soggettivizza- zioni’ dell’animale, ma rimarcando come la tutela diretta dell’animale non umano sia da contestualizzarsi all’interno di un quadro di inte- ressi e controinteressi umani 57. Non potendo approfondire nel corso della presente indagine l’amplissima questione, ci limitiamo ad alcune osservazioni finalizza- te a definire il senso e la peculiarità dell’impianto normativo della tu- tela del sentimento per gli animali in rapporto agli altri ‘sentimenti- valori’ presenti nel codice penale. In primo luogo la tipicità delle fattispecie di cui agli art. 544 bis e 53 Secondo la ricostruzione di FASANI, L’animale come bene giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2017, pp. 713 ss. 54 Così GATTA, Art. 544 bis c.p., in AA.VV., diretto da Dolcini-Gatta, Codice pe- nale commentato, cit., pp. 2630 ss.; PISTORELLI, Così il legislatore traduce i nuovi sentimenti e fa un passo avanti verso la tutela diretta, in Guida dir., 2004, n. 33, p. 19. Per una sintesi della problematica, v. VALASTRO, La tutela giuridica degli ani- mali, fra nuove sensibilità e vecchie insidie, in Annali online di Ferrara, 1/2007, pp. 119 ss. Va evidenziata la posizione di MANTOVANI F., Diritto penale, IX ed., Pado- va, 2015, p. 188, il quale individua la ratio della tutela penale degli animali in una prospettiva promozionale della stessa dignità umana, in quanto «la riduzione dell’immensa crudeltà verso gli animali [...] attenuando la crudeltà complessiva del mondo, se non rende l’animale più uomo, rende l’uomo meno animale e mi- gliore la Terra». 55 POCAR, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Roma-Bari, 2003, pp. 9 ss.; RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino, 2005, pp. 9 ss. Testo di riferimento per l’introduzione alle teorie animaliste è SINGER, Libe- razione animale, tr. it., Milano, 2015. 56 MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della relazione uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto-La questione animale, Milano, 2012, pp. 697 ss.  57 FASANI, L’animale come bene giuridico, cit., pp. 742 ss.  78 Tra sentimenti ed eguale rispetto ss.58 non lascia spazio a valutazioni in termini emozionali; al senti- mento umano di rispetto per gli animali può essere riconosciuto un ruolo propulsivo nei confronti della scelta politico-criminale, ma per ricondurre l’oggetto della tutela ad una sorta di pietas verso gli esseri non umani, dovrebbe essere necessario richiedere nelle condotte quantomeno un grado di pubblicità tale da riflettersi sul sentire col- lettivo. Ciò che fonda la tipicità degli artt. 544 bis e 544 ter è aver uc- ciso con crudeltà un animale o averlo maltrattato con carichi di lavo- ro insopportabili: azioni che possono senz’altro indurre sentimenti negativi nella gran parte degli esseri umani, ma che rilevano norma- tivamente per il semplice fatto di essere state realizzate, e dunque quale offesa ad animali non umani 59. 58 Per una panoramica v. VALASTRO, La tutela penale degli animali: problemi e prospettive, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodi- ritto – La questione animale, cit., pp. 649 ss. 59 Sul tema, prima della riforma del 2004, vedi i saggi contenuti in AA.VV., a cu- ra di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, Milano, 2001. Sottolinea FIANDACA, Prospettive di maggiore tutela penale degli animali, in AA.VV., a cura di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, cit., pp. 86 ss., che, al di là della possibile disputa circa un’ipotetica soggettività giuridica animale, per legittimare una tutela penalistica possa essere sufficiente «parlare di “interessi animali” degni di riconoscimento e tutela: interessi considerati in una dimensione oggettiva, a pre- scindere dal problema di una loro riferibilità all’animale come soggetto giuridico», ritenendo plausibile che «gli animali [siano] portatori di due interessi fondamentali: l’interesse alla sopravvivenza e l’interesse alla minore sofferenza possibile». Il di- stacco da un’ottica antropocentrica, con implicita emancipazione da una ratio di tutela incentrata sul sentimento umano per gli animali, appare peraltro ravvisabile anche nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, relativa all’art. 727, il quale, prima dell’introduzione del titolo IX bis, incriminava le condotte di maltrat- tamento di animali: v., in particolare, Cass. pen., sez. III, 14/03/1990, in Cass. pen., 1992, p. 951, la quale afferma che «in via di principio [...] l’art. 727, in considerazio- ne del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove si parla non solo di sevizie ma anche di sofferenze e di affaticamento) tutela gli ani- mali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la soglia di normale tollerabilità. La tutela è, dunque, rivolta agli animali in considerazione della loro natura»; in senso conforme, v. Cass. pen., sez. III, 16/10/2003, n. 46291, in Dir. giust., 2003, pp. 46 ss.; Cass. pen., sez. III, 22/01/2002, n. 8547, in Nuovo dir., 2002, pp. 1071 ss., secondo cui «La “ratio” della disposizione di cui all’art. 727 c.p. è quella di voler perseguire condotte caratterizzate da un’apprezzabile componente di lesività dell’integrità fisi- ca e-o psichica dello animale». Più contraddittoria appare invece la giurisprudenza di legittimità dopo la novella del 2004: si veda, ad esempio, Cass. pen., sez. III, 24/10/2007, n. 44822, ove si afferma che «La norma è volta a proibire comporta- menti arrecanti sofferenze e tormenti agli animali, nel rispetto del principio di evi- tare all’animale, anche quando questo debba essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà ed ingiustificate sofferenze», rimarcando tuttavia che «in   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 79 L’identificazione dell’oggetto di tutela in un (non meglio identifi- cato) sentire comune costituisce una lettura pregna di risvolti pro- blematici60, e sono in questo senso condivisibili interpretazioni più ragionevoli che suggeriscono di configurare l’interesse tutelato in termini di relazionalità e ‘interspecificità’: «andare oltre la dicotomia radicale e guardare nel mezzo [...] cioè nel rapporto tra l’uomo e l’animale; lì si rinviene il bene giuridico davvero tutelabile dal diritto penale, nel quadro delle garanzie costituzionali. [...] L’animale non riempie, non esaurisce, l’orizzonte di tutela (penale). L’uomo (che prova qualcosa davanti all’animale e che invoca per quest’ultimo un dignitoso trattamento) non scompare dalla scena» 61. Nel complesso, i problemi connessi alla tutela del sentimento per gli animali non sembrano propriamente accomunabili a quelli ri- scontrati in relazione agli altri ‘sentimenti’ tutelati dalle norme pena- li. Una differenza di fondo è che le disposizioni a tutela della religio- ne o del pudore chiamano in gioco un bilanciamento fra interessi in- terno al confronto fra esseri umani e basato su entità immateriali come i valori normativo-ideali; dall’altra parte, per quanto il ricono- scimento di una soggettività giuridica all’animale sia un problema aperto, in sede di ricostruzione dell’oggetto di tutela appare preferibi- le tenere conto della soggettività animale senza sublimarla né in un impalpabile sentire dell’uomo né in un mero contenuto ideale, ma piuttosto come problema che sollecita un approfondito studio delle condizioni di compatibilità fra esigenze umane e rispetto della vita di esseri non umani. Per tali ragioni, il tema del sentimento degli animali pone que- stioni non inquadrabili nella tutela dei cosiddetti ‘sentimenti-valori’, né appare accostabile al tema del disagio emotivo, rivelandosi piutto- sto la proiezione di un problema antico e ancora attuale, concernente gli equilibri di vita e sopravvivenza fra uomo ed ecosistema 62. tali disposizioni l’oggetto di tutela è il sentimento di pietà e di compassione che l’uo- mo prova verso gli animali e che viene offeso quando un animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze. Scopo dell’incriminazione è quindi di impedire manifesta- zioni di violenza che possono divenire scuola di insensibilità delle altrui sofferenze». 60 Ben evidenziati da MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento”, cit., pp. 697 ss. 61 MAZZUCATO, Bene giuridico e questione “sentimento”, cit., p. 703. 62 Un’interessante lettura sulla complessità del rapporto fra uomo e animali non umani è il libro di HERZOG, Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali, tr. it., Torino, 2014. Per un inquadramento dell’impianto di tutela penale degli animali nel più ampio contesto dei reati contro l’ambiente e   80 Tra sentimenti ed eguale rispetto 2.1.6. Il comune sentimento della morale Passando all’ambito extracodicistico, le disposizioni normative in cui è più evidente ed univoco il richiamo al sentimento quale oggetto di tutela sono gli artt. 14 e 15 della legge n. 47 del 1948: l’art. 14 stabi- lisce la rilevanza penale, ai sensi dell’art. 528 c.p., di pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità e l’impressionabilità ad essi proprie, siano idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, al suicidio; l’art. 15 si rivolge parallelamente alla tutela di soggetti adulti, vietando la pubblicazione di stampati i quali descri- vano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il ‘comune sentimento della morale’ 63. Punto centrale delle fattispecie, che ne determina (fortunatamente) anche le difficoltà applicative, è l’esigenza di accertare l’idoneità delle condotte alla causazione di eventi determinati («favorire il disfrenarsi di istinti di violenza, diffondersi di suicidi o delitti»). Al fianco di tali eventi si pone l’offesa o il turbamento al sentimento morale, formula tanto eloquente quanto indeterminata: «fondata sopra un presupposto empirico e nebuloso di morale corrente, essa reca con sé tutti i pericoli che le norme ispirate a concetti vaghi, a intuizioni, a sentimenti porta- no sempre nella loro applicazione concreta» 64. L’accostamento esplicito fra il sentire e la morale trova probabil- mente la sua ragione nell’intento di introdurre una disposizione il più possibile assonante con l’art. 529 c.p. (comune sentimento del pudo- re), rielaborando in termini più estensivi i divieti stabiliti in tema di buon costume sessuale65; una connessione che si motiva anche con l’obiettivo di trovare un aggancio costituzionale esplicito a un inte- resse che deve essere bilanciato con la libertà di espressione 66. l’ecosistema v. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino, 2016, pp. 293 ss. Per una prospettiva socio-criminologica sul rapporto uomo-ambiente v. NATA- LI, Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Milano, 2015 (in particolare v. pp. 252 ss.). 63 Sul tema, per tutti, NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova, 1971, pp. 232 ss.; ID., I limiti della libertà di stampa nell’art. 15 della legge 8 febbraio 1948 n. 47, in Arch. pen., 1952, II, pp. 555 ss. 64 NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 234. 65 Parla di ‘triplice oggetto del reato’ (sentimento della morale, ordine familia- re, ordine pubblico) NUVOLONE, I limiti della libertà di stampa, cit., p. 551. 66 La connessione fra sentire, morale e buon costume emerge anche in C. cost., n. 9/1965, la quale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sol-   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 81 Le sporadiche applicazioni confermano la centralità a livello teo- rico del nesso fra turbamento emotivo e offesa alla morale: appare significativa ad esempio una pronuncia della Corte di Appello di Ro- ma nella quale si nega la sussistenza della fattispecie in relazione alle immagini di una donna col cordone ombelicale attaccato, sulla base della motivazione che simili immagini non potrebbero provocare tur- bamento o orrore, e pertanto non offendono la morale 67. Il più eloquente contributo alla definizione dell’interesse protetto dall’art. 15 è la sentenza n. 293/2000, con la quale la Corte costituzio- nale ha ritenuto inammissibile l’eccezione di incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 21 Cost.: «L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema ra- diotelevisivo pubblico e privato dall’art. 30, comma 2, della legge 6 ago- sto 1990, n. 223, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a “turbare il comune senti- mento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle di- verse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto mi- nimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. [...] La descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appa- re escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza» 68. Come è stato osservato in dottrina, tale sentenza ha compiuto un’operazione di rivisitazione/trapianto, finendo per concepire come vasi comunicanti il ‘comune sentimento del pudore’ e il ‘comune sen- timento della morale’ attraverso il passepartout della dignità uma- levate in relazione all’art. 553 c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione), osservando in motivazione che «[n]on diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pu- dore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità perso- nale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può com- portare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti». 67 App. Roma, 13 maggio 1958, in Arch. pen., 1959, III, p. 166. 68 C. cost., n. 293/2000. Tali conclusioni sono state confermate in una succes- siva ordinanza che ha dichiarato la manifesta infondatezza della medesima ecce- zione di costituzionalità, v. C. cost., n. 92/2002.   82 Tra sentimenti ed eguale rispetto na69. La chiosa della Corte, quando esclude censure di genericità e indeterminatezza, è alquanto frettolosa, per non dire superficiale, e fonda il discorso su un valore sì fondamentale, ma tutt’altro che defi- nito nei risvolti applicativi 70. Merita attenzione la triade concettuale ‘sentimento-morale-di- gnità’: l’evocazione del sentimento è disgiunta da profili di reattività psichica, e dunque dall’aggancio a una dimensione individuale, po- nendosi come sinonimo di minimum etico. Il delitto di cui all’art. 15 della legge sulla stampa, pur essendo so- stanzialmente inapplicato, riveste a nostro avviso importanza centrale, dal punto di vista teorico, nel ‘microsistema’ delle disposizioni a tutela di ‘sentimenti’; ne rivela i tratti più problematici, poiché attribuisce a stati affettivi come disgusto e orrore il ruolo di parametro etico per la valutazione di cosa possa considerarsi moralmente adeguato, ricono- scendo dunque a tali emozioni un ruolo cognitivo-valutativo che oggi sappiamo essere tutt’altro che attendibile (vedi infra, cap. IV). 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emo- zioni? Un passaggio concettualmente importante consiste nel decodifica- re il richiamo giuridico a emozioni e sentimenti in rapporto all’al- ternativa fra concezioni meccanicistiche e concezioni valutative (v. supra, cap. II). A nostro avviso la chiave di lettura più funzionale all’analisi delle norme che l’ordinamento italiano pone a tutela di ‘sentimenti’ è la concezione valutativa: gli interessi denominati dal legislatore ‘senti- menti’ acquistano rilevanza normativa in virtù di una peculiare tra- iettoria dell’intenzionalità dello stato affettivo 71. Si tratta di un modo di concepire il sentimento del tutto simile al significato che Joel Feinberg propone quando analizza il cosiddetto ‘appello ai sentimen- 69 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 14. 70 Cfr. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propa- ganda razzista, Torino, 2013, pp. 14 s. 71 Intendiamo il concetto di intenzionalità secondo l’accezione proposta da John Searle, ossia «quella proprietà di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono relativi a oggetti e stati di cose del mon- do», SEARLE, Sull’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Mi- lano, 1985, p. 11. In termini generali, sul concetto di intenzionalità v. GALLAGHER- ZAHAVI, La mente fenomenologica, cit., pp. 166 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 83 ti’ nelle questioni etiche: il filosofo americano ritiene infatti che ciò a cui si fa riferimento non sia un mero stato emotivo, ma la peculiare risposta soggettiva che gli individui possono provare nel rapporto con determinati oggetti 72. È bene distinguere tra l’oggetto del sentire e la sindrome affettiva, quali elementi costitutivi delle entità psico-sociali che il diritto pren- de in considerazione. L’uso giuridico, in accordo col senso comune, adopera la categoria del sentimento in un modo che tende a fondere il profilo soggettivo dell’affettività con la sua proiezione esterna e dunque con l’oggetto del sentire 73. La distinzione fra sindrome affet- tiva e oggetto del sentire permette di tematizzare in modo separato i profili pertinenti da un lato alla selezione degli ‘oggetti emotigeni’, e dall’altra alla tipologia di stati affettivi che potrebbero eventualmente venire in gioco. L’oggetto del sentire è ciò che definisce il substrato materiale o ideologico dell’offesa: ad esempio si parla di sentimento religioso per dare rilevanza non a un astratto sentire ma quel genere di esperienza emotiva che ha a che fare con la fede religiosa. Stesso discorso per altri interessi definiti ‘sentimenti’: il sentimento del pudore come di- sposizione a provare un certo tipo di reazioni soggettive in rapporto a manifestazioni della sessualità; oppure il sentimento nazionale quale 72 FEINBERG, Sentiment and sentimentality, cit., pp. 21 ss.: «Unlike some emo- tions, sentiments are not mere objectless perturbations with subtle but neutral affective colorings. They too have an essential polarity to them (pleasant-unpleasant, friendly-unfriendly, postive-negative), though unlike attitudes, the positive or negative character of sentiments is not simply a “pro” or “con,” “for” or “against” posture [...] Some of the terms we apply to the objects of positive or negative sen- timents are themselves definable not in terms of the inherent properties of those objects but rather in terms of the sentiments they are thought naturally or properly to awaken». 73 È significativo quanto osservato in ambito psicologico: «[i]n genere, le per- sone dichiarano sentimenti patriottici più o meno intensi in momenti diversi del- la loro vita; come sono tali sentimenti? L’ovvia risposta a tale domanda è che que- sti sentimenti non hanno alcun senso di esistere, per lo meno non al di fuori della tendenza del singolo a provare altri tipi di sentimenti (orgoglio, dolore, vergo- gna), nei quali la sua vita affettiva appare in linea con sorti della nazione. In tal senso, da un patriota ci si aspetta che provi gioia e orgoglio quando la sua nazio- ne vince, dolore o compassione quando essa è in crisi, rabbia se è ingiustamente diffamata, e disperazione nella sconfitta umiliante. Pertanto, osservando atten- tamente la vita interiore e le abitudini di un patriota, non vi si troverà mai una traccia di quel sentimento particolare chiamato “patriottismo” al di fuori di quan- to scritto sopra», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro mo- di di pensare all’odio, in AA.VV., a cura di Sternberg, Psicologia dell’odio. Cono- scerlo per superarlo, tr. it., 2007, Gardolo, p. 11.   84 Tra sentimenti ed eguale rispetto forma di partecipazione affettiva, ‘patriottica’, alle vicende della pro- pria nazione. Veniamo ad analizzare il versante della sindrome affettiva: qual è il fenomeno che appare più aderente alle situazioni descritte nel con- testo codicistico? Una importante differenza fra emozione e sentimen- to è identificabile nella consistenza e nella durata: l’emozione, secon- do quanto abbiamo precedentemente osservato in accordo con le ela- borazioni delle diverse branche dei saperi lato sensu psicologici, rap- presenta una componente dinamica del sentire, ossia uno stato men- tale di breve durata, caratterizzato da una predominante componente reattiva; il sentimento è uno stato più durevole e radicato (vedi supra, cap. II). Parlare di una tutela di emozioni in senso stretto è improprio74; ma appare non del tutto corretta con anche un’eventuale associazio- ne degli oggetti tutelati dal codice a stati psichici più duraturi. L’accezione che in relazione ai ‘sentimenti-valori’ consente di in- staurare una connessione ‘non irrealistica’ con la dimensione feno- menica è rappresentata a nostro avviso dal concetto di ‘disposizione individuale del sentire’: non un accostamento a emozioni in senso stretto e neanche a stati duraturi in quanto tali, ma piuttosto ad at- teggiamenti che delineano l’orientamento affettivo e assiologico della persona in conseguenza della maggiore o minore partecipazione emotiva nel rapporto con determinati oggetti e situazioni. Entità co- me il sentimento religioso, il sentimento del pudore et similia, ap- paiono funzionali a richiamare disposizioni soggettive a provare emo- zioni 75. 2.3. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodetermi- nazione Parlando di sentimenti come ‘disposizioni del sentire’ si potrebbe intendere il problema di tutela anche come protezione delle condi- zioni di formazione del sentire, e dunque come assenza di forme di coartazione psichica. In questo modo si finirebbe però per identifica- re nella libertà morale l’interesse di fondo, accomunando in modo improprio ambiti di intervento che restano ben distinti nel codice 74 Cfr. FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 228. 75 Si veda anche l’impostazione di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, cit., pp. 21 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 85 penale e che la dottrina ha contribuito anche di recente a definire nelle rispettive sfere di autonomia 76. Ci sembra più adeguato tenere in evidenza la distinzione concet- tuale e collocare la problematica dei ‘sentimenti-valori’ e delle dispo- sizioni del sentire a uno stadio nel quale la libertà morale, intesa co- me «libertà di conservare la propria personalità psichica, [...] di ra- gionare con la propria testa, [...] di formarsi una propria fede religio- sa politica e di conservarla come di mutarla [...]»77, sia da conside- rarsi elemento acquisito, e dunque come precondizione delle situa- zioni in cui possono eventualmente crearsi conflitti relativi al piano dei ‘sentimenti-valori’. Il tema della tutela da forme di turbamento emotivo e di coarta- zione psichica viene in gioco in relazione a un’altra fattispecie del codice italiano, anch’essa formulata attraverso il richiamo a stati af- fettivi, ossia il delitto di ‘atti persecutori’. La condotta tipica consiste nel porre in essere azioni di minaccia o molestia tali da ingenerare un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, ossia stati psichici caratterizzati da un tono edonico negativo e dunque in grado di alterare l’equilibrio emotivo dell’individuo e la sua tranquillità 78. Si può parlare di tutela di sentimenti in un senso che contribuisce a rimarcare che l’interesse protetto ha a che fare in primo luogo con la dimensione affettiva del singolo; in questo senso si è ben sottoli- neato che il delitto di atti persecutori rappresenta l’avvio di un trend politico criminale «attento a consolidare la finora striminzita tutela codicistica dei sentimenti di stampo individuale, in luogo della classi- ca e per certi aspetti controversa tutela dei sentimenti di tipo colletti- vo [...] virando verso una maggiore concretizzazione personologica del bene giuridico» 79. La rilevanza giuridica dello stato affettivo non è però qualificata dall’oggetto del sentire, ma piuttosto dall’impatto 76 NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., pp. 66, 70, 83 ss., 151 ss.; VITARELLI, Manipolazione psicologica e diritto penale, Roma, 2013, pp. 121 s. Quest’ul- tima si sofferma in particolare sulle interferenze fra tutela della libertà psichica e della libertà di manifestazione del pensiero osservando che il semplice utilizzo della parola, in assenza di violenza e inganno, resta comunque resistibile e dun- que non può considerarsi come forma di compressione della libertà morale. 77 È la cristallina definizione di VASSALLI, Il diritto alla libertà morale, in AA.VV., Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, vol. II, Roma, 1960, p. 1675. 78 Ex plurimis, MAUGERI, Lo stalking, cit., pp. 104 ss.; COCO, La tutela della liber- tà individuale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli, 2012, pp. 119 ss.  79 CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1388 (nota 38).  86 Tra sentimenti ed eguale rispetto sull’equilibrio psico-fisico del soggetto. Non sono in gioco ‘sentimen- ti-valori’: nella fattispecie di atti persecutori il bene-sentimento as- sume una connotazione più psicologica che simbolico-valoriale. Il richiamo a stati affettivi nel delitto di stalking ha una funzione rilevante sul piano della tipicità: gli eventi emotivi descritti nella fat- tispecie devono essere oggetto di prova. L’alternativa di fondo è fra una concezione patologica, secondo la quale è necessario un accer- tamento medico-legale della sussistenza (quantomeno nel caso dello stato d’ansia) di disturbi diagnosticabili secondo un paradigma me- dico-psicologico80, e un orientamento differente secondo il quale è sufficiente un disagio accertabile in autonomia dal giudice 81. Appare comunque riduttivo appiattire il disvalore dello stalking sullo stimolo di sensazioni negative identificate attraverso standard cognitivi basati sul senso comune 82. La tipicità penale è imperniata su un’interazione di tipo psicologico e sulle conseguenti reazioni in- dotte nella vittima, e gli eventi psichici assumono rilevanza in un’ot- tica strumentale all’evento finale, sostanziandosi «in percorsi motiva- zionali diretti all’assunzione di una decisione da parte del soggetto passivo» 83. Nel delitto di atti persecutori il fatto emozionale assume rilievo quale causa potenzialmente condizionante il comportamento e la vita di un soggetto. Non dovrebbe essere sufficiente un mero stato edoni- co negativo, ma si dovrebbe, a nostro avviso, verificare la sussistenza di stimoli emotivi tali da produrre alterazioni della funzionalità di scopo nella complessiva economia di azione dell’individuo: forme di turbamento psicologico che la dottrina penalistica ha collocato nella 80 BRICCHETTI-PISTORELLI, Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida dir., 10/2009, pp. 58 s.; cfr. BARBAZZA-GAZZETTA, Il nuovo reato di atti persecutori, in Al- talex, p. 3. 81 VALSECCHI, Il delitto di atti persecutori (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2009, p. 1389. A favore di una concezione intermedia si pongono FIANDA- CA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. II, tomo I, IV ed., Bologna, 2013, p. 231; CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1406. In giurisprudenza è discusso se debba trattarsi di uno stato tale da integrare gli estremi di una malattia mentale; per ora sembra prevalere l’orientamento che non richiede l’accertamento di uno stato patologico, ritenendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori «abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima», così Cass. pen., sez. V, 10/01/2011, n. 16864; cfr. Cass. pen., sez. V, 01/12/2010, n. 8832; Cass. pen., sez. V, 11/11/2015, n. 45184. 82 In questo senso la condivisibile posizione di NISCO, La tutela penale dell’inte- grità psichica, cit., pp. 238 ss.  83 Così li definisce efficacemente CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1400.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 87 categoria della ‘sofferenza psichica’, corrispondenti a «un’alterazione della mente nella sua consistenza, né più né meno di quanto possa accadere ad una macchina danneggiabile; ed un’alterazione del fun- zionamento di questa ‘macchina’ come entità diretta ad uno scopo, secondo una prospettiva nella quale la sofferenza emerge come misu- ra eccessiva di frustrazione di tale scopo, a prescindere dal danneg- giamento della macchina» 84. 3. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico Attraverso un excursus sulle norme di diritto positivo abbiamo cercato di dare una dimensione al versante descrittivo della formula ‘tutela penale di sentimenti’. Passiamo ora a considerare il profilo che abbiamo definito ‘connotativo’ e che attiene alla dimensione teoreti- co-speculativa. Nel discorso penalistico è oggi frequente l’uso della parola ‘senti- mento’ per definire in termini critici oggetti di tutela la cui fisiono- mia appare difficilmente determinabile, esposti al rischio di interpre- tazioni soggettivistiche e suscettibili di incentivare problematiche espansioni dell’intervento penale; il lessico dei sentimenti non emer- ge in questo caso da norme, ma dai discorsi dei giuristi. L’interrogativo concernente la tutelabilità di sentimenti per mezzo del diritto penale ha tradizionalmente suscitato la diffidenza della dot- trina penalistica, non solo nel panorama italiano ma anche nel conte- sto europeo-continentale85: più in generale, il pensiero penale che 84 NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, cit., p. 68. 85 «Ampio consenso sussiste [...] circa il fatto che l’utilizzo di norme penali è il- legittimo quando si tratti di tutelare sentimenti o rappresentazioni morali o di valore», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico?, cit., pp. 127 s. Nella dottrina tedesca, il richiamo a sentimenti è presente nello storico saggio di BIRNBAUM, Über das Erfoderniß einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts, Neue Folge, 1834, pp. 189 s. Vi è poi l’analisi di MISCH, Der Strafrechtliche Schutz der Gefühle, Frankfurt am Main-Tokyo, 1911 (ristampa del 1977), pp. 41 ss. Le opere successive mantengono il focus sul problema della configurabilità come bene giu- ridico (Rechtsgut) soffermandosi su un’analisi che privilegia l’aspetto dogmatico piuttosto che la dimensione di politica del diritto; cfr. VOLK, Gefühlte Rech- tsgüter?, in FS für Roxin zum 80. Geburstag, Band 1, Berlin-New York, 2011, pp. 215 ss.; SEELMAN, Verhaltensdelikte: Kulturschutz durch Recht?, in FS für H. Jung,   88 Tra sentimenti ed eguale rispetto identifichi la propria guida assiologica nei principi liberali ha da sem- pre un rapporto problematico con le norme a tutela di sentimenti 86. Le motivazioni non si limitano a questioni di tassatività e deter- minatezza delle fattispecie, ma hanno a che fare con ragioni di politi- ca del diritto: dietro gli oggetti di tutela definiti ‘sentimenti’ i legisla- tori hanno di fatto apprestato forme di presidio a valori, ossia a con- cezioni della vita buona, o della morale sessuale, o in generale a con- cezioni normativo-ideali. Le norme a tutela di sentimenti hanno dunque un altissimo coefficiente di pregnanza etica e riflettono at- teggiamenti valoriali di fondo la cui tutela per mezzo del diritto pena- le può rappresentare un fattore di alterazione degli equilibri fra mag- gioranze e minoranze in un contesto pluralista 87. Non deve dunque sorprendere il fatto che il problema della tu- tela di sentimenti rappresenti un capitolo importante nel discorso sulla legittimazione delle norme penali, per quanto spesso non venga richiamato attraverso la formula che qui stiamo analizzan- do, ma si trovi inserito all’interno di altri macrotemi; ad esempio nel discorso concernente i rapporti fra diritto penale e morale 88 o Baden-Baden, 2007, pp. 893 ss.; più diffusamente HÖRNLE, Grob anstößiges Verhalten. Strafrechtlicher Schutz von Moral, Gefühlen und Tabus, Frankfurt, 2005. Nella dottrina spagnola v. ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 64 ss.; GIMBERNAT ORDEIG, Presentaciòn, in AA.VV., a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo- Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Fundamento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, Madrid-Barcelona, 2007, pp. 11 ss. 86 Cfr. HÖRNLE, La protecciòn de sentimientos en el StGb, in AA.VV., a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo-Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Funda- mento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, cit., p. 383. 87 Cfr. TESAURO, La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 972. 88 Il richiamo a sentimenti ed emozioni intrattiene un legame particolarmente stretto con i problemi relativi al rapporto tra diritto penale e morale; nella pro- spettiva liberale l’incriminazione di condotte ritenute contrarie a dettami morali o a tabù in assenza di veri e propri danni viene motivata, in termini critici, quale violazione di un sentire. Se da un lato le incriminazioni, o le ipotesi di incrimina- zione, di violazioni morali vengono definite criticamente come offese a sentimen- ti, non bisogna tuttavia inferire frettolosamente la veridicità dell’eventuale per- corso logico inverso, ossia che anche tutte le ipotesi di tutela di un particolare sentimento costituiscano delle proiezioni del più ampio problema della punizione della mera immoralità: sarebbe infatti una conclusione che pecca di genericità e non consentirebbe di riservare la dovuta attenzione ai diversi problemi di tutela, anche non meramente ‘moralistici’, che potrebbero ragionevolmente emergere dietro l’evocazione di un sentimento. Sul tema della punizione dell’immoralità, in una prospettiva che mette in dialogo i criteri di legittimazione di matrice euro- peo-continentale e anglo-americana, v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 89 in relazione al problema del paternalismo penale 89. Nella dottrina italiana le perplessità di fronte a istanze di tutela caratterizzate da una componente emozionale sono inizialmente formulate in contesti di analisi incentrati su temi di diritto positivo o di teoria generale del reato, e mantengono un angolo visuale definibi- le come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’. Risulta particolarmente significativo il richiamo che viene fatto al sentimento in un autorevole studio sul bene giuridico 90: nell’esporre Un vecchio interrogativo che tende a riproporsi, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Lai- cità, valori, e diritto penale. The Moral Limits of The Criminal Law. In ricordo di Joel Feinberg, Milano, 2010, pp. 207 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 938 ss. 89 CADOPPI, Paternalismo e diritto penale: cenni introduttivi, in Criminalia, 2011, pp. 223 ss.; ID., Liberalismo, paternalismo e diritto penale, in AA.VV., a cura di Fian- daca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 83 ss.; CANESTRARI- FAENZA, Paternalismo penale e libertà individuale: incerti equilibri e nuove prospettive nella tutela della persona, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit., pp. 167 ss.; CORNACCHIA, Placing care. Spunti in tema di paternalismo penale, in Criminalia, 2011, pp. 239 ss.; PULITANÒ, Paternalismo penale, in AA.VV., a cura Forti- Bertolino-Eusebi, Studi in onore di Mario Romano, I, cit., pp. 489 ss.; ROMANO, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2008, pp. 984 ss.; SPENA, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibat- tito sui principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2014, pp. 1209 ss. Con riferimento al tema del potenziamento cognitivo, v. ZANNOTTI, Potenziamento umano: le considerazioni di un penalista, in AA.VV., a cura di Palazzani, Verso la sa- lute perfetta. Enhancement tra bioetica e biodiritto, Roma, 2014, pp. 134 ss. 90 ANGIONI F., Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pp. 130 ss. Sul tema è d’obbligo il riferimento a BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, pp. 7 ss.; v. anche MAZZACUVA, Diritto penale e Costituzione, in AA.VV., a cura di Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti, Intro- duzione al sistema penale, III ed., Torino, 2006, pp. 83 ss. Fra le opere che hanno avuto maggiore rilievo per l’elaborazione di un concetto di bene giuridico costitu- zionalmente orientato v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit.: anche in questo caso il problema nasce dalla problematica fisionomia dell’oggetto di tute- la, il quale secondo alcune correnti interpretative viene fatto coincidere con un sentimento soggettivo. Per una panoramica sui differenti sviluppi della teoria del bene giuridico nei rapporti con la Costituzione, v. FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, in AA.VV., a cura di Mari- nucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, Milano, 1985, pp. 139 ss. (in parti- colare, pp. 161 ss.); DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova, 1996, pp. 117 ss.; ID., Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costitu- zionale, in ID., Alla ricerca di un disegno. Scritti sulle riforme penali in Italia, Pado- va, 2003, pp. 37 ss.; per un raffronto con la giurisprudenza costituzionale, v. PULI- TANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, in AA.VV., a cura di Stile, Bene giu- ridico e riforma della parte speciale, Napoli, 1985, pp. 135 ss.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, pp. 59 ss.   90 Tra sentimenti ed eguale rispetto la problematica relativa a fattispecie penali che sembrerebbero rivol- gersi esclusivamente alla tutela di principi etici, si osserva che «con la realizzazione di un fatto che contrasta con quelle norme etiche si ur- ta in pari tempo, o si può urtare, contro i sentimenti di quella parte della popolazione che in quei principi morali crede, o che addirittura attribuisce loro tale rilievo da averne, come forza politica o culturale organizzata, difesa la conservazione al rango di valori penali» 91. Of- fendere valori può significare offendere i sentimenti di chi crede in quei valori: questa, in sintesi, la motivazione che, secondo Angioni, sarebbe a fondamento di norme quali, ad esempio, quelle a tutela del pudore e del sentimento religioso. Il riferimento a sentimenti appare in questo caso finalizzato a in- centrare il fuoco del disvalore su un bene della persona, così da poter rinvenire una base di legittimità ancorata a una prospettiva persona- listica di danno, o comunque non meramente moralistica. Non si tratta però di una soluzione appagante, in quanto, rileva successiva- mente lo stesso Autore, resta aperto il problema della necessità e del- la meritevolezza di pena: la considerazione che l’offesa a un senti- mento sia un criterio di per sé sufficiente a fondare il ricorso allo strumento penale sembra «cozzare contro un naturale senso di pro- porzione e di misura» 92. L’argomentazione che Angioni espone tramite categorie endope- nalistiche (principio di proporzione) rimanda in ultima istanza a ra- gioni che hanno a che fare con valori di fondo della democrazia libe- rale e con i principi costituzionali: ritenere che l’offesa a meri senti- menti non sia sufficiente a fondare una criminalizzazione legittima è l’esito di un ragionamento che assume a presupposto un pacchetto di principi di ispirazione liberale, laicità ed uguaglianza in primis 93. Ciò mostra come il discorso sia tutt’altro che limitabile a un piano tecnico-giuridico, ma investa in pieno la dimensione politica del pro- blema penale, anche in forza dei profondi nessi che legano, in termini di interdipendenza, la presenza di oggetti di tutela ad alta pregnanza etica, come i ‘sentimenti’, in rapporto alla laicità dell’ordinamento. 91 ANGIONI F., Contenuto e funzioni, cit., pp. 130 ss. 92 ANGIONI F., Contenuto e funzioni, cit., p. 132. 93 È stato messo in evidenza come, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, la riflessione sul dover essere del diritto penale si sia fondata non tanto sull’affinamento di principi ‘endopenalistici’, compreso il c.d. ‘bene giuridico’, ma piuttosto sul principio di uguaglianza, il quale ha assunto un ruolo decisivo nel contribuire a delineare i cardini del costituzionalismo penale: v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale, cit., pp. 97 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 91 Sulla base di questa consapevolezza la dottrina penalistica si è impegnata in un’opera di reinterpretazione delle diverse disposizioni del codice Rocco, offrendo un importante contributo al consolida- mento di un ideale di democrazia penale laica e costituzionalmente orientata 94. Esempi emblematici sono gli studi sui delitti di religione e sui rea- ti a tutela del pudore, ad opera rispettivamente di Placido Siracusano e di Giovanni Fiandaca. Con riferimento ai delitti di religione, Siracusano sottopone a cri- tica il modello del cosiddetto ‘bene di civiltà’ e del sentimento religio- so collettivo: «al bene giuridico sentimento religioso individuale si addice, di regola, una protezione penale dalle caratteristiche fonda- mentalmente “liberali”; o perlomeno dai tratti più aperti e tolleranti possibile» 95, tale dunque da attribuirgli un respiro costituzionale che invece non è riconducibile al paradigma del cosiddetto ‘bene di civil- tà’. L’approdo finale è di segno abrogazionista, ossia a sostegno di un ordinamento penale che non contempli fattispecie poste specifica- mente a presidio del sentimento religioso. Siracusano lascia comun- que intravedere la possibilità che attraverso un riorientamento in senso personalistico si possa realizzare una intervento penale compa- tibile con i principi costituzionali, e precisamente come apertura ver- so qualsiasi ideale di trascendenza, in quanto manifestazione della coscienza ed espressione della personalità dell’individuo 96. Anche i reati contro la cosiddetta ‘moralità pubblica’ e il comune sentimento del pudore sono stati oggetto negli anni ’80 di un’analisi che, orientata a spezzare i legami con l’impostazione del codice, so- stiene una riconversione in termini personalistici dell’interesse pro- tetto: dalla moralità pubblica alla riservatezza sessuale di quanti non intendano fruire di un certo tipo di manifestazioni. Si deve a uno studio di Giovanni Fiandaca la critica decisiva al moralismo conservatore che impregnava l’universo applicativo delle fattispecie a tutela del cosiddetto ‘comune sentimento del pudore’, a sostegno di un cambio di direzione per il rispetto di diritti di libertà 94 Come autorevolmente osservato, «la laicità del diritto penale esprime in qualche modo addirittura la sintesi e in un certo senso il coronamento del costi- tuzionalismo penale [...] essa evoca lo “spirito” più profondo del costituzionali- smo penale», V. PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, cit., p. 438. 95 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., p. 277. 96 SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., p. 272.   92 Tra sentimenti ed eguale rispetto che trovano riconoscimento nella Carta costituzionale, e che risulta- vano compressi dai modelli di intervento del codice Rocco e da orien- tamenti illiberali della giurisprudenza. Presupposto di fondo è che in una società liberale e pluralista lo Stato non debba ergersi a tutore della virtù 97. Il legame col sentimen- to – schermo retorico che ammanta di una patina personalistica l’impianto di tutela – viene radicalmente confutato: «non sarebbe suf- ficiente asserire che il danno provocato dai comportamenti contrari al buon costume consiste nell’“offesa ai sentimenti” [...] nel passag- gio dal bene moralità al bene sentimento, il mutamento della dimen- sione qualitativa dell’oggetto della tutela è appena percepibile: quest’ul- timo finisce infatti col trasferirsi nel riflesso psicologico di una regola etica di condotta» 98. Sotto un profilo metodologico l’angolo visuale adottato nei sud- detti studi appare ancora definibile come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’: in altri termini, la tematizzazione del pro- blema resta incentrata su profili che attengono precipuamente le scelte di intervento del codice. In questo senso, l’approccio muove dalla so- luzione normativa, e tende a seguire un percorso d’analisi che man- tiene come referente primario gli schemi d’intervento descritti nelle fattispecie di reato. Fulcro dell’interesse è la risposta normativa; più circoscritto è lo spazio per l’analisi della dimensione extragiuridica del fenomeno. In tempi più recenti, a partire dagli anni Duemila, il tema dei sen- timenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina, caratterizzato da mutamenti nell’apparato concettuale e da una maggior propensione a estendere lo studio a profili extragiuridi- ci. Si tratta di un ammodernamento che porta a superare lo statico quesito sulla configurabilità o meno del sentimento come oggetto di tutela, andando a tematizzare in termini più complessi la questione dell’incidenza dei fattori emotivi sulle scelte di politica penale, ossia del rilievo della componente affettiva come elemento che concorre a integrare l’oggetto di tutela anche senza identificarsi espressamente con esso 99. In questo senso l’orizzonte di problemi additato dalla formula ‘tu- tela di sentimenti’ viene esteso al di là degli ambiti tradizionali, favo- rendo una riflessione critica sulla consistenza di interessi di tutela 97 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 99. 98 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 104. 99 Si veda, ad esempio, ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 39 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 93 che apparentemente non evidenziano una matrice affettiva, ma che ad uno sguardo attento rivelano una forte pregnanza emozionale. È emblematico un saggio di Giovanni Fiandaca dedicato ai rap- porti tra bioetica e diritto penale, nel quale, definendo criticamente delle innovazioni legislative come riflesso di un clima sociale e politi- co italiano tendente a una rieticizzazione del diritto 100, l’Autore rileva che ai sentimenti e ai fenomeni a essi correlati spetti un ruolo tut- t’altro che secondario nell’economia del dibattito pubblico e soprat- tutto nelle scelte di politica del diritto volte a disciplinare i cosiddetti ambiti ‘eticamente sensibili’. Il terreno della bioetica si trova infatti a essere soggetto a contrapposizioni fondate su «timori e reazioni emo- tive che hanno a che fare con la sfera più irrazionale ed oscura di cia- scuno»101, ossia reazioni di orrore, spavento, raccapriccio, disgusto, definite dall’Autore «sentimenti e sensazioni»; reazioni emotive che possono indurre un uso distorto della politica penale tramite divieti assimilabili a mero palliativo psicologico per i cittadini. La parificazione di istanze di tutela penale a meri sentimenti è una strategia di critica argomentativa che diverrà sempre più fre- quente. Prendiamo ad esempio il discorso sulla dignità umana 102. Si tratta di un valore caratterizzato da una spiccata componente emozionale che la rende strumento retorico particolarmente efficace, ma che la 100 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e “post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2007, pp. 546; 549. 101 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 554. 102 Ad oggi nel panorama penalistico lo studio più approfondito è quello di TE- SAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 89 ss. Il tema della dignità umana come bene penalmente tutelabile è oggetto di riflessioni critiche in FIAN- DACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., p. 33; ID., Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., pp. 553 ss.; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione, in Jus 17@unibo.it, 1/2009, p. 195; pp. 202 ss.; più favorevole a un recupero (tramite un uso accorto e non inflazionistico) del concetto di dignità umana, PULITANÒ, Etica e politica del diritto penale ad 80 anni dal Codice Rocco, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2010, pp. 510 s. Nella dottrina tedesca si veda l’importante saggio di HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, in Ars interpretandi, 2007, pp. 125 ss.; profili critici del concetto di dignità in ambito pe- nalistico sono evidenziati anche in ZIPF, Politica criminale, tr. it., Milano, 1979, p. 89. Nel panorama statunitense, per una sintesi del dibattito v. MCCRUDDEN, Hu- man Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, in 19 The European Journal of International Law, pp. 655 ss.; per una panoramica di taglio più divul- gativo v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, tr. it., Torino, 2012, pp. 65 ss.   94 Tra sentimenti ed eguale rispetto espone contemporaneamente al rischio di tramutarsi in un «bene- ricettacolo dei sentimenti di panico morale o delle reazioni emotive sgradite da cui veniamo sopraffatti di fronte a fatti (o eventi) insoliti o nuovi che contraddicono modelli morali consolidati [...] ovvero esu- lano da una radicata autocomprensione antropologica dell’identità dell’essere umano» 103. Definire la dignità umana è certo impresa ardua, ma è ragionevole ritenere che tale valore e il suo universo di significato non debbano es- sere intesi come mero riflesso di percezioni soggettive (vedi infra, cap. V). Si tratta di un rischio che trova esemplificazione in una incrimina- zione oggi fortemente discussa, ossia il divieto di propaganda razzista, definita «norma che si colloca a metà strada tra ‘tutela penale dei sen- timenti’ e ‘funzione (pedagogico-)promozionale del diritto penale’» 104. Altro interesse che rivela una problematica osmosi con la dimen- sione affettiva è la cosiddetta ‘sicurezza’, la cui fisionomia è alquanto nebulosa e rischia di essere intesa come «fonte di obblighi legislativi di penalizzazione in funzione ansiolitica»105. Anche dietro il problema che nel discorso penalistico è stato definito come ‘sicurezza pubblica’ si può scorgere una matrice emotiva: la paura della criminalità, intesa come emozione di risposta a una minaccia, reale o semplicemente percepita 106. Tale argomento è oggetto di studio soprattutto in ambito criminologico107, nel quale è stato osservato come la pervasività in ambito collettivo della paura non sia dovuta tanto alla percezione dei singoli cittadini, ma finisca per essere esito di un’insicurezza sovente manipolata108 attraverso stereotipi e modelli culturali che si incardi- 103 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 78. 104 TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 86. 105 FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 95. 106 Benché non vada dimenticato che dietro le istanze securitarie mobilitate dalla collettività vi possono essere, oltre a pretese meramente emotive, anche bi- sogni reali di tutela, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, cit., pp. 913 ss. Sul tema, in un’ottica critica riguardante le manifestazioni del trend securitario a partire dagli anni Duemila, v. CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Milano, 2013, pp. 21 ss.; HASSEMER, Sicurezza mediante il diritto penale, tr. it., in Critica del diritto, 2008, pp. 15 ss.; DONINI, Sicu- rezza e diritto penale, in Cass. pen., 10/2008, pp. 3558 ss.; PULITANÒ, Sicurezza e di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2009, pp. 547 ss.; per uno sguardo d’insie- me v. AA.VV., a cura di Donini-Pavarini Sicurezza e diritto penale, Bologna, 2011. 107 Per tutti, CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 75 ss. 108 DURANTE, Perché l’attuale discorso politico-pubblico fa leva sulla paura?, in Filosofia politica, 1/2010, pp. 49 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 95 nano nelle strutture istituzionali o che vengono diffuse attraverso i mass media 109, in un processo di circolarità dove l’insicurezza è al con- tempo motivo di crisi e motore di legittimazione per le istituzioni 110. Il problema della tutela di sentimenti ha portato la riflessione penali- stica a meditare anche sugli strumenti concettuali per lo sviluppo del di- scorso: da un lato la teoria del ‘bene giuridico’ di matrice continentale, dall’altra lo Harm e l’Offense Principle di matrice anglo-americana. È emblematico in questo senso un saggio di Massimo Donini il qua- le evidenzia come anche il ricorso alle categorie anglo-americane sem- bri deludere aspettative di oggettività delle scelte di criminalizzazione, in quanto tali categorie «sono spesso definite mediante un utilizzo ambiguo della categoria dei sentimenti. Troppi sentimenti sia nell’Of- fense (che si definisce proprio in quanto più sentimentale che dannosa, più irritante che dolorosa) e sia anche nello Harm, che si fonda pur sempre (specialmente in Feinberg) sul postulato che la lesione dell’in- teresse produca un dolore, una sofferenza nel suo titolare» 111. Sullo specifico punto concernente la tutela di sentimenti la con- clusione dell’Autore è netta: «la tutela specifica dei sentimenti [...] costituisce un esempio incon- gruo di diritto penale orientato all’irrazionalità delle funzioni [...] il di- ritto penale non tutela meri sentimenti anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini [...], ma [tutela] la loro obiettiva- zione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescin- dere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato. [...] La ragione per la quale non è possibile la tutela di- retta ed esclusiva come oggetto “giuridico”, dei sentimenti, neppure ovviamente dei sentimenti “morali”, è costituita dal fatto che essi non sono un oggetto giuridico, e non possono esserlo per carenza di tassa- tività. È infatti necessario che il sostrato umano fondamentale in cui si sostanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle persone, si ancori a realtà socio normative più afferrabili e gestibili» 112. Così formulata tale osservazione sembrerebbe fondarsi prevalen- 109 CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 181 ss. 110 CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, cit., pp. 253 ss. 111 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1575. 112 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., pp. 1577 ss.   96 Tra sentimenti ed eguale rispetto temente su ragioni epistemologiche: carenza di tassatività come ‘non afferrabilità’ e dunque sostanziale ‘non verificabilità’ secondo i prin- cipi che sovrintendono la responsabilità penale. Diverse le obiezioni avanzate in dottrina, le quali convergono so- stanzialmente nell’osservare che il pur ragionevole argomento della non-tassatività dei sentimenti non è decisivo, e rischia di anticipare troppo con interrogativi sul piano della tipicità che paiono non offri- re adeguato spazio alla problematica questione dei bilanciamenti che dovrebbero fondare la legittimazione dei precetti. Si rischia, insom- ma, di «chiudere la partita prima che cominci» 113. Il monito circa la carenza di tassatività coglie un aspetto rilevante ma che non pare sufficiente a escludere in via di principio la legitti- mità di interventi penali. La questione cruciale è «se e quale tutela [sentimenti ed emozioni] possano chiedere, a fronte di comporta- menti e manifestazioni espressive del sentimento di altri, nel contesto di una società aperta» 114. Tirando le fila del discorso, appare evidente come il mainstream penalistico mostri una sostanziale diffidenza nei confronti del tessuto emotivo. Si tratta di caveat condivisibili, ma che riteniamo non deb- bano essere letti, frettolosamente, come avallo di posizioni ‘veterora- zionalistiche’ che ancora concepiscano in termini dicotomici i rap- porti fra emozioni, sentimenti e diritto penale, o che intendano nega- re gli influssi della dimensione affettiva sull’impianto teorico e prati- co della criminalizzazione. La plausibilità di tali cautele trova una solida base in studi che hanno evidenziato la possibile inaffidabilità delle emozioni a causa di contenuti cognitivi falsi, abnormi o più semplicemente incompatibili con i valori di un ordinamento liberale 115. 113 Così TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 90; cfr., FIANDA- CA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, cit., p. 229. A ben vedere, va ricono- sciuto che l’argomentazione di Donini sembra andare oltre la questione della me- ra tassatività quando richiede «che il sostrato umano fondamentale in cui si so- stanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle per- sone, si ancori a realtà socio-normative più afferrabili e gestibili: non solo da par- te della magistratura, ma prima ancora da parte del legislatore, onde evitare i ri- schi immanenti di un diritto penale irrazionale». Il richiamo a realtà socio-nor- mative, e non meramente empirico-fattuali, lascia intendere un disvalore leggibile non solo in termini di suscettibilità individuale, ma misurabile alla stregua di va- lori che lo facciano apparire ragionevole e non semplicemente riflesso di un so- lipsistico puntiglio. 114 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 42. 115 La studiosa che di recente si è impegnata a rivendicare l’‘intelligenza   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 97 Si tratta di prendere atto di una complessità di fondo, riflettendo su quali siano i contenuti di pensiero che possono rendere l’emozione e il sentimento interlocutori inaffidabili per il diritto penale, riser- vando però la dovuta attenzione anche a prospettive differenti, orien- tate a vagliare anche il potenziale di interazione virtuosa che potreb- be generarsi da un intelligente ‘ascolto’ delle emozioni e dei senti- menti. Tale ultima istanza trova oggi riscontro anche nel panorama pena- listico italiano, grazie a contributi che hanno messo a tema ipoteti- che, auspicabili interazioni fra diritto penale e dimensione affettiva quale coordinata per una più realistica e consapevole attenzione al profilo umano delle questioni oggetto di interesse penalistico. 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali Vi sono opere, di taglio differente, che fanno espresso riferimento alla dimensione affettiva e al ruolo positivo dell’emozione e del sen- timento quali elementi di comunanza e quali possibili vettori di rico- noscimento reciproco fra essere umani; non si tratta si riflessioni propriamente incentrate sul sentimento come problema di tutela, ma di profili legati al rapporto fra emozioni, sentimenti, genesi e struttu- ra dei precetti penali 116. delle emozioni’, affermandone l’imprescindibile ruolo anche nelle strategie di politica penale, ha d’altro canto fornito una delle più approfondite e convin- centi analisi sul potenziale anche negativo che determinati atteggiamenti emotivi possono assumere in rapporto alla legiferazione e all’applicazione di norme penali, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., pp. 37 ss. 116 Merita menzione, per quanto sui generis, la posizione espressa diversi de- cenni fa da Giuseppe Maggiore, la quale, pur derivando da un retroterra episte- mico ed ideologico profondamente differente dalle elaborazioni degli autori con- temporanei, costituisce nel panorama penalistico italiano una emblematica af- fermazione del ruolo positivo del sentimento. In una serrata critica al pensiero che vorrebbe ricondurre il diritto a mero sillogismo, a puro «congegno di giudizi logici», lo studioso siciliano rivendica l’importanza di una ‘vocazione affettiva’, di un quid che possa offrire un senso alla mera logica formale: «Ogni mediocre in- terprete sa bene che l’applicazione del diritto non si riduce a un accostamento meccanico tra la legge e il caso concreto: ma che occorre valutare, ossia sentire giuridicamente la fattispecie – in tutti i suoi lineamenti, in tutte le sue ombre e sfumature – per ridurla sotto l’impero della norma [...] un giudizio puramente e freddamente logico può essere iniquo: nel clima della nuda logica il jus può trali- gnare facilmente in injuria», v. MAGGIORE, Il sentimento nel diritto, in Giornale cri- tico della filosofia italiana, 1932, pp. 137, 135 ss., 138.   98 Tra sentimenti ed eguale rispetto Ad esempio, in relazione alle condizioni di osservanza della legge penale si è definita la forma idealtipica del diritto penale come «dirit- to del comune sentire (declinato rispettivamente in forma di principi e di regole/precetti) che dovrebbe trovare cioè nei consociati il più al- to grado di corrispondenza ideale, di consonanza soggettiva e dunque di adesione spontanea» 117. Muovendo da presupposti differenti, si è invece osservato, con ri- ferimento allo specifico ambito della regolamentazione normativa in materia bioetica, che la ricerca di risposte normative dovrebbe assu- mere a riferimento anche l’emozione che scaturisce nei soggetti di fronte a un fatto bioeticamente rilevante. In altri termini, viene ipo- tizzata una relazione tra la componente emotiva che caratterizza le scelte individuali e la possibilità che, valorizzando nelle statuizioni normative elementi fattuali suscettibili di attivare una comune reatti- vità emozionale, sia possibile addivenire a una maggiore condivisibi- lità dei precetti 118. In risposta all’opinione di chi non ritiene che il diritto penale pos- sa tutelare sentimenti viene obiettato che «non può escludersi [...] che, quanto meno in materia di bioetica, il diritto penale, se vuole trovare la sua legittimazione, ben possa, anzi debba, tutelare, in un certo senso, i sentimenti ed addirittura il sentimento del caso concre- to, senza per ciò trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovvi- ste di sostrato empirico, ma recuperando, al contrario, insieme alla concretezza, altresì la prospettiva di un giudizio, se non condiviso, quanto meno diffuso» 119. Nelle linee tracciate da tali Autori viene attribuita al sentimento la funzione di parametro per l’‘accreditamento etico’ delle norme penali 117 MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti: il lungo cammino del di- ritto penale incontro alla democrazia, in MAZZUCATO-MARCHETTI, La pena ‘in casti- go’. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano, 2006, p. 89. 118 DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 145 ss. Si tratta di un programma teorico che propone «una rinuncia, pur con tutte le cautele del caso, a parte della rigidità e della predeterminazione del precetto, per consentire a quest’ultimo di plasmarsi sul fatto concreto, di valorizzarne le nuances» Un ango- lo visuale che assume il fenomeno del sentire in una accezione che potremmo de- finire ‘naturalistico-emozionale’. La funzionalità del precetto sembra infatti legar- si alla condizione che esso arrivi a contenere elementi fattuali ad ‘alta carica emo- tiva’: «si porrebbero così le condizioni perché giochi una empatia che, facendo un punto di forza della sua natura prosaicamente biologica ed umana, possa svolgere la [...] funzione di coordinata epistemologica nei suddetti ambiti del penale», v. EAD., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 179, 181.  119 DI GIOVINE, Un diritto penale empatico?, cit., pp. 78 s.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 99 e più in generale per la legittimazione dell’intervento penale. Tra le due posizioni sussiste però una profonda differenza: nella prospettiva di Claudia Mazzucato il ‘comune sentire’ pare doversi intendere in termini normativi, ossia quale richiamo a valori condivisi modellati su «dati umani, stabili, trasversali, da sempre validi»120; la strada suggerita da Ombretta Di Giovine fa riferimento a un sentire ‘natura- listico’, ossia a un sostrato di reazioni emotive condivise che dovreb- bero costituire punto di riferimento per le scelte del legislatore nelle materie eticamente sensibili. A tali studi va affiancato un importante contributo dedicato al te- ma delle ragioni extrapenali della legittimazione della legge penale 121, il quale, sulla base di recenti acquisizioni della filosofia morale che evidenziano come le emozioni siano fra le condizioni della nostra ri- cettività alle considerazioni razionali e morali122, afferma che ogni concretizzazione del giudizio penale, dalla previsione edittale fino al- la applicazione della sanzione comminata, se non vuole limitarsi a pretendere la pura «obbedienza degli uomini-bambini», debba espri- mere una qualche coerenza rispetto a un tale ‘comune sentire’ 123. Ve- diamo come anche in questa teorizzazione le emozioni figurino in una veste emancipata da negatività e irrazionalità, e si propongano nel ruolo di coordinata epistemica per la ricerca di un terreno di in- contro tra la forza motivazionale del giudizio morale e le ragioni di un’osservanza dei precetti che sia ‘sentita’ e non solo imposta. Il rinnovato, e per certi versi inedito, interesse che i fenomeni del sentire assumono oggi in diverse branche del sapere – dalla psicolo- gia, alle neuroscienze, alla filosofia morale – sta avendo dunque ri- flessi anche nel pensiero penalistico: la prospettiva di analisi incen- trata sul sentimento come oggetto di tutela resta tema classico, ma i suddetti ulteriori spunti rappresentano un’importante base di rifles- sione che arricchisce, con promettenti intrecci con la dimensione morale, il discorso sulla legittimazione delle norme penali e sull’os- servanza dei precetti. 120 Così lo definisce MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti, cit., p. 90. 121 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., pp. 1108 ss. 122 BAGNOLI, Introduction, in AA.VV., ed. by Bagnoli, Morality and the Emo- tions, cit., p. 16.  123 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., p. 1120.  100 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4. Sinossi Addentrandoci nel microcosmo giuridico, emergono due possibili accezioni nel significato della formula ‘tutela di sentimenti’: la prima, descrittiva, concerne il panorama delle disposizioni in cui il senti- mento è espressamente evocato quale oggetto di tutela; la seconda, connotativa, coincide con l’uso che della categoria del sentimento viene fatto nel discorso penalistico, ossia in una funzione prevalen- temente critica. L’accezione descrittiva ci conduce verso l’analisi delle fattispecie codicistiche ed extracodicistiche: un panorama variegato che con- templa due differenti declinazioni del sentimento. La prima, del tutto tendente alla ‘depsicologizzazione’, nella quale non entrano in gioco fenomeni psichici bensì ‘sentimenti-valori’; la seconda, più vicina alla dimensione naturalistica del sentire, si ricollega a fattispecie come gli ‘atti persecutori’, volte a tutelare la tranquillità psicologica come bene strumentale rispetto alla libertà di autodeterminazione. Relativamente all’accezione connotativa e ai discorsi dei giuristi penali, il tema della tutela di sentimenti ha rappresentato uno dei terreni in cui si è giocata la sfida culturale per il superamento dei modelli illiberali di incriminazione del codice Rocco, fungendo in questo senso da ‘trampolino teoretico’ per il consolidamento dell’in- terpretazione costituzionalmente orientata degli interessi di tutela penale. Attualmente i rischi di torsioni illiberali veicolate dall’appello a sentimenti ed emozioni si legano alla incerta fisionomia di beni e in- teressi caratterizzati da una marcata componente emozionale (digni- tà, sicurezza). A fronte di tali istanze di tutela il mainstream penali- stico tende a mantenere una forte diffidenza. Non vanno tuttavia trascurate anche le prospettive di interazione virtuosa fra dimensione affettiva e diritto penale, concernenti in par- ticolare il ruolo di sentimenti ed emozioni nelle dinamiche di adesio- ne e di osservanza del precetto.  PARTE II FRA DIRITTI ED EMOZIONI: ITINERARI E PROSPETTIVE   102 Tra sentimenti ed eguale rispetto   SEZIONE I Sensibilità individuali e libertà di espressione 103 CAPITOLO IV SENSIBILITÀ INDIVIDUALI E LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Espressioni ed emozioni: prospettive di approccio «Troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un re- pertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene» GOLEMAN D., Intelligenza emotiva, p. 23 SOMMARIO: 1. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuove pro- spettive di analisi. – 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’. – 2.1. La prospet- tiva dell’Offense secondo Joel Feinberg. – 3. Approccio ‘razionalistico-norma- tivo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum. 1. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuo- ve prospettive di analisi Le disposizioni del codice italiano nelle quali l’oggetto di tutela viene definito in termini di sentimento, pur presentando affinità sul piano del comune rimando a interessi legati alla sfera affettiva, pon- gono l’interprete di fronte a questioni eterogenee. I problemi relativi al sentimento religioso, al pudore, al sentimento nazionale, al comu- ne sentimento della morale, si collegano a un comune substrato in quanto basati su conflittualità di tipo espressivo-comunicativo e su forme di offesa ‘immateriali’; appare invece differente il sentimento per gli animali, a tutela del quale vengono incriminate aggressioni fisiche e maltrattamenti a esseri non umani. Riteniamo preferibile accantonare per il momento il tema del sen-  104 Tra sentimenti ed eguale rispetto timento per gli animali e focalizzare l’attenzione sul retroterra che accomuna i restanti ambiti. Filo conduttore è il coinvolgimento del piano comunicativo, in un senso non limitato a espressioni verbali, ma esteso a comportamenti in grado di veicolare significati1 e di esternare in termini simbolici prese di posizione che vanno a intera- gire con aspetti profondamente radicati, potremmo dire ‘costitutivi’, della personalità individuale e dell’identità morale di un soggetto. Tali profili rimandano, in ambito giuridico, al tema della libertà di espressione, ampiamente dissodato dalla dottrina non solo penalisti- ca 2. Nell’impianto del codice Rocco, limiti alla libertà di espressione sono posti in primo luogo a tutela di interessi dello Stato, mentre i risvolti personalistici dei conflitti limitati al piano comunicativo tro- vano formale riconoscimento esclusivamente nelle disposizioni sul- l’ingiuria (oggi abrogata) e sulla diffamazione: le uniche collocate nel titolo dei reati contro la persona. Al di là delle etichette legislative e della voluntas del legislatore, dietro reati come quelli contro il senti- 1 Sull’equiparazione fra condotte verbali ed espressioni fondate sul valore sim- bolico dei comportamenti, v. BERGER, Symbolic conduct and freedom of speech, in Russel (ed. by), Freedom, Rights and Pornography. A Collection of Papers by Fred R. Berger, Amsterdam, 1991, pp. 31 ss. Adotta tale impostazione nella recente let- teratura sulla libertà di espressione BROWN A., Hate Speech Law. A Philosophical Examination, New York, 2017, p. 5. Nel panorama italiano si sofferma su tale di- stinzione STRADELLA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e “prassi”, Torino, 2008, pp. 21 ss., 59 ss. 2 Fra gli scritti più significativi di taglio generale, provenienti, relativamente al contesto italiano, dall’ambito costituzionalistico, v. ESPOSITO, La libertà di manife- stazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano, 1958; BARILE, Libertà di mani- festazione del pensiero, Milano, 1975; DI GIOVINE A., I confini della libertà di manife- stazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto comparato come premessa a uno studio sui reati d’opinione, Milano, 1980; PALADIN, Libertà di pensiero e libertà d’informazione: le problematiche attuali, in Quaderni costituzionali, 1/1987, pp. 5 ss.; PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale, in www.penalecontemporaneo.it, 7/2013; CARUSO, La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna, 2013; fra i penalisti, v. BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà di manife- stazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, pp. 1 ss.; NUVOLONE, Il problema dei limiti della libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, cit., pp. 349 ss.; FIORE, I reati d’opinione, Milano, 1972; PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia?, 1970, pp. 187 ss.; ALESIANI, I reati di opinione, cit.; SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2-3/2007, pp. 689 ss.; VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit. Si vedano inoltre, quale contributo collettaneo più re- cente, gli Atti del IV Convegno dell’Associazione Professori di Diritto Penale dedica- to al tema ‘La criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti’, pubblicati in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 859 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 105 mento religioso e contro la moralità pubblica sono in gioco fenomeni relativi all’universo interiore dell’individuo, alla sfera del sentire co- me nucleo da proteggere in positivo e in negativo, ossia favorendone la ‘fioritura’ e la libera espressione, e anche, eventualmente, preser- vandolo da forme di offesa. Ci sembra che il rispetto della reciproca sensibilità in rapporto a contenuti espressivi in grado di offenderla rappresenti il problema che con maggiore immediatezza logico-comunicativa può identificar- si anche come ‘tutela di sentimenti’. Le questioni che possono celarsi dietro il richiamo a stati affettivi sono molteplici, ma i rapporti tra forme di espressione e sensibilità soggettive sembrano costituire oggi una priorità nell’agenda penalistica. A suggerire un attento sguardo alle ‘guerre per la libertà di espres- sione’3 è soprattutto l’importanza nello scenario socio-politico con- temporaneo, il quale rivela un’inedita complessità derivante dalla consistenza pluralista della società occidentale, anche di quella ita- liana. È cresciuta la diversità sul piano quantitativo e parallelamente sono aumentate le sensibilità, incrementando la possibilità di attriti e portando a emersione, quale riflesso di difficoltà di integrazione in rapporto agli ingenti flussi migratori, una conflittualità fortemente radicalizzata in senso identitario4 e minacciata dal rischio del fon- damentalismo: «l’esperienza comune della diversità e tanto più la comparazione cul- turale specialistica mostrano che i modi stessi della sensazione e i ri- sultati della sensibilità sono variabili da cultura a cultura e all’interno stesso di società complesse, fino ai modi e ai risultati delle sensibilità individuali, così importanti nella cultura occidentale moderna» 5. Si è detto che è difficile trovare un argomento su cui si registri un accordo maggiore di quello relativo alla libertà di espressione, «[a]l- meno finché non ci mette mano la ricerca della saggezza»6. Nella 3 SULLIVAN, Free Speech Wars, in 48 SMU Law Review, 1995, pp. 203 ss. 4 Sul problema vedi MANCINA, Laicità e politica. Prove di ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo, cit., pp. 5 ss. Per una critica alle tendenze identitarie e al concetto di identità, definita ‘parola avve- lenata’, v. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Roma-Bari, 2010. 5 ANGIONI G., Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture, Nuoro, 2011, p. 224. 6 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un’indagine su quanto le parole mettono in gioco, Milano, 2017, p. 17.   106 Tra sentimenti ed eguale rispetto prospettiva delineata dal filosofo Ermanno Bencivenga tale ricerca coincide con una paziente opera di analisi filosofica che allontani lo spettro dei luoghi comuni, nella consapevolezza di non poter risolve- re i problemi con ‘sentenze’ o ‘ricette’ 7. Per quanto il giurista senta l’onere di fornire una prestazione in- tellettuale che in qualche modo si identifichi in una ‘sentenza’ o in una ‘ricetta’, intese come proposte ‘risolutive’, riteniamo che in rela- zione ai problemi in esame tale ambizione debba essere accompagna- ta dalla consapevolezza del carattere contingente e parziale delle ri- sposte che potranno essere eventualmente avanzate8. Non vi sono rimedi taumaturgici e ‘indolori’: se un atteggiamento di tipo repressi- vo potrebbe portare a comprimere un diritto essenziale delle demo- crazie contemporanee, la prospettiva opposta di evitare una regola- mentazione lascia aperta la possibilità di ricadute comunque pro- blematiche. Condividiamo quanto osservato da attenta dottrina, ossia che per rapportarsi a tali problemi occorra mettere da parte l’ambizione di elaborare criteri di selezione del penalmente rilevante di tipo assio- matico-deduttivo, e vada pertanto considerato se «l’approccio tradi- zionale possa risultare decisivo nel circuito comunicativo delle de- mocrazie contemporanee; oppure se non vada piuttosto ricalibrato, rivisto, o quantomeno accompagnato da analisi e valutazioni che si facciano seriamente carico della complessità culturale, sociale e poli- tica dei contesti locali e globali in cui risultiamo oggi calati» 9. In altri termini, il tema dei conflitti in materia di libertà di espres- sione è un significativo banco di prova che impegna a rendersi fauto- ri di «una scienza non già autoreferenzialmente chiusa nel giuoco elegante di una dogmatica formalistica, bensì intenzionata a prende- re in qualche modo posizione sul merito contenutistico delle questio- ni spinose che il tempo presente prospetta» 10. 7 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 11. 8 Parla di carattere ‘contestuale’ ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili: paradigmi e nuove frontiere, in Ars interpretandi, 1/2017, pp. 30, 45 ss. 9 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. XIV. 10 FIANDACA, Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e democrazia, in Foro it., 2011, V, p. 10. Afferma la necessità di un’analisi calata nel contesto socio- politico BOGNETTI, La libertà di espressione nella giurisprudenza americana. Con- tributo allo studio dei processi dell’interpretazione giuridica, Milano, 1958, pp. 7 ss.; cfr. da ultimo ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabi- li, cit., p. 29. Sia consentito il rinvio a BACCO, Dalla dignità all’eguale rispetto:   Sensibilità individuali e libertà di espressione 107 Riteniamo che occorra dunque provare a immaginare nuovi per- corsi, mettendo in conto l’irriducibile ‘politicità’ del tema, la quale mette a disagio il giurista che ancora oggi coltivi l’ambizione (illuso- ria?) di riuscire a concepire proposte e modelli di interpretazione as- seritamente ‘neutrali’ e avalutativi. È ricorrente in sede teorica prendere le mosse dall’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia importante. Il livello di reattività emozionale, e purtroppo anche di violenza fi- sica, che hanno caratterizzato alcuni recenti episodi nel contesto eu- ropeo11, suggeriscono di affrontare il tema attraverso prospettive di analisi che non si limitino a una, pur problematica, riflessione su norme e principi 12. La complessità dei problemi esige un avvicinamento anche al sub- strato umano dei conflitti e dunque alle emozioni e ai sentimenti che si agitano sullo sfondo e che sono di fatto i vettori di senso che concor- rono a guidare le preferenze e le scelte degli individui, e dunque la loro posizionalità assiologica 13: un discorso che vale non solo per i destina- tari di espressioni avvertite come offensive, ma che è funzionale a in- quadrare e definire anche la posizione di chi esprime un pensiero14. libertà di espressione e limiti penalistici, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 823 ss. 11 Su tutti, i violenti disordini seguiti alla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana in Danimarca, e il tragico attentato contro il settima- nale francese Charlie Hebdo, colpevole, agli occhi dei fondamentalisti, di aver pubblicato vignette blasfeme sull’Islam. 12 Il piano prettamente giuridico, ossia il riconoscimento di libertà nelle Carte costituzionali nazionali e in fonti sovranazionali, rappresenta una premessa del problema; né del resto sembra essere risolutivo l’appello a teorizzazioni classiche, come quella milliana, il cui pur apprezzabile ottimismo di fondo dalle coloriture utilitaristiche appare oggi forse troppo irenistico. Ci riferiamo all’obiezione di fondo con cui Mill critica la prospettiva di limiti alla libertà di espressione, ossia che la compressione della libertà limiterebbe la circolazione di eventuali verità che potrebbero arricchire il patrimonio intellettuale di un popolo, v. MILL, Sulla libertà, tr. it., a cura di Mollica, Milano, 2007, pp. 117 ss. 13 Traggo questo concetto dalla teorizzazione fenomenologica di Roberta De Monticelli: definito il sentimento come «disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 121, è importante a nostro avviso legare tale concetto al tema della posizionalità, per evidenziare come l’atto del consentire e dell’espri- mere rappresenti una presa di posizione nella quale la persona è coinvolta in quanto soggetto, v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Milano, 2009, pp. 187 ss. Si veda anche infra, nota 94. 14 Non può essere condiviso l’assunto secondo cui la caratterizzazione di un’espressione di critica in termini affettivo-emozionali la renderebbe per ciò solo   108 Tra sentimenti ed eguale rispetto Anche in tempi in cui la considerazione della dimensione emotiva non poteva avvalersi degli studi che oggi ne affermano la rilevanza nelle scelte decisionali, e che ne riabilitano in buona parte anche la salienza morale, nella dottrina penalistica italiana fu osservato che «è il senti- mento, l’atteggiamento di adesione o indifferenza per questo o quel va- lore, e non la ragione raziocinante che di per sé è uno strumento “neu- tro”, a indicare all’azione i suoi possibili scopi e modi, e in tal modo addirittura a caratterizzare diverse forme di civiltà» 15. L’atteggiamento dominante della dottrina penalistica esorta con- divisibilmente alla cautela quando si tratta di valutare input di politi- ca del diritto che rivelano una componente emotiva. Ciò non significa cadere nell’eccesso opposto, ossia immaginare o ipotizzare un diritto penale sordo e cieco rispetto a qualsivoglia istanza di matrice emoti- va: un ideale ben poco plausibile, poiché la risposta penalistica è ne- cessariamente anche una risposta a emozioni che si legano inevita- bilmente ai fatti di vita su cui il diritto interviene, e dovrebbe in que- sto senso cercare di acquisire una «capacità di rispettoso governo del- le emozioni e dei sentimenti, come tale autenticamente liberale, ossia costantemente sostenuta dalla consapevolezza di come lo stesso si- stema di regolazione debba rassegnarsi, ma anche trarre vantaggio, da questa sorta di “passività buona”» 16. Da ciò la rilevanza, in primo luogo per la riflessione teorica, delle risonanze emozionali che trapelano dai conflitti interrelazionali, fra cui anche quelli legati alla libertà di espressione. L’obiettivo non è assecondare ciecamente le pretese di una delle incompatibile con una ‘vera’ manifestazione del pensiero; tale posizione è esplici- tata in NUVOLONE, Reati di stampa, Milano, 1971, p. 19: «poiché critica significa dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui, sarà estraneo all’at- tività critica ogni apprezzamento negativo immotivato o motivato da una mera animosità personale, e che trovi, pertanto, la sua base in un’avversione di caratte- re sentimentale e non in una contrapposizione di idee». Il problema divise la dot- trina penalistica: si vedano a sostegno di un’apertura liberale PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, cit., pp. 187 ss.; più recentemente, PELISSERO, Reato po- litico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, 2000, pp. 212 ss.; per l’opi- nione opposta v. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della li- bertà di pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova, 1966, pp. 81 ss. Tale distinzione si lega alla categorizzazione fra manifestazioni del pensiero ‘pure’ e forme di sollecitazione all’azione, utilizzata anche dalla Corte costituzio- nale ad esempio nella sentenza n. 87/1966; per una critica vedi CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 95 ss. 15 PULITANÒ, Spunti critici in tema di vilipendio della religione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, p. 225.  16 FORTI, Le ragioni extrapenali, cit., p. 1114.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 109 parti, bensì riuscire ad avere una migliore visuale sulle sfumature as- siologiche che ogni singola vicenda lascia emergere. Come osservato da autorevole dottrina, vi è l’esigenza di «riuscire a gettare luce al di là del magma dei sentimenti, nel tentativo di trarre da essi ragioni argomentabili nella discussione pubblica e nel dibattito politico cri- minale» 17. Riteniamo che affrontare problemi concernenti la libertà di espres- sione anche attraverso una ragionevole attenzione alla dimensione affettiva, possa arricchire i contenuti del dibattito. In primo luogo, un attento sguardo alle dinamiche emozionali porta a non perdere di vista la dimensione socio-antropologica dei conflitti, a non perdersi nel ‘cielo dei concetti’ ma piuttosto a cercare di indagare le matrici umane del dissenso, le eventuali cause e i potenziali effetti di una conflittualità che oggi presenta tratti fortemente degenerati, con pre- occupanti echi che attingono da un inquietante repertorio di odio e di contrapposizioni. Sul piano della definizione dell’offesa, guardando i problemi at- traverso la prospettiva dello scontro fra sensibilità emerge un dato di fondo: non sono coinvolti beni primari quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di autodeterminazione; si attinge un livello non esiziale ma comunque significativo, poiché dietro un’offesa a sentimenti si profi- la la possibilità di una sofferenza – in termini di emozione negativa 18 – nel venire a contatto, o anche semplicemente a conoscenza, di for- me di contrasto o di disapprovazione che hanno ad oggetto idealità, visioni del mondo, valori. Con le parole si possono toccare corde sen- sibili dell’animo, quando vengono criticati o irrisi simboli, dogmi nei quali un individuo si riconosce, anche a prescindere dal fatto che una data espressione sia rivolta a lui e quando colpisce in modo indistinto una molteplicità di soggetti accomunati da una credenza. Qual è l’elemento che può legittimare interventi normativi? È il disagio emozionale soggettivo che scaturisce di fronte a manifesta- zioni di pensiero che sostengono valori e visioni del mondo opposte a quella in cui ci si identifica? O l’attenzione va posta su ragioni ulte- 17 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 555. Giu- sto il contrario, dunque, di un uso populistico e meramente retorico dell’appello a sentimenti ed emozioni, il quale peraltro è assai frequente nel dibattito pubblico come osserva D’AGOSTINI, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino, 2010, pp. 122 ss. 18 Sul concetto di ‘polarità’ delle emozioni, o ‘valenza’, v., ex plurimis, TERONI, Più o meno: emozioni e valenza, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, cit., pp. 3 ss.   110 Tra sentimenti ed eguale rispetto riori che non hanno un’univoca corrispondenza con il contenuto co- gnitivo delle reazioni emotive suscitate? Le risposte a tali interrogativi possono condurre ad approcci pro- fondamente diversi, sintetizzabili a nostro avviso in forme paradig- matiche 19: da un lato un modello di intervento giuridico che potrem- mo definire ‘naturalistico-emozionale’, e dall’altra un modello ‘razio- nalistico-normativo’. Nel primo caso il sentire individuale è preso in considerazione nella dimensione fisico-naturalistica, come coefficiente di reattività psichica nelle interazioni relazionali e dunque come problema di so- glie di sensibilità soggettiva da verificarsi sul piano empirico, secon- do un’impostazione che individua il bene finale nella tranquillità emo- tiva della persona. L’approccio alternativo, ossia il modello ‘razionalistico-normati- vo’, cerca di identificare, attraverso le emozioni manifestate e i sen- timenti chiamati in gioco, istanze e rivendicazioni che possano essere tradotte in concetti razionalmente e normativamente filtrati, e valuta- te dunque in rapporto a cornici assiologiche di riferimento 20. In altri termini, l’approccio ‘razionalistico-normativo’ si propone di inqua- drare i problemi in una prospettiva nella quale la dimensione pret- tamente emozionale costituisce elemento da tradurre in un contesto 19 Utilizzo il concetto di ‘modello-paradigma’ nell’accezione di SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, cit., pp. 98 ss. 20 Si tratta di modelli di approccio che evocano alla memoria del penalista soluzioni metodologiche e interpretative elaborate in relazione all’inquadra- mento dell’interesse protetto nella tutela penale dell’onore: le concezioni ‘fattua- le’ e ‘normativa’. La prima configura l’onore come sentimento individuale, o, in riferimento alle condotte di diffamazione, come elemento sociopsicologico su base collettiva; secondo la concezione normativa, cui possono affiancarsi le successive rielaborazioni in chiave di concezione ‘mista’, l’onore è da intendersi come riflesso del valore dell’individuo in quanto tale, ossia come proiezione del- la dignità umana. Nel discorso penalistico sull’onore emergono in nuce que- stioni di fondamentale importanza: il rapporto tra dimensione fattuale e proie- zione normativa dello stato psicologico associabile al concetto di onore non è altro che la ricaduta settoriale di un nodo problematico che ricorre di fronte a ogni tipo di sentimento evocato dal diritto come oggetto di tutela. Nella dottri- na italiana, ex plurimis, MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit., pp. 4 ss.; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Milano, 1993, pp. 337 ss.; GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma, 2013, pp. 17 ss.; per un’originale riela- borazione del tema, v. TESAURO, La diffamazione come reato debole e incerto, To- rino, 2005, pp. 11 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 111 di diritti di libertà e doveri di rispetto, con tutte le complessità che ne discendono in termini di bilanciamento. Esporremo i tratti salienti di tali modelli sulla base del pensiero di due autorevoli studiosi che hanno a nostro avviso contribuito a mo- strarne le coordinate fondamentali. 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’ Intendiamo come ‘naturalistico-emozionale’ un modello di inter- vento che assuma a riferimento primario la dimensione naturalistica del sentire, identificata in manifestazioni di reattività emotiva cui il diritto attribuisca rilevanza tramite la costruzione di precetti fondati su eventi di tipo psichico. Una simile prospettiva, nel caso sia volta a preservare la sfera psi- cologica degli individui da turbamenti emotivi dovuti alla semplice cognizione o al contatto ravvicinato con esternazioni di opinioni, comunicazione di contenuti di pensiero o più in generale con atteg- giamenti che suscitino contrasto fra sostenitori di visioni del mondo diverse, appare un’opzione fortemente problematica, e con buona probabilità impraticabile. Obiettare la mancanza di un’offesa significativa dal punto di vista penalistico è però un argomento non decisivo se si apre la riflessione alle concettualizzazioni di matrice anglo-americana dei cosiddetti Harm Principle e Offense Principle 21: da questo punto di vista non è af- 21 Constatata la crisi del cosiddetto ‘bene giuridico’, anche nella dottrina italiana si è fatto sempre più concreto l’interesse per le categorie dello Harm e dell’Offense, ricostruite soprattutto sulla base del pensiero di Joel Feinberg. Nella letteratura ita- liana il pensiero di Feinberg è stato fra i temi privilegiati di recenti studi collettanei dedicati al tema della legittimazione del diritto penale: v. AA.VV., a cura di Fianda- ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit.; AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit.; si veda lo studio monografico di FRANCOLINI, Ab- bandonare il bene giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del di- ritto penale, Torino, 2014, pp. 78 ss.; fra gli articoli in cui si ‘dialoga’ con le categorie feinberghiane v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, cit., pp. 83 ss.; ID., Presentazione. Principio del danno (Harm Principle) e limiti del diritto penale, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit., pp. VII ss.; FORTI, Principio del danno e legittimazione “personalistica” della tutela penale, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 56 ss.; FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 18 ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e tipi di democrazia, in AA.VV., a cura di Fianda-   112 Tra sentimenti ed eguale rispetto fatto scontato che una tutela di meri sentimenti, o, più propriamente, volta a evitare emozioni negative, sia estranea all’ambito della penaliz- zazione legittima, ma si tratta al contrario di un problema aperto. Le categorie del pensiero giuridico anglo-americano sono partico- larmente efficaci nell’illustrare la stratificazione di soglie di offesa che possono ipoteticamente essere addotte per legittimare interventi penali: il discorso è infatti aperto non solo al danno, lo Harm, ma anche a forme di interferenza con interessi della persona meno incisive, ossia l’Offense, traducibile come ‘molestia’ 22. In particolare, è l’Offense Prin- ciple la categoria che meglio si presta a riassumere il tipo di offese che si legano al contatto sgradito con determinati atteggiamenti e contenu- ti espressivi 23. ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 153 ss. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., ROMANO, Danno a sé stessi, pa- ternalismo legale e limiti del diritto penale, cit.; PULITANÒ, Paternalismo penale, cit.; ID., voce Offensività del reato (principio di), in Enciclopedia del diritto, Annali VIII, Milano, 2015, pp. 683 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, cit., pp. 938 ss. L’approccio feinberghiano ha suscitato interesse anche in Germania, per quanto, come espressamente affermato da Tatiana Hörnle, fino ai primi anni Duemila non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, forse anche, secondo la Hörnle, per la mancata traduzione dei testi di Feinberg in tedesco, v. HÖRNLE, Offensive Beha- viour and German Penal Law, in 5 Buffalo Criminal Law Review, 2001, pp. 258 ss., anche per una sintetica analisi delle concettualizzazioni feinberghiane in rapporto al diritto penale tedesco. 22 Va specificato che l’atteggiamento di maggiore o minore apertura a principi di legittimazione diversi dallo Harm Principle discende da pregiudiziali politico- filosofiche: ad esempio, secondo una posizione di ‘liberalismo estremo’ solo il principio del danno (Harm) dovrebbe costituire criterio legittimo di incrimina- zione. In questo senso la posizione di Joel Feinberg si presenta più aperta, poiché non esclude che fra le ‘buone ragioni’ vi possano essere criteri complementari allo Harm: «[è] Feinberg, sostanzialmente, che amplia il discorso al c.d. “offense prin- ciple”», v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo, cit., p. 92; cfr. FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 156. 23 Il concetto di Harm di matrice feinberghiana non corrisponde in toto a quel- lo che ha trovato successivamente applicazione nel sistema statunitense: lo Harm è stato oggetto di una dilatazione che ha portato ad allargarne lo spettro di rile- vanza, e molti dei problemi collocati da Feinberg nell’Offense sono ricollocati oggi in una versione più estesa dello Harm; per una sintesi v. DE MAGLIE, Punire le con- dotte immorali?, cit., pp. 947 ss. Si veda anche infra, nota 65. Sull’applicazione dello Harm a problemi concernenti la libertà di espressione v. COHEN, Psychologi- cal Harm and Free Speech on Campus, in 54 Society, 2017, pp. 321 ss. Harm e Of- fense non sono incompatibili fra loro, ma come principi di sistema possono inte- ragire in termini di complementarietà, ossia è possibile che alcune norme dell’or- dinamento penale si legittimino in nome dello Harm Principle e altre in norme dell’Offense Principle. Non va peraltro dimenticato che «I principi compendiano le ragioni morali che possono sostenere le proibizioni penali [...] servono a circo-   Sensibilità individuali e libertà di espressione 113 Illustriamo tali concetti attraverso un cursorio richiamo alla più importante elaborazione sul tema, ossia lo studio di Joel Feinberg dedicato ai limiti morali del diritto penale e in particolare al tema dell’Offense Principle 24. 2.1. La prospettiva dell’Offense secondo Joel Feinberg Cominciamo da un’importante distinzione: secondo Feinberg quando si parla di tutela della tranquillità psichica volta a evitare reazioni di disgusto, di rabbia e altre emozioni negative, bisogna di- stinguere fra molestie in cui vi è la compresenza di soggetto attivo e vittima, fondate su percezioni di tipo visivo, uditivo o olfattivo, e altre condotte tali da poter suscitare sensazioni sgradite pur senza un rap- porto di diretta percezione, ma semplicemente a seguito della presa di conoscenza. Nel primo caso si tratta della cosiddette ‘nuisance’, ossia offese ai sensi: nelle ‘mere offensive nuisance’ il torto (wrong) coincide ed è in- scindibile dall’esperienza di percezione visiva, uditiva, olfattiva o tat- tile 25. Nel secondo caso si tratta di forme di molestia, cosiddette ‘pro- found offenses’, le quali attingono una sensibilità di ordine più elevato e sono tali da indurre sofferenza e disagio anche quando non vi sia percezione sensoriale diretta. Le ‘profound offenses’ si differenziano dalle nuisances in quanto potrebbero continuare a provocare fastidio anche dopo l’iniziale presa di conoscenza 26: esempi addotti da Fein- berg sono il voyeurismo, la propaganda nazista e razzista in generale, le offese a simboli civili e religiosi, l’oltraggio a cadaveri; una dimen- scrivere l’ambito all’interno del quale la restrizione della libertà dei consociati è, secondo la concezione che li sostiene, moralmente legittima: ma non escludono le ulteriori valutazioni di utilità sociale e di effettiva opportunità che un determina- to legislatore positivo dovrà compiere prima di decidere se dovrà emanare o me- no una norma penale», v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 78. 24 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, New York-Oxford, 1985. Una versione in nuce dell’elaborazione feinberghiana sullo Harm e Offense Principle, precedente alla tetralogia sui limiti morali del di- ritto penale, è contenuta in FEINBERG, Filosofia sociale, tr. it., Milano, 1996 (or. 1973), pp. 55 ss. 25 «[I]t is experiencing the conduct, not merely knowing about it, that of- fends», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 58. 26 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 51.   114 Tra sentimenti ed eguale rispetto sione che potremmo definire di ‘sensibilità morale’ nella quale la le- sione si lega a qualcosa di esterno al soggetto e viene definita ‘pro- fonda’ a causa del suo impatto su una sensibilità non meramente ‘epidermica’, e che non dipende dall’effettivo coinvolgimento emotivo di individui determinati. Quanto all’eventuale rilevanza penale, per Feinberg le profund of- fenses che non siano contemporaneamente anche nuisances, ossia commesse in un luogo pubblico e percepite da soggetti terzi, non do- vrebbero rientrare nell’area di criminalizzazione legittima coperta dall’Offense Principle 27. Con un’importante conseguenza: se le offese a sensibilità di alto livello non vengono realizzate attraverso condotte in grado di colpire anche la sensibilità di soggetti presenti, potrebbe escludersi la loro incriminabilità secondo il criterio dell’Offense, e si dovrebbe far ricorso a principi di legittimazione differenti, e del tutto distonici rispetto alle prospettive liberali: il moralismo giuridico 28. In secondo luogo, anche se si interpretasse il pensiero feinber- ghiano ammettendo che le cosiddette ‘profund offenses’ possano teo- ricamente costituire oggetto di incriminazione in quanto riconducibi- li all’Offense Principle, resta il fatto che i criteri di bilanciamento che Feinberg enuncia come ‘massime di mediazione’ porrebbero un serio ostacolo all’incriminazione di offese a sensibilità di ‘alto livello’ 29. Fra 27 Per una sintesi v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico?, cit., pp. 218 ss. 28 È l’opinione di FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 221. Sui rapporti tra Offense Principle e Harmless Wrongdoing v. FEINBERG, The Moral Li- mits of Criminal Law, vol. IV, Harmless Wrongdoing, New York-Oxford, 1988, pp. 15 s.; ID., Filosofia sociale, cit., pp. 67 ss. Per una sintesi v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?, cit., pp. 208 ss.; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, cit., pp. 945 ss. 29 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 60. Nella teorizzazione feinberghiana il provare un’emozione negativa non è requisito che esaurisce gli elementi costituitivi dell’offense: condotte in grado di suscitare nei terzi sensazioni sgradevoli possono scaturire da attività che fanno parte dell’agire quotidiano di ogni individuo, attività comprese nella normale vita di relazione, e che tuttavia possono produrre quelli che sono dei cosiddetti ‘stati mentali sgraditi’. Per ovviare a possibili eccessi, Feinberg rimarca l’esigenza di elaborare dei criteri di bilanciamento che operino nel senso di restringere l’ambi- to di criminalizzazione della molestia. Secondo le ‘massime di mediazione’ da lui elaborate, va esaminato il limite della cosiddetta seriousness della molestia, e del- la reasonableness della condotta attiva: in sintesi, la serietà della molestia dipende dalla sua intensità, dalla durata; dall’estensione; dal grado di evitabilità (la diffi- coltà di sottrarsi senza inconvenienti alla situazione in cui si è assistito alla mole- stia è un parametro per la gravità della condotta attiva); dalla massima del con- senso, per cui l’assunzione volontaria del rischio di incorrere nelle condotte di   Sensibilità individuali e libertà di espressione 115 i parametri di selezione vi è infatti quello della ‘ragionevolezza’ del- l’offesa, valutabile attraverso i criteri dell’importanza che la condotta riveste per l’agente, e dell’eventuale utilità sociale della condotta stes- sa, con la conseguenza che azioni pur offensive, ma che siano al con- tempo forme di espressione dell’individuo, potrebbero essere consi- derate lecite in forza del valore individualistico (importanza per l’agen- te) e collettivistico (utilità sociale) della condotta 30. In relazione alla suscettibilità individuale, Feinberg è categorico nel porre un’obiezione alla tutela di soggetti caratterizzati da un’ab- norme emotività, definendoli ‘cavalli capricciosi’ (skittish horses): quan- to più un soggetto è emotivamente suscettibile, tanto meno potrà pre- tendere che il diritto penale assecondi le sue pretese 31. Fin qui la teorizzazione di Feinberg sembrerebbe sostanzialmente contraria all’incriminazione di condotte che offendano valori e sensi- bilità di ordine elevato. Se dovessimo proiettare le categorie feinberghiane nel diritto ita- liano potremmo associare tendenzialmente la c.d. tutela di ‘sentimen- ti-valori’ alle ‘profund offenses’, come offese ad aspetti concernenti il piano dei valori costitutivi dell’identità morale che attingono strati profondi 32 e relegano in posizione marginale, anche se forse non del tutto irrilevante, il profilo della nuisance 33. offense esclude la rilevanza penale di queste, v. ID., The Moral Limits of the Crimi- nal Law, vol. II, Offense to Others, cit., pp. 35 ss. 30 «no amount of offensiveness in an expressed opinion can counterbalance the vital social value of allowing unfettered personal expression», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 39. 31 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., p. 34. Negli Stati Uniti si è recentemente sviluppato un dibattito avente ad oggetto la libertà di espressione nei campus e nei college, in relazione alla sensibi- lità degli studenti e alla possibilità che un’assoluta deregolamentazione della li- bertà di manifestare il proprio pensiero si riveli loro pregiudizievole: il tema è no- to come ‘Snowflakes’ (letteralmente ‘fiocchi di neve’, appellativo per gli studenti sensibili). L’orientamento maggioritario tende a ritenere illegittime eventuali re- strizioni alla libertà di espressione nei campus, adducendo il fatto che il plurali- smo delle idee, e il confronto anche aspro, è ciò che deve contribuire a formare e rafforzare la personalità degli studenti; per una sintesi di tale posizione v. COHEN, Psychological Harm and Free Speech, cit., pp. 320 ss. 32 Cfr. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, cit., pp. 694 ss., il quale ri- chiama le sensibilità di alto livello quale chiave di lettura dei c.d. ‘reati d’opinione’. 33 Il profilo del turbamento da contatto visivo o comunque fisico assume una rilevanza, quantomeno sul piano della costruzione del tipo di reato, nel caso degli atti osceni; per quanto non si richieda la verifica di un disagio concretamente esperito da qualcuno, la fisionomia del fatto tipico resta basata su un’esperienza   116 Tra sentimenti ed eguale rispetto Inferire dalle teorie feinberghiane l’illegittimità tout court di in- criminazioni come ad esempio la propaganda razzista sarebbe però affrettato: va infatti rimarcato che Feinberg introduce una deroga espressa (ad hoc amendment) alla sua costruzione teorica al fine di dare un fondamento di legittimazione alla criminalizzazione di con- dotte di insulto rivolte a minoranze etniche, razziali, e religiose. Se infatti in linea di principio egli afferma che fra le massime di media- zione vada contemplato anche il cosiddetto ‘standard di universalità’, ossia la verifica che il comportamento offensivo sia ritenuto tale da una considerevole maggioranza di persone prese a campione dall’in- tera popolazione34, e dunque che l’offensività non debba essere de- dotta dal capriccio di pochi, nondimeno egli ritiene che vada fatta una deroga nel caso di offese indirizzate a certe minoranze, cui la mag- gioranza potrebbe restare indifferente ma che, agli occhi di Feinberg, dovrebbero meritare una rilevanza normativa. Se da un lato tale eccezione sembra introdurre una falla nella com- plessiva coerenza dell’impianto teorico feinberghiano35, dall’altro lato la deroga evidenzia come anche all’interno di posizioni fortemente li- berali sia avvertita l’esigenza di lasciare aperta la possibilità di limiti a determinate forme e contenuti espressivi: la motivazione non risiede nell’eventuale turbamento emotivo (diversamente ricadrebbe nel di- scorso delle nuisance), ma le ragioni sono più plausibilmente da ricer- carsi sul piano dei principi normativi e, in particolare, in relazione alle modalità tramite le quali una democrazia liberale dovrebbe tutelare le minoranze in una cornice di uguaglianza sostanziale. Appare evidente che la partita decisiva si gioca su valori; sia il principio dello Harm, sia il principio dell’Offense, non possono fare affidamento una base oggettiva e neutrale al punto da poter prescin- dere da una preliminare scelta assiologica su quali siano gli interessi la cui lesione deve essere considerata rilevante 36 e soprattutto su co- visiva, e che dunque richiede un contatto fra soggetti e non può limitarsi alla semplice presa di conoscenza. 34 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, cit., pp. 26 ss. 35 Per un’attenta critica v. MANIACI, Come interpretare il principio del danno, in Ragion pratica, 1/2017, pp. 160 ss. 36 FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. I, cit., pp. 315 ss.; sulla componente valoriale del concetto di danno cfr. FIANDACA, Punire la semplice immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a ri- proporsi, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori, diritto penale, cit., p. 225.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 117 me debbano essere bilanciate le opposte pretese. Nell’impostazione feinberghiana, comunque incentrata su aspetti di sensibilità soggetti- va, tale ruolo è svolto, come detto, dalle c.d. ‘massime di mediazione’; va però osservato che dopo Feinberg l’evoluzione dell’Offense Princi- ple sarà caratterizzato da un processo di ‘depsicologizzazione’, il qua- le condurrà a definizioni normativamente più pregnanti, per quanto ancor problematiche, come ad esempio quella proposta da Andrew Von Hirsch 37. Tirando le fila del discorso, un approccio puramente ‘naturalisti- co-emozionale’ al problema della tutela di sentimenti appare difficil- mente praticabile poiché finirebbe per incrementare la conflittualità. Secondariamente, anche le declinazioni a nostro avviso più vicine all’approccio naturalistico rivelano l’ineludibilità di un filtro norma- tivo delle pretese, volto a distinguere fra atteggiamenti ragionevoli e irragionevoli secondo una prospettiva di tollerabilità sociale. Il pas- saggio al piano di una considerazione delle emozioni e dei sentimenti da un punto di vista normativo è dunque inevitabile, così come è ine- vitabile far confluire le diverse istanze in una prospettiva di bilan- ciamento. Tale esigenza viene approfondita in particolar modo dalla statuni- tense Martha Nussbaum, e proprio a partire dalle sue elaborazioni cercheremo di illustrare le coordinate di un approccio alternativo. 37 VON HIRSCH, The Offence Principle in Criminal Law: Affront to Sensibility or Wrongdoing?, in 11 King’s Law Journal, 2000, pp. 82 ss. Il correttivo adottato da Von Hirsch – il quale ritiene che, inteso come ‘affront to sensibility’, l’Offense Prin- ciple sia troppo espansivo – consiste nel valutare la condotta ritenuta offensiva sia secondo parametri di adeguatezza sociale, sia soprattutto includendo nel giudizio il principio morale del reciproco rispetto: «All three reasons invoke convention to give social meaning to the conduct, but entail a further reason of a moral kind, concerned with treating others with proper respect»; v anche ID., I concetti di “danno” e “molestia” come criteri politico-criminali nell’ambito della dottrina pena- listica angloamericana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, cit., pp. 35 ss. Nel complesso, l’Offense feinberghiana è stata sottoposta a un graduale processo di depsicologizzazione che ne ha ridotto in buona parte il divario con lo Harm; osserva icasticamente HÖRNLE, Offensive Behaviour and German Penal Law, cit., p. 268, che «If one does not view “offense to others” as a psychological phenome- non, as does Feinberg, but as a normative concept, the conceptual difference between harm and offense disappears».   118 Tra sentimenti ed eguale rispetto 3. Approccio ‘razionalistico-normativo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum Definiamo ‘razionalistico-normativo’ un approccio teorico che su- bordini la rilevanza giuridica di atteggiamenti emotivi e di fatti di sentimento alla valutazione dei relativi contenuti cognitivi, e in parti- colare alla verifica dell’adeguatezza del giudizio di valore alla base dell’atteggiamento emozionale, intesa come consonanza o compatibi- lità rispetto a principi base della convivenza. Martha Nussbaum assume come presupposto l’innegabile rilevan- za del fattore emozionale nel diritto e nelle questioni di etica pubbli- ca, sostenendo la necessità di un ‘buon uso’ delle emozioni, non di un avallo acritico, alla luce di ragioni che si intrecciano con profili di psicologia sociale e con valori di fondo connessi ai sistemi politici e ai modelli di democrazia. Per ora ci limitiamo a sintetizzare il cuore della prospettiva politi- co-normativa della Nussbaum, al fine di evidenziare come, rispetto alla teorizzazione di Feinberg, la componente sensoriale-emotiva ri- sulti decisamente in secondo piano. L’obiettivo che emerge dalle ope- re della Nussbaum è l’educazione dei legislatori e dei giudici a un ascolto critico e consapevole delle emozioni individuali e collettive, finalizzato a gettare luce sul riconoscimento di diritti e a non asse- condare atteggiamenti fondati su generalizzazioni e stereotipi di- scriminatori che collidono con i valori di una democrazia liberale. Secondo la Nussbaum, l’emozione ha un ruolo rilevante nella for- mazione delle opinioni e dei giudizi dell’individuo, non è un moto cieco e irriflesso ma implica credenze che possono essere più o meno attendibili o ragionevoli (vedi supra, cap. II). È fondamentale inter- rogarsi sui contenuti di pensiero alla base delle emozioni per poter maturare un atteggiamento selettivo sul piano giuridico: «[i] giudizi sulle credenze valutative sono essenziali per il ruolo giocato dalle emozioni nel diritto»38. Conseguentemente, l’etica pubblica non do- vrebbe essere fondata su una matrice puramente emotiva: risulta es- senziale un filtro normativo, ossia un passaggio di confronto fra l’emozione in senso psicologico, i fondamenti cognitivi e un’assiolo- gia di riferimento. È emblematico il caso di un’emozione particolarmente radicata nelle società umane come il disgusto, il quale nella sua dimensione primaria ha la funzione di proteggere l’essere umano da fattori con-  38 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., p. 53.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 119 taminanti, rappresentando un fondamentale strumento di sopravvi- venza in rapporto a un’importante sfida adattiva 39: quella di evitare il contatto con sostanze pericolose o nocive per la salute, stando ad esempio lontano da corpi in decomposizione, non abbeverandosi o nutrendosi da fonti di potenziali malattie et similia. Il disgusto esiste per condurre l’essere umano a un approccio se- lettivo, la cui traiettoria era, in origine, rivolta a oggetti cosiddetti ‘pri- mari’ (sangue, feci, sperma, urina, muco, cadaveri), e che con l’evolu- zione dei contesti culturali e delle norme sociali ha subìto un riadat- tamento in termini di proiezione40. Si parla di disgusto ‘proiettivo’ per indicare il caso in cui tale emozione si rivolga a individui o a gruppi di individui in virtù di un’associazione immaginativa deter- minata da norme sociali o dallo stretto contatto del gruppo con og- getti ‘primari’ del disgusto 41. In questo modo esso rischia di farsi por- tatore di una carica discriminatoria poiché si lega a idee di contami- nazione e a un rifiuto dell’animalità (e dunque della limitatezza e del- la mortalità) umana che conduce all’emarginazione e alla stigmatiz- zazione di ciò che può essere percepito come anomalo o ‘diverso’42, fino all’avversione verso soggetti riconducibili a cosiddetti ‘gruppi impopolari’ (minoranze razziali, ebrei, omosessuali, ecc.). Le riflessioni di Martha Nussbaum rappresentano un’importante coordinata riguardo al problema della tutela di sentimenti, per quan- to vadano fatte alcune precisazioni: l’oggetto principale delle analisi della studiosa sono gli atteggiamenti emozionali collettivi e i loro ri- flessi sul piano delle scelte di politica del diritto e, in particolare, di politica penale. In che termini tali indicazioni possono essere utiliz- 39 HAIDT, Menti tribali, cit., p. 159. 40 Come osservano gli antropologi Dan Sperber e Lawrence Hirschfeld, citati da Jonathan Haidt, bisogna distinguere tra fattori di attivazione originari, ossia gli oggetti per i quali la funzione adattiva è stata progettata dall’evoluzione, e fat- tori scatenanti che possono accidentalmente attivare quella reazione, anche in assenza di pericoli reali, in forza di percezioni erronee dovute a distorsioni senso- riali o a condizionamenti socio-culturali. Osserva Haidt che «[l]e variazioni cultu- rali della morale si possono in parte spiegare con il fatto che le culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il numero di fattori scatenanti attuali di un qual- siasi modulo», v. HAIDT, Menti tribali, cit. p. 158. 41 NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., p. 86. 42 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., pp. 98, 157. Per una diversa opinione, volta a sottolineare aspetti in relazione ai quali l’emozione del disgusto può risul- tare importante nel giudizio morale e, secondo gli esempi riportati dall’Autore, anche nelle dinamiche del giudizio penale, v. KAHAN, The Progressive Appropria- tion of Disgust, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law, cit., pp. 63 ss.   120 Tra sentimenti ed eguale rispetto zate relativamente ai problemi concernenti la libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti altrui? Il suggerimento traibile dalle riflessioni della Nussbaum concerne l’esigenza di verificare in quale misura eventuali richieste di tutela per un dato sentimento trovino la propria matrice in atteggiamenti che, ad un’attenta valutazione sul piano cognitivo-razionale, rivelano una tendenza al rifiuto dell’altro, e dunque una portata sostanzial- mente discriminatoria. Ci sembra un avvertimento quantomeno opportuno e ben spendi- bile in rapporto alle odierne politiche penali, in cui l’ascolto di emo- zioni collettive si è talvolta rivelato strumentale all’emanazione di provvedimenti volti a raccogliere consenso43, senza valutare, o me- glio omettendo talvolta volutamente di considerare, se e in che misu- ra certe emozioni siano il riflesso di atteggiamenti che una democra- zia basata su libertà e uguaglianza non dovrebbe assecondare. Il punto nodale per addivenire a un modello di intervento orienta- to in termini non puramente emozionali è la previa ‘interpretazione’ delle dimensioni di significato di determinante emozioni e sentimen- ti, da considerarsi dunque non nella loro ‘bruta’ naturalità, bensì soppesandone la rilevanza soggettiva e sociale, e bilanciandola con un sistema di diritti di libertà il quale è a sua volta il precipitato di scelte di valore. La questione dell’orizzonte assiologico cui fare riferimento è cen- trale sia per inquadrare la fisionomia del modello normativo sia per il successivo sviluppo del discorso concernente gli equilibri relativi ai rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione.  43 Il problema rimanda al tema del cosiddetto ‘populismo penale’: per una pa- noramica v. PULITANÒ, Populismi e penale. Sull’attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, pp. 125 ss.; FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, pp. 102 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 121 SEZIONE II Coordinate assiologiche «Quando sento parlare di idee liberali mi meraviglio sempre di come gli uo- mini giochino volentieri con parole vuote: un’idea non può essere liberale! Deve essere vigorosa, efficace, in sé compiuta, in modo da adempiere alla sua divina missione di riuscire feconda. Ancor meno può essere liberale il concetto; infatti ha un compito completamente diverso» GOETHE J.W., Massime e riflessioni, p. 57 «Non possiamo mai né atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o dell’individualismo, né essere semplicemente comunitaristi o liberali, modernisti o postmodernisti; dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora l’altra, a secon- da delle circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio» WALZER M., Sulla tolleranza, p. 154 «E non abbiamo ciascuno lo stesso sentimento?» PIRANDELLO L., Il fu Mattia Pascal SOMMARIO: 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica. – 4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste. – 4.2. Dai valori collettivi all’indivi- dualismo democratico. – 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metoni- mico’ e personologico. – 6. Sinossi. 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica Il modello ‘razionalistico-normativo’ appare quello più funzionale allo sviluppo delle nostre riflessioni, e pone in primo piano la que- stione di quali debbano essere gli assunti valoriali e i principi-guida in rapporto ai quali valutare se determinati ‘sentimenti-valori’ possa- no ragionevolmente accreditarsi come meritevoli di una qualche pro- tezione. Tale problema si articola in diversi piani di analisi: a un primo li-  122 Tra sentimenti ed eguale rispetto vello l’inquadramento di una cornice assiologica è funzionale all’in- terpretazione delle fattispecie vigenti, e trova nella Carta costituzio- nale il referente primario. Come abbiamo avuto modo di osservare, l’impronta ideologica che connota la fisionomia dei reati a tutela di ‘sentimenti’ presenti nel codice penale mostra una distonia rispetto ai principi della Costi- tuzione italiana: nei casi più evidenti ciò ha condotto alla caduta di importanti disposizioni (si pensi all’art. 402 c.p.44), mentre in altri ambiti vi è stata una radicale reimpostazione, a livello giurispruden- ziale, della prospettiva di tutela (si pensi ai reati a tutela della pubbli- ca moralità e del buon costume 45). Negli esempi menzionati si è trattato di eliminare contrasti la cui evidenza ha reso sostanzialmente agevole all’interprete capire quale potesse essere la strada ‘giusta’, o, più cautamente, la soluzione meno in contrasto con la Carta fondamentale, facendo leva in particolare sul connubio fra uguaglianza e laicità: l’uguaglianza ha costituito il parametro costituzionale fondamentale46, mentre attraverso il prin- cipio supremo di laicità 47 la Corte ha delineato la cornice assiologica di base, riconoscendo espressamente il pluralismo come un valore, non solo come un dato di fatto 48. 44 V. supra, cap. III, nota 24. 45 V. supra, cap. III, nota 37 per i riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale. 46 Si basa sul principio di uguaglianza il nucleo motivazionale della sentenza C. cost., n. 508/2000; per una contestualizzazione di tale pronuncia nel quadro della giurisprudenza costituzionale in materia di uguaglianza, v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale, cit., pp. 152 ss. Relativamente al tema del buon costume, la giurisprudenza costituzionale non è mai arrivata a pronunce di illegittimità, ma solo perché «il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più in casi in cui la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe, quanto- meno per qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il legislatore considera inequivocabilmente come illeciti penali – impone il mantenimento in vita di una norma di legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato conforme a Costituzione»: con queste parole la Corte, con la sentenza n. 368 del 1992, ha salvato la norma che incrimina le pubblicazioni oscene rimar- cando la necessità di un’interpretazione adeguatrice coerente con gli artt. 21, 27, 2, 3, 13 e 25 Cost. 47 Sulla laicità come principio supremo, o più precisamente come ‘meta- principio’, v., nel contesto penalistico, PALIERO, La laicità penale alla sfida del ‘se- colo delle paure’, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2016, pp. 1164 ss. 48 Questo il messaggio fondamentale che ci sembra leggibile nel richiamo al principio di laicità che «[caratterizza] in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e   Sensibilità individuali e libertà di espressione 123 Vi è poi un secondo livello in cui l’individuazione di coordinate assiologiche ‘vincolanti’ a livello costituzionale diviene più sfumato, e meno univoco: il problema emerge sia in relazione al quadro di in- criminazioni oggi vigenti in cui vengono in gioco bilanciamenti con la libertà di espressione – non solo l’ambito del sentimento religioso ma anche le discusse norme sulla propaganda razzista – e si proietta, con ulteriore complessità, nella riflessione de jure condendo. Il sospetto di una illegittima compressione di spazi di libertà sem- bra richiedere un onere argomentativo più gravoso poiché, pur te- nendo sempre ben presente la bussola assiologica della Costituzione, il giurista penale si trova a doverne constatare la limitata precettività, ossia la compatibilità con un ventaglio di prospettive di segno diverso le quali potrebbero risultare tutte ‘non illegittime’ 49. Proprio quando si fanno più stringenti le esigenze di individuare soluzioni che ambiscano a una legittimazione costituzionale ‘forte’, e specialmente quando le materie da regolare chiedano al diritto prese di posizione che implicano l’assunzione di un punto di vista ideologi- camente pregnante50, la speranza di trovare nel testo costituzionale tradizioni diverse», testualmente contenuto nella sentenza n. 508/2000 (ma si ve- da anche l’inciso finale della sentenza n. 440/1995 sulla parziale illegittimità costi- tuzionale dell’incriminazione della bestemmia). Per la distinzione tra pluralismo come fatto e come atteggiamento v. MARCONI, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino, 2007, pp. 89 ss.; BARBERIS, Etica per giuristi, Roma-Bari, 2006, pp. 105 ss., 157 ss. Per una sintesi della portata assiologica e costituzionale del principio di laicità v., ex plurimis, BARBERA, Il cammino della laicità, in AA.VV., a cura di Ca- nestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bologna, 2009, pp. 19 ss.; nell’ambito penalistico, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Laicità del diritto penale, cit., pp. 167 ss.; PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., pp. 283 ss.; PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, cit., pp. 440 ss.; CANESTRARI, Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in AA.VV., a cura di Dolcini- Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, cit., pp. 139 ss.; EUSEBI, Laicità e di- gnità umana nel diritto penale (pena, elementi del reato, biogiuridica), in AA.VV., a cura di Bertolino-Forti, Scritti per Federico Stella, Napoli, 2007, pp. 163 ss.; FORTI, Alla ricerca di un luogo per la laicità: il “potenziale di verità” nelle democrazie libera- li, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto pe- nale, cit., pp. 349 ss.; ROMANO, Principio di laicità dello Stato, religioni, norme pe- nali, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale, cit., pp. 209 ss. Sul tema della laicità del diritto penale e delle connessioni con l’etica cattolica, v., per tutti, STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in AA.VV., a cura di Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, cit., pp. 317 ss. 49 FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2007, p. 1268. 50 FIANDACA, I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2011, pp. 1383 ss.   124 Tra sentimenti ed eguale rispetto una risposta definitiva deve fare i conti con una vocazione pluralisti- ca della Carta 51, la quale non addita soluzioni univoche ma è «suscet- tibile di subire più interpretazioni e più modalità di attuazione, entro uno spazio di discrezionalità politico-valutativa all’interno del quale nessuna interpretazione o modalità di attuazione può vantare titoli per imporsi come l’unica corretta o, al contrario, essere censurata perché scorretta» 52. Va dunque ridimensionata l’ambizione di usare il testo costituzio- nale come ‘strumento di precisione chirurgica’ per tratteggiare diret- tive univoche che consentano al giurista positivo di accreditare da un punto di vista intraordinamentale risposte concernenti conflitti fra libertà di espressione e sensibilità soggettive 53. Alla luce di tale panorama si è esortato a fare un uso ‘avveduto e parsimonioso’ della Costituzione 54. A nostro avviso, tale uso prudente potrebbe essere accompagnato, financo ‘compensato’, da una rifles- sione che esplori un ulteriore livello di normatività, trascendente sia il contesto codicistico sia l’orizzonte costituzionale 55, nella consape- 51 Sul pluralismo della Carta costituzionale italiana, in termini problematizzanti, v. ANGIOLINI, Il «pluralismo» nella Costituzione e la Costituzione per il «pluralismo», in AA.VV., a cura di Bin-Pinelli, I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costitu- zionale, Torino, 1996, pp. 14 ss. Fra i penalisti, con particolare riferimento al carat- tere non esaustivo dei principi costituzionali per la scelta degli oggetti di tutela, v. PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, cit., pp. 377 ss.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale, cit., pp. 160 ss. 52 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 244; cfr. DONINI, “Danno” e “offesa” nel- la c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1576: «la fondazione positiva [...] di ciò che può essere reato, esige una ricostruzione più complessa, che trova nella Costi- tuzione, per es., solo alcuni, pur rilevanti parametri che convergono insieme nel dare al reato anche un volto positivo di matrice costituzionalistica». 53 Sulla teorizzazione di diversi modelli di rapporto e di conflitto fra principi costituzionali (modello ‘minimalista’ e modello del bilanciamento, a sua volta su- scettibile di essere declinato come modello ‘irenistico’ e modello ‘particolaristi- co’), v. CELANO, Diritti, principi e valori nello Stato costituzionale di diritto: tre ipo- tesi di ricostruzione, in Diritto e questioni pubbliche, 4/2004, pp. 8 ss. 54 Sono parole di VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 243. 55 Tale istanza metodologica viene tematizzata ad esempio in FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1389 ss., quando parla di ‘coordinate teoriche e assio- logiche’ del diritto penale contemporaneo facendo riferimento ai concetti di plu- ralismo, ‘ragione pubblica’, costituzionalismo e laicità. Con riferimento all’ambito costituzionalistico v. SILVESTRI, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Roma-Bari, 2009, p. 36. Sul ricorso ad argo- mentazioni morali sostanziali nell’applicazione di disposizioni costituzionali, v. CELANO, Diritti, principi e valori, cit., pp. 2 s.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 125 volezza che «l’interpretazione delle disposizioni costituzionali sui di- ritti non è questione di pura tecnica giuridica: è questione politica in senso pieno» 56. Tuttavia, anche una volta che ci si spinga al di là dello spazio normativo della Costituzione per far riferimento all’offerta teorica proveniente dall’ambito filosofico-politico i problemi non svaniscono. Nel discorso penalistico è d’uso il richiamo al liberalismo quale teoria politica di riferimento 57, ma anche tale soluzione non è suffi- ciente a definire prospettive univoche: si parla oggi di «pluralità di liberalismi» 58. Un generico richiamo al liberalismo rischia di dar luogo oggi a una ‘comfort zone’ teoretica la quale non favorisce il confronto fatico- so, e quasi traumatico, con teorie filosofico-politiche che esorbitano da una prospettiva dicotomica ‘liberale-illiberale’. La diversità di vedute concerne principalmente, ma non solo, gli equilibri di priorità fra ‘giusto’ e ‘bene’59, riflesso dell’alternativa fra un liberalismo propriamente politico e un liberalismo eticamente più ‘spesso’ 60. 56 PINTORE, I diritti della democrazia, Roma-Bari, 2003, p. 116. 57 Malgrado l’aspetto ossimorico dell’espressione ‘diritto penale liberale’, v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., p. 331. 58 MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in DWORKIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, 2007, pp. 128 ss. L’osservazione si riferi- sce in primo luogo alla coesistenza di correnti diverse interne all’idea liberale, ma evidenzia come le distinzioni possano dipendere anche dal contesto e dall’ambito disciplinare in cui viene spesa la nozione di ‘liberalismo’: esiste, ad esempio, an- che un «liberalismo dei giuristi [...] più attento alle caratteristiche legali e istitu- zionali» (p. 129). 59 È il problema nel quale si inscrive la dialettica fra posizioni à la Rawls, so- prattutto il Rawls dell’opera ‘Liberalismo politico’, e posizioni comunitariste. Te- sti di riferimento sono da un lato RAWLS, Liberalismo politico, tr. it. a cura di Fer- rara, Roma, 2008, e per le posizioni comunitariste v. per tutti SANDEL, Il liberali- smo e i limiti della giustizia, tr. it., Milano, 1994. Per una panoramica, v. VECA, La filosofia politica, Roma-Bari, 2009, pp. 92 ss. 60 In estrema sintesi, si definisce come ‘liberalismo politico’ la teoria che ritie- ne che lo Stato debba assumere a proprio fondamento una concezione morale minimale su cui sia possibile trovare un punto di incontro e di intersezione fra le diverse teorie morali presenti nella società plurale. In questo senso lo Stato do- vrebbe tendere a una neutralità. Dalla parte opposta, si argomenta come la ricer- ca di una neutralità possa portare da un lato a una eccessiva ‘asetticità valoriale’ e finisca per riservare un’attenzione insufficiente al discorso sulle preferenze e sul benessere degli individui, concependo un idealtipo di essere umano eccessiva- mente ‘vuoto’ e poco realistico. Nell’ampio panorama si vedano le declinazioni del   126 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nel prendere atto di tale realtà, il giurista penale è chiamato ad adottare uno sguardo più disincantato anche di fronte all’assioma co- stituito dal richiamo a valori liberali. Dire oggi ‘liberalismo’ equivale ad aprire un discorso gravido di implicazioni problematiche: «[l]’Oc- cidente considera oggi scontato il liberalismo»61, ma «[f]ra tutti i concetti etico-politici odierni, forse, non ve n’è uno che sia più di- scusso del concetto di liberalismo» 62. Il liberalismo rappresenta la cornice culturale, più meno consoli- data, nella quale il pensiero giuridico occidentale, e anche il pensiero penalistico italiano, contestualizzano le proprie riflessioni, ma «L’opzione per la democrazia liberale lascia aperti i problemi della po- litica, anche della politica del diritto. Non addita soluzioni obbligate di questioni eticamente sensibili, o anche solo politicamente sensibili. [...] Delinea (e non è poco) una cornice nella quale chiunque può con- frontarsi con ragioni presentate nel quadro di concezioni comprensive anche molto diverse, ma che possano avere qualcosa da dire su punti che interessano specificamente la politica del diritto» 63. È come dire che il rifugio sotto l’ampio ombrello della dizione ‘li- berale’ non è sufficiente a esaurire gli oneri argomentativi con cui il giurista contemporaneo dovrebbe sostenere una posizione di fronte a temi ad elevato tasso di pregnanza etica ed esposti a una marcata di- screzionalità politica 64. problema elaborate da DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, in DWOR- KIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, cit., pp. 14 ss. (strategia della ‘di- scontinuità’ e della ‘continuità’), e da MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del libera- lismo, cit., pp. 133 ss. (liberalismo ‘critico’ e liberalismo ‘realista’). Sul tema si ve- dano inoltre, ex plurimis, NUSSBAUM, Perfectionist Liberalism and Political Libera- lism, in 39 Philosophy and Public Affairs, 2011, pp. 3 ss.; KYMLICKA, Liberal Indivi- dualism and Liberal Neutrality, in 99 Ethics, 1999, pp. 883 ss.; per una sintesi del dibattito a partire dalle critiche di Dworkin a Rawls v. VIOLA, Liberalismo e libera- lismi, in Per la filosofia, 1999, pp. 67 ss. Sul tema della neutralità, o maggiore in- clusività del liberalismo politico rawlsiano, v., ex plurimis, DEL BÒ, La neutralità politica in John Rawls, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 1/2009, pp. 241 ss. In ambito penalistico, per un’approfondita rielaborazione di tali pro- blemi v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., pp. 312 ss. 61 DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., p. 7. 62 BARBERIS, Etica per giuristi, cit., p. 88. 63 PULITANÒ, Diritto penale, V ed., Torino, 2015, p. 24. 64 Più diffusamente, FIANDACA, I temi eticamente sensibili, cit., pp. 1400 ss.; 1412 ss.; con approccio simile, sebbene con accenti differenti che lo pongono più vicino alle posizioni rawlsiane, PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale, in Riv. it.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 127 A ben vedere un mero richiamo al liberalismo assume oggi una funzione metaetica, ossia è un presupposto per avviare un discorso su problemi pertinenti la dimensione etica sostanziale: le questioni più spinose prendono corpo in un contesto che dà per acquisiti diritti di libertà, ma è sui contenuti e sulle modalità di esercizio di determi- nati diritti nei rapporti fra individui che si annidano le complessità 65. 4.1. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste Alla luce del quadro descritto, è comprensibile che lo studioso di problemi penali sia chiamato in definitiva a elaborare proposte ‘poli- tiche’ nel senso nobile del termine, ossia a disegnare prospettive di politica del diritto e a emanciparsi da abiti mentali «che postulano una sorta di obbligo di prestazione scientifica consistente nel conce- pire modelli dogmatici di interpretazione del (presunto) sistema su- scettibili in quanto tali di fissare a priori, con nettezza e definitività, quel che è o non è legittimo trarre penalmente ai sensi della Costitu- zione» 66. L’individuazione di traiettorie assiologiche è l’esito di scelte che riflettono inevitabilmente le precomprensioni e la posizione valo- riale dell’interprete, in un contesto di non-neutralità. Cercheremo a questo punto di formulare ipotesi e proposte a par- tire da quella che ci sembra essere l’alternativa di fondo su cui si è imperniata fino ad oggi la discussione sul sentimento come problema di tutela nel contesto italiano, ossia se esso debba intendersi come richiamo ad atmosfere emozionali diffuse, e che si traducono in for- me di presidio a ideologie e concezioni valoriali proprie della mag- gioranza, oppure se nel richiamo al sentire umano sia rintracciabile dir proc. pen., 4/2013, pp. 1614 ss., 1633 ss., rimarca l’esigenza di tenere ben pre- sente a livello concettuale la distinzione fra valori politici e valori morali, pur ri- conoscendo l’impossibilità di posizioni neutrali. 65 Tale processo di complessificazione della prospettiva liberale si riflette an- che su categorie del pensiero giuridico. È importante notare come il principio del danno, lo Harm, abbia subito un graduale ampliamento dovuto non a una rifor- mulazione della struttura del concetto, bensì legato all’accentuarsi della proble- maticità delle premesse politico-filosofiche che ne guidano l’applicazione: è la ‘mappa del liberalismo’ a essere cambiata, osserva HARCOURT, The Collapse of the Harm Principle, in 90 The Journal of Criminal Law and Criminology, 1999, pp. 115 s., passando da un orizzonte basato sull’alternativa liberale-illiberale, a una pro- spettiva modulata su differenti modelli di liberalismo (Harcourt parla espressa- mente di ‘liberalismo progressista’ e ‘liberalismo conservatore’).  66 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 136.  128 Tra sentimenti ed eguale rispetto una istanza normativa differente, in grado di dare risalto alla dimen- sione del singolo e al connotato personalistico della Costituzione sen- za necessariamente confluire in un approccio ‘naturalistico-emozio- nale’ modulato su soggettivismi. Come osservato, nelle fattispecie dell’ordinamento italiano i ‘sen- timenti’ tutelati sono parte di una sfera emotiva sociale, ossia ‘atmo- sfere emozionali’ legate a valori assunti in un’ottica collettiva. Il sog- getto portatore degli interessi tutelati è un’entità plurale, una molti- tudine impersonale caratterizzata da valori asseritamente comuni 67. Nell’attuale momento storico la reificazione di entità definite come ‘valori collettivi’ non appare più legata a una retorica statocentrica, ma si presenta piuttosto come possibile reazione a un indebolimento del- l’omogeneità etica e culturale indotto dal pluralismo fattuale 68. 67 «[I]l principio di massima è che il sentimento, anche quando rileva come fatto di coscienza individuale, rileva nella misura in cui è collegato ad un fatto non individuale, appunto a un modo di sentire sociale, a un’atmosfera emoziona- le socialmente diffusa e divisa in più o meno larghi ambiti da un’intera comuni- tà», v. FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 320. Si valuti ad esempio l’interesse de- nominato ‘sentimento religioso’: il codice Rocco si pone a tutela, nelle rubriche e nella sostanza, alla sola ‘religione di Stato’. È interessante notare come anche do- po l’entrata in vigore della Carta costituzionale, l’oggetto di tutela viene ricostrui- to in un’ottica prettamente collettivistica che privilegia il dato dell’adesione quan- titativa. Pensiamo agli argomenti che la giurisprudenza costituzionale italiana ha adoperato per motivare il differenziato regime di tutela penale del culto cattolico, sia precedentemente sia successivamente alla modifica del Concordato: la Corte nel 1957 parla di «antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi tota- lità del quale ad essa sempre appartiene», e nel 1958 ne legittima la tutela penale in quanto «professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di particolare tutela penale, per la maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette [in quanto l’] universalità di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popo- lo italiano è rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l’avvento della Costituzione», C. cost., n. 79/1958. Per una riflessione penalistica sul pluralismo delle fedi in Italia v. VISCONTI C., La tutela penale della religione, cit., pp. 1037 ss.; per una panoramica extragiuridica v. GARELLI, Il sentimento religioso in Italia, in Il Mulino, 5/2003, pp. 817 ss. 68 L’impatto della pluralità nella società contemporanea è parte di un processo «che vede la graduale erosione del fondamento tradizionalistico e religioso dei co- stumi e delle istituzioni a vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’am- bito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e assottigliarsi, per così dire, lo spessore di oggettività degli oggetti sociali [...] Questo processo di “umanizzazione” – di riconduzione ai suoi soggetti ultimi, le persone umane – della vita sociale corrisponde anche a una progressiva estensione dell’ambito delle opzio- ni soggette alla scelta e responsabilità degli individui, e alla giurisdizione della ra- gione», v. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano, 2010, pp. 83 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 129 In ambito sociologico si riassume tale fenomeno affermando che la modernità pluralizza e deistituzionalizza69. La pluralizzazione na- sce dall’incontro di gruppi diversi, chiamati a condividere territori e spazi comuni in situazioni di mescolanza nelle quali diviene più dif- ficile, se non addirittura impossibile, addivenire a un consenso cogni- tivo e normativo, ossia a una visione del mondo omogenea e condivi- sa. L’allargamento del mercato delle idee moltiplica la possibilità di approcci alternativi alla realtà e contribuisce in questo senso a rende- re la costruzione della propria identità una questione di scelte e non l’esito scontato di programmi socialmente precostituiti 70. A seconda delle cadenze, l’appello a valori comuni giustificati sulla base di un sentire condiviso può rivelare sfumature di autoritarismo etico, soprattutto quando il ‘sentire comune’ sia addotto per sottoli- neare contrapposizioni sul piano valoriale: paradossalmente l’appello a un substrato di emozionalità condivisa può essere adoperato al fine di marcare differenze in termini di esclusione piuttosto che di inclu- sione. Fino a che punto ciò risulta compatibile con i valori di una demo- crazia liberale? Anche in questo caso l’appello al paradigma liberale non è suffi- ciente a definire risposte univoche, mantenendo aperti spazi di di- screzionalità politica, e in particolare rimandando alla discussione concernente l’alternativa fra un liberalismo di tipo ‘individualistico’ e un liberalismo di marca ‘comunitarista’. Le differenze fra le due cor- renti investono diversi profili della teoria politica; in estrema sintesi, secondo le teorie comunitariste «la comunità viene assunta ora come nucleo centrale di un paradigma normativo, a carattere etico o politi- co, ora come uno standard meta-etico, un parametro per la giustifi- cazione dei valori» 71; l’approccio individualista, più vicino al modello 69 BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diven- tare fanatici, tr. it., Bologna, 2011, pp. 14 ss. 70 Di fronte alle dinamiche di relativizzazione indotte dall’incremento di plura- lità nel tessuto sociale gli individui tendono a erigere delle ‘difese cognitive’, ossia ad affidarsi a esercizi mentali e strategie per mantenere alta la visione del mondo e l’approccio alla realtà a cui si dà credito. Nelle società contemporanee tale fe- nomeno può avere riflessi nelle determinazioni di politica del diritto: per placare l’ansia scaturita dall’irrompere della relativizzazione si erigono difese cognitive istituzionali, strumentalizzando il diritto quale veicolo promotore di valori identi- tari, v. BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio, cit., pp. 18 ss. 71 PARIOTTI, voce Comunitarismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. III, p. 2125.   130 Tra sentimenti ed eguale rispetto liberale classico, pone al centro dell’orizzonte etico e normativo l’in- dividuo, non la comunità 72. A partire da queste premesse, si riflette anche nella prospettiva giuridica l’alternativa fra una declinazione del problema di tutela del sentimento incentrato sul momento di condivisione collettiva, ancor- ché parziale e non universalistica, e una diversa prospettiva che met- ta al centro l’individuo e le sue libertà da bilanciarsi in un’ottica di reciprocità egualitaria con i propri simili. 4.2. Dai valori collettivi all’individualismo democratico Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno criticato a fondo l’evocazione di ‘valori collettivi’73: uno Stato che assegni rilevanza 72 Per un quadro ricostruttivo si vedano i saggi contenuti in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, Roma, 2000; FERRARA, Introduzione, in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, cit., pp. X ss.; per una definizione di ‘individualismo comprensivo’ e una ricostruzione critica v. LARMORE, Dare ra- gioni. Il soggetto, l’etica, la politica, Torino, 2008, pp. 119 ss. La distinzione fra li- beralismo di marca individualista e comunitario emerge anche nel discorso di Joel Feinberg. L’Autore specifica che la sua aderenza all’idea liberale va conte- stualizzata: Feinberg sembra prendere con cautela, financo negare, la propria aderenza all’idea liberale classica secondo la quale autonomia dell’individuo e comunità costituirebbero due antitesi; nel discorso sulla legittimazione del diritto penale il filosofo americano dichiara di adoperare una concezione di liberalismo ‘in a narrow sense’ che non si identifica con un liberalismo estremo inteso quale contrapposizione a un’idea di comunità, v. FEINBERG, Harmless Wrongdoing, cit., pp. 81 ss., 113 ss., 120 ss. 73 Ricordiamo le parole di Herbert Hart: “Sembra terribilmente facile pensare che la lealtà verso i principi democratici esiga che si accetti ciò che possiamo chiamare populismo morale: l’idea che la maggioranza abbia un diritto morale a stabilire come tutti devono vivere [...]. L’errore fondamentale consiste nel non di- stinguere il principio accettabile secondo il quale il potere politico è meglio affi- dato alla maggioranza, dalla pretesa inaccettabile che ciò che la maggioranza fa con quel potere, sia al di sopra di ogni critica e che non ci si possa mai opporre ad esso. Nessuno può dirsi democratico se non accetta il primo di questi principi, ma nessun democratico è tenuto ad accettare il secondo», v. HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp. 95 s. Si tratta della ben nota risposta che il filosofo oxoniese die- de al giudice Patrick Devlin, e al suo ‘The Enforcement of Morals’, nel quale si ri- conduce la moralità all’atteggiamento etico dominante nella popolazione: «Every moral judgement, unless it claims a divine source, is simply a feeling that no right-minded man could behave in any other way without admitting that he was doing wrong. It is the power of a common sense and not the power of reason that is behind the judgements of society», v. DEVLIN, The Enforcement of Morals, New York-Toronto, 1965, p. 17.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 131 normativa a un particolare modo di dar valore a oggetti e idee in quanto condiviso dalla maggioranza, sta di fatto considerando gli appartenenti alla maggioranza in una condizione privilegiata rispetto agli altri cittadini. In altri termini, è ben possibile che il principio di maggioranza 74 trasmodi in un principio di ‘tracotanza’ 75. Più recentemente, nell’ambito della filosofia analitica, si è affer- mato che il tema dei valori condivisi è una «questione relativa alle credenze o alle opinioni condivise, secondo le quali una o più cose pos- siedono un certo valore» 76. Quando si cerca di spiegare a quali condi- zioni un certo valore possa dirsi ‘condiviso’, la motivazione più sem- plice e più immediata è la cosiddetta ‘teoria sommativa’: si ha condi- visione quando la maggior parte dei membri di un dato contesto o di una comunità assegnano valore alla medesima cosa. La domanda a questo punto è se una spiegazione sommativa sia sufficiente per affermare che in una società vi è realmente condivi- sione di valori, e, di conseguenza, per ritenere che ciascun soggetto abbia lo status, ossia la legittimazione, per pretendere che il compor- tamento dei propri simili debba essere rispettoso e coerente con i va- lori condivisi dalla maggioranza. Si è osservato che «se due o più persone hanno una certa opinio- ne, esse possiedono, evidentemente, un certo grado di identità quali- tativa. In generale, tuttavia, tale identità fornisce agli individui umani soltanto una forma superficiale di unità [...] I valori condivisi in sen- so sommativo uniscono soltanto in un modo superficiale» 77. In altri termini, un riscontro storico-quantitativo della massiva adesione a un determinato valore in una società non dovrebbe esse- re considerato elemento sufficiente a fondare alcun tipo di pretesa nei confronti dei cittadini78, salvo il caso di un impegno espresso 74 Ex plurimis, VIOLA, Il principio di maggioranza e la verità in una democrazia, in Dialoghi, 3/2004, p. 1 ss. 75 HART, Diritto, morale e libertà, cit., pp. 86 ss. 76 GILBERT, Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, tr. it., Milano, 2015, p. 48. 77 GILBERT, Il noi collettivo, cit., pp. 56 s. 78 Una critica alla concezione ‘sommativa’ della democrazia è leggibile, a no- stro avviso, anche nelle parole di chi, nella dottrina penalistica, ha sottolineato che «[a]derire al metodo democratico non significa acconsentire alle idee dei più, bensì optare per una modalità collettiva, comunitaria, consensuale di creazione delle regole – valide poi per tutti – non fondate sul fattore-forza [...] La legalità democratica richiede ben oltre complesse tecniche di calcolo, l’adesione convinta a principi formulati in modo condiviso e perciò corresponsabilmente vincolanti»,   132 Tra sentimenti ed eguale rispetto che le parti accettino consapevolmente 79. Il sentire umano, nelle forme del sentimento e dell’emozione, è fattore di diversità, ma è anche, di base, il correlato fenomenico di un’uguaglianza di fondo fra individui resi al contempo uguali e diver- si dalle disposizioni del sentire: uguali in potenza, diversi in atto. La varietà di soglie di sensibilità, di assiologie personali e di repertori emotivi dei singoli sono parte di una dotazione universalmente con- divisa: tutti gli esseri umani (in assenza di condizioni patologiche) provano emozioni e sentimenti, e sulla base di tale potenzialità co- mune prende successivamente corpo la diversità. Per cercare di dare rilievo alla dimensione del sentire quale con- notato a vocazione universalistica, e non semplicemente quale base di frammentazione e di rivendica, ci sembra ragionevole prendere le distanze da strumentalizzazioni del sentimento in chiave identitaria, per riorientare la prospettiva a partire da diritti di libertà funzionali a consentire a ciascun cittadino di vivere la propria ‘assiologia voca- zionale’ 80. La sfida che sentimenti ed emozioni pongono oggi al diritto pena- le si focalizza sul riconoscimento di un’eguale dignità fra persone concretamente diverse, nella consapevolezza della varietà di preferen- v. MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti, cit., p. 85. Anche EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale, cit., p. 172, sottolinea che il principio di laicità richiede che le regole giuridiche di uno Stato non siano configurate secon- do ciò che è comprensibile solo nell’ambito di una specifica concezione morale anche se maggioritaria. 79 L’elemento dirimente, e necessario, affinché si passi da una semplice condi- visione in senso sommativo a una condivisione tale da poter generare unità socia- le, è, secondo Margaret Gilbert, il cosiddetto ‘impegno congiunto’: «l’impegno congiunto è l’impegno a credere come un corpo unitario che una certa cosa C ab- bia un determinato valore V», v. GILBERT, Il noi collettivo, cit., p. 62. Gilbert, pur non discostandosi da un piano analitico-concettuale, non tralascia considerazioni su profili più propriamente politici: «[e]videntemente, il fatto che si abbia lo sta- tus per fare pressione sugli altri, se gli altri agiscono nell’inosservanza di un certo valore, non implica né che, in fin dei conti, si debba esercitare questa pressione, né che, in virtù di un impegno, si abbia ragione di farlo». Il caveat più significati- vo si rivolge, non a caso, all’ipotesi di adoperare il diritto penale quale strumento per la salvaguardia di valori collettivi. Anche in presenza di valori che possono dirsi ‘collettivi’ in virtù di presupposti assimilabili all’idea di ‘impegno congiunto’, e non solo di una mera spiegazione sommativa, la legittimità della pretesa di im- porre il rispetto di tali valori con strumenti normativi dipende da considerazioni sostanziali sul merito dei valori assunti a riferimento, sulla loro ‘correttezza’. ‘Va- lore collettivo’ non è di per sé sinonimo di un sentire ‘corretto’. 80 Traggo l’espressione e il concetto da DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., pp. 115 ss.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 133 ze e dei molteplici, possibili stili e concezioni della vita buona. In questo senso appare importante evidenziare la matrice indivi- dualistica dei diritti di libertà: «significa che prima viene l’individuo, si badi, l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato e non viceversa, che lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato» 81. Col richiamo al momento individualistico non intendiamo adom- brare la vocazione solidaristica e la proiezione relazionale dei diritti di libertà, ben leggibile nelle trame della Carta costituzionale 82. Rite- niamo però che il problema della tutela di sentimenti debba essere oggetto di un deciso cambio di prospettiva che rompa con la tradi- zione del passato, nella quale il richiamo alla socialità era divenuto sinonimo di ‘statualità’, di dominio della collettività sul singolo, di assorbimento dell’individuo nel gruppo. Si rende in questo senso ne- cessario rinsaldare la connessione fra il sentimento e il principio per- sonalistico che pone «a base di tutto il sistema di rapporti fra stato e singoli l’esigenza di rispetto della persona, della ‘dignità’ corrispon- dente alla qualità dell’uomo come tale, quale che sia la posizione so- ciale rivestita» 83. Rispetto alla retorica comunitarista-identitaria, un’alternativa che emerge oggi nel pensiero politico e che a nostro avviso si candida come sintesi ragionevole tra individualismo e ottica solidaristica, è il cosid- detto ‘individualismo democratico’ elaborato da Nadia Urbinati 84: una 81 BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 1990, p. 59. Nel panorama penalistico si sof- ferma sul fondamento individualistico dei diritti PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale, cit., pp. 1616 s. Il rapporto fra liberalismo e attenzione alle differenze è teorizzato in modo peculiare da Rosenfeld, il quale contrappone il liberalismo in senso classico, di marca individualistica, a una posizione politica che riconosce valore alla pluralità, da Rosenfeld definita ‘pluralism’, e che saremmo portati a tradurre con ‘liberalismo pluralista’. La distinzione di Rosenfeld non ci sembra però tesa a confutare la matrice individualistica dei diritti di libertà, ma a sottoli- neare come l’attenzione alla dimensione del singolo, tipica del liberalismo classi- co, risulti poco funzionale alla tematizzazione delle appartenenze e dell’identità: v. ROSENFELD, Equality and the Dialectic between Identity and Difference, in AA.VV., ed. by Payrow Shabani, Multiculturalism and Law: A Critical Debate, Uni- versity of Wales, 2006, paper n. 133, pp. 15 ss., 25 ss. 82 Ex plurimis, RIDOLA, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Torino, 2006, pp. 97 ss. In ambito penalistico si è sottolineato l’intreccio e la reciproca interdipen- denza tra profilo personalistico e collettivistico di determinati interessi di tutela, v. DE FRANCESCO, Costituzione, persona, comunità: beni giuridici e programmi di tutela nella dinamiche della vicenda penale, in Dir. pen. proc., 5/2014, pp. 502 ss. 83 MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova, 1975, pp. 155 s. 84 Si tratta di un concetto che sottende una ben definita visione antropologica:   134 Tra sentimenti ed eguale rispetto reinterpretazione del concetto di individualismo classico, volta a di- stinguerlo dal negativo accostamento all’idea di egoismo, di ‘anarchia soggettiva’, di motore disgregativo a livello sociale. Il concetto di ‘individualismo democratico’ implica rispetto reci- proco e non-omologazione; una visione che si pone in antitesi sia con un individualismo egoistico che traduca disinteresse per la cosa pub- blica, sia con forme di comunitarismo identitario che comprimereb- bero l’individualità attraverso politiche di assimilazionismo e di im- posizione di ideali della vita buona. Come osserva la Urbinati: «Il problema sta quindi nel modo di concepire la comunità, poiché è evidente che le comunità totalizzanti e ascrittive sono in conflitto con l’individualismo democratico come lo sono con l’eguale diritto alla di- gnità e all’eguaglianza della legge. [...] Rispetto alla reificazione dei le- gami identitari, il richiamo alla “divinità” di ciascun individuo e al di- ritto che ciascuno ha di contraddirsi per restare coerente a se stesso suona come un invito tutt’altro che anacronistico a situare la supre- mazia nella ragione e nel carattere, rovesciando i criteri di selezione dei valori, facendo cioè della persona stessa il fulcro senza il quale nessuna comunità potrebbe esistere» 85. In quest’ottica, il legame fra sentimenti e individualità può acqui- stare una valenza normativa come presupposto del riconoscimento dovuto agli uomini in quanto agenti morali 86. Vi sono diversità fat- tuali che derivano dalla eterogeneità nel sentire, le quali invocano un sostegno normativo come riconoscimento di libertà e uguaglianza in «[l]a democrazia non è solo una forma di governo ma anche e prima di tutto una ricca cultura dell’individualità. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale ed economico perché non pensato come un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni diverse in una condizione ipotetica di perfetta informazione e libertà; e nemmeno come un individuo neutro, vuoto di specificità culturali, economiche o di genere. È invece una persona che ha un senso morale della propria indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed emozioni al- trettanto forti delle ragioni e degli interessi; che non è soltanto concentrata sulle proprie realizzazioni, ma anche emotivamente disposta verso gli altri per le ra- gioni più diverse, come l’empatia, la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare» URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Roma- Bari, 2011, p. 16. 85 URBINATI, Liberi e uguali, cit., pp. 122, 124. 86 Sul tema è fondamentale l’approfondita analisi di un Autore tendenzialmen- te vicino alle posizioni comunitariste: TAYLOR, La politica del riconoscimento, in HABERMAS-TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it., Milano, 2008, p. 9.   Sensibilità individuali e libertà di espressione 135 dignità e diritti87. La tutela delle libertà è la dimensione prioritaria; nondimeno, in nome di esigenze legate al riconoscimento, e in parti- colare tese a evitare il disconoscimento, si può porre il problema di interventi normativi al fine di salvaguardare equilibri di rispetto 88. È su questo crinale che si impernia la questione che definiamo ‘tu- tela di sentimenti’ 89. 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metonimico’ e per- sonologico Cercando di tirare le somme del discorso, date le suddette pre- messe filosofico-politiche, quale può essere la sostanza normativa da identificarsi con il ‘sentimento’? Esclusa l’ipostatizzazione di atteggiamenti emozionali su base maggioritaria, riteniamo che una visione alternativa dovrebbe incen- trare la prospettiva sul significato del sentimento come marcatore dell’originalità individuale che si interlaccia con le trame costitutive della personalità morale di un soggetto. Definiamo tale prospettiva come ‘personologica’ per evidenziarne la peculiarità rispetto a una più generica definizione come ‘personalistica’. Il termine ‘personologia’ in uso nelle discipline psicologiche e filoso- fiche, designa, nel suo significato minimale, il discorso sulle caratteristi- che dell’individuo inteso come soggetto non riducibile alle dimensioni mentale e corporea 90, ma come esito di un’interazione con gli altri e con la realtà, all’interno di un percorso biologico e biografico unico e irripe- tibile. Questa impresa conoscitiva trova sviluppo soprattutto in seno alla 87 Sul rapporto tra dati di natura e dimensione dei diritti, fondamentale HER- SCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, tr. it., a cura di De Vecchi, Mi- lano, 2008, pp. 62 ss. 88 «L’individuo delle democrazie si ciba [...] di ‘riconoscimento’ e per questa ragione ha bisogno di essere circondato da simili, da chi è parte di una comunità di significato e di riferimento e con cui è possibile condividere una lingua, dei se- gni convenzionali che consentano una comunicazione immediata, delle tradizioni che facciano sentire sicuri e protetti», v. URBINATI, Liberi e uguali, cit., p. 116. 89 Condivisibilmente, nella dottrina penalistica, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 43 s. 90 Testo di riferimento è MARGOLIS, Persons and Minds. The Prospects of Nonre- ductive Materialism, Boston, 1978.   136 Tra sentimenti ed eguale rispetto psicologia e alla filosofia; non intendiamo però ricalcare le categoriz- zazioni elaborate in ambito filosofico sui rapporti fra personologia e personalismo 91. Nel discorso giuridico, e in particolare penalistico, si usa parlare di personalismo e di concezioni personalistiche per indi- care prospettive teoriche che mettono al centro dell’orizzonte assio- logico la persona umana92 e che si impegnano conseguentemente a riconoscere in essa il punto di riferimento ultimo di norme e di pro- blemi di tutela. Perché allora parlare anche di ‘personologico’? Dalla prospettiva filosofica riteniamo utile mutuare la definizione di personologia come ‘discorso su ciò che una persona è’93, in un quadro che non si riduce alle funzioni psichiche, concependo dunque sentimenti ed emozioni non solo come addentellato fenomenico che rimanda a stati contingenti e a moti interiori, ma come elementi co- stitutivi che concorrono a definire le disposizioni individuali e la complessiva ‘fisionomia morale’ della persona. È di secondaria importanza l’eventuale puntualizzazione se si stia in questo modo richiamando il sentimento in senso stretto ovvero l’emozione; è invece importante evidenziare che la rispondenza col mondo dei fenomeni affettivi deriva dalla connessione con ciò che abbiamo definito ‘stati disposizionali’: disposizioni del sentire, ossia coordinate costitutive della personalità morale dell’individuo, e non semplicemente reazioni episodiche. Nella prospettiva giuridico-penalistica, e con particolare riferi- mento ai rapporti fra libertà di espressione e reciproco rispetto, il ri- chiamo a sentimenti ed emozioni può ragionevolmente costituire una coordinata descrittiva dell’oggetto di tutela in senso simbolico, trasla- to, o meglio metonimico, come elementi che rimandano al substrato 91 In ambito filosofico si distingue tra personologia e personalismo: Roberta De Monticelli intende col primo termine «una teoria della realtà di ciò che noi siamo», mentre il personalismo «è una tendenza [...] più che una teoria» e i per- sonalismi del secolo scorso possono definirsi come «visioni del mondo cui “sta a cuore” una certa interpretazione della condizione umana», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 30. La distinzione appare più sfumata nella definizione di MIANO, voce Personalismo, in Enciclopedia filosofica, cit., vol. XIII, p. 8527, se- condo il quale «[i]n senso lato è personalistica ogni filosofia che rivendichi la di- gnità ontologica, gnoseologica, morale, sociale della persona, contro le negazioni materialistiche o immanentistiche. In senso rigoroso si dice filosofia personalisti- ca o personalismo la dottrina che accentra nel concetto di persona il significato della realtà». 92 Per una sintesi, v. CANALE, Persona in AA.VV., a cura di Ricciardi-Rossetti- Velluzzi, Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma, 2015, pp. 23 ss.  93 V. supra, nota 91.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 137 più profondamente identificativo dell’essenza individuale: si menzio- na la parte (il sentimento o l’emozione), per additare il tutto (la per- sona) 94. Dire ‘tutela di sentimenti’ equivale a dire ‘tutela della persona e della sua libertà di vivere ed essere riconosciuto come soggetto di pari dignità nella propria personale ‘assiologia vocazionale’ 95. Non ci si deve dunque limitare alla presa in considerazione di fe- nomeni psichici ‘bruti’, ma si deve guardare ad essi come segno di individualità che chiedono di essere tutelate nelle libertà e che al con- tempo non possono ritenersi titolari di prerogative assolute: l’indi- viduo è uno, ma è al contempo anche ciascuno96, ossia vive in un contesto di relazioni che implicano diritti e doveri. 94 L’antropologia alla base del pensiero di Martha Nussbaum è basata sul fatto che «le emozioni sembrano essere eudaimonistiche, ovvero concernenti il prospera- re della persona», v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 51 s. Il legame tra sentire e sviluppo della persona, inteso come realizzazione del sé, emerge anche in altri filosofi, quando si definiscono le emozioni come ‘atti di base’ che esprimono ‘posizionalità assiologica’, ossia il «realizzare la salienza, o valenza o valore negativo o positivo della data cosa o situazione», v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno, cit., pp. 195 ss.; non dunque risposte automatiche bensì posizionali, le quali possono es- sere più o meno appropriate, ma comunque rappresentano una parte fondamentale di ciò che una persona è, della sua struttura morale, «che è insieme velata e svelata dall’espressività personale: la quale indica infine lo stato in cui la persona si trova rispetto alla fioritura nuova che solo lei poteva portare al mondo» EAD., La novità di ognuno, cit., p. 314. In particolare attraverso il concetto di ‘posizionalità’ si osserva che la persona umana si costituisce nella propria individualità essenziale attraverso ‘atti’: con tale termine si vuole porre una fondamentale distinzione fra ciò che la persona ‘compie’, rispetto agli ‘eventi’ in cui un soggetto è coinvolto; l’atto comporta sempre un presa di posizione relativamente a un dato oggetto, e «[m]ediante le pre- se di posizione, e dunque, mediante gli atti, noi rispondiamo alla realtà circostante. Una risposta si distingue da una reazione precisamente in virtù della presa di posi- zione in essa contenuta. In ogni presa di posizione, pulsa, per così dire, l’individuo personale che mediante le sue prese di posizione costantemente si costituisce e si definisce», v. EAD., La novità di ognuno, cit., p. 187. 95 Si è parlato di ‘costituzionalizzazione della coscienza delle persone’ per sot- tolineare la rilevanza di «tutto ciò che la persona considera in coscienza come strettamente richiesto per la propria realizzazione, riconoscendo diritti collegati alle richieste d’identità e di libertà di scelta», v. VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multicultu- ralismo, cit., p. 120. 96 Vi è un termine che ci sembra possa definire la portata accomunante e al contempo differenziante dei fenomeni affettivi: ciascunità. Lo prendiamo in pre- stito dal lessico psicanalitico, in particolare da HILLMAN, Il codice dell’anima, tr. it., Milano, 1967, pp. 167 ss. In questo caso ci atteniamo però a un senso più let- terale-etimologico che all’accezione specifica elaborata dallo psicologo statuni- tense: ‘ciascuno’ è pronome che indica la totalità in modo non indistinto e sper- sonalizzante, bensì richiamando l’attenzione sui singoli.   138 Tra sentimenti ed eguale rispetto In assenza di tale filtro normativo fondato sul valore dell’ugua- glianza, il richiamo a sentimenti ed emozioni può rappresentare una china scivolosa, poiché il debordare del discorso sul piano emozionale rischia di innescare un processo che altera la fisionomia delle questio- ni, relegandole a una dimensione di microconflittualità soggettiva 97. Si rischia in altri termini di alimentare ciò che la sociologa Isabel- la Turnaturi ha eloquentemente definito ‘rivendicazionismo psicolo- gico’: «un nuovo campo di battaglia in cui gli individui oppongono l’uno al- l’altro le proprie emozioni. Vissuti, percezioni, sensibilità si confrontano e si scontrano quotidianamente e conflitti sociali, di genere e culturali si spostano sul piano dei rapporti interpersonali. [...] L’uguaglianza dei di- ritti si sposta sul campo emozionale, ciascuno è sempre più attento alle proprie emozioni e pretende per queste rispetto, attenzione e libertà di espressione-esibizione. [...] La valorizzazione della sofferenza psicologi- ca e le narrazioni di sé affidate a un linguaggio esclusivamente psicolo- gico mentre pongono l’accento sull’individuo cercano l’origine di torti e offese subiti nell’appartenenza a un gruppo etnico, di genere, o nella condivisione di preferenze sessuali. [...] Se sono i sentimenti a riscrivere la storia tutto può essere ri-narrato e ri-costruito secondo i punti di vista di chi sente offesa oggi la propria sensibilità. [...] Tutto viene affogato in un confuso mare magnum sentimentale, in un apparente coinvolgimen- to emotivo che soffoca ogni forma di distanza al rispetto e riconosci- mento reciproco. Quel diritto di ciascuno alla propria narrazione, giu- stamente rivendicato, andrebbe forse declinato in un linguaggio meno psicologico e psicologistico, imposto nel discorso pubblico con la forza dell’argomentazione, ancorato a una cultura dei diritti liberata dalla co- lonizzazione emotiva [...]» 98. 97 Il discorso politico mostra una sempre più accentuata tendenza al linguag- gio psicologistico ed emotivo, e più in generale tutta la comunicazione pubblica è problematicamente invasa da «confessioni, narrazioni, biografie, programmi e proclami politici che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui discre- zione e della distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso emozionale, il di- scorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata nel mare di un presunto coinvolgimen- to», v. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, prefazione a ILLOUZ, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, tr. it., Milano, 2007, p. 15. Eloquente è l’espressione con cui ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., p. 64, sintetizza il problema di una soggettivizzazione incentrata su aspetti di rettività emotiva: «¿Un derecho penal de sujetos pasivos?».  98 TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, cit., pp. 20, 22 ss.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 139 L’approccio del diritto non può assecondare il rivendicazionismo psicologico ma deve essere declinato in termini ‘razionalistico-nor- mativi’ facendo riferimento a «norme o [...] principi che si difendono e argomentano in quanto dotati di universalità, cioè in linea di prin- cipio valevoli per tutti coloro che si trovano nella medesima situazio- ne esistenziale» 99. Identifichiamo dunque sentimenti ed emozioni come ‘matrici di diversità’ tali da sollecitare la prospettiva penalistica in relazione al- l’esigenza di gestire equilibri di rispetto reciproco nella società plura- le di fronte a condotte in cui si manifesta l’‘originalità’ degli individui in quanto caratterizzati da culture, concezioni di valore, stili di vita, che ne identificano la personalità: da una parte richieste di libertà per poter affermare le proprie visioni del mondo e per vivere confor- memente a ciò in cui si crede; dall’altra parte istanze simmetriche, fondate sui medesimi contenuti ma di segno opposto, che chiedono a loro volta riconoscimento e rispetto attraverso l’altrui astensione da un certo tipo di espressioni e di comportamenti. 6. Sinossi Delineate le coordinate teoriche per lo studio dei rapporti fra di- mensione emotiva e diritto penale e, in particolare, del sentimento quale problema di tutela, l’indagine si focalizza sui rapporti fra sen- sibilità soggettive e libertà di espressione. A suggerire l’approfondimento di tale specifica questione sono sia ragioni concernenti gli interessi emergenti dalle norme codicistiche, sia esigenze legate alla sempre viva, e per molti versi crescente, conflit- tualità che si registra nel discorso pubblico delle società occidentali. Il richiamo a sentimenti ed emozioni può costituire un’utile coor- dinata esplicativa, a patto di chiarire in che termini i problemi legati alla libertà di espressione possano essere intesi anche come ‘fatti di sentimento’. Gli approcci di fondo sono a nostro avviso fondamen- talmente due: il primo, che definiamo ‘naturalistico-emozionale’, è incentrato sul turbamento psicologico che può discendere dall’essere oggetto di determinate espressioni o dal contatto con determinate manifestazioni espressive; il secondo, che definiamo ‘razionalistico- normativo’, mette al centro l’analisi critica dell’emozione o del senti-  99 VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, cit., p. 121.  140 Tra sentimenti ed eguale rispetto mento addotti quale ragione di potenziali divieti, al fine di verificarne la razionalità e la consonanza in rapporto ai valori e ai principi as- sunti quale riferimento per la regolamentazione politica. La partita decisiva si gioca sul piano delle alternative filosofico- politiche che concorrono a definire i tratti dei differenti, possibili modelli di democrazia. Con riguardo alla tutela di sentimenti, la scel- ta di fondo – probabilmente quella logicamente prioritaria – è fra l’avallo di interpretazioni del problema in chiave collettivistico-co- munitarista oppure in chiave soggettivo-individualistica. Sulla base delle istanze evidenziate dalla teorica dell’individua- lismo democratico, come elaborato da Nadia Urbinati, riteniamo che si debba in primo luogo emancipare la tutela di sentimenti da forme di presidio al sentire della maggioranza, interpretando il richiamo a fenomeni affettivi come forma metonimica tesa a evocare simboli- camente la persona nella sua dimensione di soggetto morale, riassu- mendone contemporaneamente, quale duplice faccia nello stesso ele- mento, la dotazione universalmente condivisa in termini egualitari (il provare sentimenti ed emozioni di ciascun individuo) e gli esiti po- tenzialmente conflittuali (la diversità nel sentire). La pretesa normativa definita ‘tutela di sentimenti’ viene così a identificarsi con un progetto teso a garantire il reciproco rispetto a partire da una cornice assiologica di libertà e pari dignità.  SEZIONE I CAPITOLO V FISIONOMIA DELL’OFFESA Oltre i sentimenti: gli interessi in gioco SOMMARIO: 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida. – 1.1. Sensibilità religiosa. – 1.2. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale. – 2. Apparte- nenza e gruppalità. – 3. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca. – 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto. – 4. Bilanciare le pretese. – 4.1. Dignità e capacità umane. – 4.2. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit. – 5. Ai confini fra critica e discriminazione. – 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron. – 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma. 1. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida Cerchiamo a questo punto di dare una fisionomia più definita ai conflitti legati alla sensibilità degli individui. In un importante studio di fine anni Novanta, il giurista Richard Abel parlava emblematicamente di ‘lotte per il rispetto’ per indicare il tipo di contesa dialettica che contraddistingueva il dibattito sulla pornografia, il contrasto al discorso razzista e le prese di posizione seguite alla pubblicazione di opere ritenute blasfeme in quanto criti- che o irridenti verso temi religiosi 1. Storie che hanno un nucleo co- mune, le definisce Abel, poiché «investono valori che ispirano emo-  1 ABEL, La parola e il rispetto, tr. it., Milano, 1996, pp. 7 ss.  142 Tra sentimenti ed eguale rispetto zioni profonde» 2. In relazione a temi di questo tipo eventuali espres- sioni di critica o di scherno sono in grado di attivare reazioni anche su scala collettiva, estendendo la dimensione dei problemi fino a coinvolgere l’ordine pubblico di singole realtà nazionali e anche del panorama globale. Lo scenario contemporaneo non si discosta più di tanto dal quadro tracciato qualche decennio fa da Abel: razza/etnia, fede religiosa/cre- denze, modi di concepire e vivere l’identità sessuale, sono ancora oggi ambiti tematici in grado di accendere conflittualità esorbitanti da un ordinario dissenso, dando luogo a «un tipo particolare di scontro fra soggetti che ha a che vedere con la concrezione di affetti, interessi, ra- gioni e pregiudizi contrastanti che si fronteggiano e che paiono o sono fortemente vitali per coloro che ne sono portatori o portati» 3. Una dialettica ad alto tasso emotivo, nella quale emergono veri e propri ‘campi minati’ che potremmo definire ‘argomenti-trigger’, i quali hanno contribuito a riportare oggi il tema della libertà di espressione al centro del dibattito pubblico prima ancora che scientifico. Per meglio contestualizzare i problemi esporremo in modo sinte- tico alcune vicende tratte dal panorama nazionale ed europeo. In questa fase dell’indagine non ci concentreremo sulla qualifica- zione giuridica dei fatti, ma riteniamo preferibile individuare una ca- sistica ‘tipologica’ che possa fungere da palestra concettuale per ri- flettere sulle istanze di tutela che vengono associate a offese a senti- menti. Riportiamo anche episodi di rilevanza non strettamente pena- listica, i quali evidenziano come l’appello a sentimenti non sia conno- tato esclusivo della penalità ma possa presentarsi anche quale giusti- ficazione, più o meno esplicita, di forme differenti di intervento nor- mativo. Attingeremo dal tema della critica/satira su temi religiosi e da epi- sodi concernenti le manifestazioni della sessualità. Riteniamo di non dover introdurre, per il momento, esempi legati al discorso razzista: in questa fase dell’indagine presentare il discorso razzista come pro- blema di sentimenti può essere fuorviante perché limitativo 4. Nel di- 2 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 27. 3 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, in AA.VV., a cu- ra di Scaparro, Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni al- ternative delle controversie, Milano, 2001, p. 59, definisce tali conflitti ‘di seconda generazione’ per sottolinearne la diversità da quelli che toccano le sfere della ri- produzione materiale-economica e della sfera politica. 4 Per le medesime ragioni, in termini ancora più stringenti, non si presta a fungere da esempio prototipico il problema dell’incriminazione del c.d. negazio-   Fisionomia dell’offesa 143 battito sullo hate speech, categoria nella quale rientra la propaganda razzista, la lettura dell’incriminazione come forma di rassicurazione collettiva e come tutela della sensibilità del soggetto offeso assume una funzione sostanzialmente critica e confutativa rispetto a un mainstream che individua quale interesse di fondo la pari dignità, in- tesa come pericolo di discriminazioni e come offesa a valori sul piano simbolico5. A prescindere dalle diverse formulazioni mediante le quali lo hate speech assume rilevanza normativa nelle singole realtà nazionali, non si tratta a nostro avviso di un esempio prototipico di ambito normativo in cui il sentire, individuale o collettivo, possa concorrere a definire l’oggetto di tutela, per quanto le connessioni ri- spetto al tema in esame siano numerose e feconde, ma necessitino di essere contestualizzate a un livello successivo dell’analisi (vedi infra). nismo, il quale «non può essere inquadrato soltanto come una specie del “discor- so razzista”», v. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa: tensioni at- tuali e profili penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 922. Fra le diverse istanze addotte a sostegno dell’incriminazione è ravvisabile anche l’offesa a un sentire condiviso, come evidenziato anche da BRUNELLI, Attorno alla punizione del nega- zionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 983 ss., il quale sottolinea in questo senso la differenza fra ‘negazionismo-vilipendio’ e ‘negazionismo-istigazione’; cfr. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 865 ss. Si veda an- che FRONZA, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, pp. 1024 ss., la quale mette in evidenza la natura del reato di negazionismo come ‘modello di crimina- lizzazione altamente consensuale’, rispondente ad aspettative e a emozioni della collettività. L’ampiezza e la pluralità di argomenti e controargomenti lascia però in secondo piano la lettura del problema come mera tutela della sensibilità; per una panoramica v. ex plurimis, FRONZA, Il negazionismo come reato, Milano, 2012; VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 217 ss.; PULITANÒ, Di fronte al negazioni- smo e al discorso d’odio, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2015, pp. 1 ss. CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 263 ss. 5 Per un’accurata sintesi delle strategie di legittimazione e degli interessi pro- tetti dall’incriminazione dello hate speech nel panorama internazionale, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., pp. 19 ss.; la questione del danno alla sensibilità sogget- tiva e alla tranquillità psichica è trattata alle pp. 49 ss. Si è osservato che nella trattazione della tematica delle restrizioni normative allo hate speech sarebbe be- ne evitare generalizzazioni, non solo in relazione alla fenomenologia delle con- dotte, ma anche con riferimento all’individuazione, nella realtà dei diversi ordi- namenti, del sistema di prodotti normativi che vanno a costituire ciò che gli stu- diosi definiscono ‘hate speech laws’; si tratta infatti di un insieme eterogeneo, non limitabile ai soli divieti penali, ma composto da statuizioni di diverso tipo che ne- cessitano di strategie di legittimazione differenti.   144 Tra sentimenti ed eguale rispetto 1.1. Sensibilità religiosa Le contingenze storico-politiche suggeriscono di prestare partico- lare attenzione alla questione dei rapporti fra libertà di espressione e rispetto della sensibilità religiosa. L’attuale momento storico si caratterizza per una peculiare aura di passionalità, e purtroppo anche di violenza, che accompagnano una conflittualità per molti versi inedita 6. Le fonti mediatiche ci mettono oggi in condizione di ascoltare la ‘voce’ delle emozioni e di formularne interpretazioni con immedia- tezza; come ha scritto il filosofo Ermanno Bencivenga, dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo «[i]nsieme con le emozioni esplosero contenuti intellettuali di ogni genere: commenti e chiarimenti, diagnosi e previ- sioni, giudizi e proposte» 7. Da un lato le emozioni di chi, avvertendo una ferita al proprio sentire religioso, ha agito con brutale violenza; dall’altro un’onda emotiva che di rimando ha stimolato riflessioni e prese di posizione che si sono rivolte non solo contro la condotta omicida, ma talvolta, più radicalmente, anche contro la religione e l’etnia di appartenenza dei soggetti autori del massacro. Per quanto le due posizioni siano del tutto incomparabili, prendere sul serio le emozioni di entrambe le parti è utile per provare a decodificarne le pretese. Le violente reazioni che negli ultimi tempi sono scaturite dalla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana rap- presentano uno fra i tanti casi in cui la causticità di determinate forme di satira ha urtato la sensibilità di credenti di varie fedi religio- se. Riportiamo di seguito una sintesi di alcuni episodi tratti dalle cronache. 6 Una panoramica storica in HARE, Blasphemy and Incitement to Religious Hatred: Free Speech Dogma and Doctrine, in AA.VV., ed. by Hare-Weinstein, Ex- treme Speech and Democracy, Oxford, 2009, pp. 289 ss.; nella letteratura italiana, v. AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu-Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Una di- scussione dopo le stragi di Parigi, Bologna, 2015; FLORIS, Libertà di religione e liber- tà di espressione artistica, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, pp. 175 ss.; OZZANO, Il fondamentalismo religioso: implicazioni politiche, in Nuova infor- mazione bibliografica, 1/2010, pp. 65 ss.  7 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 11.  Fisionomia dell’offesa 145 Caso 1: da una vignetta rispunta l’accusa di deicidio al popolo ebraico Nell’aprile 2002 un gruppo di palestinesi si rifugia all’interno della Basilica della Natività di Betlemme per sfuggire a una rappresaglia dell’esercito israeliano. I militari israeliani minacciano di entrare nel- la chiesa; chiedono che vengano consegnati loro quattro palestinesi, accusati di aver assassinato Rehavam Zeevi, ministro del governo Sharon. Giorni dopo, nel quotidiano italiano ‘La Stampa’ compare una vi- gnetta di Giorgio Forattini dal titolo ‘Carri armati alla mangiatoia’: la vignetta raffigura un tank israeliano contrassegnato con la stella di David mentre punta il cannone verso una mangiatoia sulla quale un bambino impaurito, chiaramente identificabile con Gesù, esclama: ‘Non vorranno mica farmi fuori un’altra volta?!’. La vignetta provoca lo sdegno e le proteste dell’allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto. Queste in sinte- si le motivazioni, così riportate da fonte giornalistica: «[u]na vignetta [...] che non esito a definire orripilante. Ritorna così a galla, come da- to indiscutibile a monte della caricatura stessa, l’accusa di deicidio che pareva esser scomparsa dopo il Concilio Vaticano II. E questo proprio nel momento in cui l’Europa è scossa da una nuova ondata di attentati contro le nostre sinagoghe [...] alla valutazione politica si aggiunge la teologia, ovvero la peggiore delle soluzioni. Cresce in modo nascosto e strisciante l’avversità per gli ebrei... Si attribuisce a una fantomatica malvagità giudaica la responsabilità di quanto sta succedendo a Betlemme» 8. Caso 2: le vignette danesi e l’insurrezione del mondo islamico per la rappresentazione del Profeta Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands Posten pubblica nella versione on line dodici vignette satiriche su Maometto, in una delle quali il Profeta è raffigurato con una bomba al posto del turban- te. Le vignette vengono successivamente ripubblicate da diverse te- state giornalistiche europee, fra cui, nel febbraio 2006, il settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Le proteste sono immediate sia nel continente europeo sia nei paesi di religione islamica 9: il direttore del giornale danese viene mi- 8 L’Unità, 4 aprile 2002, p. 2 9 In Danimarca viene avviato un procedimento penale, poi archiviato, per bla-   146 Tra sentimenti ed eguale rispetto nacciato di morte, e nelle settimane successive alla pubblicazione vengono organizzate manifestazioni di protesta da parte di cittadini islamici e anche da parte di esponenti governativi che chiedono al governo danese di formulare delle scuse ufficiali. Dure le prese di po- sizione dei governi di paesi arabi 10. Una significativa sintesi delle ragioni della protesta si trova nel co- siddetto dossier ‘Akkari-Laban’ pubblicato da due Imam immigrati in Danimarca. Queste le principali rivendicazioni avanzate dagli Imam: viene chiesto un contatto costruttivo con la stampa ed in particolare con soggetti delle istituzioni (relevant decision makers), non sbrigati- vo, ma condotto con meticolosità e lungimiranza (with a scientific methodology and a planned and long-term programme) per rimuovere i malintesi tra le due parti. Si afferma che i musulmani non vogliono apparire arretrati e limitati, e non vogliono neppure accusare i danesi di «ideological arrogance»; obiettivo è avere relazioni sicure e stabili, e una Danimarca prospera per tutti. Si lamenta che i fedeli musulmani soffrono la mancanza di un riconoscimento ufficiale della fede isla- mica, circostanza che ha fra le immediate conseguenze la mancanza del diritto di costruire moschee. Si afferma infine che i musulmani non abbiano bisogno di lezioni di democrazia, e si ritiene ‘dittatoria- le’ e inaccettabile l’attuale modo europeo di concepire e gestire la democrazia 11. Caso 3: una discussa opera teatrale e l’offesa alla religione cattolica Nel 2012 viene presentato in Italia, dopo una tournée densa di po- lemiche in Francia, lo spettacolo teatrale di Romeo Castellucci dal titolo ‘Sul concetto di volto del figlio di Dio’. L’opera rappresenta la storia di un figlio che accudisce il padre, non più autosufficiente. Sullo sfondo della scena, una rappresenta- zione del volto del Cristo (il famoso ritratto di Antonello da Messina), che a fine spettacolo viene lacerato e fatto oggetto del lancio di varie cose, fra cui del liquido nero da molti interpretato come feci. Malgrado i tentativi dell’autore di spiegare il significato della pro- sfemia e vilipendio di gruppi di persone. Anche in Francia viene aperto un proce- dimento contro Charlie Hebdo, poi concluso con un’assoluzione. Una sintesi delle vicenda processuali in BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette satiriche sull’Islam costituisce reato (in Italia)?, in Notizie di Politeia, 2015, pp. 70 s. 10 La Repubblica, 30 gennaio 2006; La Repubblica, 5 febbraio 2006. 11 Informazioni tratte dalla voce Wikipedia ‘Akkari-Laban dossier’, nella cui pa- gina si trova il link alla versione originale del dossier in lingua araba.   Fisionomia dell’offesa 147 pria opera, lo spettacolo è bersaglio di forti polemiche: si registrano manifestazioni di protesta da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico, e anche il Vaticano arriva a definirla «un’opera che offende Gesù e i cristiani» 12. Particolarmente significative le parole usate dal- la Curia milanese in un comunicato ufficiale per criticare la messa in scena al teatro Parenti: si richiama l’esigenza che sia «riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti cittadini milanesi vedono nel Volto di Cristo l’incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza [...]», criticando in questo senso una scelta che «avrebbe potuto farsi carico più attentamente della “dimensione sociale” della libertà di espressione» 13. 1.2. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale In relazione alle manifestazioni della sessualità emergono pro- blemi differenti rispetto al passato in cui Abel si soffermava sul tema della liceità della pornografia; oggi assumono maggior rilevanza que- stioni legate all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità degli orientamenti sessuali sul piano del discorso pubblico e anche della regolamentazione normativa. Al centro dell’attenzione è il fenomeno della cosiddetta ‘omofobia’; nella Risoluzione sull’omofobia in Europa del gennaio del 2006 essa viene definita come «una paura e un’avversione irrazionale nei con- fronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali (GLBT), basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». La rilevanza penale di espressioni omofobiche è legge in diversi Paesi europei, non ancora in Italia14. Il modello di incriminazione privilegiato fa confluire il discorso omofobico nello hate speech; per 12 Affermazioni di Peter Brian Wells, all’epoca assessore agli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, cui possono affiancarsi, per identità di contenuto, le opinioni di Padre Federico Lombardi, v. Corriere della Sera, 20 gennaio 2012. 13 Stralcio del comunicato della Curia milanese, così riportato in Avvenire, 14 gennaio 2012. 14 Una panoramica in GOISIS, Omofobia e diritto penale. Profili comparatistici, in www.penalecontemporaneo.it, 11/2012, pp. 7 ss.; DOLCINI, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in Riv. it. dir proc. pen., 1/2011, pp. 24 ss.; ID., Omofobi: nuovi martiri della libertà di manifestazione del pensiero?, in Riv. it. dir proc. pen., 1/2014, pp. 7 ss.; RICCARDI, Omofobia e legge penale. Possibilità e li- miti dell’intervento penale, in www.penalecontemporaneo.it, 9/2013, pp. 1 ss.   148 Tra sentimenti ed eguale rispetto tali ragioni riteniamo che anche l’insulto omofobico non si presti a essere presentato in prima istanza come condotta offensiva di senti- menti: stati affettivi vengono certo in gioco nelle condotte omofobi- che, ma, come osservato per lo hate speech razzista, adottare come ipotesi di lettura primaria l’offesa a sentimenti rischia di incentrare la prospettiva sulla mera reattività emotiva. Con riferimento al tema della sessualità e della pari dignità degli orientamenti sessuali, si rivelano particolarmente problematiche le invocazioni dell’intervento penale che adducano offese al pudore mo- tivate non dal livello di particolare esplicitezza di condotte sessuali tenute in pubblico, ma in ragione dell’orientamento sessuale dei sog- getti 15. Detto in altri termini: può capitare, ed è capitato, che si invo- chino divieti per condotte sessuali dove il motivo dell’offesa è ricon- ducibile esclusivamente alla tipologia di relazione e dunque al- l’identità e alla dignità sessuale dei soggetti 16. Anche in Italia la stam- pa ha dato notizia di denunce per atti osceni a seguito di semplici ba- ci realizzati in pubblico nel contesto di un rapporto fra soggetti dello stesso sesso, benché nessuno dei procedimenti, per quanto ci è noto, sia giunto a una pronuncia di condanna 17. Caso 4: censura televisiva per un bacio gay Riteniamo particolarmente significativo, per quanto non sia inte- 15 Si veda il vasto, e grottesco, panorama di incriminazioni in vigore negli anni Ottanta in alcuni Stati americani. Definirle ‘leggi antisodomia’ appare improprio poiché i divieti attengono al tipo di atto piuttosto che al contesto della relazione. Ad esempio, in Arizona era penalmente rilevante la condotta di «un individuo che commetta volontariamente e senza costrizione, in qualunque modo innaturale, qualunque atto osceno libidinoso sul o con il corpo o qualunque parte o membro del corpo di un adulto di sesso maschile o femminile, con l’intento di eccitare, solleticare o gratificare la lussuria, la passione, o il desiderio sessuale di una qua- lunque delle persone coinvolte», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, cit., pp. 116 ss. 16 Le radici storiche del problema riportano alle leggi antisodomia, diffuse so- prattutto in ambito angloamericano; su tale tema in Inghilterra si sviluppò il ce- lebre confronto dialettico tra il filosofo di Oxford Herbert Hart e il giudice Patrick Devlin. Hart si oppose alle tesi moralistiche di Devlin con un’opera divenuta un manifesto del liberalismo giuridico: v. HART, Diritto, morale e libertà, cit., 1968; per una sintesi, v. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto anglo americano), in Dig. disc. pen., VIII, 1994, pp. 187 ss. 17 Si tratta di episodi narrati da organi di stampa; a titolo esemplificativo si veda http://www.umbria24.it/cronaca/perugia-bacio-gay-tra-le-sentinelle-in-piedi- alfano-riferisce-in-aula-diretta-streaming; http://www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/- ContentItem-81e83656-04b5-4485-ac45-e4e5d912bc58.html.   Fisionomia dell’offesa 149 ressato il piano penalistico, un episodio di vera e propria censura nel- la televisione italiana di Stato, espressamente motivata da un ‘eccesso di sensibilità’, che ha portato al taglio e alla mancata messa in onda di una scena comprendente un bacio omosessuale. Nel luglio 2016 viene trasmesso sul canale nazionale italiano Rai 2 la serie tv statunitense ‘Le regole del delitto perfetto’. La puntata dell’8 luglio 2016 va in onda con dei tagli rispetto alla versione origi- nale: vengono infatti rimosse le sequenze ritraenti un bacio fra sog- getti di sesso maschile. A seguito delle polemiche levatesi contro una simile censura, la direttrice di Rai Due commenta «Non c’è stata nes- suna censura, semplicemente un eccesso di pudore dovuto alla sensi- bilità individuale di chi si occupa di confezionare l’edizione delle se- rie per il prime time» 18. 2. Appartenenza e gruppalità Negli argomenti addotti da coloro che lamentano un’offesa rico- nosciamo un’evidente componente emozionale, soprattutto con rife- rimento alla vignetta sulla religione ebraica e nell’opera teatrale con- testata da una parte del mondo cattolico. Nel primo caso lo si può desumere dal lessico (pensiamo alla parola ‘orripilante’ che evoca una sensazione di disgusto); nell’opera teatrale si è criticato soprat- tutto il gesto del lanciare materiali assimilati a feci contro l’immagine del Cristo, azione il cui significato iconoclasta sarebbe stato, forse, percepito in termini più attenuati senza il richiamo (peraltro non univoco) alle feci, e che invece ha indotto nei fedeli una sensazione di ‘disgusto morale’. Nel caso della censura televisiva, la giustificazione offerta in sede pubblica parla di ‘eccessiva sensibilità’ volta a evitare l’offesa al pudore, mentre appaiono più complesse le motivazioni ad- dotte in sede pubblica dai fedeli musulmani con riferimento alle vi- gnette danesi 19. Tutti i suddetti conflitti possono a nostro avviso inquadrarsi in 18 Corriere della Sera, 9 luglio 2016. 19 La reazione all’offesa religiosa si unisce ad argomenti inerenti la situazione politica e le condizioni di vita dei musulmani in Danimarca; al di là della cautela con cui è bene accogliere tali istanze, resta il fatto che la rappresentazione attra- verso le vignette si presta a essere interpretata anche come etichettamento dell’in- tera comunità musulmana nei termini di ‘terrorista’, in questo senso andando ol- tre la semplice irrisione sul piano religioso.   150 Tra sentimenti ed eguale rispetto contrapposizioni di carattere gruppale, nelle quali cioè le ragioni del- lo scontro si legano a profili che sono identificativi di un particolare gruppo o categoria di persone da cui si vuole prendere una ‘distanza’. Intendiamo il concetto di gruppo in un significato più esteso della sola appartenenza etnico-culturale, e che non è limitato a gruppi c.d. ‘minoritari’ o contrapposti alla cultura dominante20, ma che è fun- zionale a designare tensioni tra forme di appartenenza che attraver- sano i confini delle singole realtà geopolitiche 21. Un’appartenenza che si radica nel sentire dell’individuo, la cui de- finizione può a nostro avviso esser fatta coincidere con il termine ethos, il quale rimanda letteralmente ai concetti di abitudine e di usanza, intesi come elementi costitutivi della diversità fra popoli e fra individui, e che nella filosofia contemporanea è adoperato per desi- gnare «una complessiva, non necessariamente esplicita, concezione del be- ne, o uno stile di vita, che può anche avere una radice religiosa, e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche comunità di appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme di questa comunità: in questo senso un ethos può definire l’identità culturale o religiosa, e lato sensu morale di una persona» 22. Un’ulteriore connessione può trovarsi nei concetti di ‘categorizza- zione’ e di ‘autocategorizzazione’. Secondo quanto osservato in psicologia sociale, il sistema cogniti- vo umano per far fronte alla complessità del mondo esterno sviluppa la tendenza a pensare gli oggetti raggruppandoli in insiemi, accomu- nandoli sulla base di informazioni e di dati estendibili alla totalità di 20 A questo livello non vi sono, a nostro avviso, esigenze penalistiche di delimi- tazione del concetto di appartenenza, le quali invece appaiono evidenti quando il richiamo al gruppo o alla cultura sia funzionale a introdurre eventuali fattori di attenuazione della responsabilità penale, come nel caso dei c.d. ‘reati cultural- mente motivati’. In tale ultimo caso la rilevanza sul piano penalistico è necessa- riamente subordinata a una specificità che deve consentirne l’accertamento in sede processuale: v., per tutti, DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, pp. 25 ss.; EAD., voce Reati culturalmente condizionati, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano, 2014, pp. 872 ss.; in senso lato, il problema può riconnettersi alla categoria generale della c.d. ‘inesigibilità’, v., per tutti, FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova, 1990, pp. 319 ss. 21 Accenna a tale distinzione KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, tr. it., Bologna, 1999, p. 35.  22 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 143.  Fisionomia dell’offesa 151 essi. Tale processo classificatorio può avere a riferimento anche le persone, e si tratta di un momento essenziale del rapporto con l’altro: «Il mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in insiemi omogenei di persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste suddivisioni sono più importanti e cariche di significato, come l’ap- partenenza etnico culturale, la lingua, la religione, la famiglia, le ideo- logie, l’orientamento politico; ma anche il genere, l’età, l’orientamento sessuale, l’occupazione, la zona di residenza, e perfino aspetti molto più marginali come gli hobby, gli stili di consumo o la preferenza per una squadra di calcio, sono in grado di diventare potenti elementi di identificazione collettiva» 23. La tendenza alla gruppalità24 induce una propensione a ‘classifi- care’ gli altri individui, e si manifesta anche in senso riflessivo come percezione di sé basata sul sentirsi parte di una categoria, ossia come ‘autocategorizzazione’; più in particolare, l’autocategorizzazione si pone come fondamentale momento di costruzione dell’identità socia- le relativamente all’edificazione dell’immagine di sé e al modellamen- to delle sfere relazionali 25. Tale assunto ricorre anche in ambito antropologico: «l’esperienza della diversità di modi di vivere porta spesso a dare giudizi di valore, sulla base del sapere garante dell’identità del proprio gruppo, su di noi rispetto agli altri e sugli altri rispetto a noi» 26. Categorizzazione e autocategorizzazione rappresentano dunque concetti essenziali per la comprensione di dinamiche relazionali e comunicative in cui vengono in gioco ‘appartenenze significative’ del- l’individuo 27, tali da renderlo particolarmente sensibile a ciò che vie- 23 LEONE-MAZZARA-SARRICA, La psicologia sociale. Processi mentali, comunica- zione e cultura, Roma-Bari, 2013, p. 180. 24 HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 237 ss. 25 Si vedano, ex plurimis, CRISP-TURNER, Psicologia sociale, tr. it., a cura di Mosso, Torino, 2013, pp. 59 ss.; BROWN R., Psicologia sociale del pregiudizio, tr. it., Bologna, 1997, pp. 51 ss.; CARNAGHI-ARCURI, Parole e categorie. La cognizione so- ciale nei contesti intergruppo, Milano, 2007; TAJFEL, Gruppi umani e categorie so- ciali, tr. it., Bologna, 1985, pp. 220 ss.; RAVENNA, Odiare. Quando si vuole il male di una persona o di un gruppo, Bologna, 2009, pp. 81 ss. 26 ANGIONI G., Fare, dire, sentire, cit., p. 268. 27 Ci riferiamo a caratteristiche costitutive dell’identità che siano particolar- mente totalizzanti o ‘dispotiche’, nel senso che, pur essendo oggetto di scelta, ten- dono ad assumere una portata fortemente invasiva della sfera personale, anche fino a generare situazioni di concorrenza e incompatibilità con altre appartenen-   152 Tra sentimenti ed eguale rispetto ne detto28 sia riguardo alla sua appartenenza a un gruppo, sia ri- guardo al gruppo in sé e a ciò che lo identifica 29, e anche riguardo a fatti di conoscenza che si pongono a confutazione o in contrasto con il patrimonio di conoscenze tramandato e acquisito dal gruppo 30. Secondo la ricostruzione dello psicologo sociale Jonathan Haidt, l’uomo ha una natura sia egoista sia gruppista, e possiede una mente ‘tribale’: l’aderenza al gruppo ‘unisce e acceca’, nel senso che crea i presupposti per la socialità e al contempo può intrappolare le perso- ne nelle matrici morali del gruppo di appartenenza, ingenerando conflittualità fra gruppi contrapposti 31. Un risvolto di tale relazione è l’accentuata emotività che si lega al- le questioni inerenti l’appartenenza: ma qual è la pretesa che acco- muna le parti in conflitto? cosa ‘chiedono’ le emozioni in termini di reciprocità? ze. L’esempio principale è l’identità religiosa; sul tema della costruzione dell’iden- tità e del particolare ruolo ‘dispotico’ dell’identità religiosa v. PINO, Identità perso- nale, identità religiosa e libertà individuali, in Quad. di diritto e politica ecclesiasti- ca, 1/2008, pp. 123, 137 ss. 28 «Il linguaggio [...] trasmette l’interazione con gli altri. Narra le categorizza- zioni sociali di cui ci serviamo. Reiterandoli consolida gli stereotipi. Partecipa alla costruzione e all’alimentazione dei pregiudizi. E così facendo influenza in modo rilevante la percezione sociale di un determinato gruppo», v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi d’odio e la libertà di espressione nel diritto costituzio- nale, in www.penalecontemporaneo.it, 7/2013, p. 3. 29 Quali sono queste appartenenze e in base a quali criteri il diritto può attri- buire una rilevanza? L’interrogativo, nella sua estrema complessità, non può esse- re affrontato nel presente lavoro; nondimeno va tenuto conto che sia nelle scienze sociali, sia, di riflesso, nella prospettiva giuridica, si tratta di un problema aperto che può influire in modo determinante sull’approccio agli eventuali limiti alla li- bertà di espressione, v. BROWN A., Hate Speech Law, cit., p. 319. Il tipo di identità che sembra assumere una rilevanza peculiare sul piano politico è ciò che CA- STELLS, Il potere delle identità, tr. it., Milano, 1997, p. 7, definisce come ‘resisten- ziale’, ossia quella «generata dagli attori che sono in posizioni o condizioni svalu- tate e/o stigmatizzate da parte della logica del dominio». Nondimeno, il valore politico dell’identità può risultare condizionato anche dal grado di ‘dispoticità’ e della conseguentemente combattività nella sfera pubblica, v. supra, nota 27. 30 Si soffermano su tale ultima tipologia di conflitto, tra fatti di sentimento e fatti di conoscenza, GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, cit., pp. 855 ss., analizzando in particolare, in riferimento al contesto statunitense, il tema dell’opposizione all’insegnamento delle teorie evoluzionistiche negli istituti di istruzione di orientamento creazionista. 31 HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 240 ss., 313 ss., 359 ss. Sul particolare profilo che Haidt definisce ‘principio di sacralità’, il quale porta a ritenere determinate cose (non semplicemente materiali ma anche teorie e ideologie) come identifica- tive della moralità del gruppo, v. pp. 184 ss.   Fisionomia dell’offesa 153 3. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca Il concetto che meglio definisce l’atteggiamento relazionale che ciascuno esige dai propri simili è il rispetto. Ogni individuo si forma una propria intuitiva nozione di rispetto, la quale può fondarsi su istanze più o meno giustificate; non è però a una tale solipsistica concezione che il diritto può fare riferimento. La parola ‘rispetto’ ha assunto nel corso della storia significati dif- ferenti 32, ma ciò che ci interessa oggi è ricostruirne il contenuto dal punto di vista politico, non solo come atteggiamento individuale, ma soprattutto come principio per la convivenza nella diversità. Che cosa vuol dire rispettare le persone? Il pensiero filosofico ha riservato particolare attenzione a tale que- stione, e soprattutto nell’epoca attuale il tema ha assunto un’innovativa importanza: il rispetto per le persone e fra le persone rappresenta una aspetto costitutivo della qualità morale delle democrazie moderne. Si parla oggi non di un generico rispetto, ma di un rispetto democratico, non gerarchico, che assume come presupposto l’uguaglianza e la pari dignità: l’eguale rispetto, definito da un’autorevole interprete «ragione morale alla base dell’ordinamento democratico» 33. Sia chiaro: l’eguale rispetto rappresenta un’idea che riconosce im- portanza morale alla ricerca di ragioni comuni (nel senso di ‘meno comprensive’) 34 da porre a fondamento di scelte normative, ma non è una teorizzazione neutrale o dai caratteri meramente procedurali. È una concezione eticamente ‘spessa’ che sintetizza il cardine assiologi- co della democrazia: «un principio morale che richiede il riconosci- mento degli altri come pari in virtù della comune umanità» 35. Quando si parla di ‘eguale rispetto’ si intende un atteggiamento di necessario e aprioristico riguardo di cui ogni essere umano è con- temporaneamente titolare e debitore nei confronti degli altri indivi- 32 Per tutti v. MORDACCI, Rispetto, Milano, 2012, pp. 45 ss. 33 Si sottolinea che l’eguale rispetto rappresenta un principio comune alle principali strategie di giustificazione della legittimità democratica, v. GALEOTTI, La politica del rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari, 2010, p. 31. 34 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. Sulla definizione di ‘concezione comprensiva’, v. VECA, La filosofia politica, cit., p. 41: «[s]i usa dire che una teoria morale è comprensiva quando essa include e si estende sull’intero dominio di ciò che per noi vale».  35 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 52.  154 Tra sentimenti ed eguale rispetto dui36, secondo una reciprocità fra pari37. Lo si definisce ‘rispetto- riconoscimento’ per distinguerlo dal cosiddetto ‘rispetto-stima’ «che consegue alla considerazione positiva del carattere, delle condotte, dei risultati conseguiti da una particolare persona» 38, e che è connes- so a una valutazione di meritevolezza che può mutare. La distinzione fra le due forme di rispetto esprime anche un’indi- cazione sul valore e sull’importanza che esse assumono in un oriz- zonte democratico: l’impegno prioritario è il rispetto-riconoscimen- to 39, mentre l’atteggiamento di stima è quello che più risente di emo- zioni contingenti e di inclinazioni individuali, e non è un obiettivo proponibile in un contesto pluralista e culturalmente disomogeneo, nel quale un dissenso intersoggettivo, anche aspro, tra opinioni e orientamenti etici, dovrebbe considerarsi fisiologico 40. Le oscillazioni del rispetto-stima rappresentano in definitiva un risvolto della libertà 36 Viene sottolineato che il rispetto come riconoscimento non può venir meno di fronte a nessuno, neppure di fronte al criminale più efferato o a chi si sia reso autore di azioni che travalicano ogni idea di umanità. Chi afferma che rispetto a determinati comportamenti esiste l’eventualità che un soggetto perda tale status, procede sulla base di un’ulteriore specificazione, la quale individua nel rispetto- riconoscimento due componenti distinte: il sentimento di riguardo e la dispo- sizione ad agire. La perdita del rispetto come riconoscimento può intaccare solo il sentimento di riguardo: «mentre possiamo sospendere l’atteggiamento di ri- spetto – smettendo di considerare quell’uomo degno del nostro riguardo – non possiamo ignorare i vincoli morali delle nostre azioni nei suoi confronti», v. GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 84. 37 È sulla reciprocità che si impernia la dimensione morale del rispetto: «[p]ensare moralmente, costruire un ragionamento morale, significa intrattenere con gli altri una relazione di mutuo riconoscimento, cioè dar loro pari dignità e [...] pretendere da loro il rispetto e il riconoscimento della nostra dignità», così BAGNOLI, L’autorità della morale, Milano, 2007, p. 24. 38 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 77; DARWALL, Two Kinds of Respect, in 88 Ethics, 1977, pp. 36 ss. 39 Sottolinea come la nozione stessa di democrazia apra «a un concetto del rapporto secondo giustizia con l’altro fondato sul suo riconoscimento, e non sul giudizio inerente alle sue capacità o alle sue qualità» EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale, cit., pp. 175 s. Sull’importanza del principio dell’eguale rispetto-riconoscimento nel diritto penale, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 26 ss. 40 Si apre qui il problema, sconfinato, della tolleranza e degli eventuali limiti alla tolleranza: sul tema v., ex plurimis, GALEOTTI, La tolleranza. Una proposta plu- ralista, Napoli, 1994; WALZER, Sulla tolleranza, tr. it., Roma-Bari, 2003; sul tema dei limiti, v. BOBBIO, L’età dei diritti, cit., p. 111; POPPER, Tolleranza e responsabili- tà intellettuale, in AA.VV., a cura di Mendus-Edwards, Saggi sulla tolleranza, Mila- no, 1990, pp. 27 ss.   Fisionomia dell’offesa 155 di critica, diritto da considerarsi fondamentale in una democrazia ispirata al pluralismo assiologico. A nostro avviso le categorie della stima e del rispetto-riconosci- mento ripropongono con un diverso lessico l’esigenza di distinguere tra offese alla sensibilità soggettiva e forme di offesa che appaiano orientate a minare qualcosa di più radicale, ossia il rapporto di rico- noscimento reciproco fra persone: nel secondo caso emozioni e sen- timenti entrano in gioco non solo da un punto di vista esteriore/feno- menico, bensì quale tratto della personalità che si presta a strumen- talizzazioni in chiave discriminatoria. Ed è in questi termini che si è affermata l’assoluta rilevanza del ri- spetto-riconoscimento per una società: «Fare del riconoscimento il tema centrale di un ragionamento filosofi- co-politico significa quindi che le società devono impegnarsi a pro- muovere delle regole capaci di creare e costituire istituzioni tali da non discriminare alcun soggetto – persona, famiglia, gruppo inclusivo – considerandolo oggetto, o non umano» 41. Per approfondire tale ultima prospettiva di significato ci appog- giamo all’elaborazione di Axel Honneth, il quale definisce il ricono- scimento: «un processo nel quale il singolo può pervenire ad una identità pratica nella misura in cui abbia la possibilità di accertarsi del riconoscimento di se stesso attraverso una cerchia sempre più va- sta di partner della comunicazione»42. Al mancato riconoscimento può conseguire, secondo Honneth, un vulnus definibile come ‘spre- gio’ o ‘offesa’, il cui effetto è l’alterazione dell’immagine che una per- sona ha di sé 43. Secondo Honneth le forme di mancato riconoscimento possono avere differenti gradazioni: si può avere uno spregio che coinvolge la dimensione fisica, conculcando la libertà di autodeterminazione; e si 41 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 66; nell’elaborazione di Ceretti la centralità del concetto di riconoscimento si inqua- dra in una prospettiva di applicazione della mediazione ai conflitti legati all’ap- partenenza. Più diffusamente sul tema del riconoscimento nella mediazione e nel- la giustizia riparativa, v. ID., Mediazione. Una ricognizione filosofica, in AA.VV., a cura di Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile, Padova, 1998, pp. 44 ss.; MANNOZZI-LODIGIANI, La Giustizia riparativa. Formanti, parole, metodi, Torino, 2017, pp. 145 ss. 42 HONNETH, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post- tradizionale, tr. it., Messina, 1993, p. 18.  43 Sul tema vedi anche TAYLOR, La politica del riconoscimento, cit., pp. 9 ss.; 21 ss.  156 Tra sentimenti ed eguale rispetto possono avere forme di umiliazione che influiscono sulla cosiddetta ‘autocomprensione normativa’ della persona, escludendola struttu- ralmente dal godimento di diritti, oppure – ed è questa la forma per la quale il termine ‘spregio’ viene più comunemente in uso – negan- dole valore sociale tramite lo svilimento di modi di vita individuali o collettivi 44. Riguardo a tale ultima dimensione di significato si è detto che la questione del riconoscimento è cruciale nella costituzione dell’iden- tità personale, la quale si forma attraverso una «negoziazione che av- viene via dialogo, in parte esterno e in parte interiore, con altre per- sone», con l’importante conseguenza che «sia sul piano intimo sia su quello sociale (quello della politica dell’uguale dignità) la nostra iden- tità si forma (o deforma) in relazione ai nostri incontri con “altri si- gnificativi”» 45. Ebbene, è fondamentale il passaggio dal piano intimo a quello so- ciale, in un percorso che deve tenere ben presenti e ben distinti en- trambi i profili: nella individuazione di un’offesa il piano intimo en- tra in gioco ma non può rappresentare un criterio assoluto; il richia- mo al piano sociale, e a una dimensione di normatività oggettivabile, risulta cruciale 46. 44 Honneth afferma che «ciò che lo spregio qui sottrae alla persona, in termini di riconoscimento, è l’approvazione sociale di una forma di autorealizzazione, alla quale essa stessa ha prima dovuto faticosamente pervenire attraverso l’inco- raggiamento della solidarietà di un gruppo», v. HONNETH, Riconoscimento e di- sprezzo, cit., p. 23. 45 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 61. 46 È in base a tale distinzione, tra piano intimo e piano sociale, che possono eventualmente essere tematizzate questioni relative a quali siano gli ideali, le cre- denze, le concezioni valoriali, e più in generale quali profili dell’identità morale della persona possano essere presi in considerazione dal diritto, v. HÖRNLE, Prote- zione penale di identità religiose?, in Ragion pratica, 2/2012, pp. 379 ss. La studiosa lascia volutamente in sospeso la questione della soglia al di là della quale uno Sta- to dovrebbe adoperarsi per promuovere il mutuo riconoscimento, pur non na- scondendo notevoli perplessità sull’eventuale ricorso al diritto penale, e si limita a rimarcare che il dare rilevanza a particolari profili dell’identità morale, come ad esempio la fede religiosa, crei problemi di disuguaglianza rispetto ad altre forme di propensione alla trascendenza, e pertanto, non potendosi ragionevolmente ga- rantire a tutte lo stesso regime di tutela, lo Stato dovrebbe mantenere un atteg- giamento di neutralità astenendosi dal tutelare l’identità religiosa.   Fisionomia dell’offesa 157 3.1. Pari dignità ed eguale rispetto Il disconoscimento è anche un’offesa al sentire, nella misura in cui tocca corde significative dell’animo; ma non è scontato che un’offesa al sentire possa anche considerarsi come negazione del riconosci- mento. Il rispetto-riconoscimento non è il riflesso univoco di reazioni emotive, ma «ha più a che fare, naturalmente, con quella dignità ul- tima che non si inchina, che pretende il rispetto in forza di un valore intrinseco della persona, un valore che ciascuno rivendica per sé stes- so come inviolabile»47: si tratta, in definitiva, della proiezione rela- zionale del valore della dignità umana. Parlare di violazione del rispetto-riconoscimento ricalca prima fa- cie le cadenze dell’offesa alla dignità: un accostamento tutt’altro che risolutivo, e anzi assai problematico poiché rimanda alle profonde criticità che sono state espresse con riferimento alla configurabilità della dignità umana come oggetto di tutela penale 48. L’indeterminatezza penalistica è la ricaduta di una più generale difficoltà di dare alla dignità un contenuto e una dimensione oggetti- vi. La forte pregnanza emotiva che innerva tale concetto lo rende par- ticolarmente esposto a ricostruzioni di parte, e dunque a un uso che sul piano della politica del diritto appare problematico in rapporto alle dinamiche di una società pluralista 49. Il rischio è che il contenuto del concetto di dignità umana si tra- muti nel mero riflesso di concezioni ‘comprensive’ 50, le quali, ove tra- sfuse nella dimensione giuridica, incrementerebbero dissensi e frammentazioni. In altri termini, la dignità umana è un concetto «fondamentale ma “manipolabile”» 51. Si tratta di obiezioni che hanno il merito di mettere a nudo da un lato la forza retorica, e dall’altro la fragilità contenutistica di un ri- chiamo alla dignità umana tout court, probabilmente anche fino al 47 MORDACCI, Rispetto, cit., p. 26. 48 V. supra, cap. III, nota 102. 49 Per una panoramica sul dibattito a livello internazionale v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, cit., pp. 65 ss.; per un’approfondita critica dell’appello alla dignità v. GUY E. CARMI, Dignity – The Enemy from Within: A Theoretical and Com- parative Analysis of Human Dignity as a Free Speech Justification, in 9 Journal of Constitutional Law, 2007, pp. 958 ss. Per una sintesi v. VERONESI, La dignità uma- na tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quaderni costituzionali, 2/2014, pp. 329 ss. 50 RAWLS, Liberalismo politico, cit., pp. 12 ss.; v. anche supra, nota 34. 51 CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 934.   158 Tra sentimenti ed eguale rispetto punto di non passare il vaglio dei principi penalistici; ma sono ragio- ni sufficienti a espungere radicalmente il valore della dignità dal di- scorso sui problemi di tutela? Il richiamo alla dignità umana non sembra un postulato da cui prendere le mosse per l’elaborazione di argomenti di parte52, bensì dovrebbe essere considerato come la dimensione di senso di ogni di- scorso che abbia a che fare con problemi di convivenza fra uomini. Le difficoltà, financo l’impossibilità, di un utilizzo del concetto di dignità sul piano tecnico-giuridico non ci sembrano una ragione suf- ficiente a mettere da parte l’orizzonte simbolico e semantico che ruota intorno alla dignità. Anche le critiche più radicali ci sembrano rivolte all’uso piuttosto che al valore sostanziale e alla pertinenza rispetto alle questioni in gioco53: si sta maneggiando un ‘superconcetto’ che sarebbe necessario introdurre nel discorso con maggiore cautela, per ragioni di tipo epistemico ed etico 54. Pur partendo dal presupposto che il concetto di dignità «è intuiti- vo, nient’affatto chiaro di per sé», pare difficile poterne fare del tutto a meno: «[s]ebbene sia un’idea imprecisa, il cui contenuto va appro- fondito in rapporto a nozioni correlate, l’idea di dignità fa comunque la differenza» 55. Martha Nussbaum esorta a non abbandonare le co- 52 «[È] fuorviante contrapporre in modo meccanico e astratto la dignità uma- na ai diritti che la Costituzione riconosce», v. AMBROSI, Costituzione italiana e manifestazione di idee razziste o xenofobe, in AA.VV., a cura di Riondato, Discri- minazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova, 2006, p. 52. Condivisibilmente, VERONESI, La dignità umana, cit., pp. 336 ss., sostiene che la dignità non debba essere identificata né con un diritto, né con la piana conseguenza della violazione di un diritto, né come un principio auto- nomamente azionabile, evidenziando in questo senso ragionevoli obiezioni a un appiattimento della dignità sulla dimensione del diritto positivo. 53 La distinzione fra il concetto di dignità (concept) e le plurivoche concezioni che da esso derivano (conceptions) è evidenziato da MCCRUDDEN, Human Dignity, cit., p. 679, in un discorso che cerca di evidenziare il rapporto fra il ‘nucleo duro’ del significato (core value) e le diverse declinazioni che emergono dal discorso giuridico. 54 Per tutti, v. HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali, cit., p. 129. Pretendere di dare una veste conchiusa e definita della dignità, identifican- dola univocamente in un interesse ‘a senso unico’, rischia di essere una mossa azzardata sul piano epistemico e anche una forzatura sul piano etico, ove si pre- tenda di identificare il contenuto della dignità con istanze fondate su concezioni comprensive. 55 NUSSBAUM, Creare capacità, tr. it., Bologna, 2011, p. 36. Nel panorama italia- no, si veda la difesa del valore e del ruolo della dignità proposta da FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Politica del diritto, 4/2014, pp. 515 ss.   Fisionomia dell’offesa 159 ordinate tracciate dal concetto di dignità, e a trovare delle nozioni correlate e specificative che possano aiutare a renderlo meno liquido e più aderente ai contesti. Un importante suggerimento è quello di focalizzare l’attenzione sul concetto di rispetto: «La dignità è un’idea difficile da definire con precisione, e probabil- mente non dovremmo cercare di farlo nell’ambito politico, poiché di- verse religioni e prospettive laiche la descrivono in modi differenti [...]. Probabilmente dovremmo evitare che la dignità abbia un conte- nuto specifico tutto suo: sembra essere un concetto che acquista for- ma attraverso i legami con altri concetti, come quello di rispetto [...], e una varietà di principi politici più specifici» 56. Riteniamo tale passaggio di fondamentale importanza poiché con- tribuisce a ridisegnare la fisionomia della dignità in termini relazio- nali e non come valore assoluto, scisso da un rapporto fra individui. Parlare di rispetto reciproco significa chiamare in gioco non un valo- re esterno alla relazione, ma focalizza l’attenzione su un bilancia- mento. Le dinamiche del rispetto-riconoscimento non esauriscono lo spa- zio etico della dignità ma evidenziano il rapporto di simmetrica reci- procità nel quale devono essere collocate le pretese avanzate dagli at- tori nella dialettica pluralista, le quali appaiono tendenzialmente in- terpretabili come riflesso di due esigenze di fondo: «il rifiuto dell’im- posizione, sia essa in nome della neutralità e della verità [e] il rifiuto di una considerazione diseguale [...] che deriverebbe dal trionfo della posizione politica avversa» 57. Una ridefinizione dell’orizzonte di tutela nei termini dell’eguale e reciproco rispetto può rappresentare a nostro avviso un’opzione epi- stemicamente più cauta di un’asserita ‘tutela della dignità’: a risultare decisiva non è una ricerca di fondamenti ontologici del superconcet- to ‘dignità’, ma l’elaborazione di criteri di bilanciamento fra opposte posizioni secondo una prospettiva di uguaglianza. 56 NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, tr. it., Milano, 2012, pp. 71 s. 57 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 35. A chiosa della posizione della Galeotti, si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamen- to verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 210.   160 Tra sentimenti ed eguale rispetto 4. Bilanciare le pretese 4.1. Dignità e capacità umane In merito al problema dei limiti alla libertà di espressione, la digni- tà umana mal si presta ad assumere le vesti di argomento ‘a senso uni- co’, tale da offrire univoca giustificazione a una sola delle pretese che si confrontano, ma è potenzialmente in grado di valere su più fronti. Parlare di tutela della dignità assume in primo luogo il significato di un sostegno alle libertà, in quanto l’attenzione e la cura nei con- fronti della dignità costituiscono da un lato la condizione generativa «di un “pensiero critico, eterodosso, collidente con pensieri e senti- menti dominanti”» e dall’altro lato «la condizione nei soggetti istitu- zionali, della stessa capacità di resistere alla tentazione di soffocarne la manifestazione» 58. Secondariamente, va tenuto in considerazione che nella dialettica fra istanze di libertà e richieste di rispetto vi sono più dignità che en- trano in gioco: quella di colui che manifesta il proprio pensiero e quella che si considera offesa dalla manifestazione espressiva 59. An- che nel linguaggio può essere importante esplicitare la connessione fra dignità e uguaglianza richiamando non semplicemente la dignità di ognuno, ma la pari dignità come presupposto di una relazione di eguale rispetto 60. Resta aperto il problema di contestualizzare pari dignità ed eguale rispetto in relazione a esigenze concrete dell’essere umano, e dunque di limitare la distanza fra la metafisica di tali concetti e le situazioni da cui scaturiscono problemi di convivenza. 58 FORTI, Le tinte forti del dissenso nel tempo dell’ipercomunicazione pulviscola- re. Quale compito per il diritto penale?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 1056. 59 Evidenzia tale ambiguità SCHAUER, Speaking of Dignity, in AA.VV., ed. by Meyer-Paren, The Constitution of rights. Human Dignity and American Values, Itha- ca and London, 1992, p. 179: «[t]he conflation of dignity and speech, as a general proposition, is mistaken, for although speaking is sometimes a manifestation of the dignity of the speaker, speech is also often the instrument through use which the dignity of others is deprived»; cfr. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifesta- zione di opinioni razziste e xenofobe, in Quaderni costituzionali, 3/2008, p. 533. 60 Cfr. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Padova, 2009, pp. 232; 242. Si veda anche l’icastica osservazione di Nadia Urbinati, secondo la quale «eguale libertà è dunque il nome della difesa della dignità umana nel tempo della modernità», v. URBINATI, Ai confini della democra- zia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma, 2007, p. 10. Cfr., con diversità di accenti, CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., p. 112.   Fisionomia dell’offesa 161 Nel contesto penalistico italiano si è fatto di recente carico di tale onere Gabrio Forti, il quale, attingendo da una recente pubblicazione di Aaron Barak61, ha definito la dignità umana come «principio complesso che, necessariamente sganciato da visioni o concezioni fi- losofiche unilaterali, è suscettibile di scomposizione in entità valoria- li che devono essere rapportate tra loro» 62. Il richiamo alla distinzio- ne di Barak tra ‘dignità-madre’ e ‘diritti-figli’ è funzionale, per Forti, a evidenziare che la libertà d’espressione potrebbe incontrare limita- zioni volte alla tutela di altri ‘diritti-figli’ della stessa ‘dignità-madre’, a patto di uscire da un ragionamento meramente astratto e di proce- dere a una ‘lettura situazionale’ che sappia decifrare i contesti e gli specifici bisogni che possono emergere quale interesse da contrap- porre a eventuali manifestazioni espressive. Si tratta in altri termini di dare spessore e pregnanza personologi- ca all’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia così impor- tante, al di là del riconoscimento che le è dato nelle carte costituzio- nali 63; e correlativamente, di chiedersi quale possa essere il peso delle parole nell’economia di vita sia di chi le esprime sia dei destinatari. Per abbozzare delle coordinate prendiamo le mosse dal pensiero di John Searle che individua la caratteristica fondamentale dell’essere umano nell’attitudine a porre in essere atti linguistici («we are speech act performing primates»), e fa conseguentemente derivare la piena dignità di un individuo dalla sua capacità di espressione 64. A nostro avviso non basta tuttavia configurare una semplice pro- pensione ad atti linguistici, ma sono necessarie ulteriori connessioni che ne mettano in luce la strumentalità rispetto a un quadro più va- riegato di capacità e di prospettive concernenti la realizzazione della persona. Nella riflessione filosofica contemporanea, il discorso sulle capaci- tà trova una fondamentale elaborazione nel ‘capability approach’ di 61 BARAK, Human Dignity. The Constitutional Value and the Constitutional Right, Cambridge, 2015. 62 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., pp. 1054 ss. 63 Sulle istanze partecipative legate al discorso pubblico v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 156 ss. 64 SEARLE, Social Ontology and Free Speech, in 6 The Hedgehog Review, 2004, p. 62: «we attain our full dignity, our full stature as speech act peforming animals, when we exercise our capacities for expression [...] The need for dignity, self- esteem, and autonomy come with the genetic territory, and a healthy society has to recognize these needs and recognize that verbal self expression is an essential component in their satisfaction».   162 Tra sentimenti ed eguale rispetto Martha Nussbaum: si tratta di un’antropologia dei bisogni dell’uomo pensata come riferimento per le strategie politiche e di organizzazio- ne della società, basata sull’individuazione di un novero di capacità le quali integrano e danno sostanza umana all’idea di dignità 65. L’importanza di tale riflessione nella prospettiva penalistica è sta- ta messa in luce quale criterio di interpretazione dei bisogni e degli aspetti di vulnerabilità degli esseri umani al fine di tracciare le coor- dinate per un apporto del diritto penale alla difesa, al rispetto e an- che alla ‘costruzione’ della dignità umana 66. Nel condividere la suddetta impostazione, riteniamo che attraver- so il linguaggio delle capacità si possano meglio definire anche i con- torni delle istanze di libertà e delle richieste di rispetto che animano la dialettica sulla libertà di espressione. Ci sembra che un’immer- sione nelle note caratterizzanti la natura e la socialità umane possa contribuire a tradurre le pretese in una dimensione meno astratta, per verificare se e in che termini siano reciprocamente esigibili 67. Entrando nel dettaglio del catalogo della Nussbaum individuiamo un novero di capacità che definiscono una base di contenuti funzio- nale non solo alla ricognizione dei contorni di un’ipotetica dignità of- fesa, ma che si prestano a dare senso e sostanza alla posizione di chi chiede rispetto per la propria libertà di esprimere contenuti pur ‘di- scutibili’, fungendo in questo senso da connessione giustificativa an- che per la posizione di chi invoca il diritto alla libertà di espressione: 65 «Consideriamo la persona, proprio perché caratterizzata da attività, mete, progetti, in qualche modo capace di suscitare un rispetto che trascende l’azione meccanica della natura, eppure bisognosa di sostegno per portare a compimento molti progetti importanti», v. NUSSBAUM, Diventare persone, tr. it., Bologna, 2000, p. 90. 66 FORTI, «La nostra arte è un essere abbagliati dalla verità». L’apporto delle di- scipline penalistiche nella costruzione della dignità umana, in Jus, 2-3/2008, pp. 308 s. 67 L’approccio delle capacità può rappresentare un’importante coordinata de- scrittiva e una chiave di lettura delle istanze di tutela; in questo senso condivi- diamo e rilanciamo quale buon esempio la proposta di ‘lettura situazionale’ basa- ta sull’approccio delle capacità formulata da Matteo Caputo in tema di repressio- ne penale del negazionismo, v. CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, cit., pp. 309 s. A un livello successivo, relativo al problema della soglia di intervento normati- vo, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 108 ss., evidenzia in termini critici come anche tale chiave di lettura non sarebbe però sufficiente a configurare un substrato di offensività verificabile in termini conformi allo stan- dard di bilanciamento che dovrebbe supportare eventuali norme basate sullo schema applicativo del pericolo concreto.   Fisionomia dell’offesa 163 «Sensi, immaginazione, pensiero. [...] Essere in grado di usare l’imma- ginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzio- ne di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente in modi protetti dalla garanzia delle libertà di espressione rispetto sia al discorso politico, sia artistico, nonché della libertà di pratica reli- giosa [...]. Sentimenti. Poter provare attaccamento per cose e persone oltre che per noi stessi [...] Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie o paure eccessive. Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita. Appartenenza. [...] b) Avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come persona dignitosa il cui va- lore eguaglia quello altrui. Questo implica, al livello minimo, prote- zione contro la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza ses- suale, religione, casta, etnia, origine nazionale. [...]» 68. Le suddette capacità appaiono connaturate a una società aperta, presupposto e obiettivo di una tutela delle libertà strumentale a met- tere ogni individuo nella condizione di formarsi una concezione di ciò che è bene potendo usare la propria mente in modi protetti dalla libertà di espressione. Emerge però anche un livello minimo di protezione il quale sem- bra richiamare l’esigenza di un fare attivo da parte della politica e del- l’ordinamento giuridico, fra le cui finalità viene messo in evidenza il contrasto alla discriminazione: significa che uno Stato dovrebbe im- pegnarsi per garantire «le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come una persona dignitosa il cui valore eguaglia quello altrui». Ritorna anche nel pensiero della Nussbaum l’esigenza di prestare attenzione al problema del mancato riconoscimento, qui richiamato attraverso i concetti del ‘rispetto di sé’ e dell’‘umiliazione’. In altri ter- mini, quando si creano le condizioni perché un soggetto venga umi- liato si potrebbero incrinare gli equilibri che costituiscono l’humus per le capacità umane fondamentali, e potrebbe rendersi necessario un intervento dello Stato per cercare di ripristinarle; libertà non può si- gnificare umiliazione dell’altro. Per quanto ispirato alla massima apertura liberale, anche il di-  68 NUSSBAUM, Diventare persone, cit., p. 96.  164 Tra sentimenti ed eguale rispetto scorso di Martha Nussbaum pone il problema di eventuali limiti e suggerisce un approfondimento del concetto di ‘umiliazione’. 4.2. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit Un tentativo di elaborare una nozione politicamente spendibile – non soggettivistica o emotivistica – dei concetti di ‘rispetto di sé’ 69 e ‘umiliazione’ si deve ad Avishai Margalit e alla sua teorizzazione sulla ‘società decente’, da intendersi come ‘società che non umilia’ 70. La nozione di umiliazione proposta da Margalit è, per stessa ammis- sione dell’Autore, di tipo normativo e non psicologico: «[u]miliazione è ogni comportamento o condizione che costituisce una valida ragione perché una persona consideri offeso il proprio rispetto di sé» 71. È di particolare importanza, ai fini della presente indagine, la di- stinzione fra insulto e umiliazione: pur essendo situati lungo un con- tinuum, rappresentano forme di offesa qualitativamente differenti, la prima delle quali si rivolge all’onore sociale, mentre la seconda lede il rispetto di sé inteso come percezione del valore intrinseco della per- sona 72. L’insulto è contraddistinto da contenuti che possono essere in un certo senso razionalizzati dal destinatario (ad esempio anche in relazione alla verità o falsità degli asserti), l’umiliazione è più gravo- sa: riprendendo la distinzione di Bernard Williams fra emozioni ‘bianche’ e ‘rosse’ 73, Margalit ritiene che l’umiliazione sia associabile a un’emozione bianca, la quale comporta che il soggetto umiliato si 69 Sul concetto di ‘rispetto di sé’, con un’impostazione differente, si veda anche BAGNOLI, L’autorità della morale, cit., pp. 25 ss., 143 ss.; DWORKIN, Giustizia per i ricci, tr. it., Milano, 2013, pp. 293 ss. 70 MARGALIT, La società decente, tr. it., Milano, 1998, passim. 71 MARGALIT, La società decente, cit., p. 57: «[q]uesto è un significato normativo piuttosto che psicologico dell’umiliazione. Il significato normativo non comporta per sé che la persona che abbia una buona ragione per sentirsi umiliata, di fatto si senta tale. D’altra parte, il significato psicologico dell’umiliazione non compor- ta che la persona che si sente umiliata abbia una buona motivazione per questo sentimento. La sottolineatura è sui motivi per provare umiliazione come risultato di un comportamento altrui». Nel panorama italiano, cfr. l’ampia analisi critica di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 74 ss. 72 MARGALIT, La società decente, cit., p. 152. 73 WILLIAMS, Vergogna e necessità, tr. it., Bologna, 2007; un’emozione rossa è un’emozione in cui ci si vede attraverso gli occhi dell’altro, e perciò si arrossisce. Con un’emozione bianca una persona si vede attraverso l’‘occhio interno’ della propria coscienza, che può farla impallidire.   Fisionomia dell’offesa 165 guardi col proprio occhio interno ma applicando al contempo il pun- to di vista del soggetto umiliante, e dunque senza riuscire ad assume- re una distanza critica dall’addebito, poiché l’umiliazione attecchisce in contesti di squilibrio fra umiliatore e vittima, e assume l’effetto di una ‘minaccia esistenziale’ 74. L’umiliazione è più che un semplice insulto: «rifiutare un essere umano umiliandolo significa rifiutare il modo in cui egli esprime se stesso come umano»75, radicalizzando l’addebito su modi di essere costitutivi dell’individuo e negando l’umanità dell’altro a causa di un’ap- partenenza significativa 76 che concorre a definirne l’identità. Risulta perciò fondamentale distinguere quando un’espressione abbia il significato di forte critica e quando invece sottenda un’umi- liante esclusione e, di fatto, una discriminazione. 5. Ai confini fra critica e discriminazione Dal punto di vista concettuale la differenza fra critica e discrimi- nazione ricalca le due varianti del rispetto: rispetto-stima come at- teggiamento le cui oscillazioni in positivo o in negativo possono dar luogo a forme di critica legittima; rispetto-riconoscimento come va- lore che può essere negato attraverso manifestazioni espressive volte a umiliare e a marginalizzare. Si aggiunge in questo modo un ulteriore, importante, tassello al- l’itinerario concettuale che ha preso le mosse dall’esigenza di distin- guere offese ai meri sentimenti da condotte, e in particolare, da for- me di espressione, che, non limitandosi a offendere l’emotività sog- gettiva, si facciano veicolo di umiliazione e di negazione dell’eguale libertà e dignità delle persone. 74 MARGALIT, La società decente, cit., p. 154. 75 MARGALIT, La società decente, cit., p. 171. 76 MARGALIT, La società decente, cit., pp. 165 ss. Secondo l’Autore, ciò che rende più pregnante l’umiliazione è la connessione con il concetto di ‘gruppo inclusivo’: si intende con tale definizione «un gruppo [che] ha un comune carattere e una comune cultura, che include molti importanti e vari aspetti della vita [nel quale] le persone che crescono nel gruppo ne acquisiscono la cultura, e possiedono le sue particolari caratteristiche». Un tratto particolarmente significativo riguarda il fatto che l’appartenenza al gruppo è in parte materia di mutuo riconoscimento, nel senso che l’inclusione nel gruppo non è determinata da una scelta personale: «esse appartengono [al gruppo] a causa di quello che sono».   166 Tra sentimenti ed eguale rispetto È però assai problematico trovare le rispondenze di tali distinzioni all’atto pratico: «non è così netta, nella percezione viva, la differenza fra l’offesa alla stima e l’offesa al riconoscimento come semplice per- sona, perché le persone si identificano non solo con la propria umani- tà, ma soprattutto con le loro qualità, le loro storie individuali» 77. Sia la critica sia la discriminazione possono definirsi come forme di espressione ‘irrispettose’, e il sottile confine che le separa a livello fe- nomenico espone al rischio, nella prospettiva giuridica, di continue oscillazioni tra vuoti di tutela ed eccessi di intervento. Come osserva Michael Rosen, «[è] evidente che il diritto a comportarsi in maniera irrispettosa debba essere maneggiato con cura. Probabilmente vi sono dei limiti a ciò che dovrebbe essere permesso [...] ma dovremmo rifiu- tare l’idea che il linguaggio volto a irritare o insultare violi automati- camente l’essenza intrinseca di ciò che ha valore nelle persone con la conseguenza di “deprivarle della loro dignità di esseri umani”» 78. All’inizio del capitolo abbiamo riportato alcuni episodi tratti dalle cronache per identificare il tipo di conflitti in cui appare a nostro av- viso più evidente il coinvolgimento di sensibilità soggettive, esclu- dendo da tale apparato esemplificativo il tema del discorso d’odio (c.d. hate speech) e della propaganda razzista. Ora, alla luce dell’esi- genza di distinguere fra critica ed esclusione/discriminazione, il ri- chiamo al discorso d’odio diviene di importanza centrale poiché è proprio l’elaborazione teorica in materia di hate speech 79 a fornire in- teressanti spunti in tal senso. 77 MORDACCI, Rispetto, cit., p. 29. 78 In questi termini Michael Rosen rimarca l’esigenza di procedere con cautela nelle restrizioni a forme di espressione: ROSEN, Dignità, cit., pp. 76 s. 79 Il tema dello hate speech è indagato in modo particolarmente approfondito nel panorama anglo-americano, nel quale l’orientamento maggioritario è di con- trasto alle limitazioni alla libertà di espressione. In questo senso vi sono forti dif- ferenze rispetto al panorama europeo, le cui ragioni affondano nella storia geopo- litica dei due continenti. Quali esempi di contrarietà ai cosiddetti ‘hate speech bans’, pur con diversità di accenti, v. HEINZE, Hate Speech and Democratic Citizen- ship, Oxford, 2016, in particolare pp. 207 ss.; cfr. DWORKIN, Foreword, in AA.VV., ed. by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. V ss.; POST, Hate Speech, in AA.VV., ed by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. 132 ss. Nella vasta letteratura, v., fra le opere collettanee, AA.VV., ed. by Hare- Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit.; AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech: Rethinking Regulation and Responses, Cambridge, 2012. Per un quadro di sintesi sulle differenze emergenti fra la giu- risprudenza statunitense ed europea v. KISKA, Hate speech: a Comparison between the European Court of Human Rights and the United States Supreme Court Juris- prudence, in 25 Regent University Law Review, 2012, pp. 107 ss.   Fisionomia dell’offesa 167 La connessione della problematica della tutela di sentimenti al tema della discriminazione si lega a ragioni di maggiore selettività, mirate a differenziare offese alla sensibilità, le quali dovrebbero con- siderarsi come ricaduta di un fisiologico e pluralistico dissenso e co- me evento collaterale alla libertà di critica, da manifestazioni di ne- gazione della pari dignità e dunque del rispetto-riconoscimento. 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron Un importante contributo viene dal giurista Jeremy Waldron80 il quale argomenta sulla dannosità del discorso d’odio a partire da quel- la che considera una fuorviante commistione fra hate speech e tutela di sentimenti. Lo studioso sostiene che il disvalore dello hate speech non vada identificato nello stato psichico negativo concretamente o potenzial- mente indotto da manifestazioni espressive, e adotta in questo senso una posizione di contrasto a incriminazioni fondate sulla logica dell’offense di feinberghiana memoria; la protezione di sentimenti è un effetto solo indiretto, così come l’induzione di stati psichici nega- tivi è un elemento collaterale che non esaurisce il disvalore del di- scorso d’odio. L’orizzonte dello hate speech dovrebbe coincidere con offese alla dignità del singolo in quanto appartenente a determinati gruppi o credente in determinati ideali; le forme di critica anche aspre e irri- verenti che non rappresentino una stigmatizzazione dell’individuo in ragione di suoi specifici tratti, dovrebbero considerarsi al di fuori dell’area di interventi normativi 81. 80 Waldron si caratterizza per un approccio più disincantato nei confronti del- la libertà di espressione: l’Autore è aperto a prospettive di regolamentazione nor- mativa del discorso pubblico e in questo senso si distingue nel panorama statuni- tense in virtù di una posizione minoritaria, espressa in particolare negli studi rac- colti in WALDRON, The Harm in Hate Speech, Harvard, 2012. Per un quadro gene- rale e un excursus storico sulla libertà di espressione negli Stati Uniti, v. KALVEN, A Worthy Tradition: Freedom of Speech in America, New York, 1988; per una sinte- si del dibattito su pornografia e blasfemia v. POST, Cultural Heterogeneity and Law: Pornography, Blasphemy, and the First Amendment, in 76 California Law Re- view, 1988, pp. 297 ss. 81 Interessanti spunti sul tema sono offerti anche da Robert Post il quale inter- preta la distinzione tra espressioni tollerabili e intollerabili come riflesso di di- namiche di egemonia sociale delle classi dominanti: secondo Post il discorso   168 Tra sentimenti ed eguale rispetto Ricondurre la questione dello hate speech a un problema di offesa a sentimenti significherebbe sminuirne la portata 82, poiché una con- cezione emotivistica dell’interesse protetto non dà adeguatamente conto del radicamento del discorso d’odio e di come esso possa con- taminare l’ambiente sociale anche al di là del turbamento emotivo indotto su singoli individui 83. Lo hate speech non appare pertanto riducibile a un mero insulto dal forte impatto emotivo, ma piuttosto a un discorso che può intac- care la considerazione sociale dei destinatari dell’offesa, a detrimento di interessi come l’inclusività (inclusiveness) e la garanzia (assurance) di non essere discriminati 84. Il punto fondamentale, secondo Waldron, è distinguere fra espres- sioni che suscitano emozioni e dunque ‘offendono’ in un senso affine all’offense principle, ed espressioni che ‘aggrediscono’ la dignità del d’odio è ritenuto illegittimo poiché esorbita da standard che rinviano a norme so- ciali dettate dai gruppi dominanti: quando il diritto impone una determinata di- stinzione, come quella che richiede di non accomunare espressioni di fisiologico disaccordo a manifestazioni d’odio, sta in definitiva imponendo egemonicamente standard sociali di decorosità nei rapporti intersoggettivi: «This suggests that whenever law chooses to enforce cultural norms, as for example by enforcing norms that distinguish hate speech from normal disagreement, law hegemonical- ly imposes a particular vision of these norms. Hate speech regulation imagines itself as simply enforcing the given and natural norms of a decent society, á la Devlin; but from a sociological or anthropological point of view we know that law is always actually enforcing the mores of the dominant group that controls the content of law», v. POST, Hate Speech, cit., p. 130. Sembra fondarsi invece sulla ‘non astinenza epistemica’ che accompagna i divieti in materia di hate speech, e che sarebbe dunque incompatibile con una dimensione democratica del discorso pubblico, la critica di fondo di HEINZE, Hate Speech, cit., pp. 111 ss., 209. Nella letteratura italiana, con diversità di accenti, sul problema della (tendenzialmente impossibile) ‘astinenza epistemica’ del legislatore in materia di regolamentazione del discorso pubblico VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 247 s.; TESAURO, Ri- flessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 128 ss. 82 La differenza risiede nella distinzione «between undermining a person’s dignity and causing offense to the same individual [...] to protect people from of- fense or from being offended is to protect them from a certain sort of effect on their feelings. And that is different from protecting their dignity and the assur- ance of their decent treatment in society», WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 105, 107. 83 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 116; per un approfondimento critico sul rischio di interpretazioni soggettivistiche, e un riorientamento della categoria degli hate crimes in una prospettiva incentrata su dissenso politico e rispetto per le differenze v. PERRY, A Crime by Any Other Name: The Semantics of Hate, in 4 Journal of Hate Studies, 2005, pp. 123 ss.  84 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., pp. 4 ss.  Fisionomia dell’offesa 169 soggetto («offending people and assaulting their dignity»)85, intesa come «basic social standing, the basis of their recognition as social equals and as bearers of human rights and constitutional entitle- ments» 86. Il turbamento che un soggetto possa eventualmente avvertire, e dunque le emozioni negative che plausibilmente si accompagnano alle parole87, non sono del tutto irrilevanti (e testimoniano come l’offesa coinvolga qualcosa di importante per la persona), ma enfatiz- zarne il rilievo significherebbe, secondo Waldron, esporsi alla critica che lo hate speech tuteli meri sentimenti. L’offesa emotiva rappresen- ta una proiezione soggettiva, ‘metonimica’ nel senso che descrive solo una parte della dimensione del danno 88. Perché un’espressione di negazione del riconoscimento dovrebbe essere ritenuta più grave di una critica irridente che offende il sentire soggettivo? Fra le ragioni addotte a sostegno della diversa gravità di tali forme di offesa, anche Waldron richiama l’insondabilità delle emozioni soggettive e la mutevolezza delle soglie di suscettibilità individuale 89, 85 «[...] the basic distinction between an attack on the body of beliefs and an attack on the basic social standing and reputation of a group of people is clear. In every aspect of democratic society, we distinguish between the respect accorded to a citizen and the disagreement we might have concerning his or her social and political convictions [...] Defaming the group that comprises all Christians, as op- posed to defaming Christians as members of that group, means defaming the creeds, Christ, and the saints», v. WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 120. 86 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 59. 87 Assumiamo come presupposto che le parole possano ferire, quantomeno in- ducendo emozioni negative; il fatto che tali conseguenze possano non essere con- siderate rilevanti in quanto non integrino la dimensione normativa del danno, è un problema successivo, ma che non dovrebbe portare a disconoscere una di- mensione di lesività a livello naturalistico. Sul punto risulta interessante la posi- zione di Schauer, il quale sostiene che definire aprioristicamente come ‘minore’ il danno provocato da parole, solo perché ‘non fisico’ o meno visibile, sia altamente opinabile. Riconoscere che un danno, inteso come sofferenza fisica, possa crearsi, non significa automaticamente inferirne la rilevanza sul piano giuridico in termi- ni di compressioni di libertà: «If there is a free speech principle, then a conse- quence will be that a range of distresses and negative outcomes produced by the relevant category of speech act will be considered not to have caused harms in the legally redressable sense, but that is very different from saying pretheoretically that it is a characteristic of the acts that they are as category less harmful», v. SCHAUER, The Phenomenology of Speech and Harm, in 103 Ethics, 1993, p. 652. 88 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 112. 89 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 113.   170 Tra sentimenti ed eguale rispetto ma non appaiono queste le ragioni decisive. L’offesa discriminatoria fa leva sulla diversità per comunicare esclusione da ogni prospettiva di dialogo: in questo senso realizza un’interazione con lo status socia- le e relazionale delle persone attraverso la negazione del patto etico su cui si fonda la convivenza, ossia la pari dignità dell’altro 90. L’intru- sione nella sfera di libertà altrui si realizza attraverso una potenziale compromissione delle trame sociali e relazionali, e più in generale dell’ambiente sociale in cui dispiegano la propria esistenza gli indivi- dui destinatari di determinate espressioni 91. Un’ulteriore importante precisazione avanzata da Jeremy Waldron concerne la distinzione a livello concettuale tra offese alla reputazio- ne del gruppo ed espressioni discriminatorie che si riflettono sul sin- golo individuo in quanto appartenente al gruppo. Troppo spesso, os- serva Waldron, la c.d. ‘diffamazione di gruppo’ (defamation group 92) 90 Si è osservato che l’incriminazione di tale tipologia di espressioni potrebbe essere l’unica eccezione al principio secondo cui in uno Stato liberale non si do- vrebbero incriminare concezioni di valore e modi di pensare: «[d]iversamente ac- cade, eccezionalmente, soltanto quando certi comportamenti manifestano e/o realizzano modi di pensare, convinzioni e concezioni di valore con i quali viene propagandato e/o trasformato un certo stile di vita che esclude in modo combat- tivo altre concezioni del bene, oppure addirittura nega a certi gruppi all’interno della società lo stato di membri aventi gli stessi diritti», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere as- siologico?, cit., p. 147. Cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 101 ss., il quale individua la c.d. ‘riproduzione della disuguaglianza di status’ come uno dei possi- bili danni realizzabili dalle parole. 91 D’obbligo il richiamo alla cosiddetta ‘Critical Race Theory’ quale esempio di teoria che ha esposto con dovizia argomentativa, per quanto non immune da obie- zioni, le ricadute dannose del discorso denigratorio basandosi sulle espressioni a sfondo razziale: in estrema sintesi si sostiene che la diffusione dell’odio, e in parti- colare l’odio razzista, produrrebbe a livello individuale fenomeni di ansia, disagio psichico e perdita di autostima tali da poter influire sulla vita relazionale degli indi- vidui, mentre a livello sociale porterebbe alla formazione di un clima culturale di ostilità fino a poter generare anche il c.d. ‘Silencing Effect’, ossia l’effetto silenziatore consistente nello screditare socialmente le minoranze offese fino a minare il loro status di partner a livello comunicativo in ambito sociale. Per un’ampia e dettagliata sintesi v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 67 ss.; cfr. PINO, Di- scorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto, 2/2008, pp. 287 ss.; si veda anche AA.VV., a cura di Thomas-Zanetti, Legge razza diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Reggio Emilia, 2005. 92 Il lessico angloamericano distingue fra individual defamation e group defa- mation intendendo con il secondo termine l’area di problemi che viene comune- mente identificata come ‘hate speech’: «In many countries, a different term or set of terms is used by jurist: instead of “hate speech”, they talk about “group libel” or “group defamation”», v. WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 39. Mal-   Fisionomia dell’offesa 171 viene intesa come offesa che, indirizzandosi ai valori che fondano l’identità del gruppo, coinvolgono il singolo solo in termini di disagio emotivo: non è questa la prospettiva con cui identificare lo hate speech. L’offesa che dovrebbe rilevare come discorso discriminatorio è quella che strumentalizza l’appartenenza al gruppo come fattore di degradazione e di inferiorità della persona 93. In altri termini, una prospettiva di intervento normativo non do- vrebbe avere ad oggetto principi o concezioni valoriali in sé, neppure nella forma mediata di carattere identificativo di un gruppo, e dunque nella loro dimensione sovraindividuale e impersonale. I cosiddetti ‘va- lori’, intesi come principi su cui un soggetto impronta la propria vita specie con riferimento alla sfera morale, possono assumere rilevanza in quanto elementi costitutivi del modo d’essere degli individui 94. Al termine di tale complessa disamina, un dato di fondo sembra difficilmente contestabile: distinguere fra espressioni di odio e di cri- tica, tra offese alla dignità del singolo in quanto aderente a un grup- po e offese alla reputazione del gruppo stesso, e più in generale stabi- lire la portata offensiva di un’espressione verbale o simbolica, è un’operazione ermeneutica che necessita di un’attenta lettura di con- testi e situazioni, e che non può essere imbrigliata in categorizzazioni di carattere ‘assoluto’. 5.2. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma Prima di verificare la rispondenza di tali distinzioni nelle eventua- li prassi applicative, si pone l’esigenza di una riflessione sul piano dei presupposti del ragionamento. L’individuazione di un confine fra critica e discriminazione si ri- grado la sostanziale identità sul piano lessicale, la defamation group non appare perfettamente sovrapponibile a ciò che nel contesto italiano viene definito ‘diffa- mazione di gruppo’ come variante plurisoggettiva del reato di diffamazione sem- plice, la quale è volta, quantomeno in via teorica, a reprimere le medesime offese che rileverebbero ex art. 595 c.p., ossia un novero più ampio rispetto a ciò che si potrebbe definire ‘discorso d’odio’ (v. infra, nota 120). 93 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., p. 122. 94 Sul tema, v. DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 140.; cfr. RAZ, I va- lori fra attaccamento e rispetto, tr. it., a cura di Belvisi, Reggio Emilia, 2003, pp. 13 ss. Osserva GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., p. 137 che «culture e tradizioni possono avere un valore estetico, storico e archeologico, ma non intrinsecamente morale. Il loro valore morale deriva dal fatto che sono importanti e fonti d’ispi- razione per i loro membri e non in sé».   172 Tra sentimenti ed eguale rispetto flette sul raggio applicativo di norme giuridiche, sia vigenti sia in prospettiva de iure condendo, e dipende in primo luogo dall’interpre- tazione di dinamiche intersoggettive e di aspetti fattuali: non sempli- cemente conoscenza di fatti, bensì attribuzione di significato ad azioni ed espressioni. La distinzione fra questi profili non sembra adeguatamente ap- profondita in sede teorica95, ed è del tutto trascurata nel contesto giurisprudenziale, ove l’interpretazione del fatto finisce per essere as- sorbita, e data per scontata, rispetto alla sussunzione normativa, sen- za riconoscere che le peculiarità del fatto possono dar luogo a pro- blemi logicamente autonomi e complementari all’ermeneutica della norma giuridica: problemi «di interpretazione del fatto, e che si riflet- tono sulla applicazione del diritto» 96. In questa sede ci limitiamo a evidenziare come la distinzione fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma si ponga a livello concettuale quale richiamo, a nostro avviso necessario, per eviden- ziare fasi differenti nella gestione epistemica del ragionamento giu- diziale 97. La soglia di rilevanza penale di manifestazioni espressive costitui- sce un tema in relazione al quale i rapporti fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma appaiono fortemente compenetrati; co- me osservato da Richard Abel: «gli sforzi giuridici per regolare l’espressione sprofondano nell’inelimi- nabile ambiguità dei significati. Il senso e la valenza morale dei sim- 95 Un’opera dedicata ex professo al rapporto fra giudicante e interpretazione di elementi extragiuridici, e più in generale, al tema del ruolo dei valori culturali quale fattore di influenza nelle decisioni giudiziali, è lo studio di BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giuri- sprudenza, cit. 96 PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche, in AA.VV., a cura di Biscotti-Borsellino-Pocar-Pulitanò, La fabbrica delle interpretazioni, Milano, 2012, p. 203. 97 Problema differente è se la distinzione fra ermeneutica del fatto ed erme- neutica della norma sia meramente concettualistica, finendo per restare assorbita nella spirale ermeneutica e nell’intreccio tra fatto e diritto; sul tema, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova, 2002, pp. 37 ss.; DI GIOVINE O., L’in- terpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano, 2006, pp. 231 ss.; DONINI, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, in AA.VV., La fab- brica delle interpretazioni, cit., pp. 96 ss.; PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpreta- zioni penalistiche, cit., pp. 201 ss.; PALAZZO, Testo e contesto, cit., pp. 525 ss.   Fisionomia dell’offesa 173 boli variano radicalmente a seconda di chi parla e di chi ascolta e pos- sono capovolgersi rapidamente, perfino istantaneamente» 98. Quando si ha a che fare con forme di espressione non si pone tan- to un problema di conoscenza di fatti, quanto di selezione e valuta- zione di elementi di contesto chiamati a definirne la dimensione di significato: l’interpretazione di una manifestazione espressiva non si riduce a un esame della lessicalità o a un riscontro oggettivo di gesti simbolici senza tenere in considerazione la relazione intersoggettiva di base e il contesto di sfondo. Lo studioso, ed eventualmente il giudice, si trovano alle prese con una complessa ermeneutica finalizzata a «concretizzare il volto del fat- to punibile» 99, complementare rispetto all’ermeneutica della norma. Problemi simili sono emersi con riferimento anche ad altri ambiti, ad esempio nell’interpretazione del concetto di osceno in rapporto alla libertà di creazione artistica 100, in relazione all’accertamento del- l’appartenenza culturale di un soggetto quale eventuale causa di atte- nuazione della responsabilità101, e anche in relazione all’interpreta- zione del gesto del bacio come condotta sessualmente pregnante piuttosto che come approccio confidenziale e ‘innocente’ 102. Come è stato osservato in dottrina, la ricostruzione del fatto è probabilmente il momento più delicato del procedimento interpreta- tivo, avvinto in un intreccio col diritto che è stato definito ‘diaboli- co’ 103: l’interprete non è un semplice spettatore che importa passiva- 98 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 99 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 34. 100 FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., p. 153. Una caso emblematico è la vicenda giudiziaria relativa al film ‘Ultimo tango a Parigi’ del regista Bernardo Bertolucci, oggi riassunta nel volume di AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo. Osceno e comune sentimento del pudore tra arte cine- matografica, diritto e processo penale, Roma, 2013; v. in particolare il saggio di MASSARO, Lo spettacolo cinematografico osceno tra elementi elastici e difetto di de- terminatezza, ivi, pp. 33 ss. 101 DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit., pp. 137 ss. 102 In relazione a tale ultima questione si è osservato come l’interpretazione del gesto non possa limitarsi a una statica rispondenza con pattern comportamentali, ma richieda piuttosto una prospettiva ermeneutica «incline a prendere in consi- derazione anche il “contesto” in cui il contatto fisico si realizza e dunque la com- plessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa nell’ambito della situazioni coar- tanti», v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale, cit., p. 56. 103 DI GIOVINE O., Considerazioni su interpretazione, retorica e deontologia in di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2009, p. 124.   174 Tra sentimenti ed eguale rispetto mente e acriticamente elementi della realtà all’interno del proprio procedimento cognitivo, ma opera una selezione determinata dalle peculiari modalità di apprendimento che caratterizzano in modo dif- ferente ogni singolo individuo, sulla base di fattori che comprendono il corredo neurobiologico, la dimensione delle esperienze personali, la matrice culturale 104 e, piaccia o non piaccia, l’ideologia 105. In altri termini, il giudicante non si limita a prendere atto di ele- menti di fatto, ma interpreta i significati del fatto selezionando gli aspetti rilevanti per la decisione 106. In fase applicativa tali questioni finiscono per restare assorbite, e non sufficientemente distinte, dal piano strettamente giuridico, e si espongono in questo senso a una gestione epistemica sulla quale in- combe il rischio di un uso non adeguatamente sorvegliato di nozioni e di concetti che attengono al piano socio-psicologico 107. In altri termini, sarebbe opportuno far sì che determinate interpre- tazioni dei significati del fatto divenissero oggetto di analisi ed even- tualmente di confutazione, «piuttosto che essere semplicemente fatte passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono esse- re, non sempre correttamente, e non sempre indipendentemente dal 104 Per tutti, DI GIOVINE O., L’interpretazione nel diritto penale, cit., pp. 192 ss., 205 ss., 211 s. 105 Per un’approfondita riflessione, ancora attuale, sull’ideologia del giudice v. GRECO, Premessa, cit., pp. 36 ss. 106 Cfr. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati, cit., p. 142. 107 Nel panorama italiano il problema di una perizia relativa ai profili socio- culturali del fatto si è posto, soprattutto in passato, con riferimento ai rapporti fra valore artistico e oscenità, e ad oggi è discusso prevalentemente in relazione ai c.d. reati ‘culturalmente motivati’; in riferimento al tema della perizia artistica v. LUCIANI, La nozione penalistica di “opera d’arte” di cui all’art. 529 c.p. Considera- zioni di diritto sostanziale e processuale, in AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tan- go a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 51 ss. In relazione alla perizia culturale, oltre al citato studio di Cristina de Maglie, va menzionato un ulteriore importante contributo proveniente dall’ambito costituzionalistico nel quale viene tematizzata la necessità di un avvaloramento epistemico del ragionamento giudiziale attra- verso l’elaborazione un percorso volto a rendere tendenzialmente più oggettivo l’accertamento di un conflitto culturale: v. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costitu- zione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano, 2012. Sempre in tema di reati culturalmente motivati, con riferimento alla valutazione della motivazione culturale, è frequente riscontrare nella giurisprudenza di legittimità argomentazioni carenti e approssimative, sovente esito di posizioni ideologiche pur benintenzionate ma nondimeno fortemente discutibili: per un esempio v. Cass. pen., sez. I, 15/05/2017, n. 24084, con nota di FERLA, Il pugnale dei Sikh tra esigenze di sicurezza e divieti normativo-culturali, in Giur. it., 10/2017, pp. 2208 ss.   Fisionomia dell’offesa 175 loro retroterra culturale, la saggezza comune dell’umanità» 108. Per tali ragioni ben si comprende che la valutazione del margine di confine fra espressioni tollerabili ed espressioni non consentite, anche ove sia tenuta a distanza dalla sensibilità della vittima, finisca poi per essere esposta, e dipendere in larga misura, anche dalla sen- sibilità dell’interprete, sia esso studioso teorico o applicatore di even- tuali norme 109. Si tratta di un fattore problematico del quale va tenu- to conto sia come chiave di lettura delle oscillazioni riscontrabili nel- la casistica giurisprudenziale, sia quale elemento di riflessione in rapporto al ruolo che i giudici assumono, o potrebbero assumere, nel farsi arbitri della soglia di intervento penale 110. In relazione a un ulteriore profilo, sempre legato alla ricerca di 108 SCHAUER, Il ragionamento giuridico, tr. it., Bari, 2017, p. 278. Sottolinea con chiarezza TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudi- ce, in ID., Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, 2002, pp. 121 ss., che il ragionamento del giudice non è determinato da criteri o norme di carattere giuri- dico, bensì, quando supera i confini di ciò che convenzionalmente si intende per ‘diritto’, risulta impregnato anche del cosiddetto ‘senso comune’. Da ciò la neces- sità che il giudice sia «consapevole della frammentazione e della variabilità delle coordinate conoscitive e valutative che ormai sono i tratti dominanti della società attuale» (p. 154). In ambito penalistico, HASSEMER, Perché punire è necessario, cit., pp. 68 ss., osserva, con realismo, che il giudice fa ricorso a teorie del senso comu- ne sia per questioni inerenti al contenimento dei tempi del giudizio, ma anche perché il suo ruolo deve restare comunque centrale rispetto ai pareri della scien- za; nondimeno egli deve assumersi tale responsabilità epistemica: «[i]l giudice penale ha il diritto e il dovere di apportare il suo “sapere fattuale” e di assumer- sene la responsabilità [...]. Da questa responsabilità non può liberarlo alcun pare- re». Sul cosiddetto ‘senso comune’ v. supra, cap. I, nota 72. 109 Esempio emblematico di ermeneutica del fatto impregnata di discutibili principi di psicologia del senso comune, per lo più riflesso di precomprensioni del giudicante, sono le sentenze relative alla vicenda del film ‘Ultimo tango a Pa- rigi, v. AA.VV., Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo, cit., pp. 114 ss. Un’altra pronuncia, più recente, in cui risulta altamente opinabile l’ermeneutica del fatto è Trib. Latina, 24/10/2006, n. 1725, riportata in SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira: “nuove” incriminazioni e “nuove” soluzioni giurisprudenziali, in Stato, Chie- se e pluralismo confessionale, 7/2007, pp. 14 ss.; per una critica v. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 186 ss. 110 «Il fenomeno è evidente soprattutto in quelle disposizioni che hanno un’importanza politica, che regolano cioè, in senso lato i rapporti fra lo Stato e i cittadini, e che – naturalmente – consentano più di un’interpretazione. [...] E, nel- la possibilità di una duplice interpretazione, l’una e l’altra certamente, per così dire, politica, può stabilirsi, attraverso l’esame di una decisione, l’indirizzo ideo- logico del giudice», v. BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione, in BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurispru- denza, cit., p. 4.   176 Tra sentimenti ed eguale rispetto una soglia oggettiva di tollerabilità delle forme di espressione e, più in generale riferibile alle norme che richiamino, implicitamente o espressamente, fatti di sentimento, è stato condivisibilmente osserva- to in dottrina che quando vengono in gioco interessi di tutela assimi- labili in tutto o in parte a sentimenti la tipicità diviene prevalente- mente valutativa, rimettendo al giudice bilanciamenti che, teorica- mente, il diritto avrebbe dovuto cristallizzare in astratto 111. Un caso emblematico è l’onore personale, in relazione al quale si è osservato come esso non si presti a una predeterminazione esaustiva, ma sia in definitiva «co-determinat[o] dall’incidenza che i diritti co- stituzionalmente rilevanti [...] esercitano nel determinar[ne] i limiti di estensione» 112. Si è parlato di una ‘tipicità on balance’ «nel senso che la figura criminosa in questione, lungi dall’essere ricostruita una volta per tut- te in modo stabile e definitivo» assume una fisionomia variabile che dipende dalle caratteristiche del caso concreto 113. In altri termini, un intreccio simbiotico tra fatto e antigiuridicità, alla luce del quale non è appropriato parlare di un giudizio di tipicità del tutto indipendente dalla eventuale sussistenza di cause di giustificazione, con la conse- guenza che le operazioni di bilanciamento sottese al momento giusti- ficativo finiscono per avere una funzione indispensabile al fine di in- tegrare la tipicità stessa 114. Fattispecie così strutturate, prive cioè di una dimensione lesiva compiutamente apprezzabile in sede di tipicità, scaricano sul momen- to applicativo la definizione di requisiti strutturali, imponendo «in via surrogatoria al giudice di tracciare autonomamente i confini dell’illi- ceità attraverso tecniche di bilanciamento a vocazione “tipologica”» 115. 111 GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale?, cit., pp. 1559 s. 112 TESAURO, La diffamazione, cit., p. 24. 113 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 33 ss., 56 ss., 96 ss. 114 TESAURO, La diffamazione, cit., pp. 58 s. 115 TESAURO, La diffamazione, cit., p. 58. Oltre a tale profilo, e alle connesse implicazioni di teoria del reato, un simile intreccio fra tipicità e giustificazione rappresenta a nostro avviso la conferma che l’interpretazione dei conflitti in tema di libertà di espressione si sottrae a una logica binaria, tale per cui o vi è offesa o vi è esercizio di libertà; si tratta di un ambito dominato da situazioni in cui il con- fine tra lecito e lecito non solo non appare predeterminabile in chiave di tipicità astratta, ma è poroso, labile. Si è osservato che uno dei limiti della giurispruden- za italiana sul vilipendio alla religione è quello di adottare, con discutibili percor- si argomentativi, un’impostazione secondo la quale l’operatività della scriminante dell’esercizio di un diritto rappresenta un’alternativa che si pone in rapporti dico-   Fisionomia dell’offesa 177 L’incardinamento dei bilanciamenti sottesi alla giustificazione fra le trame di una tipicità ‘di matrice giudiziale’, se da un lato può ac- crescere il potenziale di discrezionalità degli applicatori, dall’altra parte produce l’effetto di concepire il fatto tipico come struttura in fieri, aperta alla presa in carico di problemi e di istanze sociali che trovano voce attraverso le cause di giustificazione 116, ricollocandone il raggio d’azione non semplicemente come elementi tali da neutra- lizzare una precedente offensività, ma come fattori che influiscono sul disvalore del fatto in concreto. In questo senso si potrebbe ipotizzare che l’intreccio fra tipicità e giustificazione finisca per assegnare alle scriminanti un ruolo di ‘re- spiro’ della fattispecie astratta simile a quello svolto dagli elementi normativi di matrice culturale. Le norme limitative della libertà di espressione appaiono in questo senso ‘a geometria variabile’117, ossia modellate su bilanciamenti che risentono dei mutamenti dei costumi e delle soglie di tollerabilità so- ciale, non fissabili aprioristicamente ma da determinarsi in relazione a un quadro di contingenze storiche e culturali. A conferma del fatto che non si possono affrontare tali questioni senza una chiara messa a fuo- co del contesto che fa da sfondo alle espressioni, ai mondi morali a confronto e alle contingenze storico-politiche: «[l]a apparentemente distaccata, analisi di diritto positivo su libertà di parola e repressione penale è [...] insidiata e talora travolta dal calore dell’urgenza della realtà così com’è, e quindi dal confronto politico tout court» 118. tomici con eventuali interessi concorrenti; in questo modo la ricognizione dei conflitti finisce per adagiarsi su una logica binaria, trascurando, o negando, che ciò che rende legittimo l’esercizio di una libertà o di una eventuale limitazione non è la radicale inconfigurabilità di un eventuale controinteresse, ma si tratta invece di un giudizio legato a contingenze del caso concreto e a criteri di oppor- tunità della sanzione; v. VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 188. 116 Come osservato da Massimo Donini, «[i]l mondo dei diritti riflesso nelle cause di giustificazione riguarda [...] la continua evoluzione della società civile [...] una varietà ed evoluzione che sottostà all’apparente staticità delle incrimina- zioni e produce a volte nuove fattispecie di reato create in via legislativa, ma è capace di bilanciare tali diritti anche dentro e contro le vecchie incriminazioni, le quali non sanno darci un’immagine della società se non attraverso il mondo dei diritti, che cambiano il vero contenuto dei beni protetti dal codice penale, anche se questo può restare apparentemente invariato per decenni», v. DONINI, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie. I bilanciamenti d’interessi dentro e oltre la giustificazione del reato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 705. 117 Traggo l’espressione da PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., p. 126, il quale la usa per definire gli elementi normativi di valutazione culturale.  118 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 137.   178 Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Alla prova dei fatti: blasfemia e propaganda razzista «Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi spaventa» WOODY ALLEN SOMMARIO: 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? – 7. Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibilità religiosa. – 7.1. L’ambiguità dell’art. 403 c.p. – 7.2. Le vignette di Charlie Heb- do: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile? – 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? – 8.1. Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discriminatorio. – 9. Sinossi. 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il tema della potenziale dannosità a livello sociale di determinati contenuti espressivi chiama in causa l’orizzonte comunicativo del di- scorso pubblico, il quale per definizione caratterizza il livello di liber- tà e di apertura della democrazia in rapporto al pluralismo delle idee e ai margini di tolleranza e di repressione del dissenso 119. Si tratta dell’area in cui la legittimazione di eventuali restrizioni normative è più problematica: offese circoscrivibili alla dialettica fra persone fisiche possono essere ricomprese nella tutela dell’onore in- 119 «L’oggetto della libertà di espressione è il discorso. Non qualsiasi tipo di di- scorso, bensì il discorso pubblico. L’esercizio della libertà di espressione ha una vocazione di pubblicità, di trascendenza nella sfera pubblica. La libertà di espres- sione è, in questa misura, il requisito fondamentale della comunicazione politica in democrazia», v. ROIG., Libertà di espressione, cit., p. 36. Sull’etica del discorso pubblico come strumento volto alla realizzazione, e non solo all’affermazione, di valori, v. VIOLA, La via europea della ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Trujillo- Viola, Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna, 2007, pp. 420 ss.   Fisionomia dell’offesa 179 dividuale120, eventualmente come condotte qualificate da contenuti tali da aggravare la responsabilità, situandosi in un’area di crimina- lizzazione che, per quanto problematica 121, non è mai stata messa se- riamente in discussione dal punto di vista della legittimità costitu- zionale 122. Maggiori criticità si addensano su altre fattispecie tese a incrimi- nare manifestazioni del pensiero, in primo luogo la propaganda raz- zista di cui all’art. 3 comma 1, lett. a, della legge n. 654 del 1975 (in- trodotto dalla c.d. ‘Legge Mancino’, cronologicamente successiva): non atti di istigazione alla discriminazione o alla violenza 123, ma pa- 120 L’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione semplice) non si estende, secondo giurisprudenza costante, a offese rivolte a col- lettività, anche se circoscritte, di persone. Per una panoramica della giurispru- denza della Corte Edu e della giurisprudenza italiana v. CUCCIA, Libertà di espres- sione e identità collettive, Torino, 2007, pp. 159 ss.; 198 ss. Nella giurisprudenza italiana, v. Cass. pen., sez. V, 04/04/2017, n. 16612; cfr. Cass. pen., sez. V, 09/12/2014, n. 51096; più datata è Cass. pen., sez. I, 24/02/1964, in Giur. it., 1964, II, p. 241, con nota di LARICCIA, Sulla tutela penale delle confessioni religiose acattoliche; in senso favorevole, v. Cass. pen, sez. V, 16/01/1986, in Dir. inf., 1986, p. 457. Per una sintesi del problema v. LA ROSA, Onore, sentimento religioso e libertà di ricerca scientifica, nota a Trib. Mondovì, 22 febbraio 2007, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 10/2007, pp. 20 ss. 121 Da ultimo, FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 72 ss. 122 Si veda C. cost., n. 86/1974. Cfr. ROMANO, Legislazione penale e tutela della per- sona umana (Contributo alla revisione del Titolo XII del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/1989, p. 61; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale del- l’onore, in AA.VV., Verso un nuovo codice penale, Milano, 1993, p. 340; DONINI, Ana- tomia dogmatica del duello. L’onore dal gentiluomo al colletto bianco, in Indice pena- le, 2000, pp. 1080 ss.; per una sintesi, nel quadro di una posizione non radicalmente abolizionista ma tesa a limitare l’intervento penale a offese particolarmente gravi (attribuzione di fatti non corrispondenti a verità in contesti comunicativi estesi a più persone), v. GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale, cit., pp. 172 ss.; 202 ss. Fra i costituzionalisti v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre?, cit., p. 15; MANETTI, Libertà di pensiero e tutela delle identità religiose. Introduzione ad un’analisi comparata, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 46. La legittimità del- la tutela dell’onore individuale non è messa in discussione dalla Corte Edu, la quale si è limitata, fino ad oggi, a rilevare gli eccessi della risposta penale dell’ordina- mento italiano, in quanto, secondo la Corte Edu, non dovrebbe essere prevista, sal- vo casi eccezionali, la sottoposizione a pena detentiva; v. per tutte, Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24/09/2913, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10; per una sintesi del problema e per un’analisi della giurisprudenza italiana più recente sul tema del trattamento sanzionatorio della diffamazione v. GULLO, Diffamazione e pena detenti- va, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2016, pp. 1 ss. 123 Incriminati ai sensi dell’art. 3 della legge n. 654/1975 lett. a) – seconda parte –, e lett. b).   180 Tra sentimenti ed eguale rispetto role e discorsi che possono costituirne un volano. Secondariamente, vengono in gioco le residue ipotesi di vilipendio alla religione, soprat- tutto l’art. 403 c.p., il quale si presenta nelle fogge di un’offesa al- l’onore personale ma sembra assumere nelle applicazioni giurispru- denziali un ruolo dai contorni più ampi. È soprattutto con riguardo a tali tipologie di incriminazione che oggi la dottrina penalistica fa ricorso al lessico dei sentimenti per sot- tolineare in chiave critica un’asserita impalpabilità del substrato dell’offesa: valga, come sintesi, il rilievo di Tesauro il quale si chiede se tramite l’incriminazione della propaganda razzista non si finisca per tutelare «emozioni collettive (di scandalo, imbarazzo, disgusto, inquietudine o paura), e se, dunque, non assomigli molto da vicino alla tutela penale di un sentimento a cavallo tra solidarietà e allarme sociale [...] Insom- ma, un impasto a metà strada fra sentimenti individuali di umiliazio- ne pubblica, reputazione di gruppo, uguaglianza formale senza distin- zioni di razza, ordine pubblico ideale, universalismo morale anti-di- scriminazione» 124. È plausibile ritenere che dietro tale norma vi siano anche, in buo- na parte, input che promanano da un disagio socialmente diffuso di fronte al fenomeno razzista, e che dunque la norma in un certo senso finisca per assumere anche la funzione di tutela di un ‘sentire demo- cratico’ 125. Tale rilievo, per quanto difficilmente confutabile, non sembra pe- rò sufficiente a chiudere il discorso sulla legittimazione. Al di là delle indiscutibili criticità, è lo stesso Tesauro a riconoscere che la que- stione non va declinata in termini meramente concettualistici ma è «irriducibilmente etico-politica e dagli esiti altamente controvertibili [...] [e] resta aperta a opposte soluzioni che convogliano giudizi di va- lore, preferenze culturali e scelte di politica criminale» 126. 124 TESAURO, La propaganda razzista, cit., pp. 962, 964; si veda anche SPENA, Li- bertà di espressione e reati di opinione, cit., pp. 714 ss. 125 L’analisi destrutturante di Tesauro evidenzia inoltre come il ricorso al cor- rettivo ermeneutico del pericolo concreto non appaia sufficiente a contenere l’am- bito di applicazione della disposizione entro una ragionevole area di oggettività, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 114 ss., 122 ss. 126 TESAURO, La propaganda razzista, cit., pp. 972. Nella dottrina statunitense si è osservato criticamente che i discorsi a favore o contro il disvalore degli hate crimes sono affetti da un elevato grado di concettualismo, poiché, attraverso la ricerca di un danno ‘oggettivo’ riconducibile all’odio, cercano di rendere meno   Fisionomia dell’offesa 181 È una questione politicamente e costituzionalmente aperta, non archiviabile frettolosamente dietro l’invocazione, pur benintenziona- ta, dell’art. 21 Cost.: sono in gioco valori costitutivi della democrazia costituzionale, la cui protezione ha importanza rilevante anche (non solo) da un punto di vista simbolico 127. Il problema di un equilibrio con la libertà di espressione finisce per scaricarsi sul momento applicativo, alla ricerca di una ragionevolezza con ‘mitezza attenuata’, secondo una formula che è stata adoperata per indicare che il bilanciamento costituzionale fra valori confliggenti, e l’eventuale sacrificio di uno di essi (questo il senso della ‘non mitezza’), devono essere comunque accompagnati da ragionevolezza 128. Previsioni incriminatrici ‘non illegittime’ come quelle che l’ordina- mento italiano annovera nella legge Mancino necessitano di un regi- me di ‘sorveglianza speciale’: la loro tollerabilità è legata al grado di ragionevolezza applicativa. Un problema di qualità delle decisioni giudiziali, i cui esiti di giustizia non possono darsi per scontati: il ri- spetto del principio costituzionale della libertà di espressione richie- de che le interpretazioni e le applicazioni siano fortemente selettive, calibrate su criteri fra i quali deve a nostro avviso essere tenuta ben presente, quantomeno a livello concettuale, la necessità di distingue- re tra espressioni che offendono la mera sensibilità ed espressioni che veicolano contenuti di umiliazione. Tale delega alla ‘phronresis’ giudiziale è motivata dalla constata- zione, a nostro avviso, di una ‘non eliminabilità’ dall’ordinamento di fattispecie pur discutibili come quelle che incriminano la propaganda razzista: troppo forte la risonanza etica e la consustanzialità dei beni in gioco in rapporto ai valori che la democrazia riconosce come pro- prio fondamento. evidente il portato assiologico della scelta di politica del diritto al fine di restare coerenti con un liberalismo asseritamente neutrale: v. KAHAN, Two Liberal Falla- cies in the Hate Crimes Debate, in 20 Law and Philosophy, 2001, pp. 189 ss. 127 Si veda anche WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mante- nimento di orientamenti sociali di carattere assiologico?, cit., p. 151, secondo il quale rappresentazioni di valore e convinzioni possono essere considerati come legittimi beni da proteggere nel caso in cui la loro lesione metta in discussione l’«intesa sociale-normativa dominante». 128 Traggo l’espressione da SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espres- sione e della libertà di religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 79, la quale sottoli- nea che il bilanciamento fra valori costituzionali potrebbe portare al sacrificio di uno di essi, non ‘mite’ dunque, ma pur sempre (necessariamente) ragionevole; vi può essere ragionevolezza senza mitezza, ma non mitezza senza ragionevolezza.   182 Tra sentimenti ed eguale rispetto Non si tratta però di un assunto risolutivo, bensì di un fattore che rende ancora più complesso il gioco di equilibri e che, soprattutto, responsabilizza la figura del giudicante quale anello ultimo e decisivo di una ‘catena della ragionevolezza’129 necessaria per affrontare il problema di limiti alla libertà di espressione. A risultare determinanti saranno doti di sensibilità culturale e ca- pacità interpretativa dei fenomeni da parte del giudice, nel quadro di una sapienza non ‘algoritmica’ 130 bensì auspicabilmente vicina a una ‘saggezza pratica’. È tutt’altro che scontato, e sarebbe ingenuo pensare, che tali doti risiedano in misura sufficiente nella totalità dei giudici, ma sarebbe forse altrettanto frettoloso dare per scontato che non vi siano margini per una intelligente e ‘non intollerabile’ gestione dell’arsenale penali- stico in materia di libertà di espressione. Il problema è aperto, e sol- lecita l’intero mondo della cultura giuridica a meditare su percorsi di studio e di formazione funzionali a dare ai soggetti giudicanti gli strumenti per un’attenta lettura delle vicende e dei contesti fattuali, non semplicemente delle norme 131. Nel prosieguo compiremo una sintetica disamina di alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali in relazione alla tutela del sentimento reli- gioso e alla normativa sulla discriminazione razziale. Il tema del discorso razzista rappresenta la palestra concettuale più significativa per verificare la tenuta della distinzione fra critica e discriminazione. 129 Sul tema della ragionevolezza nel diritto penale v. per tutti PULITANÒ, Ra- gionevolezza e diritto penale, Napoli, 2012, pp. 10 ss. 130 ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevo- lezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, in Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 13 e 14 otto- bre 1992, Milano, 1994, pp. 179 ss. 131 Osserva FIANDACA, Il giudice tra giustizia e democrazia nella società comples- sa, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, cit., p. 31, che sarebbe necessario un affinamento culturale nella preparazione dei magistrati, attraverso uno studio specifico delle logiche del ragionamento giudiziale e di altri aspetti che regolano il giudizio di fatto oltre che il giudizio di diritto. Istanze che vengono rimarcate da VINCENTI, Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Roma, 2013, p. 19, quando descrive criticamente il giudice contemporaneo come «funzionario o burocrate, vittorioso in un concorso a cui segue una progressione in carriera pressoché automatica, formatosi su di una letteratura accademica di stampo ma- nualistico, spesso obsoleta e comunque aliena dal ricercare il perché delle regole, abituato a ragionar per massime, naturalmente assai poco curioso di andare oltre le rappresentazioni istituzionali e poco propenso ad assumere il dubbio metodico quale cifra del proprio agire». Vedi anche la bibliografia citata supra, nota 107.   Fisionomia dell’offesa 183 Quanto alla residua fattispecie di vilipendio di cui all’art. 403 c.p., non si richiede che le espressioni siano discriminatorie; lo schema tipico rimane quello della condotta di insulto, del ‘tenere a vile’132. Nondimeno, si pone l’esigenza di distinguere tra offese al patrimonio ideale delle confessioni, plausibilmente foriere di affronti alla sensibi- lità dei credenti ma che oggi dovrebbero considerarsi penalmente ir- rilevanti, da offese all’onore della persona. Iniziamo dai rapporti fra religione e libertà di espressione con particolare riferimento alla satira133, per sondare alcuni recenti ap- prodi giurisprudenziali nel contesto italiano e per dedicare una ri- flessione al caso delle pubblicazioni del settimanale francese Charlie Hebdo, al centro dell’attenzione dopo i tragici episodi del gennaio 2015. 7. Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibili- tà religiosa In nome di sentimenti religiosi è stato di recente versato del san- gue; l’esercizio di una libertà che è cifra simbolica dell’occidente libe- rale ha attivato spirali di violenza e generato un clima di terrore al cospetto del quale la riflessione sui modi d’uso della libertà non può abbandonarsi a cliché morali, pur benintenzionati, o a ingenui ireni- smi. Su un piano fattuale non sembra esservi ragione più immediata e plausibile della suscettibilità emotiva per dar conto delle conflittuali- tà emerse; se pure nella prospettiva penalistica i sentimenti possono difettare di tassatività, dall’altro lato, essi sono però in grado di pro- durre conseguenze ben visibili, a conferma della loro rilevanza indi- viduale e sociale. 132 PROSDOCIMI, voce Vilipendio (reati di), in Enciclopedia del diritto, vol. XLVI, Milano, 1993, pp. 739 ss. Sul vilipendio religioso v. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da Marinucci-Dolcini, vol. V, Padova, 2005, pp. 148 ss.; ID., «Lai- cità penale» e determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano, 2006, pp. 2456 ss. 133 Per un’accurata e ben documentata silloge di episodi in cui sono emersi at- triti fra satira e religione v. RUOZZI, Piccolo manuale di blasfemia audiovisiva. Dal Mistero Buffo televisivo a Southpark, in AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 93 ss.   184 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il traumatico ritorno in scena della sensibilità, o forse, più pro- priamente, della suscettibilità religiosa nel contesto occidentale costi- tuisce un attacco frontale alla libertà di espressione per mano di for- ze che hanno usato il linguaggio della violenza e dell’annientamento dell’altro. A prescindere da quello che sia il giudizio sul merito delle rappre- sentazioni satiriche danesi e di Charlie Hebdo, va detto in premessa che le reazioni suscitate «non possono essere assunte a parametro di un “sentimento religioso” rilevante per il nostro ordinamento. Proprio le caratteristiche che ne fondano il forte e preoccupante rilievo politico, sullo sfondo di un te- muto “scontro di civiltà”, e sollecitano adeguate valutazioni e risposte politiche, impongono di tenere ferma la valutazione di estraneità e per così dire irricevibilità giuridica. Il sentimento religioso, che può porre un problema di tutela, non può essere misurato sulle fatwe né su vio- lenze aizzate politicamente in altri paesi» 134. L’agire violento esclude ogni prospettiva di considerazione giuri- dica per le istanze avanzate; resta tuttavia in piedi l’interrogativo su come sia più ragionevole oggi configurare una tutela del sentimento religioso ‘a misura liberale’. Uno dei nodi di fondo si identifica nell’al- ternativa fra tutela della/e religioni e tutela delle persone che profes- sano una religione 135: se la prima ipotesi rappresenta un retaggio del passato incompatibile con i principi del pluralismo assiologico e di laicità136, la seconda è aperta a diverse declinazioni. Riorientare la tutela sulla persona del credente esclude la prospettiva del ‘bene di civiltà’ 137; meno scontato è l’approdo ultimo. Vediamo in che termini la distinzione fra tutela della confessione e della persona del credente entra oggi in gioco nel panorama appli- cativo dell’ordinamento italiano. 134 PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 314. 135 Cfr. FERRARI, La blasfemia in Europa, dalla tutela di Dio alla tutela dei cre- denti, in www.resetdoc.org, 14 febbraio 2014; CIANITTO, Libertà di espressione liber- tà di religione: un conflitto apparente?, in AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, cit., pp. 206 ss. 136 Cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 928. 137 Ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizza- zione, cit., p. 50.   Fisionomia dell’offesa 185 7.1. L’ambiguità dell’art. 403 c.p. La distinzione tra offesa alle credenze e offesa alla persona trova un punto di riferimento nell’art. 403 c.p. La fattispecie costituisce, in- sieme all’art. 404 c.p., un residuo delle ipotesi di vilipendio origina- riamente previste, fra le quali l’art. 402 c.p. (dichiarato costituzio- nalmente illegittimo con la sentenza n. 508/2000) costituiva la norma più emblematica e dai risvolti più critici 138. Davvero il vilipendio alla religione può dirsi decriminalizzato sul piano della sostanza? L’art. 403 c.p. e l’art. 404 c.p. ne recuperano in parte l’eredità residua 139, circoscrivendo le ipotesi di rilevanza penale a una casistica più definita (quantomeno formalmente) di azioni le quali dovrebbero avere a oggetto le persone che professano una reli- gione o cose destinate al culto 140. Dopo la caduta dell’art. 402 c.p., è l’offesa alla persona che potrebbe rendere legittima una restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero, lasciando fuori dall’area di intervento le forme di critica al patrimonio ideale di una confes- sione. In realtà l’art. 403 c.p. appare caratterizzato da una formulazione non particolarmente felice, la quale persiste nella rubrica e nel te- 138 L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica è caduta sotto la scure della Consulta non per contrasto con l’art. 21 Cost., bensì per violazione de- gli artt. 3 e 8 Cost., in linea con un trend interpretativo che non ha mai asseconda- to le pochissime richieste di illegittimità dei vilipendi alla religione per violazione dell’art. 21 Cost. Risulta solo un ordinanza, la n. 479/1989, nella quale è stata sol- levata questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 c.p. per contrasto anche con l’art. 21. In quel caso la declaratoria della Corte è stata la manifesta inammis- sibilità per la non pertinenza della questione rispetto al giudizio in corso, senza alcuna riflessione sul merito dei rapporti tra l’art. 403 c.p. e l’art. 21 Cost. Per una panoramica della giurisprudenza costituzionale sull’art. 402 c.p., v. SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espressione, cit., pp. 86 ss. 139 Sembra aderire a un recupero pressoché pieno della portata dell’art. 402 c.p. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, cit., pp. 54 ss., la quale, adesiva- mente alla giurisprudenza, osserva che il vilipendio generico a una confessione reli- giosa, anche in assenza del riferimento a persone determinate, possa rientrare nell’art. 403 c.p., e che anche l’offesa a simboli, come ad esempio il crocifisso, possa assumere rilevanza penale ai sensi della medesima disposizione (v. p. 58). Di diverso avviso PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 245 s. 140 Le condotte descritte dalle fattispecie non sono del tutto simmetriche: nel caso dell’art. 403 c.p. il vilipendio esprime la modalità di lesione, mentre nell’art. 404 c.p. è l’offesa alla confessione religiosa a costituire l’evento strumentale alla realizzazione del vilipendio a cose che formino oggetto di culto.   186 Tra sentimenti ed eguale rispetto sto141 a riconoscere la centralità del vilipendio alla confessione reli- giosa 142, relegando in una posizione strumentale l’offesa a chi la pro- fessa: «l’offesa alla religione resta il criterio ermeneutico essenziale del settore» 143. Non sono mancate applicazioni in cui la Corte di Cassazione ha optato per un approccio repressivo, sostenendo che ai fini dell’inte- grazione dell’art. 403 c.p. sia sufficiente che le espressioni di vilipen- dio siano genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli «tutelando la norma il sentimento religioso e non la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confes- sione religiosa» 144. Tale pronuncia si esprime con nettezza a favore di un’interpretazione impersonale del vilipendio; sentenze successive, pur senza la medesima univocità, ne hanno ricalcato gli itinerari lo- gico-argomentativi, rivelando nel complesso un’adesione (inconscia?) all’impostazione del defunto art. 402 c.p. In un caso un soggetto è stato condannato per aver esposto «nel centro di Milano un trittico da lui realizzato – tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela – raffigurante, rispettivamente, il Pontefice in carica, un pene con testicoli e il segretario personale del Pontefice, con la didascalia «Chi di voi non è culo scagli la prima pietra» 145. 141 E anche nel regime della perseguibilità, prevista d’ufficio, la quale enfatizza la dimensione istituzionale dell’interesse protetto. 142 Un problema ben noto alla dottrina penalistica già negli anni Settanta; per un’approfondita critica agli orientamenti giurisprudenziali che operavano una sostanziale commistione fra artt. 402 e 403 c.p., applicando quest’ultimo anche a casi di offesa impersonale a contenuti di fede v. PULITANÒ, Spunti critici, cit., pp. 198 ss., 205 ss. 143 MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso, cit., p. 24; sulla stessa li- nea di pensiero v. FLORIS, Libertà di religione, cit., p. 189; MANETTI, Libertà di pen- siero e tutela delle identità religiose, cit., p. 65; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 39 ss. Cfr. ROMANO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 214: «il fatto vietato e punito resta il vilipendio delle religioni». Viene fatto notare come il trattamento sanzionatorio più grave per il vilipendio del ministro di culto con- fermi l’orientamento della tutela verso l’assetto istituzionale delle confessioni re- ligiose, così SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 82. La di- sposizione è dunque ambigua e si presta a usi discutibili; in dottrina si è rilevato che per salvarla sul piano della legittimità costituzionale occorrerebbe prendere sul serio la direzione personale del vilipendio e il legame da accertarsi in concreto, non in via presuntiva, del vilipendio alla confessione con l’offesa alla persona, v. PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 313; cfr. SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12. 144 Cass. pen., sez. III, 11/12/2008, n. 10535. 145 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044.   Fisionomia dell’offesa 187 In un secondo episodio vi è stata condanna per aver esposto un cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma costituita dall’im- magine del Pontefice in carica, e, in primo piano, un bersaglio costi- tuito da una serie di cerchi concentrici con l’indicazione di punteggi vari, riportante in calce la scritta: «1.000 punti, caramelle, preservati- vi, vino e ostie sconsacrate se centri quel buco di culo da cui quoti- dianamente vomita fiumi di merda» 146. La Corte di Cassazione sembra riproporre la teoria dei limiti logi- ci 147, quando afferma che «in materia religiosa la critica è lecita quando – sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espres- sione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di meto- do, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata prepa- razione: mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudi- zio sommario e gratuito – manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa rico- nosciute dalla comunità» 148. In entrambi i casi menzionati la rilevanza penale delle condotte non appare in discussione; si pone però la questione se l’offesa sia da considerarsi rivolta alla persona del Pontefice o piuttosto al ruolo istituzionale e dunque al legame con un certo tipo di opinioni espres- se dall’istituzione ecclesiastica in tema di etica sessuale; l’integra- zione della diffamazione appare pacifica, meno scontato è il vilipen- dio alla religione ex art. 403 c.p. Secondo la lettura proposta dalla Corte tale fattispecie non sem- brerebbe configurarsi come delitto contro l’onore e la dignità della persona, ma assumerebbe piuttosto le vesti di un mero surrogato del vecchio vilipendio ex art. 402 c.p., orientato alla tutela di un interesse affine al ‘bene di civiltà’ 149. In occasione della condanna per il trittico 146 Cass. pen., sez. III, 28/09/2016, n. 1952. 147 Per una ricostruzione del panorama giurisprudenziale sul punto v. SIRACU- SANO, I delitti in materia di religione, cit., pp. 136 ss.; PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 111 ss.; in termini generali, sulla teoria dei ‘limiti logici’ v. CARUSO, Tecniche argomentative della Corte costituzionale e libertà di manifesta- zione del pensiero, in http://www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/- pdf/documenti_forum/paper/0360_caruso.pdf, 10/2012, pp. 3 ss. 148 Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044. 149 Cfr. SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira, cit., pp. 4 ss.   188 Tra sentimenti ed eguale rispetto raffigurante il Pontefice, la Cassazione ha osservato che: «ai fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa [...] Perciò il vilipendio di una reli- gione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21» 150. Si tratta di un orientamento che inverte il rapporto tra offesa alla persona e offesa al credo: la religione non appare come elemento qualificante l’offesa alla persona ma è il bene ultimo di un’incrimi- nazione che concepisce l’offesa individuale in termini strumentali ed episodici. Appare in questo senso avvalorata la tesi di chi ha individuato l’interesse protetto dalle nuove norme, post riforma del 2006, in un bene «a carattere superindividuale, la cui “consistenza” si gioca pre- valentemente sul piano ideale, così come sul medesimo piano si pone la condotta espressiva ritenuta lesiva del bene protetto» 151. Possiamo in definitiva affermare che l’offesa alla persona del cre- dente resti ancora oggi marginale, pur in presenza di una disposizio- ne che, nel suo tenore formale, si presenta come un delitto contro l’onore qualificato dallo status della persona offesa, ma che di fatto 150 Cass. pen., sez. III, 7/4/2015, n. 41044. 151 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 197; cfr. PELISSERO, La parola perico- losa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione giustizia (on- line), 4/2015, par. 4. Nel complesso si rimane ancorati a un sistema che differen- zia tra forme di religiosità ‘classiche’ e forme di religiosità ‘diversa’ o c.d. ‘negati- va’. Il legislatore conferma un favor verso manifestazioni della spiritualità ancora- te a un’ottica tradizionale che si identifica nelle forme di organizzazione delle re- ligioni; sul punto gli orientamenti nella dottrina divergono: da un lato SIRACUSA- NO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori, cit., p. 87 ss. rileva che «siamo ben lontani dall’unica possibile prospettiva di tutela nello Stato laico: quella che si fonda su una considerazione paritaria di tutte le opzioni individuali in materia di fede, quindi anche delle opzioni agnostiche ed atee»; diversa è l’opinione di RO- MANO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 214, il quale riconosce il completo si- lenzio serbato dal legislatore «su forme di agnosticismo o di ateismo attivo, prati- cato con personali accenti di doverosità morale», concludendo tuttavia che esso «non porterebbe ad alcuna “discriminazione ideologica [...] perché per eventuali offese arrecate a forme associative ispirate a pur radicate convinzioni areligiose o agnostiche non è parso seriamente evocabile, nella situazione del nostro Paese, un qualsiasi rischio per la tranquillità».   Fisionomia dell’offesa 189 guarda più alla matrice dello status che a colui che ne è il rappresen- tante: la tutela di un’asserita sensibilità collettiva, legata all’offesa del patrimonio ideale di una confessione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento principale 152. La casistica esaminata appare tutto sommato non particolar- mente problematica, quantomeno sul piano della rilevanza penale: vi è il coinvolgimento di soggetti concretamente individuabili, e a fronte di espressioni ingiuriose resta tutt’al più aperto il problema se si tratti di vilipendio alla religione o di offese tali da integrare la diffamazione. Problemi più complessi sorgerebbero se le forme di espressione avessero ad oggetto non persone reali, ma simboli, icone, e in genera- le i dogmi di una confessione. Nel contesto italiano la caduta del vili- pendio ex art. 402 c.p. dovrebbe deporre per l’irrilevanza penale; il problema merita però di essere analizzato anche in un’ottica extraor- dinamentale, in riferimento a episodi dove l’irrisione satirica ha su- scitato reazioni violente, con un’evidente sovraesposizione del fattore emotivo. 7.2. Le vignette di Charlie Hebdo: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile? Prendiamo in esame quello che è stato definito uno ‘stress test’ per i modelli di tutela 153, ossia il caso delle vignette pubblicate dal setti- manale francese Charlie Hebdo e, originariamente, dal settimanale danese Jyilland Posten. Anche la dottrina penalistica italiana si è po- sta l’interrogativo se tali manifestazioni espressive possano assumere rilevanza penale nell’ordinamento italiano; la risposta, condivisibil- mente argomentata, è stata di segno negativo 154: nell’attuale panora- ma normativo le vignette irridenti la religione islamica non sarebbero incriminabili poiché non rivolte a soggetti determinati ma orientate a ironizzare su dogmi e contenuti di fede 155. 152 Per un’approfondita disamina del problema della diffamazione delle reli- gioni in ambito internazionale v. ANGELETTI, La diffamazione delle religioni nella protezione ultranazionale dei diritti umani, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, cit., pp. 149 ss. 153 CIANITTO, Quando la parola ferisce. Blasfemia e incitamento all’odio religioso nella società contemporanea, Torino, 2016, pp. 70 ss. 154 BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, cit., pp. 74 ss. 155 BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, cit., p. 75.   190 Tra sentimenti ed eguale rispetto Al di là della riconducibilità a una norma incriminatrice, è oppor- tuno chiedersi se i contenuti delle vignette siano accostabili a un’of- fesa ai sentimenti o al venir meno del rispetto-riconoscimento. Le vignette danesi (oggi facilmente visualizzabili su internet) non sembrano operare una vera e propria critica o messa in discussione di asserti religiosi, ma adoperano uno stile comunicativo particolar- mente forte nelle rappresentazione di figure sacre, violando in primo luogo il divieto di rappresentazione del Profeta. Si può a nostro avviso parlare di blasfemia, nel senso di rappre- sentazioni empie per l’ottica di un fedele, e dunque plausibilmente offensive del sentimento religioso. Non sembra però potersi chiamare in causa una vera e propria discriminazione assimilabile a hate speech: solo nel caso di un’unica vignetta, raffigurante il Profeta con una bomba in testa, si è osservato, a nostro avviso in modo forse un po’ forzato, che potrebbe veicolare un messaggio discriminatorio in forza di un’assimilazione dell’Islam a una religione ‘di guerra’ e a una considerazione di tutti gli islamici come terroristi 156. Il discorso sulle vignette pubblicate nel corso degli anni dal setti- manale francese Charlie Hebdo necessiterebbe di essere sviluppato attraverso un’analisi dettagliata delle singole immagini: non essendo possibile in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni di li- vello generale sui rapporti fra libertà di satira ed eguale rispetto. Partiamo da un presupposto: l’interpretazione dei contesti, gli at- tori delle vicende e le contingenze storico-sociali sono fattori coes- senziali nella configurazione degli equilibri di rispetto. Conseguen- temente l’interrogativo sulla tollerabilità di un’espressione satirica appare destinato a ricevere risposte differenti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contesti e delle epoche. L’umorismo e la satira possono essere gravemente irrispettosi a seconda delle cadenze adoperate e degli aspetti della persona che mettono in ridicolo. Si tratta di un buon punto di partenza per uscire dalla ingannatoria ricostruzione che vorrebbe distinguere tra ‘satira buona’ o vera satira, e ‘satira cattiva’: il fine della satira è toccare cor- de sensibili, e l’irrispettosità non è un aspetto patologico, bensì è connaturato al fenomeno satirico. È plausibile che la satira offenda dal punto di vista emotivo chi ne è oggetto, nel senso che a nessuno piace essere preso in giro e che l’essere irrisi induce tendenzialmente emozioni negative. 156 CIANITTO, Libertà di espressione e libertà di religione: un conflitto apparente?, cit., pp. 215 s.; amplius, v. EAD., Quando la parola ferisce, cit., pp. 73 ss.   Fisionomia dell’offesa 191 Pensiamo alla solidarietà che il nostro Paese ha giustamente tribu- tato al giornale francese Charlie Hebdo per l’inaccettabile e brutale aggressione subita: rimarchiamo che il gesto criminale non ha atte- nuanti, e l’affermazione della libertà di satira rappresenta un princi- pio fondamentale. Nondimeno, va considerato che l’appoggio solidale a Charlie è frutto di un’intrinseca parzialità, poiché concernente un fatto (le vignette sull’Islam) che non aveva un impatto emotivo pari a quello provato dai fedeli di religione musulmana. Basta cambiare esempio per accorgersi come anche nel nostro Paese l’atteggiamento nei confronti della satira muti radicalmente ove vi sia un diverso coinvolgimento. Si pensi alle vignette pubblicate sempre da Charlie Hebdo in occasione del terremoto avvenuto nel- l’Italia centrale ad agosto 2016: le risposte dell’opinione pubblica so- no state ben differenti, fino ad arrivare, da parte di soggetti delle isti- tuzioni, alla definizione di ‘schifo’ 157. Ben diverso era il clima emoti- vo che aveva indotto molti cittadini ad adottare come effige dei pro- pri profili telematici il logo ‘je suis Charlie’. Rispetto alle vignette sull’Islam cambia l’atteggiamento perché so- no diverse le emozioni suscitate nei destinatari, ma la sostanza dei fatti appare non dissimile: in entrambi i casi la satira ha colto nel se- gno, stimolando sensazioni forti, probabilmente offendendo emoti- vamente, e suscitando reazioni sdegnate da parte dei diretti destina- tari, ma sempre di satira si tratta. A partire da queste premesse, forse poco politically correct ma ade- renti alla realtà dei fenomeni, si pone il problema su come legittima- re l’esercizio della satira in quanto potenzialmente irrispettosa e in grado di dare fastidio 158. Nel contesto penalistico si è talvolta tracciato il confine fra espres- sioni tollerabili e non tollerabili attraverso una ricerca ‘ontologica’ di cosa sia satira e cosa invece si collochi al di là di essa, al fine di far derivare da tale ricostruzione effetti sul piano normativo, adottando 157 Così le ha definite il Presidente del Senato della Repubblica; la notizia è re- peribile su http://www.tgcom24.mediaset.it/politica/vignetta-charlie-su-sisma-gras- so-libero-di-dire-che-fa-schifo-_3029174-201602a.shtml. 158 Diritto di satira e libertà di religione godono entrambi di protezione a li- vello costituzionale, e sono pertanto «due beni, dunque, destinati ad una convi- venza mite, senza sopraffazioni dell’uno rispetto all’altro», così COLAIANNI, Dirit- to di satira e libertà di religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 5/2008, p. 3. Per una definizione e una panoramica ricostruttiva del genere espressivo della satira, v. RATANO, La satira italiana nel dopoguerra, Messina- Firenze, 1976.   192 Tra sentimenti ed eguale rispetto una concezione ‘deontologica’ della satira 159. Un simile modo di argomentare si caratterizza a nostro avviso per una fallacia che possiamo ricondurre alla violazione della Legge di Hume in senso inverso, ossia come ricostruzione fattuale a partire da un presupposto normativo: sarebbe satira ciò che non viola una certa soglia di continenza e che dunque non offende. Tale modo di proce- dere non consente di scindere adeguatamente i confini identificativi della satira da quelli che debbano essere, eventualmente, i limiti normativi. Come è stato efficacemente osservato: «Alla fine, sembra dunque non si possa fare a meno di accettare che la satira non abbia confini, benché in un senso diverso rispetto a quello che intendono quanti declinano questa tesi come tesi morale libertaria (“la satira non deve avere confini”); nel senso, invece, di una tesi con- cettuale che afferma che la libertà di satira non ha confini certi, poi- ché ci manca la possibilità di realizzare una precisa delimitazione teori- ca, attraverso la quale stabilire in maniera incontrovertibile quando ci si è mossi nell’alveo della libertà di satira e quando invece si è trasceso e si è entrati in un altro terreno, che, per quanto lo si possa continuare a considerare satirico, diventa sanzionabile dall’ordinamento» 160. Ciò non significa postulare una ‘amoralità’ della satira, ma al con- trario pone le condizioni per giudicare in modo distinto il fine dell’espressione satirica dalle modalità con le quali essa si manifesta: il fine positivo della satira non è incompatibile con un umorismo par- ticolarmente caustico tale da essere financo irrispettoso e desacraliz- zante. Quale argomento a sostegno della libertà di satira si è osservato che una politica di tolleranza, e dunque non restrittiva, rappresenti un mi- 159 Si veda ad esempio Trib. Latina, 24/10/2006, n. 1725, cit., quando osserva che «[l]a satira è, dunque, un punto di vista che si distingue dal dileggio, dal vili- pendio, dall’offesa, perché fornisce una lettura diversa della realtà e manifesta un giudizio di valore»; e ancor più netta è Cass. pen., sez. I, 24/02/2006 n. 9246: «La satira, notoriamente, è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo li- vello) che nei tempi si è addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene». Per una panoramica sulla giurisprudenza v. FLORIS, Libertà di religione, cit., pp. 183 ss.; INFANTE, Satira: diritto o delitto?, in Dir. inf., 1999, pp. 373 ss.; CAROBENE, Satira, tutela del sentimento religioso e libertà di espressione. Una sfida per le moderne democrazie, in Calumet, 3/2016, pp. 9 ss. 160 DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra. La satira tra libertà di espressione e dovere di rispetto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 7/2016, p. 9.   Fisionomia dell’offesa 193 gliore humus per l’attecchimento di principi fondamentali che hanno una base dialettica e che, ove venissero cristallizzati in una teca al ri- paro da aggressioni, rischierebbero di trasformarsi in dogmi 161. Un simile modo di argomentare è stato definito come ‘utilitarismo delle regole’: l’atteggiamento di chi ha risolto la ‘questione Charlie’ af- fermando sì la presenza di un’offesa, ma optando per il pieno risco- noscimento della libertà di espressione, sarebbe viziato dal fatto che «nel dirigere l’attenzione verso le regole, l’utilitarismo insinua il so- spetto che le conseguenze di un atto (o di una regola) non siano in fondo determinanti per i giudizi e i valori etici di una persona: che lo siano invece le regole in quanto tali, in quanto vengono considerate intrinsecamente giuste, quali che siano le conseguenze della loro appli- cazione» 162. Si può riassumere tale critica anche come un’obiezione di ‘disinte- resse alle conseguenze’: «la sicurezza con la quale [si] proclama [tale ] opinione è totalmente aliena dai calcoli pazienti e minuziosi che sa- rebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione (e ne rivela la vanità)» 163. L’argomento definito come ‘utilitarismo delle regole’ è da tenere in seria considerazione anche nella prospettiva giuridica; tuttavia, ciò che agli occhi del filosofo appare come un disinteresse alle conseguenze può rappresentare nella prospettiva penalistica una scelta di prudenza in rapporto a eventi offensivi la cui prevedibilità non appaia supporta- ta da una base nomologica sufficiente a legittimare divieti penali 164. Tenderemmo quindi a ritenere preferibile come opzione ultima la non restrizione della libertà di satira 165, ma al di là dell’atteggiamento 161 DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra, cit., p. 22. 162 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 163 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., pp. 45 ss. 164 Tutt’altro che risolutivo si rivela anche il ricorso a criteri di selezione delle condotte ben consolidati nel pensiero penalistico e avallati dalla Corte costituzio- nale: ci riferiamo allo schema del pericolo concreto, in merito al quale, come è stato efficacemente rilevato da Alessandro Tesauro, anche la selezione delle pro- prietà universalizzabili del caso concreto da utilizzare come criteri indiziari di una pericolosità effettiva della condotta, costituisce un’attività ‘normativamente compromessa’, nel senso che non porterà comunque a individuare criteri di corri- spondenza suscettibili di verifiche empiriche, ma il ruolo determinante sarà pur sempre giocato da scelte di valore dell’interprete, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 122 ss. 165 «Ciò che allora deve spingerci a non censurare quelle espressioni satiriche che, pur non istigando alla violenza, mancano gravemente di rispetto ai gruppi deboli e svantaggiati non è una generica libertà di espressione (questo, in alcuni   194 Tra sentimenti ed eguale rispetto prudenziale, riteniamo che la soluzione liberale possa trovare legit- timazione anche attraverso un ragionamento che si richiami al crite- rio dell’eguale rispetto e al bilanciamento fra reciproche pretese. Quando si analizzano i disaccordi in materia di satira religiosa bi- sogna individuare dei presupposti valoriali per impostare la discus- sione, ossia dei compromessi sul cui equilibrio ciascuna delle parti possa avere voce in capitolo: anche «coloro che credono in una reli- gione presa di mira possono dover considerare che il diritto di ridere di qualunque religione può esso stesso essere considerato dagli altri come un articolo di fede» 166. La sostanza di tale argomento è condi- visibile, anche se il percorso concettuale, con una ‘moltiplicazione di articoli di fede’, rischia di tramutarsi in un pendio scivoloso. Eguale rispetto dovrebbe significare preservare la libertà di pro- fessare una religione da un lato, e la fede nella libertà di satira, dal- l’altra: un impegno a far sì che nessun pregiudizio venga arrecato alle due libertà. Ebbene, la pretesa di coloro che chiedono restrizioni alla libertà di satira appare in questo senso sproporzionata poiché mentre vignette ed espressioni anche ‘urticanti’ non arrecano un vero e pro- prio pregiudizio alla libertà del credente e alla sua ‘identità religio- sa’ 167, la pretesa di comprimere la libertà di espressione altrui risulte- rebbe un vulnus sproporzionato. Si potrebbe a questo punto prendere in esame un ulteriore argo- mento, basato sulla maggiore suscettibilità che determinati fedeli, come ad esempio quelli di religione islamica, adducono sostenendo che ogni offesa alla propria religione è anche, intrinsecamente, un’of- fesa alla dignità delle persone che la professano168. Ebbene, quale spazio di legittimità può essere riconosciuto a tale obiezione? Abbiamo introdotto il problema parlando della suscettibilità sog- casi, come abbiamo visto, è sbagliato) e nemmeno il fatto che quelle espressioni contribuiscano in qualche modo al raggiungimento della “verità” (in molti casi, questo è falso); piuttosto, a caldeggiare una politica di tolleranza nei loro con- fronti è il fatto che consentono ai principi che ci sono cari di difendersi sempre meglio e mantenersi vivi e tonici, e con essi il tipo di società nella quale aspiriamo a vivere», v. DEL BÒ, Col sorriso sulle labbra, cit., p. 23. 166 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, Milano, 2008, p. 212. 167 Utilizzo tale concetto nell’accezione sviluppata da PINO, Sulla rilevanza giu- ridica e costituzionale dell’identità religiosa, in Ragion pratica, 2/2015, p. 370, ossia come «l’insieme delle credenze, dei valori, delle appartenenze che un individuo ha in materia specificamente religiosa», e dunque come aspetto specifico della sfera della coscienza.  168 WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 132 ss.  Fisionomia dell’offesa 195 gettiva nella trattazione di Joel Feinberg; in questo caso il discorso è però differente, poiché riguarda non la suscettibilità di un singolo soggetto, ma di un gruppo: l’interrogativo è se si tratti di una vulne- rabilità meramente emozionale o se, diversamente, sia anche ricon- ducibile a una particolare debolezza sociale del gruppo. Con riferimento a tale seconda ipotesi, esponiamo le tesi di due Autori già incontrati nel corso dell’indagine. Da un lato, Avishai Margalit osserva che «[u]n gruppo vulnerabile, con una storia di umiliazione e sospetto da parte di coloro che lo cir- condano, specialmente da parte della cultura dominante, è suscettibi- le di interpretare ogni critica come umiliazione» 169; Jeremy Waldron tematizza il problema senza richiamare l’eventuale debolezza di un gruppo, ma incentrando il discorso sulla totale identificazione fra soggetto e ideologie/credenze. Di fronte all’interrogativo sul peso che possa essere riconosciuto alla percezione soggettiva nel caso di gruppi vulnerabili, e dunque al- la rilevanza della vulnerabilità nell’interpretazione dell’offensività di un’espressione, le posizioni di Margalit e Waldron divergono: biogra- fia personale e matrici culturali sono fattori che probabilmente in- fluiscono su prese di posizione concernenti ‘scelte ultime’170, la cui argomentazione in termini razionali è particolarmente difficoltosa. Il filosofo israeliano propone i seguenti criteri di soluzione: 1) un primo criterio, basato sulla reciprocità secondo cui dovreb- be essere considerato critica qualunque cosa si desideri offrire ad al- tri e che si accetterebbe ove venisse offerta a noi stessi 171; 2) un secondo criterio, in favore dell’interpretazione del gruppo vulnerabile, si lega alla «necessità morale di far pendere la bilancia dell’errore nell’interpretazione verso la parte del debole», e va però bilanciato da un altro principio secondo cui «qualunque cosa fosse considerata critica piuttosto che umiliazione se avvenisse “in fami- glia”, cioè all’interno del gruppo, dovrebbe pure essere considerata tale se proveniente dall’esterno del gruppo» 172. Diversamente da Margalit, il quale dunque non esclude una carità interpretativa a favore dei gruppi vulnerabili, Waldron rimarca la ne- cessità di non assecondare normativamente pretese avanzate in forza di un’identificazione fra persona e ideali religiosi o politici: richieste 169 MARGALIT, La società decente, cit., p. 201. 170 Traggo questo concetto da BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, 2011, p. 245. 171 MARGALIT, La società decente, cit., p. 201. 172 MARGALIT, La società decente, cit., pp. 202 s.   196 Tra sentimenti ed eguale rispetto di tutela di questo tipo sono da considerarsi esorbitanti in un conte- sto pluralista. Vi è l’esigenza di una limitazione delle pretese sogget- tive, pur tenendo conto che il legame identificativo fra individuo e ideali può essere così intenso da essere assimilabile a una ‘seconda pelle’; ma ciò non può giustificare sul piano politico provvedimenti normativi che limitino le libertà di tutti per preservare la serenità in- teriore di alcuni 173. Sintetizzando: sia Margalit sia Waldron concordano sulla necessi- tà di prendere atto che determinate espressioni meritino una partico- lare attenzione da parte del diritto poiché possono esorbitare dall’or- dinario range della critica e del mero insulto e divenire forme di umi- liazione e discriminazione della persona. Per Margalit il discrimine fra insulto e umiliazione può essere diverso a seconda del tipo di de- stinatari in quanto di fronte a un gruppo cosiddetto ‘vulnerabile’ l’interpretazione delle espressioni dovrebbe essere condotta tenendo conto anche, eventualmente, della peculiare sensibilità; secondo Wal- dron tale differenziazione non è mai normativamente giustificabile e si presterebbe a divenire un problematico moltiplicatore di divieti sulla base di pretese soggettivistiche. Concordiamo con Waldron che l’identificazione fra critica a fedi e valori e offesa alla persona, rappresenti un argomento knock-out che sbilancerebbe le posizioni in gioco. Il credente il quale esige che i propri principi non vengano mai irrisi, adducendo che ciò significhe- rebbe automaticamente offendere lui come persona, sta implicita- mente cercando di sottrarre le proprie posizioni assiologico-religiose dal dibattito, ponendosi in questo senso in una posizione di supre- mazia, limitando la libertà di espressione altrui secondo criteri che non sono confutabili poiché si sottraggono per definizione a ogni ti- po di confronto. La prova di tale incommensurabilità fra posizioni emerge in rela- zione a un ulteriore test secondo il quale dovrebbe essere ritenuta of- fensiva un’espressione che nessun membro del gruppo avrebbe rite- nuto divertente 174, anche se a pronunciarla fosse stato uno del grup- po stesso. Tale test trascura a nostro avviso un dato fondamentale, ossia che i conflitti fra sensibilità nascono proprio dal fatto che vi possono es- sere gruppi che non accettano un certo modo di fare ironia tout court; non è un problema di qualità della satira, ma semplicemente la 173 WALDRON, The Harm in Hate Speech, pp. 131 ss. 174 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, cit., pp. 210 ss.   Fisionomia dell’offesa 197 satira su certi temi potrebbe non essere ritenuta mai ammissibile. Un test di questo tipo non appare ad esempio risolutivo se applicato alle vignette sul Profeta Maometto poiché la religione islamica non sem- bra tollerare alcun tipo di ironia in questo senso. Bisogna dunque prendere atto che tali test sono poco funzionali quando pretendono di mettere a confronto pretese fra loro incompatibili poiché ricondu- cibili a gruppi che non si riconoscono nei medesimi valori. L’analisi filosofica di Ermanno Bencivenga è in questo senso spie- tata quando osserva che dal fedele di qualsivoglia religione non si può esigere un atteggiamento lassista e compromissorio sul rispetto della propria fede. Il carattere radicale del vincolo è tale per cui l’al- trui libertà di satira non potrebbe mai essere ritenuta tollerabile 175. In definitiva, il tema dell’identificazione fra soggetto e credenze spinge verso esiti illiberali: pretese modulate su una simile rigidità non possono essere accolte in un contesto pluralista, nel quale un in- teresse, pur di rango elevato, va comunque calato in una prospettiva di bilanciamento 176. Sintetizzando, la risposta all’interrogativo sulla libertà di satira, anche quando consista in vignette dissacranti come quelle pubblicate in Danimarca e come alcune di quelle pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo, deve essere a nostro avviso positiva: nessuna rilevanza penale secondo l’attuale normativa italiana, ma anche nessuna futu- ribile prospettiva di censura. Attenzione però a non fare della satira un dogma 177: parlare di ‘li- bertà di deridere’ 178 è una formula schietta ma che rischia di prestar- si a distorsioni. Esprimersi a favore della libertà di satira non signifi- ca ritenerla insindacabile; da un lato il riconoscere l’irrispettosità del- la satira può non essere elemento sufficiente per inferirne l’opportu- nità di una criminalizzazione; dall’altro l’irrilevanza penale non im- plica la certificazione di un buon uso della libertà di espressione 179. 175 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., pp. 86 ss. 176 Cfr. PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale dell’identità religiosa, cit., pp. 372, 381. 177 Concordiamo in questo senso con CANESTRARI, Libertà di espressione e liber- tà religiosa, cit., p. 936. 178 TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, cit., p. 212. 179 Problema che si riconnette al più ampio tema dei valori e di un’etica della convivenza le cui polarità non dovrebbero essere determinate dalle dicotomie del- la liceità e illecità penale: «un’etica non legale e non penalistica di comportamen- to», come condivisibilmente osservato da DONINI, Il diritto penale come etica pub- blica, Modena, 2014, p. 13.   198 Tra sentimenti ed eguale rispetto Non appare opportuno diffondere a livello comunicativo formule come ‘libertà di offesa’ o ‘diritto di offendere’, mentre è bene riflettere su come gestire da un punto di vista sociale e comunicativo quelle che possono essere definite ‘offese tollerabili’, o meglio offese che i cittadini devono (imparare a) tollerare. La liceità dell’irrispettosità umoristica lascia aperto il problema di una ricostituzione del rispetto reciproco, di luoghi simbolici in cui possa essere offerta una compensazione a offese che, come nel caso delle reli- gioni, toccano strati profondi della persona. Riconoscere che le vignette di Charlie Hebdo possano ferire e abbiano offeso credenti di religione islamica non significa avallare la bestialità omicida dei terroristi, né comporta quale immediata implicazione quella di invocare lo strumento penale quale saracinesca. È però un punto importante per avviare un riconoscimento a soggetti che abbiano avvertito soggettivamente un’umi- liazione per la derisione ai propri simboli, anche in virtù del fatto che si tratta di appartenenti a gruppi deboli o comunque a minoranze180, nei confronti dei quali l’irrisione satirica può comunque rappresentare una forma di amplificazione della disuguaglianza di status sociale. 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? Sentimenti, pari dignità e discriminazione rappresentano concetti che concorrono a identificare il retroterra delle norme sulla propaganda razzista, ossia lo hate speech a sfondo razziale che in Italia è incriminato 180 Si è osservato che l’impatto sociale dell’irrispettosità satirica e la conse- guente tollerabilità della satira dovrebbe essere correlata alla categoria di soggetti sui quali la satira va a incidere: massima libertà ove l’irrisione si rivolga a soggetti che hanno una posizione di supremazia a livello sociale, mentre più problematico appare il caso in cui si faccia satira nei confronti di categorie deboli, specie fa- cendo leva su stereotipi e luoghi comuni. Questo criterio, definito come frutto di una «precomprensione egualitaria del discorso pubblico», v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., p. 283, appare in definitiva un bilanciamento tra il fine morale della satira e la sua ‘moralità interna’, vista attraverso l’egida assiologica del principio di uguaglianza. Per un interessante commento a una pronuncia del- la Corte Edu che, tramite l’art. 17 CEDU ha respinto il ricorso per violazione dell’art. 10 a seguito della condanna di un noto comico francese per uno spettaco- lo satirico sull’Olocausto, v. PUGLISI, La satira “negazionista” al vaglio dei giudici di Strasburgo: alcune considerazioni in «rime sparse» sulla negazione dell’Olocausto, in www.penalecontemporaneo.it, 2/2016, pp. 1 ss.   Fisionomia dell’offesa 199 ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge n. 654 del 1975 181. Cominciamo a interrogarci su quale sia l’effettivo rilievo del sen- timento nel richiamo all’odio quale elemento di fattispecie dell’art. 3 della suddetta legge, il cui presupposto è la sussistenza di un’idea di- scriminatoria fondata sulla diversità determinata da una pretesa su- periorità razziale o da odio etnico 182. Ad una prima lettura emerge come nel corpo della disposizione normativa il sentimento non definisca l’oggetto di tutela, bensì rappre- senti la nota caratterizzante il tipo di espressioni che la legge intende vietare. La prospettiva appare invertita rispetto alle norme che abbia- mo precedentemente analizzato con riferimento agli altri ‘sentimenti- valori’ menzionati nel codice: piuttosto che parlare di tutela di senti- menti, l’assetto delle norme tratteggia una tutela da sentimenti, in rap- porto alla quale l’odio rappresenta lo stato affettivo da ‘disinnescare’ 183. 181 In un’ottica più ampia, sono pertinenti al discorso d’odio a sfondo razziale anche altre norme: l’apologia di genocidio di cui all’art. 8 della legge n. 962 del 1967 e le disposizioni della c.d. ‘Legge Scelba’ che aggravano la cornice sanziona- toria per l’apologia di fascismo nel caso in cui venga realizzata attraverso ‘idee e metodi razzisti’. Nella letteratura penalistica, v. AA.VV., a cura di Riondato, Di- scriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela pena- le, cit.; DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con modif. dalla l. 25/6/1993 n. 205 – Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica, religiosa, in Leg. pen., 1994, pp. 179 ss.; FRONZA, Osservazioni sull’attività di propa- ganda razzista, in Riv. int. dir. dell’uomo, 1997, pp. 32 ss.; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista, cit., pp. 191 ss. 182 Per una panoramica sulle applicazioni della normativa v. PAVICH-BONOMI, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e va- lori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso con- forme a Costituzione la normativa vigente, in www.penalecontemporaneo.it, 10/2014, pp. 1 ss.; FERLA, L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 4/2007, pp. 1455 ss. 183 Evidenzia la peculiarità delle incriminazioni contro la diffusione e l’incita- mento all’odio, rispetto al problema generale della cosiddetta ‘tutela penale di sen- timenti’, anche ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 59 ss. In realtà, secondo le indicazioni che emergono principalmente in ambito anglo-americano, va considerato che l’uso del termine odio, oltre a essere approssimativo, appare er- rato: «[w]hat has become clear is that the word ‘hate’ is really a misnomer. An of- fender need not actually hate his victim in order to have committed a ‘hate crime’; indeed he may feel no personal hatred towards that particular individual at all», v. WALTERS, Hate Crime and Restorative Justice, Oxford, 2014, p. 6; cfr. PAREKH, Is There a Case for Banning Hate Speech?, in AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech, cit., p. 40. Si veda anche PERRY, A Crime by Any Oth- er Name, cit., pp. 127 ss. Il concetto di ‘crimine d’odio’ sconta oltretutto un’indeter- minatezza di fondo: si tratta di una definizione cosiddetta ‘ostensiva’, ossia che pro- cede non attraverso un’esaustiva esplicazione del definiens (l’odio), ma attraverso   200 Tra sentimenti ed eguale rispetto Tale precisazione non risolve ma rilancia l’interrogativo se dietro le norme sulla propaganda razzista si ponga effettivamente un pro- blema di sentimenti negativi. Nelle pronunce della giurisprudenza italiana, la maggior parte del- le quali relative all’applicabilità della circostanza aggravante (art. 3, d.l. n. 122/1993), la risposta è negativa, in quanto è decisamente pre- valente l’orientamento che interpreta il requisito dell’odio non come tratto affettivo del soggetto attivo, bensì come sfondo valoriale dei contenuti espressivi e simbolici legati alle condotte 184. Come osservato dalla Corte di Cassazione: «non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che que- sta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno poten- zialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in al- tri il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in fu- turo o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discri- minatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione» 185. una individuazione del definiendum (l’esempio concreto) il quale viene successiva- mente ricollegato al definiens. Si tratta delle cosiddette definizioni mediante esempi, suscettibili di convogliare istanze normative e culturali che tendono a ricondurre all’odio azioni e condotte le più diverse: «[c]lassificare un gesto criminale come crimine d’odio è compatibile in quest’ottica con un’ampia gamma di stati psicologi- ci, dalla rabbia alla noia, alla paura; perché non parlare, allora, di “crimini di rab- bia”? [...] Nascosto dietro al concetto di crimine d’odio sembra dunque esserci un altro significato culturale dell’odio, ossia ciò che motiva gesti di violenza insensata (normativamente ingiustificati) [...] l’insistenza sul termine “odio” in una data si- tuazione, più che un fatto descrittivo, è il riflesso dell’impegno normativo a identifi- carsi con le sventure della vittima e a prendere le distanze dal punto di vista dell’aggressore», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro modi di pensare all’odio, cit., p. 16. 184 Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; si vedano, ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 12/06/2008, n. 38217; Cass. pen., sez. V, 23/09/2008, n. 38591. Un diverso orientamento si pone a sostegno di un’applicazione più ampia, e in particolare estesa a comprendere anche situazioni in cui vi sia solo la presenza di soggetto attivo e vittima: «Non è, dunque, richiesta la plateale ostentazione di tali motiva- zioni sì da ingenerare il rischio di reiterazione di analoghi comportamenti, essen- do sufficiente che l’azione rechi, in sé, le prescritte connotazioni, immediatamen- te percepibili nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo al comune sentire ed alla comune accezione dell’espressione usata» v. Cass. pen., sez. V, 11/07/2006, n. 37609; ulteriori pronunce sono analizzate in PAVICH-BONOMI, Reati in tema di di- scriminazione, cit., pp. 24 ss.  185 Cass. pen., sez. V, 17/11/2005, n. 44295; cfr. Cass. pen., sez. I, 28/02/2001, n. 341.  Fisionomia dell’offesa 201 L’orientamento della giurisprudenza italiana sembra aderire alla concezione dello hate speech come fattore in grado di alterare in ne- gativo il clima sociale e di inoculare il germe della discriminazio- ne186. Non viene riservato spazio allo stato soggettivo dell’agente né alla verifica di un’effettiva diffusione del pensiero razzista e di un ‘contagio emotivo’, adottando un modello di intervento basato sul pe- ricolo astratto 187 e orientato alla tutela della dignità umana 188. Un’eloquente evocazione dei sentimenti la troviamo invece in una pronuncia ormai datata, relativa alla legge 9 ottobre 1967 n. 962 (at- tuazione della Convenzione internazionale per la prevenzione e la re- pressione del crimine di Genocidio), e in particolare all’art. 8 che in- crimina l’istigazione e l’apologia di genocidio 189. Ebbene, nel 1985 la Corte di Cassazione ebbe a definire la ratio di tutela del reato di pro- paganda come contrasto della «intollerabile disumanità [...] odioso culto dell’intolleranza razziale che esprime, [...] orrore che suscita nelle coscienze civili ferite dal ri- cordo degli stermini perpetrati dai nazisti e dai calvari tragicamente attuali di talune popolazioni africane e asiatiche. L’idoneità della con- dotta ad integrare gli estremi del reato non è già quella generale di un improbabile contagio di idee e di propositi genocidiari, ma quella più 186 SPENA, La parola(-)odio. Sovraesposizione, criminalizzazione, interpretazione dello hate speech, in Criminalia, 2016, pp. 592 ss.; sul tema, in termini generali, cfr. WALDRON, The Harm in Hate Speech, cit., pp. 4 ss. 187 L’assunto è presente in Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906. Un’interpre- tazione correttiva è proposta da FRONZA, Osservazioni sul reato di propaganda raz- zista, cit., pp. 60 ss.; cfr., per un differente percorso argomentativo volto a rico- noscere che la propaganda di idee razziste è già di per sé concretamente pericolosa per la dignità della persona, v. PICOTTI, Diffusione di idee razziste ed incitamento a commettere atti di discriminazione razziale, ss., nota a Tribunale Verona, 24/02/2005, n. 2203, in Giur. merito, 9/2006, 9, pp. 1969 ss.; contra, v. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., p. 221; più ampiamente, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 64 ss. 188 Per tutti v. DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con mo- dif. dalla l. 25/6/1993 n. 205, cit., p. 179; cfr. AMBROSETTI, Beni giuridici tutelati e struttura delle fattispecie: aspetti problematici della normativa penale contro la di- scriminazione razziale, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., p. 97; PICOTTI, Istigazione e propaganda della discri- minazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di mani- festazione del pensiero, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., pp. 134 ss. 189 Sul tema v. CANESTRARI, voce Genocidio, in Enciclopedia giuridica, Roma, 1985, vol. XV, pp. 3 ss.   202 Tra sentimenti ed eguale rispetto strutturalmente semplice di manifestare chiaramente l’incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di Genocidio» 190. Attraverso un lessico ad alto impatto emotivo, la Corte afferma la legittimità dell’incriminazione dell’apologia di genocidio quale argine all’‘orrore che suscita nelle coscienze’. Si tratta del caso più emblema- tico in cui una norma penale italiana finalizzata al contrasto al razzi- smo e alla discriminazione viene declinata alla stregua di una vera e propria tutela di sentimenti; un profilo che è stato puntualmente, an- corché sinteticamente, messo in evidenza nei commenti critici della dottrina dell’epoca, che ne ha rilevato altresì la profonda distonia con i principi enunciati dalla Corte costituzionale in tema di apologia ed istigazione, del tutto disattesi dalla pronuncia della Cassazione 191. Tale orientamento rimane un caso isolato nell’ambito della esigua giurisprudenza, e viene espressamente sconfessato dall’unica pronun- cia successiva, ad opera della Corte di Assise di Milano che ne confu- ta l’intero impianto motivazionale al fine di restringere l’operatività della norma alle sole ipotesi in cui l’apologia sia una «forma di istiga- zione indiretta, caratterizzata dalla nota interna che in essa l’induzio- ne alla commissione di un certo fatto si realizza attraverso l’esalta- zione di un fatto analogo» 192. 8.1. Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discri- minatorio Veniamo infine ad analizzare alcuni profili di ermeneutica del fat- to che ricorrono nell’analisi della casistica sul discorso razzista. La giurisprudenza specifica che affinché siano integrati gli estremi del- l’espressione discriminatoria deve trattarsi di «consapevole esterio- rizzazione di un sentimento di avversione o di discriminazione fon- data su di un pregiudizio» 193: ma cosa consente di distinguere a livel- lo ‘esteriore’ una critica da un pregiudizio? 190 Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II, p. 22. La vicenda è relativa all’esposizione di striscioni inneggianti all’Olocausto durante una manife- stazione sportiva: ‘Mathausen reggia degli ebrei’, ‘Una cento mille Mathausen’, ‘Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato’. 191 FIANDACA, nota a Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., 1986, II, p. 21. 192 Corte di Assise di Milano, 14/11/2001, in Ius explorer. 193 Cass. pen., sez. V., 11/07/2006, n. 37609.   Fisionomia dell’offesa 203 Nelle applicazioni della norma sulla propaganda razzista la giuri- sprudenza ha più volte adoperato il criterio basato sulla distinzione fra considerazioni che fanno leva sulla diffusione di determinati com- portamenti presso determinate etnie, e l’offesa all’etnia tramite inde- bite generalizzazioni. Risultano particolarmente problematiche le vicende riguardanti contesti di dialettica politica, nei quali è frequente il ricorso a stereo- tipi che, a seconda delle circostanze, possono assumere le vesti di veri e propri pregiudizi discriminatori. Il processo ai leghisti di Verona rappresenta un significativo leading case: sinteticamente, il fatto ri- guarda l’iniziativa di alcuni consiglieri comunali finalizzata a manda- re via gli zingari dal comune scaligero attraverso un coinvolgimento della popolazione allertata da un volantino che recitava ‘No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari’ 194. Fra le diverse questioni affrontate dai giudici, è importante ai fini della presente indagine rilevare quanto osservato dalla Corte di Cas- sazione in occasione dell’ordinanza di annullamento con rinvio: «La discriminazione [...] si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo, ecc.) e non sui comportamenti. La discrimina- zione per l’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legitti- mamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso» 195. Tale trend interpretativo rimane costante nella giurisprudenza successiva avente ad oggetto le dichiarazioni di soggetti politici nel- l’ambito dell’attività istituzionale e della campagna elettorale 196. Emer- gono tuttavia notevoli criticità in una recente pronuncia della Corte di Cassazione riguardante una condanna della Corte di Appello di Trieste per un volantino di promozione elettorale stampato e diffuso in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, il quale secondo i giudici di merito 194 Un riassunto della vicenda in CARUSO, Dialettica della libertà di espressione: il “caso Tosi” e la propaganda di idee razziste, in AA.VV., a cura di Tega, Le discri- minazioni razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, Roma, 2011, pp. 133 ss.; si veda anche VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista, cit., pp. 193 ss. 195 Cass. pen., sez. III, 28/03/2008, n. 13284. 196 Cass. pen., sez. I, 22/11/2012, n. 47894; Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906.   204 Tra sentimenti ed eguale rispetto «propagandava idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo ricorso, in particolare, allo slogan “basta usurai – basta stranieri” con sottinteso, ma evidente riferimen- to a persona di religione ebraica ed esplicito riferimento a persone di nazionalità non comunitaria e, sul retro del volantino, alla rappresen- tazione grafica esplicativa dello slogan di un’Italia assediata da sogget- ti di colore dediti allo spaccio di stupefacenti, da un Abramo Lincoln attorniato da dollari, da un cinese produttore di merce scadente, da una donna e un bambino Rom sporchi e pronti a depredare e da un soggetto musulmano con una cintura formata da candelotti di dinami- te pronti per un attentato terroristico» 197. La Corte di Cassazione dispone l’annullamento senza rinvio per- ché il fatto non sussiste, argomentando proprio sulla base dell’asse- rita differenza del caso trattato rispetto alla condanna dei leghisti ve- neti, nel quale, secondo la Corte, appariva invece palese la discrimi- nazione degli zingari per il solo fatto di essere tali, in quanto il do- cumento diffuso non indicava alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento, mentre il diverso caso in esame, «ad avviso del Collegio, in maniera alquanto grossolana, vuole veicola- re un messaggio di avversione politica verso una serie di comporta- menti illeciti che, con una generalizzazione che appare una forzatura anche agli occhi del destinatario più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate razze o etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che spaccia stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che si fa esplodere in un atten- tato terroristico. E poi Abramo Lincoln, con i suoi dollari, a rappre- sentare la finanza e le banche, probabilmente da mettere in relazione alla scritta “basta usurai”». 197 Cass. pen., sez. III, 23/06/2015, n. 36906: secondo la descrizione riportata in sentenza, «su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI, BASTA STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco “ S.”. Più in basso, l’URL del blog del candidato [...]; sull’altro lato, in alto la scritta: “Elezioni Europee 6-7 giugno 2009 DIFENDI L’ITALIA – VOTA S.”. Più sotto, sei caricature che raffigurano: a) un cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China”; b) un Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolaz- zano intorno; c) un uomo di colore che offre droga; d) un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a farsi esplodere; e) una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in dire- zione dello stesso.   Fisionomia dell’offesa 205 Non sono però solo considerazioni legate al merito delle afferma- zioni, definite ‘grossolane’, a far propendere la Corte verso un atteg- giamento di indulgenza, bensì risulta decisiva l’analisi del quadro contestuale e in particolare il particolare clima nel quale si svolgono le competizioni elettorali. Ora, la condivisibile apertura della Corte a una lettura dei fatti il più possibile aperta alla valutazione di tutti i fattori di contesto e alle prassi comunicative, anche quelle meno ortodosse, conferma in pri- mo luogo il carattere storicamente e socialmente condizionato delle soglie di liceità e di tollerabilità del discorso pubblico. Sul merito dell’interpretazione offerta dal Collegio, possiamo rite- nere avverato il vaticinio di Costantino Visconti riguardo l’elevata complessità di scindere, a livello di critica, la persona dal proprio comportamento: la nitidezza della distinzione è solo apparente, in quanto vi sono ambiti in cui il discorrere sulle differenze in rapporto a un contesto pluralistico e multiculturale può condurre a un punto in cui «il profilo della “diversità” in sé e quello dei “comportamenti” costituiscono un tutt’uno, e non è possibile, né verosimilmente avreb- be senso separarli» 198. In relazione a tale profilo, l’argomentazione dei giudici appare frettolosa e superficiale. Ciò che desta a nostro avviso perplessità non è tanto l’esito assolu- torio, il quale, pur opinabile, può trovare ragioni in un complessivo atteggiamento di favor libertatis; sorprende però che sia la stessa Cor- te ad riconoscere che «[s]iamo di fronte, evidentemente, ad un mes- saggio politico che risente di un pregiudizio per cui determinate atti- vità delittuose vengono poste in essere prevalentemente dai membri di determinate etnie». Ebbene, parlare di pregiudizio evoca una connessione immediata con la discriminazione199: come ammonisce Norberto Bobbio, «la conseguenza principale del pregiudizio di gruppo è la discriminazio- ne»200. In altri termini, quanto affermato dalla Corte depone per un 198 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., pp. 151 ss. Abel osserva che «è impossibile distinguere le espressioni illegittime dall’opportunismo di routine dei politici quando vanno incontro ai pregiudizi popolari», v. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 98. 199 Il legame tra pregiudizio e discriminazione non deve tuttavia portare a in- ferire automaticamente la sussistenza di un atteggiamento razzista: pregiudizio e razzismo, per quanto connessi, non sono sovrapponibili, ma si tratta di concetti distinti, v. RAVENNA, Odiare, cit., p. 87. 200 Per tutti, BOBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, 2010, pp. 111 ss.   206 Tra sentimenti ed eguale rispetto univoco accostamento delle opinioni del volantino al pensiero di- scriminatorio: sono frutto di pregiudizi razziali. Difficile a questo punto negarne il disvalore, quantomeno se si abbia a cuore un certo rigore concettuale. L’atteggiamento della Corte lascia perplessi, in quanto la circo- stanza legittimante l’esercizio della libertà di espressione è così espli- cata: «si tratta, peraltro, di un pregiudizio che da sempre viene agita- to nelle campagne elettorali al fine di recuperare consenso in situa- zioni locali in cui da parte dell’elettorato viene una richiesta di mag- giore sicurezza» 201. Un’indulgenza indotta dalla consuetudine: ma quale dovrebbe es- sere il ruolo del diritto penale in rapporto a prassi comunicative be- cere? La constatazione di una degradazione del linguaggio e di una brutalizzazione della dialettica in ambito politico è una buona ragio- ne per chiudere un occhio di fronte a casi come quello preso in e- same? La risposta travalica i confini della questione e riporta all’inter- rogativo se il diritto penale debba limitarsi a un’azione di conserva- zione dei valori o possa anche costituire uno strumento di ‘pedagogia sociale’. Resta il dubbio se in questo caso l’atteggiamento della Corte di Cassazione sia da avallare per essersi astenuta dal sindacare il me- rito di un discorso politico, o sia invece da criticare per non aver adeguatamente stigmatizzato la diffusione di pensieri offensivi che essa stessa ha implicitamente ammesso essere frutto di pregiudizi a base razziale. 9. Sinossi La connessione fra tutela di sentimenti e rispetto reciproco risulta particolarmente evidente nella dialettica avente ad oggetto argomenti ad alto tasso emotivo, dove vengono in gioco ‘appartenenze significa- tive’ dell’individuo. Nell’attuale scenario socio-politico del mondo oc- cidentale gran parte dei conflitti orbitano intorno al tema dell’appar- tenenza etnica, della fede religiosa, della identità e pari dignità ses- suale. Fra le ragioni dell’effetto emotigeno vi è il fatto che nel discorso 201 Tale principio viene esplicitato anche in Cass. pen., sez. III, 13/12/2007, n. 13234.   Fisionomia dell’offesa 207 concernente le appartenenze possono emergere problemi di mancato riconoscimento dell’altro e di categorizzazioni denigratorie. Ne deri- va l’esigenza di distinguere fra espressioni di mera critica o irrisione, pur emotivamente fastidiose ma comunque espressione della libertà del dissenso, da forme di diniego del riconoscimento: la priorità poli- tica è la dimensione del rispetto definita ‘rispetto-riconoscimento’, diversa dal ‘rispetto-stima’. L’eguale rispetto-riconoscimento costituisce la ricaduta relaziona- le più immediata del valore della dignità umana. Per quanto tale ri- chiamo possa risultare problematico agli occhi del penalista, esso rappresenta comunque una bussola assiologica se ci si impegni a modularne l’uso attraverso una lettura non metafisico-concettuali- stica ma volta a identificarne le proiezioni relazionali ed esistenziali, ad esempio attraverso la cosiddetta ‘teoria delle capacità’ elaborata da Martha Nussbaum. Il non facile obiettivo di bilanciare istanze di libertà e richieste di rispetto porta a identificare un livello minimo di protezione il quale sembra poter coincidere con l’esigenza di non essere umiliati e poter essere trattati come persona dignitosa il cui valore eguaglia quello al- trui. Nell’approfondimento del concetto di ‘umiliazione’, viene rimarca- ta l’esigenza di distinguere fra espressioni di insulto ed espressioni che umiliano. La distinzione, comunque afferrabile sul piano concet- tuale, appare sfumare nei suoi contorni essenziali al momento delle applicazioni in ambito giuridico: il processo interpretativo dipende in larga misura dall’ermeneutica del fatto, ossia dai diversi significati che determinate espressioni possono assumere a seconda dei contesti e dei soggetti coinvolti, e si espone a precomprensioni e a usi poco sorvegliati di inferenze logiche e valoriali. Un rapido riscontro relativo alle norme italiane a tutela del senti- mento religioso e della pari dignità mostra come il richiamo a senti- menti sia residuale nelle argomentazioni della giurisprudenza: pre- sente in minima parte nelle forme di vilipendio, comunque ancorate a un modello di tutela incentrato sulla religione piuttosto che sulla dignità del credente, e assente con riguardo alla normativa sul di- scorso razzista. Un ambito, quest’ultimo, nel quale meritano partico- lare attenzione, quale esempio di ermeneutica del fatto, le argomen- tazioni elaborate per tracciare la linea di confine fra discorso politico ‘estremo’ e discorso discriminatorio.   208 Tra sentimenti ed eguale rispetto  CAPITOLO VI DILEMMI SOMMARIO: 1. ‘Tutela di sentimenti’: una formula a più significati. – 1.1. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà. – 1.2. Tutela da sentimenti. – 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà umana dei con- flitti. – 2.1. Dissensi ed estremismo. – 3. Quale ruolo per il diritto penale? – 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica. – 3.2. Precetti ‘pedago- gici’? – 4. Sinossi. 1. ‘Tutela di sentimenti’: una formula a più significati Cerchiamo di riannodare le fila di un discorso che ha preso le mosse dall’esigenza di riservare attenzione ai rapporti fra sentimenti, emozioni e diritto penale non solo come problema esegetico-inter- pretativo ma, più radicalmente, come coordinata per la riflessione sull’essere e sul dover essere del diritto penale. L’osservazione di Mar- tha Nussbaum posta in epigrafe al I capitolo ci ricorda che uno sguardo alla dimensione affettiva è fondamentale per non perdere di vista il substrato umano dei problemi e soprattutto gli aspetti di vul- nerabilità della persona che possono motivare il ricorso allo strumen- to giuridico. Parlare di tutela di sentimenti rimanda al problema del rispetto per le diversità coesistenti nella società pluralista: alla varietà di pre- ferenze e di assiologie personali. Il sentimento viene in gioco non semplicemente come stato psicologico, ma in termini normativi qua- le richiamo metonimico al ‘tutto della persona’ e al valore di cui sen- timenti ed emozioni rappresentano il correlato fenomenico, ossia la personalità e l’‘unicità’ del singolo. L’eventuale orizzonte di tutela dovrebbe in questo senso focaliz- zarsi non su risvolti contenutistici di stati affettivi o su oggetti (ideali, concezioni, fedi) caratterizzati da peculiari connotazioni valoriali, ma assumere a riferimento eventuali attacchi alla persona che adope-  210 Tra sentimenti ed eguale rispetto rino strumentalmente il sentimento (rectius, il modo d’essere e l’iden- tità dell’individuo) come fattore degradante per la negazione della pa- ri dignità 1. Abbiamo individuato nell’eguale e reciproco rispetto-riconosci- mento l’atteggiamento che meglio si presta a definire sia il dover es- sere dei rapporti fra singoli, sia la tendenziale equidistanza che do- vrebbe caratterizzare eventuali interventi normativi 2. Sarebbe corretto parlare di eguale rispetto come ‘bene giuridico’, per riportare il discorso sul piano dei concetti endopenalistici? Al di là della scarsa risolutività che una tale formula assumerebbe sul pia- no teoretico, la sostanza dei problemi appare diversa: in primo luogo il rispetto non definisce un oggetto di tutela a sé stante ma si pone piuttosto come parametro per valutare sia i rapporti tra singoli sia la qualità di eventuali risposte normative che abbiano come riferimento finalistico la tutela della persona. In secondo luogo, quando si analizzano le dimensioni sociologica, psicologica e filosofica del rispetto emerge una complessità che non appare comprimibile e ‘isolabile’ nell’involucro concettuale che si è soliti definire ‘bene giuridico’3. Possiamo sì parlare di ‘diritto al ri- 1 Cfr. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 44. 2 Nelle moderne democrazie liberali, le ricadute effettuali del valore del rispet- to-riconoscimento coinvolgono due differenti profili. In primo luogo l’atteggia- mento dello Stato verso i cittadini: il rispetto-riconoscimento è da intendersi co- me aspetto complementare del principio di eguaglianza, indicando l’approccio che la normazione statuale dovrebbe assumere nei rapporti con le diverse voci dello scenario pluralista e nelle dinamiche fra maggioranze minoranze: «l’eguale rispetto appare in questa luce come una generalizzazione della dignità e dell’ono- re [...] è come l’esito di un processo di costituzione di una comunità di pari, di una comunità di mutuo riconoscimento: la comunità dell’eguale status di cittadi- nanza» v. VECA, Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica, Milano, 2009, p. 123; per uno studio sul tema delle discriminazioni attuate verso individui o gruppi mediante lo strumento giuridico, v. SALARDI, Di- scriminazioni, linguaggio e diritto. Profili teorico-giuridici, Torino, 2015, pp. 105 ss.; per un quadro, e un’analisi critica, di interventi normativi nel contesto italia- no che sembrano potersi definire come ‘discriminatori’, v. BARTOLI C., Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Roma-Bari, 2012, pp. 61 ss.; per un approfondimen- to sull’atteggiamento della Corte costituzionale in rapporto a questioni in cui so- no venuti in gioco profili di discriminazione, v. DODARO, Uguaglianza e diritto pe- nale, cit., pp. 30 ss.; 382 ss. 3 Sono numerose le voci che nella dottrina italiana hanno constatato la crisi di tale costrutto teorico. In termini generali v., per tutti, FIANDACA, Sul bene giuridi- co, cit., pp. 145 ss.; in relazione a profili più specifici è stato acclarato il «ruolo di strumento metodologico di chiarificazione concettuale più che di base cogente- mente normativa delle scelte di criminalizzazione», così PALAZZO, Tendenze e pro-   Dilemmi 211 spetto’ per descrivere l’interesse della persona a non essere offesa, ma si tratta di una formula da prendere con cautela e che necessita di specificazioni. Il filosofo Stephen Darwall osserva che rispettare un individuo si- gnifica prendere sul serio le sue richieste e le sue aspettative sul pia- no morale in forza non di un dovere impersonale ed esterno alla rela- zione, bensì in virtù dell’autorità morale che è inerente alla persona stessa, alla quale si deve rispetto per ragioni di uguaglianza (c.d. ‘ri- spetto in seconda persona’). In altri termini, le richieste di rispetto traggono legittimazione morale dalla persona in sé, ed è la persona ad essere destinataria dell’atteggiamento di riguardo fondato sull’ugua- glianza di status nella relazione di reciprocità 4. Di fondamentale importanza è lo sviluppo che Anna Elisabetta Galeotti ha dato al pensiero di Darwall, contribuendo a illuminare la distinzione tra rispetto e diritti. Riportiamo per esteso un importante passaggio: «Quando si dice “tutti hanno diritto di essere rispettati dagli altri” non stiamo parlando di diritto in senso proprio, perché il diritto al rispetto non ha uno specifico contenuto. Certamente di fronte a una violazione di diritti, si dice che il trasgressore non ha rispettato il titolare di dirit- ti. Però non possiamo concludere che il rispetto sia una qualificazione dell’ottemperamento dei diritti tale che, ogni qualvolta una persona fa il proprio dovere verso qualcun altro, il rispetto si manifesta come una qualità intrinseca e inestricabile del dovere morale ottemperato. Non possiamo concludere in quel modo perché, tra le altre cose, non siamo contenti di essere rispettati per dovere. [...] Il fatto è che non solo non vogliamo essere rispettati per un dovere in terza persona, ma neanche spettive nella tutela penale della persona umana, in AA.VV., a cura di Fioravanti, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, p. 405. Altri Autori hanno evidenziato la dissoluzione della funzione critica, sul presup- posto della negazione di una preesistenza dei beni oggetto di tutela alle scelte del legislatore, v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, cit., pp. 75 ss., rimar- cando inoltre l’appannamento della capacità descrittiva del concetto, e suggeren- done una dismissione o un sostanzioso restyling, v. FORTI, Le tinte forti del dissen- so, cit., pp. 1057 ss. Si veda anche PALIERO, La laicità penale, cit., pp. 1184 ss., il quale rimarca il perdurante ruolo di orientamento del ‘bene giuridico’ in rapporto al formante legislativo e giurisprudenziale, pur confermando la crisi sostanziale del costrutto in relazione ai suoi confini. 4 DARWALL, Respect and the Second-Person Standpoint, in 78 Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 2004, pp. 43 ss. Si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamento verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 210.   212 Tra sentimenti ed eguale rispetto per uno in seconda persona. Non vogliamo essere rispettati per dovere, punto e basta. In effetti credo che la prospettiva diritti/doveri collassi sempre in qualche forma di morale impersonale che non soddisfa pro- priamente le nostre aspettative circa l’essere rispettati [...] La richiesta reciproca di rispetto pur se avanzata in termine di diritto non può mai essere soddisfatta per dovere, anche se ciascuno di noi ha l’obbligo di ri- spettare gli altri. [...] La mancanza di rispetto non si rimedia attraverso l’imposizione di rispettare gli altri, ma solo attraverso una comprensio- ne autentica di ciò che la richiesta reciproca implica. Solo allora chi ha mancato di rispetto può riparare il suo torto, non già facendo per dove- re qualche atto, ma riconoscendo la propria mancanza e riparando l’offesa con un atto individualizzante di riconoscimento» 5. La natura del rispetto ‘in seconda persona’ implica che il rapporto di reciproco riconoscimento debba avvenire tramite un atto ‘indivi- dualizzante’, la cui sostanza è quella di dare valore morale a un sog- getto considerandolo nella sua concretezza di persona umana, non dunque come mera proiezione di una comune appartenenza di gene- re che prescinde dalle particolarità che lo caratterizzano 6. Un realistico disincanto suggerisce a questo punto una constatazio- ne: il rispetto, inteso come disposizione comportamentale dell’individuo, non è coercibile: «[l]a prospettiva dei diritti e dei doveri è una prospettiva impersonale, che non soddisfa compiutamente le aspettative di ricono- scimento e rispetto morale»7. Non le soddisfa perché se il rispetto deve essere ‘in seconda persona’, un eventuale divieto rappresenta invece una fonte eteronoma di doveri. Un rispetto giuridicamente imposto può es- sere una componente importante negli equilibri della convivenza, ma non esaurisce lo spazio morale delle relazioni e soprattutto non è da considerarsi strumento prioritario da un punto di vista politico. Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive sulle quali influi- scono strumenti di controllo sociale fra i quali può rientrare anche, eventualmente, il diritto penale; ma se prendiamo sul serio la matrice affettiva dell’atteggiamento di rispetto8, e dunque la sua natura an- 5 GALEOTTI, La politica del rispetto, cit., pp. 92 s. 6 Questa diversa prospettiva dell’atteggiamento di rispetto viene approfondita in GALEOTTI, Rispetto come riconoscimento, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, cit., pp. 26 ss. 7 PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., p. 43. 8 BAGNOLI, L’autorità della morale, cit., pp. 21 ss.; MORDACCI, Rispetto, cit., pp. 100 ss.   Dilemmi 213 che di sentimento, ne consegue che l’obiettivo del rispetto per le per- sone discende in primo luogo dalle possibilità di uno sviluppo sogget- tivo di tale sentire 9. Emerge un’importante indicazione per definire il progetto norma- tivo della ‘tutela di sentimenti’: la strategia dei divieti è del tutto resi- duale, certo non prioritaria. Il giurista penale è portato a pensare al concetto di tutela prevalentemente in chiave negativa o ‘difensiva’, come protezione di un dato oggetto da danni o da pericoli, ma si trat- ta di un’accezione che rispetto ai problemi in esame appare limitante, e che è preferibile scorporare in traiettorie differenti. Possiamo individuare una prima prospettiva che declina il concet- to di tutela come agire positivo, un ‘aver cura’ di sentimenti ed emo- zioni nella dimensione sociale, inteso come ‘coltivazione’10 di atteg- giamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco ri- spetto. 1.1. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà ‘Cura dei sentimenti’ è un concetto estraneo al tradizionale reper- torio di categorie non solo penalistiche, ma più in generale giuridi- che. Perché si dovrebbe aver cura dei sentimenti nella società con- temporanea? Una eloquente risposta è fornita da Martha Nussbaum in una cri- tica al pensiero liberale, reo di non aver adeguatamente tenuto in con- siderazione sentimenti ed emozioni, vedendoli come destabilizzanti e più confacenti a visioni politiche orientate in senso populista, ai fa- scismi e alle forme dittatoriali 11: «C’è chi pensa che soltanto le società fasciste o “aggressive” siano in- tensamente emotive e che solo tali società abbiano bisogno di coltiva- re emozioni. Sono convinzioni sbagliate e pericolose. [...] Cedere sul terreno delle emozioni, permettere che le forze illiberali vi trovino 9 «Non basta dare l’ordine di farlo perché la gente sia trattata effettivamente con rispetto. Il riconoscimento reciproco va negoziato, e questo vuol dire coinvol- gere in tutta la loro complessità il carattere degli individui tanto quanto la strut- tura sociale», v. SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, tr. it., a cura di Turnaturi, Bologna, 2009, pp. 254 s. 10 Traggo questo termine dal lessico di Martha Nussbaum. 11 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 7 ss.   214 Tra sentimenti ed eguale rispetto spazio significa dare loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste pensino ai valori liberali come a qualcosa di noioso e inefficace. Tutti i principi politici, buoni e cattivi, necessitano di supporto emotivo per consolidarsi nel tempo, e ogni società giusta deve guardarsi dalle divisioni e dalle gerarchie coltivando sentimenti appropriati di amore e simpatia» 12. La critica di fondo della studiosa statunitense si può articolare in due profili. Su un piano filosofico, l’ambizione a un liberalismo politico (il quale cioè cerchi di mantenere una tendenziale equidistanza senza promuovere una particolare concezione del bene) avrebbe prodotto teorizzazioni eccessivamente asettiche sul piano dei valori, o comun- que non adeguatamente esplicite nell’affermare il sostegno a un pac- chetto di principi 13. Conseguentemente, l’immagine di un liberalismo troppo preoccu- pato di presentarsi come neutrale14 ha disincentivato la riflessione sulle ragioni delle scelte valoriali degli individui 15, trascurando le emo- zioni e i sentimenti come fattori che influenzano gli atteggiamenti verso i valori. La seconda carenza di fondo è non aver adeguatamente riflettuto sulla ‘psicologia di una società dignitosa’16. Secondo la Nussbaum è fondamentale che una riflessione filosofico-politica prenda le mosse dalla psicologia umana, che cerchi chiavi di comprensione dei com- portamenti per evitare di elaborare teorie fondate su immagini ste- reotipate dell’essere umano. Lo studio delle emozioni e dei sentimen- 12 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 8 13 Secondo la Nussbaum, quando invece i liberali hanno tentato di addivenire a un liberalismo più ‘comprensivo’, si è arrivati a teorizzare una sorta di ‘religione civile’, ossia pacchetti di principi non adeguatamente inclusivi, bensì escludenti (come esempi vengono riportati la religione civile di Mill e Comte). 14 Nel panorama statunitense la critica al tentativo liberale di mostrarsi come asseritamente neutrale ha avuto ad oggetto anche il pensiero penalistico, visto come del tutto incentrato sul piano funzionalistico e consequenzialistico, e ten- dente non offrire il giusto risalto alla componente valoriale nella definizione del danno e della responsabilità, v. KAHAN, Two Liberal Fallacies, cit., pp. 190 ss. 15 Vedi supra, cap. IV, nota 60. 16 Da tale critica non sono esenti pensatori fra i più importanti della tradizione liberale, con la sola esclusione di John Rawls, al quale si deve, nello studio intito- lato ‘Giustizia come equità’, un fondamentale richiamo alla ‘psicologia morale ra- gionevole’, v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 10; cfr. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it., a cura di Veca, Milano, 2002, pp. 217 ss.   Dilemmi 215 ti si pone in questo senso come passo per identificare matrici di at- teggiamenti di pensiero e di comportamenti che possono rivelarsi problematici, e vieppiù dissonanti, in rapporto ai principi liberali. Il buon uso pubblico delle emozioni costituisce il nucleo di una strategia politica che riconosce al fattore affettivo una peculiare forza normativa e una salienza morale le quali dovrebbero contribuire a dare sostanza e a ‘vivificare’ i principi guida del paradigma liberale 17 attraverso un intelligente stimolo delle coscienze basato su virtuose interazioni con la sfera emotiva18. Si configura in questo senso un vero e proprio progetto culturale volto a ‘reinventare la religione civi- le’ 19, e a rendere la compagine sociale permeabile a emozioni positive al fine di dare al rispetto reciproco una dimensione più pregnante 20. Solo a uno sguardo superficiale la teorizzazione di Martha Nus- sbaum potrebbe risultare accomunabile a una sorta di moralismo au- toritario, come tentativo di porre le fondamenta di un ‘pensiero uni- co’. La studiosa, consapevolmente, ne prende le distanze: «[u]na cul- tura critica vigile è [...] fondamentale per la stabilità dei valori libera- li. Un’intensa cura delle emozioni può coesistere, anche se talvolta a fatica, con la presenza di uno spazio critico aperto» 21. Una simile prospettiva sembra di primo acchito esulare rispetto al campo del diritto penale. In verità essa contiene un messaggio impor- tante anche per la prospettiva penalistica: la ‘cura’ dei sentimenti de- 17 Da questo punto di vista, il percorso additato dalla Nussbaum pare potersi accostare a obiezioni critiche di altri Autori che hanno rimproverato al pensiero liberale un’eccessiva ‘asetticità’: in altri termini, un punto di vista troppo restritti- vo e ‘astensionistico’ dal punto di vista etico, a esclusivo vantaggio della prospet- tiva di giustizia e a detrimento di una riflessione sul bene, sia collettivo sia indivi- duale, v., per tutti, DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 12 ss. 18 «Un progetto politico normativo si legittima se può essere stabile. Le emo- zioni sono interessanti perché giocano un ruolo in questa stabilità» NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 24. Le strategie proposte da Martha Nussbaum si ba- sano su esempi tratti dalla storia recente: discorsi pubblici, sostegno alle arti, educazione alla lettura e alla frequentazione di testi letterari sono alcune delle parti di un vasto programma che la studiosa pone come base per favorire lo svi- luppo di un ‘sentire democratico’, predisponente all’ascolto reciproco e alla capa- cità di immedesimarsi nell’altro, per stimolare negli individui emozioni consone ai valori liberali e per tenere di conseguenza sotto controllo la tendenza «radicata in tutta la società e, in ultima analisi, in tutti noi, a proteggere un Sé fragile deni- grando e mettendo in secondo piano gli altri», v. NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 9, 311 ss., 384 ss., 431 ss. 19 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 453. 20 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 455. 21 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 155.   216 Tra sentimenti ed eguale rispetto finisce un progetto che dà priorità alle libertà, alla promozione di una dialettica pubblica aperta al confronto anche aspro fra le idee, volta a creare per i cittadini la possibilità di costruzione di un’identità dialogica. 1.2. Tutela da sentimenti Da un altro lato, si pone il problema di quale strategia politico- sociale debba adottarsi di fronte a spinte emotive negative: vi sono emozioni e sentimenti per i quali si può porre un problema di tutela non nel senso di ‘cura’, bensì in termini opposti, come presidio disin- centivante che definiamo ‘tutela da sentimenti’. Si tratta della pro- spettiva più suscettibile di creare tensioni con i diritti di libertà, e che riguarda in modo più diretto l’eventuale coinvolgimento dello stru- mento penale. È abbastanza immediato pensare all’odio come atteggiamento emotivo che contrasta con l’eguale rispetto; esso rappresenta già oggi, a prescindere dalla concreta rilevanza assunta in fase applicativa, l’elemento caratterizzante condotte che molti ordinamenti vietano sotto l’appellativo di hate speech e hate crimes. Si tratta di un nucleo di atteggiamenti che, per quanto non definiti esaustivamente dalle fonti normative, presentano quale minimo comune denominatore l’avversione verso gruppi e categorie di persone che patiscono una debolezza e una marginalizzazione socialmente significativa 22. La formula ‘tutela da sentimenti’ può assumere un significato più esteso dell’accezione descrittiva degli ambiti normativi di contrasto all’odio: la si potrebbe intendere come istanza focalizzata non su at- teggiamenti emozionali definiti, bensì funzionale alla messa a tema di profili inerenti, più in generale, la dimensione psico-sociale delle matrici e delle ragioni dei dissensi. In altri termini, un’istanza che riassume l’esortazione all’approfondimento della ‘psicologia di una società dignitosa’. Parlare di odio come tratto univocamente identificativo di manife- stazioni offensive è un’approssimazione che rischia di peccare per eccesso. Anche nella quotidianità emerge come l’odio venga usato per definire e per connotare atteggiamenti di dissenso radicale frequen- temente riscontrabili nel contesto mediatico: ad esempio, in riferi- mento all’ambiente dei social network, si parla frequentemente di  22 SPENA, La parola(-)odio, cit., pp. 598 ss.  Dilemmi 217 ‘haters’23, ossia ‘odiatori’, termine col quale si indicano soggetti che aggrediscono verbalmente gli altri internauti escludendo ogni possi- bile approccio di mediazione con l’interlocutore. L’atteggiamento emotivo che definiamo ‘odio’ appare particolar- mente sovraesposto; la tendenza a focalizzare l’attenzione su di esso può però indurre a trascurare il ruolo di ulteriori atteggiamenti emo- tivi, altrettanto meritevoli di attenzione come fattori di degradazione del discorso e della dialettica pubblica24. In altri termini, la realtà psico-sociale è probabilmente più complessa e stratificata e le con- trapposizioni anche estreme non dovrebbero essere ricondotte tout court all’odio, il quale è forse una componente che, se presa sul serio, potrebbe essere residuale in rapporto ad altri atteggiamenti antago- nisti dell’eguale rispetto, quali rabbia, paura, vergogna, invidia, di- sgusto 25: più diffusi, e difficili da riconoscere e da ammettere, anche nei confronti di sé stessi. A nostro avviso si pone l’esigenza di pensare alla tutela da senti- menti come istanza normativa che suggerisca di «coltivare una certa attenzione verso i fattori in grado di favorire la conoscenza [delle] li- bertà e le condizioni che permettono di farne concretamente uso», individuando come punto nodale della questione l’interrogativo sui «margini di flessibilità di cui dispongono, di fatto, e soprattutto di cui hanno reale coscienza, le persone nell’espressione di un “dissenso” rispetto al senso, o meglio, ai sensi che vengono trasmessi nei rispet- tivi contesti di vita 26». In altri termini, il giurista penale deve oggi considerare che per la 23 Una panoramica in ZICCARDI, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Milano, 2016, pp. 15 ss. 24 Si tratta di ‘odiatori’ o semplicemente di ‘stupidi’? L’equiparazione fra intol- leranza, specie in ambito razziale, e stupidità, proposta in un breve saggio sul- l’analisi psicologica del razzismo ad opera di BLUM, Razzismo e stupidità, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, cit., pp. 87 ss., sembra da un lato suggerire il ridimensionamento della portata di un ri- chiamo all’odio quale matrice dell’intolleranza, e dall’altro lato sposta sul piano culturale e della decostruzione dialettica, soprattutto tramite lo strumento del- l’ironia, il contrasto al discorso razzista (pp. 90 ss.). 25 Rabbia e odio sono due emozioni autonome, per quanto non prive di forti connessioni. Osserva RAVENNA, Odiare, cit., pp. 20 ss., che la rabbia è sperimenta- ta più di frequente rispetto all’odio, e che quest’ultimo presenta delle caratteristi- che peculiari che lo rendono distinguibile sia a livello psicologico che psico- sociale. Sul ruolo politicamente negativo della vergogna, dell’invidia e del disgu- sto v., per tutti, NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., pp. 311 ss.  26 FORTI, Le tinte forti del dissenso, 1039 s.  218 Tra sentimenti ed eguale rispetto «comprensione dei percorsi attraverso cui il potere pubblico esprime le sue istanze repressive, occorra alzare e allargare lo sguardo al con- testo socio-culturale complessivo in cui i “sensi” e i relativi “dissensi” trovano il loro terreno di generazione» 27. Coerentemente con la suddetta esortazione, riteniamo che una ra- gionevole attenzione al versante affettivo, orientata a sondare la di- mensione umana dei conflitti e soprattutto lo sfondo antropologico, possa rappresentare un tassello importante per addivenire a un qua- dro fenomenicamente più realistico degli atteggiamenti degli indivi- dui e, conseguentemente, anche a una più dettagliata base di rifles- sione per la politica penale e per un razionale orientamento alle con- seguenze 28. Appare infatti poco sensato, in una riflessione sulle dinamiche del reciproco rispetto a livello espressivo-comunicativo, non prendere in considerazione le matrici dei dissensi, i canali di diffusione, e più in generale un’idea realistica di essere umano con cui il diritto si trova a interloquire, anche attraverso eventuali precetti. Più in generale, si tratta a nostro avviso di ricercare degli adden- tellati sul piano socio-fenomenico per sondare in modo non concet- tualistico margini di opportunità, oltre che di legittimità, circa la pro- spettiva di interventi normativi. 2. ‘Idealtipi antropologici’ e realtà umana dei conflitti Sia la ‘cura’ dei sentimenti, sia la tutela ‘da’ sentimenti presup- pongono che negli individui vi sia la capacità di recepire un certo ti- po di stimoli cognitivi ed emotivi. Viene da chiedersi quale sia il riscontro che una tale ambizione trova oggi nella compagine sociale: se si tratti di una prospettiva rea- listica o se invece presupponga un modello ideal-tipico di cittadino eccessivamente ottimistico. 27 FORTI, Le tinte forti del dissenso, loc. ult. cit. 28 Osserva PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della persona umana, cit., p. 404, che «nel configurare il sistema di tutela penale della persona, sarà del tutto legittimo prestare ascolto alle suggestioni anche di tipo antropolo- gico che possono provenire dalle convinzioni sociali sull’essere umano; ma, dal- l’altro, una razionale scelta politico criminale sulla tutela della persona e sui suoi limiti dovrà necessariamente essere ispirata ai princìpi di ultima ratio, di tolle- ranza e di laicità del diritto penale».   Dilemmi 219 La possibilità che la riflessione teorica finisca per fare affidamen- to su modelli non del tutto aderenti alla realtà sociale costituisce un avvertimento che la dottrina penalistica non ha mancato di eviden- ziare. Alberto Cadoppi in uno scritto sul paternalismo giuridico dall’im- pronta fortemente liberale, in tendenziale accordo con la posizione di Joel Feinberg propensa alla massima valorizzazione dell’autonomia di scelta e della volontà dell’individuo, evidenzia come il discorso sull’autonomia personale vada preso con molta attenzione e serietà, per non cadere nell’errore, attribuito anche a John Stuart Mill, di elaborare teorie assumendo quale prototipo di persona un soggetto apparentemente immune da inciampi cognitivi e da condizionamenti emotivi che potrebbero gettare un alone di problematicità sulla reale consapevolezza delle scelte adottate 29. Solleva problemi simili con riferimento al tema della libertà di espressione Costantino Visconti, quando si chiede se gli argomenti volti a ridimensionare l’impatto delle parole offensive, e a metterne in dubbio la dannosità, siano dettati anche (soprattutto?) da un irenisti- co, e tutt’altro che giustificato, affidamento su un modello di cittadi- no ‘ragionevole, colto e tollerante’, in grado di elaborare l’insulto e di non patirne gli effetti. Tale categoria personologica non appare del tutto rispondente alla realtà; ed è per tale motivo che Visconti osser- va, condivisibilmente, che «è [...] con riferimento alla tipologia di soggetti che non hanno la ca- pacità di controllare razionalmente e dialetticamente la potenziale pe- 29 CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale, cit., p. 124. L’osser- vazione di Cadoppi è volta a sottolineare in modo puntuale e condivisibile il ri- schio di una tendenza semplificante nella teorizzazione giuridica, e rilancia la problematizzazione dell’idea di essere umano, dei modelli di scelta razionale, de- gli interessi finali che dovrebbero idealmente rappresentarne il fine delle condot- te, tema pregno di ricadute sul piano politico. Ad esempio, si veda la questione relativa al benessere individuale, all’ideale normativo di ‘vita buona’, alla distin- zione fra interessi volizionali e interessi critici, presente in DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, cit., pp. 46 ss., e ripreso, con diversità di vedute, in FIAN- DACA, Diritto penale, tipi di morale, cit., pp. 155 ss., e FORTI, Per una discussione sui limiti morali, cit., pp. 320 ss. A un livello successivo, la problematizzazione del ruolo delle emozioni, della riflessività, della consapevolezza delle proprie scelte da parte dell’individuo, si pone in termini funzionali alla lettura e all’interpre- tazione delle condotte umane, nel tentativo, sempre fallibile, di trovare dei signi- ficati: per una tematizzazione di tale problema in ambito criminologico, e sul rapporto fra riflessività e opacità, v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente, cit., pp. 332 ss. e bibliografia ivi citata.   220 Tra sentimenti ed eguale rispetto ricolosità di certe forme di discorso pubblico, o che – peggio – ne stru- mentalizzerebbero intenzionalmente i possibili effetti sociali dannosi, che si prospetta di fatto il problema di una scelta politico-criminale tra l’intervento e l’astensione» 30. Emerge da tali notazioni una necessità di realismo, di problema- tizzazione del modello antropologico di individuo che il diritto pena- le assuma a punto di riferimento, nella consapevolezza di non poter e non dover dare per scontate caratteristiche che finiscono per condur- re ad astrazioni perfezionistiche 31. Ricollegandoci a quanto osservato da Visconti, il discorso sui limi- ti alla libertà di espressione sembra talvolta presupporre la presenza di determinate capacità dell’essere umano le quali appaiono oggi non condivise dalla totalità degli individui. Tale rilievo si pone in primo luogo per i destinatari di espressioni offensive, ma è bene allargare la riflessione anche al versante degli autori, e dunque alle particolari di- sposizioni emotive e di pensiero che li caratterizzano: il carico emoti- vo della vittima e la spinta emotiva che anima chi offende sono en- trambi esposti al rischio di atteggiamenti radicali. All’interno del macro tema del dissenso intersoggettivo riteniamo che le traiettorie di ricerca per il giurista debbano focalizzarsi su dif- ferenti aspetti, uno dei quali, concernente le matrici cognitive del dis- senso e la qualità del flusso epistemico che alimenta le opinioni, è stato sinteticamente messo in luce nel saggio di Gabrio Forti poc’anzi citato. L’Autore evidenzia come il contesto generativo del senso e del dissenso versi oggi in condizioni alquanto problematiche, che metto- no a dura prova le risorse cognitive dei singoli e alimentano un gri- giore epistemico 32 il quale si accompagna a uno sbiadimento globale dell’etica della comunicazione. L’avvento del web, oltre a indurre la percezione di una deresponsabilizzazione del discorso pubblico, ha portato a un «sovraccarico informativo che [...] espone ognuno al ri- schio di mobilitare non “risorse cognitive adeguate”, bensì una “ca- 30 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 250; cfr. FORTI, Le tinte forti del dissen- so, cit., p. 1055, il quale parla criticamente di «credo (neo)liberale, costruito a mi- sura di soggetti capaci di farsi robustamente valere nell’agone socio-culturale (ivi compresi storici e intellettuali in grado di rintuzzare con gli argomenti della loro scienza le farneticazioni negazioniste)». 31 Tematizza il problema di una tendenza a elaborare modelli ‘deontologici’ di persona umana poco rispondenti con la realtà sociale anche FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 160.  32 D’AGOSTINI, Verità avvelenata, cit., p. 13.  Dilemmi 221 pacità attentiva deteriorata”, generando così risposte meccaniche, “comportamenti automatici che evitano la paralisi al prezzo della qualità decisionale”» 33. A costituire un rischio per il pensiero critico, e dunque per la qua- lità etica ed epistemica del discorso pubblico, sarebbe, secondo Forti: «il manifestarsi in tale contesto di voci che si distaccano — solo per- ché rumorose, violente, sorprendenti — dal magma confuso dell’over- crowding informativo, riuscendo così a incanalare tunnel visions di schiere di followers a conseguire quella che potremmo definire una ve- ste “istituzionalizzata mediaticamente” [...] L’aspettativa di poter trar- re da tali voci “salienti” rassicuranti semplificazioni del complesso e angosciante overcrowding informativo che ci stringe, sarà potenziata laddove esse si sostengano su una violenza espressiva che sembri ap- pagare altresì, sia pure con un sortilegio illusorio, quella nostalgia di fisicità e corporeità che l’immersione quotidiana nei mondi virtuali e artificiali non può che acutizzare» 34. Come emerge da tali considerazioni, le cause dell’alterazione della dialettica pubblica e la conseguente canalizzazione della violenza e dell’aggressività verbale sembrano doversi ricondurre a una stratifi- cazione di fattori, non a un univoco atteggiamento emotivo. 2.1. Dissensi ed estremismo A nostro avviso si può inquadrare un secondo ambito di problemi legati alle matrici generative dei dissensi, riguardante più da vicino i microcosmi soggettivi e concernente l’analisi dei fattori psico-sociali che possono portare un individuo ad aderire in modo più o meno marcato, se non addirittura ‘estremo’ a certe idee e a convinzioni fino a porsi in radicale conflittualità con opinioni concorrenti e con i sog- getti che vi aderiscono. Perché anche soggetti ragionevoli sono spesso protagonisti di con- trapposizioni radicali? A un primo livello, relativo a uno stadio che potremmo definire ‘fi- siologico’ del dissenso, una buona chiave di lettura ci sembra quella proposta di recente da Jonathan Haidt, il quale rimarca come l’ade- sione a ideologie e credenze sia frutto di scelte basate su matrici pret- 33 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1041. 34 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., pp. 1042 s.   222 Tra sentimenti ed eguale rispetto tamente emotive: gli individui decidono quali idee appoggiare sulla base di emozioni che sono modellate dall’appartenenza gruppale, e tendono a elaborare narrazioni e adattamenti per riuscire a trovarsi in sintonia, inconsciamente e intuitivamente, con le proprie idee, svi- luppando dunque una tendenza a ricercare conferme alle proprie opinioni la quale rischia di tramutarsi in una cieca ottusità verso ra- gioni concorrenti. La morale unisce e acceca: «[c]i unisce in schie- ramenti ideologici che si danno battaglia come se il destino del mon- do dipendesse dalla vittoria della nostra squadra. Ci acceca rispetto al fatto che ogni schieramento è composto da brave persone che hanno qualcosa di importante da dire» 35. Lo studio di Haidt si attesta su un piano prettamente descrittivo: esplica le ragioni per le quali le persone tendono a dividersi su argo- menti importanti come la politica e la religione, ma non fornisce proposte per limitare i dissidi, affermando, con disincanto, che la no- stra parte intuitiva è alquanto difficile da dominare 36. Il fatto che gli esseri umani siano portati ad allinearsi in schiera- menti che si identificano nei valori del gruppo di appartenenza, svi- luppando una conflittualità su base gruppale, contribuisce a fornire delle spiegazioni, corroborate da evidenze sperimentali, sul ruolo dominante giocato dalla componente emotiva piuttosto che da un’as- serita dimensione ‘razionale’. Se bene intendiamo la posizione di Haidt, riteniamo si possano instaurare virtuose connessioni con i percorsi di crescita emotiva che Martha Nussbaum individua quale impegno per uno Stato liberale: per quanto i disaccordi possano essere forti, Haidt invita a non radi- calizzare le alternative in senso manicheo ma a leggerle come ricadu- ta di un’emozionalità istintuale che può essere educata a un maggio- re rispetto delle ragioni altrui37, in una prospettiva dunque che sa- 35 HAIDT, Menti tribali, cit., p. 400. Si veda anche FROMM, Marx e Freud, tr. it., Milano, 1997, p. 128: «l’individuo deve chiudere gli occhi e non vedere quello che il suo gruppo dichiara inesistente, o deve accettare come vero ciò che la maggio- ranza considera tale, anche se gli occhi lo convincessero che ciò è falso. Il gruppo è di importanza così vitale per l’individuo che per lui le opinioni, le convinzioni e i sentimenti del gruppo costituiscono la realtà, una realtà più valida di quella che gli trasmettono i sensi e la ragione». 36 La metafora utilizzata da Haidt è quella dell’elefante e del suo portatore: sin- teticamente, l’elefante rappresenta la parte emotiva dell’uomo, il portatore il pen- siero riflessivo, v. HAIDT, Felicità: un’ipotesi, cit., pp. 6 ss.; ID., Menti tribali, cit., pp. 13 ss., 286 ss. 37 «Noi tutti siamo risucchiati in comunità morali tribali. Gravitiamo attorno a valori sacri e condividiamo argomentazioni post hoc sul perché noi abbiamo ra-   Dilemmi 223 remmo portati a ricollegare alla ‘cura dei sentimenti’. Eccoci però giunti a un ulteriore profilo problematico: il tipo di conflittualità che oggi desta maggiore preoccupazione si manifesta attraverso cadenze espressive, e anche attraverso condotte, che rive- lano un attaccamento a ideali e a credenze in forme tendenti al- l’esclusione di ogni tipo di confronto e all’annullamento della posi- zione contrapposta. Si tratta di un fenomeno definito come ‘pensiero estremo’, nel quale l’individuo moderno rischia di scivolare anche a causa di una destabilizzazione soggettivamente avvertita di fronte al pluralismo etico e informativo, e dalla quale cerca rifugio e rassicu- razione affidandosi a morali e visioni del mondo autoritarie. Prendiamo a riferimento uno studio del sociologo francese Gèrald Bronner38, il quale identifica quali caratteristiche di fondo del pen- siero estremo la debole trans-soggettività e l’attitudine sociopatica39 delle idee. Alla base della concezione di Bronner vi è la convinzione, ampia- mente argomentata nel corso dell’opera, che le derive estremiste del pensiero, spesso legate anche a tragici esiti sul piano delle condotte, non siano affatto da considerarsi come frutto di anomalie sul piano psichico, ma al contrario possiedano una solida, inquietante raziona- lità. Partendo dalla consapevolezza che nelle considerazioni e nelle azioni di un estremista vi è una logica, si possono indagare le matrici di determinate forme di pensiero. È importante notare come una fra le diverse modalità di adesione a forme di pensiero estremo sia strettamente legata al contesto de- mocratico: col concetto di adesione ‘per frustrazione’ si indica il rifu- giarsi di un soggetto in una convinzione fanatica volta a compensare l’insoddisfazione dovuta al non possedere o possedere meno di ciò che ritiene di meritare. Bronner afferma che la democrazia, a causa all’essenza competiti- gione e gli altri torto. Pensiamo che nell’altro schieramento siano tutti ciechi alla verità, alla ragione, alla scienza e al buonsenso, ma in effetti siamo tutti ciechi quando parliamo di ciò che è sacro. [...] E se davvero volete aprire la vostra men- te, prima di tutto aprite il vostro cuore», v. HAIDT, Menti tribali, cit., pp. 398 s. 38 BRONNER, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, tr. it., Bologna, 2012, pp. 159 ss. 39 La trans-soggettività di un’idea sta a indicare la capacità di essere accolta da altre persone a parità di condizioni; la sociopatia viene definita come una carica agonistica intrinseca che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere in- sieme ad altri, e per un’idea, di poter coesistere con altre idee, v. BRONNER, Il pen- siero estremo, cit., pp. 94 ss.; 110 ss.   224 Tra sentimenti ed eguale rispetto va che stimola e delle aspettative che non può compiutamente soddi- sfare, possa in un certo senso favorire la proliferazione e l’adesione a ideologie estremiste le quali si proiettano in un rapporto di competi- zione ad excludendum con il restante mercato delle idee, stimolando forme di particolare aggressività e di disprezzo nei confronti degli in- terlocutori: «la frustrazione e il desiderio di affermazione costitui- scono un mix esplosivo [...] in un sistema in cui troppi si sentono eleggibili benché il numero degli eletti non aumenti, dobbiamo aspet- tarci di osservare le conseguenze negative che l’amarezza condivisa non mancherà di produrre» 40. Tirando le fila del discorso, questo breve excursus a metà fra psi- cologia sociale e sociologia vorrebbe provare a offrire un quadro me- no astratto e disincarnato del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti, al fine di contestualizzare i conflitti legati ad appartenenze significative, e dunque ad alto grado di pregnanza emo- tiva, sia in relazione all’ambiente di diffusione delle idee, sia al sub- strato personologico dei dissidi 41. Sarebbe infatti ingenuo e irenistico costruire un discorso soltanto su principi, levando gli occhi al cielo senza cercare di assumere reali- sticamente consapevolezza dei mondi sociali42 che si pongono alla base dei fenomeni. Diversamente, si rischia di cadere nel rischio paventato da Benci- venga, quando afferma che «[i]n discussioni su temi del genere, è abba- stanza comune prendere posizioni nette, a incrollabile sostegno di de- terminate regole», mostrando dunque un’aderenza quasi dogmatica a principi, nella convinzione, o nella speranza, che portare avanti una battaglia in nome di valori giusti conduca a decisioni anch’esse giuste 43. L’esperienza storica mostra come tale aspettativa possa rivelarsi fallace, non a causa del travisamento etico di regole che riteniamo 40 BRONNER, Il pensiero estremo, cit., pp. 174 s. 41 Utilizziamo il termine ‘dissidio’ nell’accezione proposta da CERETTI-GARLATI, Presentazione, in AA.VV., a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, cit., pp. XX ss., i quali citano in senso adesivo la teorizzazione di Lyotard: dissidio come conflitto fra interessi contrastanti e orientati a sistemi di riferimento non condivi- si, in totale asimmetricità. 42 Col concetto di ‘mondo sociale’ vogliamo evidenziare ulteriormente come le dinamiche dei conflitti vadano interpretate prendendo in debita considerazione il concetto di gruppo e l’importanza che esso riveste nella sfera affettiva e decisio- nale del singolo; per una sintesi, v. STRAUSS, Il concetto di mondo sociale, tr. it., a cura di Toscano, Milano, 2016.  43 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77.  Dilemmi 225 abbiano autorità su di noi, bensì poiché l’esistenza di un conflitto fra regole entrambe ‘giuste’ porta comunque a violarne una, la quale avrebbe potuto (forse) indurre esiti differenti sul piano fattuale. Non potendo però sapere quale sia all’interno di un dilemma etico l’al- ternativa migliore, bisogna realisticamente accettare che qualsiasi scelta ci pone di fronte a responsabilità: «l’aderenza a un principio non ci assolve; la nostra anima dovrà portare il carico della scelta che abbiamo fatto» 44. In altri termini, quale esercizio di onestà intellettuale appare preferi- bile immergere i principi nel contatto con la realtà, non perché in questo modo si possa risolvere un dilemma, ma quantomeno perché così facen- do si può avere una migliore percezione delle contingenze, sostituendo l’ambizione a cristallizzare una scelta con un più umile discorso che as- suma a propria bussola le categorie della necessità e della opportunità: «[è] per le strade tortuose, e spesso fra i detriti e le macerie, della vita quotidiana che le leggi universali vanno applicate, con tutta l’incertezza che compete a tali applicazioni; e non dobbiamo dimenticarlo» 45. 3. Quale ruolo per il diritto penale? 3.1. Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica Il monito responsabilizzante formulato da Ermanno Bencivenga induce una comprensibile prudenza, e la complessità del dilemma di fondo si manifesta in modo evidente anche nel discorso penalistico, dove le riflessioni recenti sul tema dei rapporti fra libertà di espres- sione e reciproco rispetto sono confluite in prese di posizione in bili- co fra il recondito ottimismo in uno spazio comunicativo senza limi- ti, e la sofferta apertura verso la possibilità di risposte penali. Un atteggiamento profondamente combattuto, potremmo dire ‘tor- mentato’, di fronte a scelte che comporterebbero in ogni caso il sacri- ficio di principi fondamentali; lo ha ben sottolineato Alessandro Te- sauro quando, in tema di limiti alla propaganda razzista, ha parlato di un ‘Io diviso’, in senso psicanalitico, tra impegno antirazzista e passione liberal per la libertà di espressione 46. 44 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 77. 45 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78. 46 TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., p. 184.   226 Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’orizzonte penalistico prevale una linea di forte cautela, spesso con posizioni ‘ibride’: anche le opere che hanno approfondito con maggiore dovizia obiezioni demolitorie rispetto a eventuali incrimina- zioni, sembrano escludere un atteggiamento di completa chiusura 47. Nel complesso sembra essersi affievolita la tendenza a voler elabo- rare modelli interpretativi orientati alla ricerca di conclusioni assio- maticamente deducibili dal diritto positivo, sia con riferimento a norme ordinarie che al testo costituzionale. Rispetto al mainstream tradizionale, nel quale l’emancipazione dall’autoritarismo del codice fascista poteva ragionevolmente identificarsi come rinascita in senso liberale, l’approccio odierno si scontra con la complessità delle diver- se declinazioni del liberalismo contemporaneo, ragion per cui è av- vertita l’esigenza di non scivolare in un uso dei principi liberali emo- tivamente appagante ma proprio per questo ad alto contenuto retori- co. L’esito ‘scontatamente liberale’48 del dibattito, coincidente con l’assoluto diniego a ogni forma di responsabilità per l’uso della libertà di manifestazione del pensiero, è oggi una risposta che rischia di ar- chiviare troppo prematuramente le questioni. Al fine di ‘guardare in faccia’ i problemi, autorevoli voci della dot- trina penalistica hanno sollevato interrogativi in una chiave meno convenzionale: ad esempio riorientando l’attenzione sugli effetti ne- 47 Ci sembra interpretabile in questo senso lo studio di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., e soprattutto il contributo di VISCONTI C., Aspetti pena- listici, cit. Anche il lavoro di SPENA, La parola (-) odio, cit., p. 605 riconosce che il diritto alla libertà di espressione nel caso del discorso d’odio è comunque più de- bole e più bilanciabile con interessi confliggenti; cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, cit., p. 936. Più netta la chiusura di Autori come CA- VALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, cit., pp. 1013 ss.; FRONZA, Criminalizzazione del dissenso, cit., p. 1033. Più univoche sono invece le aperture di PULITANÒ, Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio, cit.; FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1059. Negli anni Settanta la dottrina penalistica manifestò con sostanziale univocità, anche se con diversità di accenti, la contra- rietà a restrizioni penalistiche alla libertà di espressione, quale reazione all’auto- ritarismo delle fattispecie del codice Rocco, v. la sintesi di VISCONTI C., Aspetti pe- nalistici, cit., pp. 51 ss. Nell’ambito costituzionalistico sembra prevalere una linea di contrarietà a regolamentazioni del discorso pubblico, sia con riferimento allo hate speech, sia al negazionismo, v. ex plurimis, CARUSO, La libertà di espressione in azione, cit., pp. 115 ss.; ID., L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali, 4/2017, pp. 975 ss.; PUGIOT- TO, Le parole sono pietre?, cit., pp. 6 ss.; PARISI, Il negazionismo dell’Olocausto e la sconfitta del diritto penale, in Quaderni costituzionali, 4/2013, pp. 890 ss.; in tema di hate speech una posizione di non chiusura ai divieti è quella di SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione, cit., pp. 228 ss., 279 ss.  48 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1037.  Dilemmi 227 gativi di un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico (par- lando di dilagante, confuso ‘overcrowding informativo’ 49), o facendo ricorso a distopie immaginative fondate sulla possibilità che deter- minati atteggiamenti di pensiero possano effettivamente acquisire consenso 50. Per quanto i profili di disvalore che si accompagnano alle condot- te comunicative possano apparire sfuggenti rispetto alle esigenze di concretezza e di verificabilità empirica richieste dal diritto penale, in sede di speculazione teorica il giurista ha il compito di dar conto di una complessità di fondo, anche prendendo laicamente atto che ci si trova di fronte a «grandezze valoriali difficilmente contenibili nei no- stri beni giuridici» 51. Coglie nel segno, a nostro avviso, chi ha definito la questione dei limiti penali alla libertà di espressione come ‘sfida o scommessa’ 52, evidenziando la prospettiva del tutto aleatoria che si lega sia alle concezioni libertarie sia a quelle regolazioniste. L’incertezza empi- rico-cognitiva sugli effetti pericolosi o dannosi di determinati con- tenuti espressivi53 si accompagna al fatto che non è dato sapere quali conseguenze possano scaturire nel breve e nel lungo periodo da un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico; e ove si voglia propendere per un intervento del diritto penale resta da chie- dersi quali possano essere i metodi e gli effetti di un’eventuale cri- minalizzazione, sia essa solo minacciata, tramite precetti, o anche applicata. La ragione dell’impasse nella quale ci si trova al cospetto delle suddette alternative si motiva in primo luogo con il fatto che il ri- chiamo al diritto penale è, plausibilmente, percepito come minaccia di sanzione e, in particolare, di una sanzione che si identifica con la pena detentiva. Ma proprio in merito a tale ultimo profilo, ossia alla prospettiva lato sensu ‘sanzionatoria’, la dottrina penalistica più ‘aperturista’ – che non esclude radicalmente l’eventualità di interventi penali in materia di libertà di espressione – si fa portatrice di un dif- ferente modo di intendere, in prospettiva futura, le dinamiche dello 49 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1042. 50 PULITANÒ, Cura della verità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Forti- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p. 93. 51 FORTI, Le tinte forti del dissenso, cit., p. 1051. 52 VISCONTI C., Aspetti penalistici, cit., p. 252. 53 Per tutti, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 104 ss.   228 Tra sentimenti ed eguale rispetto strumento penale. Sono emerse riflessioni volte a non limitare lo sguardo all’angusto orizzonte della pena, proiettate verso nuovi itine- rari, financo eclettiche ed ‘eterodosse’ rispetto al tradizionale reperto- rio concettuale penalistico. Ci riferiamo in particolare a interessanti proposte formulate in re- lazione ad ambiti specifici (sentimento religioso, negazionismo), il cui filo conduttore, pur con i dovuti distinguo, appare potersi indivi- duare in una (ri)valutazione dell’efficacia ‘virtuosamente simbolica’ del precetto penale. 3.2. Precetti ‘pedagogici’? Con riferimento alla tutela del sentimento religioso si è avanzata la proposta di una protezione giuridico-penale «costruita prevalen- temente (se non esclusivamente [...]) attorno alla capacità di orien- tamento culturale svolta dai precetti, mettendo finalmente da parte la forza inutile ed espressiva delle pene in senso stretto» per addivenire a un sistema di tutela «più mite e ‘relativo’ in quanto radicato sugli spazi di confronto dischiusi dal precetto penale che sancisce, ma non punisce» 54. In altri termini, uno strumento normativo che agisca al di fuori dell’ottica retributiva e di deterrenza, seguendo le coordinate della prevenzione generale cosiddetta ‘positiva’, ossia quella funzione della pena tesa a rinsaldare e a confermare valori già acquisiti e (più o me- no) radicati nei processi di socializzazione dell’individuo 55, tema am- piamente dibattuto nella dottrina italiana e non affrontabile nell’eco- nomia del presente lavoro 56. Al precetto viene in questo senso assegnata una funzione centrale, sulla base del presupposto che la prevenzione di forme di offesa lega- te al sentire religioso debba consistere in un rispetto volontario e spontaneo. Dal piano dei semplici propositi si passa a una teorizza- 54 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa e scelte di criminalizzazione. Riflessioni de iure condendo sulla percorribilità di una politica mite e democratica, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 119. 55 Per tutti, PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., pp. 52 ss.; PALAZZO, Corso di diritto penale, VI ed., Torino, 2016, pp. 18 s., 62; FORTI, L’immane concretezza, cit., pp. 137 ss. 56 Per una sintesi si rinvia a DE FRANCESCO, La prevenzione generale tra normativi- tà ed empiria, in AA.VV., Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli, 2013, pp. 29 ss.   Dilemmi 229 zione più dettagliata ipotizzando una norma che faccia coincidere la sanzione con una formale declaratoria del contenuto del precetto: il giudice sarebbe chiamato, ove l’agente si rifiuti di riparare le conse- guenze del reato attraverso percorsi di mediazione con la persona of- fesa, a «enunciare il disvalore del fatto colpevole nel dispositivo della sentenza, dandone conto nella motivazione», e ordinandone even- tualmente la pubblicazione nei casi più gravi 57. La prospettiva appena descritta sembra fondarsi su una connes- sione tra proposta dialogica e stigma penale58, finalizzata a una re- sponsabilizzazione dell’autore in assenza di rimedi prettamente coer- citivi, cercando di salvaguardare il pluralismo delle parti dalla violen- za di provvedimenti autoritativi, e delegando alla forza del precetto la funzione espressiva di un richiamo responsabilizzante 59. Si inscrive in una traiettoria similare uno studio dedicato al tema del negazionismo, il quale si distingue nel mainstream penalistico per una esplicita apertura alla criminalizzazione di condotte che neghino l’Olocausto. Rileviamo come anche in questo caso le conclusioni di non contrarietà a interventi penali siano correlate alla proposta di una tipologia di intervento che non si inquadra nella canonica diade ‘pena detentiva-pena pecuniaria’, ma che cerca di elaborare soluzioni che valorizzino il dato simbolico del precetto, veicolato dalla portata dichiarativa della vicenda processuale e dall’eventuale, conseguente, provvedimento del giudice. Con le parole dell’Autore: «Si tratterebbe, già nella comminatoria edittale, di pensare a qualcosa di diverso dalla classica “caditoia” verso la reclusione. Per quanto la proposta possa spiazzare, e determinare un ripensamento del catalogo delle pene principali, il calibro della reclusione andrebbe accompa- gnato con l’immediata conversione in una pena di sostanza espressiva e reputazionale. [...] Perché non approfondire, ad esempio, la soluzio- 57 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp. 128 s. 58 Per una panoramica sul tema v. AA.VV., a cura di Mannozzi-Lodigiani, Giu- stizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna, 2015. L’ipotesi della mediazione come ‘risposta istituzionalizzata’, ossia elemento necessario di un percorso processuale di responsabilizzazione, è oggetto di dibattito in dottri- na; in merito a tale soluzione appare scettico PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2016, p. 664; di opinione opposta DONINI, La situazione spirituale della ricerca giuridica penalistica. Profili di diritto sostanziale, in Cass. pen., 5/2016, p. 1856. 59 Di recente, VISCONTI A., Contenuti ‘informativi’ della sanzione penale e coe- renza del ‘sistema’, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, Verità del precetto e della sanzione penale, cit., pp. 445 ss.   230 Tra sentimenti ed eguale rispetto ne della lettura in udienza di un dispositivo munito di una speciale narrativa, da cui traspaia – con formulazioni più estese ed efficaci del- l’ordinario – la disapprovazione dell’ordinamento all’indirizzo del- l’autore delle espressioni negazioniste, al quale ricollegare, ove possi- bile, una sanzione accessoria di natura inibitoria/interdittiva e la pub- blicazione della sentenza di condanna? Una pena/giudizio, dal caratte- re accentuatamente didascalico e “simbolico” per rispondere al “dia- bolico” del negare, volta a rendere il dispositivo una sorta di sanzione veritativa che renda giustizia, oltre all’esistenza delle camere a gas e dei forni crematori, all’esperienza della discriminazione e al senso di umanità. In tal modo, al contro-logos dell’annientamento, agito dai negazionisti, verrebbe opposto, con la solennità delle forme del pro- cesso penale, un potere di nominazione che, sancendo il limite, il con- fine tra libertà di espressione e abuso della possibilità di offendere, impedisce che l’ultima parola sia di menzogna» 60. Anche in questo caso sullo sfondo delle argomentazioni si pone un modo di pensare al potenziale simbolico del precetto come risorsa positiva 61 che può contribuire a una responsabilizzazione non trami- te il consueto binario repressivo, ma impegnandosi a contrastare de- terminate forme di discorso pubblico sul terreno comunicativo, senza cadere in eccessi punitivi che si esporrebbero a obiezioni sul piano della proporzionalità. Per quanto si tratti di posizioni che in definitiva avallano la pro- spettiva di interventi penali quale forma di contrasto alla diffusione di determinati contenuti di pensiero, collocarle sotto il segno di un trend repressivo sarebbe a nostro avviso un’approssimazione che non rende giustizia alla profondità delle opinioni espresse. La sanzione, 60 CAPUTO, La ‘Menzogna di Auschwitz’, cit., p. 325. Netta è la presa di distanza di DI MARTINO, Assassini della memoria: strategie argomentative in tema di rilevan- za (penale) del negazionismo, in AA.VV., a cura di Cocco, Per un manifesto del neoilluminismo penale, Padova, 2016, p. 211, il quale definisce «Meno convincen- te, anzi deleteria [...] la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza: essa finirebbe con l’offrire ancora l’arena che i negazionisti desiderano, trasmet- tere l’idea del martirio, risultare paradossalmente co-funzionale all’offesa: conse- guenze, queste, suscettibili di controbilanciare pesantemente il perseguito effetto di stigmatizzazione». 61 «Ben vengano, dunque, caveat e ammonimenti sui pericoli di strumentaliz- zazione dei singoli per bisogni di utilità sociale, purché non si finisca per disco- noscere, tra i caratteri della norma penale, il connotato di profonda stigmatizza- zione di un fatto, di affilato giudizio etico-sociale, e un’attitudine a sollecitare, più di ogni altra norma, l’attenzione diffusa per i valori tutelati e la conseguente di- sapprovazione sociale per l’offesa che li riguardi», v. CAPUTO, La ‘Menzogna di Au- schwitz’, cit., p. 296.   Dilemmi 231 pur restando contrassegno formale della norma penale, viene rivesti- ta con fogge che ne mutano la natura prettamente afflittiva per dare luogo a forme ‘narrativo-pedagogiche’ tese a potenziare la dimensio- ne contenutistica e comunicativa del precetto. Non si può a nostro avviso parlare di una vera e propria opzione a favore della soluzione penalistica dei conflitti, quantomeno ove si in- tenda il diritto penale nel senso tradizionalmente sanzionocentrico 62. In realtà, le suddette proposte ci sembrano da inscrivere all’in- terno di un più complesso movimento di pensiero, quale ricerca di percorsi che diano pratica attuazione a quella che per ora sembra ancora rimanere solo una massima elaborata dalla dottrina, ossia che la ragione del penale non è, solo, l’inflizione della pena: «sul piano delle norme, la ragione del penale è l’osservanza dei precetti» 63. Quale corollario alle riflessioni sul ruolo pedagogico dei precetti, riteniamo importante dar conto di uno studio che il giurista statuni- tense Fredrick Schauer ha dedicato al tema della forza del diritto, e in particolare al legame fra diritto e forza: si tratta di un indissolubile nesso di implicazione reciproca o è immaginabile un diritto senza coercizione? L’interrogativo porta in luce una questione fondamentale anche (soprattutto) per il giurista penale. Va detto anticipatamente che lo studio di Schauer non giunge a esiti ‘sconvolgenti’, in quanto la con- clusione non è nel segno di una superfluità del momento coercitivo; individua però importanti argomenti a confutazione del fatto che la coercizione e le sanzioni debbano essere al centro dell’idea di diritto. Bisogna distinguere due profili: il primo di tipo concettuale, il secon- do di tipo empirico. Dal punto di vista concettuale, Schauer sostiene che l’esistenza dell’obbligo giuridico sia logicamente distinta dalla sanzione, e l’in- teriorizzazione di un obbligo non accompagnato da sanzione sia pos- sibile64. Se però ci si sposta sul piano dei riscontri empirici e ci si chiede se la gente obbedisca, o sarebbe disposta a obbedire, a un di- 62 Per una critica all’atteggiamento sanzionocentrico, che cioè assume la pena come «principale e ineluttabile ‘dimensione di senso’ cui orientare la [...] attività di elaborazione concettuale», e la controproposta di prediligere una riflessione «guidat[a] dalla ‘precomprensione’ che la pena non è lo scontato punto di parten- za e di arrivo, ma è e non può non essere il problema (iniziale e finale) che pone le domande fondamentali», v. FIANDACA, Rocco: è plausibile una de-specializza- zione della scienza penalistica?, in Criminalia, 2010, pp. 202 ss. 63 PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, cit., p. 656. 64 SCHAUER, La forza del diritto, tr. it., Milano-Udine, 2016, pp. 85 ss.   232 Tra sentimenti ed eguale rispetto ritto privo di sanzioni il problema diviene più articolato; vi sono studi di psicologia sociale che affermano che, in assenza di sanzioni, il li- vello di obbedienza alle leggi con cui le persone dissentono è alquan- to basso 65. Ora, se da un lato ciò conferma che un apparato coercitivo resta importante per assicurare effettività al diritto, Schauer invita però a considerare che una statuizione giuridica dispiega comunque effetti, anche quando il diritto si trovi a fare da ‘apripista’ culturale: «Sarebbe ingenuo credere, senza una prova evidente, che una sempli- ce modifica legislativa possa ottenere un alto livello di obbedienza senza il supporto della coercizione e di sanzioni di vario genere. Ma le dinamiche psicologiche e sociologiche sono complesse. La semplice approvazione di un divieto giuridico, solo perché enunciato dal dirit- to, può indurre sia un cambiamento di attitudine che di comporta- mento» 66. L’Autore prosegue osservando che tale cambiamento sarà più fa- cilmente verificabile in relazione ad argomenti su cui i cittadini non hanno un’opinione consolidata piuttosto che su temi oggetto di divi- sione; nondimeno, anche in assenza di vere e proprie sanzioni 67 il di- ritto può avere il potere di modificare comportamenti sociali 68. Senza addentrarci ulteriormente nel denso scritto di Schauer, ci sembra che tali osservazioni rappresentino un input sufficiente per guardare al diritto, e in particolare al diritto penale, anche come strumento che tramite i precetti, piuttosto che con le sanzioni, può contribuire a veicolare un messaggio di forte disapprovazione. Diritto penale ‘simbolico’? È innegabile che si avverta più di una remora ad avallare questa discussa formula; il termine ‘simbolico’ as- sociato al penale suscita una condivisibile diffidenza, ma non si può negare che «[l]’aspetto simbolico, che pure è terreno di pericolose (o inutili) deformazioni del sistema penale, è un aspetto non trascurabi- le per una efficace comunicazione politica, anche a livello legislati- vo» 69. 65 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 123. 66 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 185; sul tema, più diffusamente, v. MCA- DAMS, The Expressive Powers of Law. Theories and Limits, Harvard, 2015. 67 Per la precisazione del concetto v. SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 218. 68 SCHAUER, La forza del diritto, cit., p. 247. 69 PULITANÒ, La cultura giuridica e la fabbrica delle leggi, in www.penalecontem- poraneo.it, 10/2015, p. 10; in termini adesivi a tale posizione v. FORTI, Le tinte forti   Dilemmi 233 Ebbene, il disagio connesso all’opzione sanzionatorio-detentiva quale eventuale risposta penale in tema di libertà di espressione, in- duce a chiedersi se la dimensione simbolica possa assurgere anche al rango di ‘funzione primaria’, tramite norme costruite in modo da re- legare la restrizione di libertà a semplice minaccia disinnescabile in virtù di percorsi alternativi per il reo, o, in termini più radicali, tra- mite un aggiornamento del catalogo delle pene principali che intro- duca nuove forme di stigmatizzazione dotate di una specifica effica- cia sul piano comunicativo, come ipotizzato dai contributi preceden- temente menzionati. Si tratta, com’è evidente, di percorsi innovativi la cui complessità esigerebbe un’analisi distinta rispetto ai nuclei tematici del presente lavoro. Riteniamo però che non sia irrealistico pensare al giudizio pena- le anche quale luogo di confronto e rettifica in un contesto di dialet- tica ‘sorvegliata’, funzionale a far emergere e a dichiarare i profili di disvalore di determinate espressioni attraverso la sottolineatura in sede pubblica del carattere intrinsecamente fallace o della grossola- na offensività dell’eguale rispetto, magari avvalendosi del contribu- to di esperti che ne analizzino la portata sul piano sociologico e psi- cologico 70. Siamo al confine estremo della legittimità dell’intervento penale: problemi di eccezionale delimitazione di una libertà che in linea di principio è anche di libertà di ferire, e che per questo suo potere può tuttavia rendere opportuna una responsabilizzazione, la quale non do- vrebbe tracimare in censura autoritaria, bensì dovrebbe essere fina- lizzata a un’eventuale declaratoria di responsabilità concepita come del dissenso, cit., p. 1060. Sembra essersi affievolita l’ostilità della dottrina per la funzione simbolica, rivalutando in tal senso proprio quella ‘finalizzazione enun- ciativa’ che era stata fortemente stigmatizzata in sede di prima lettura della nor- mativa sulla repressione penale delle condotte di discriminazione, v. STORTONI, Le nuove norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto, 1994, p. 14. Sul tema dell’uso simbolico del diritto penale, v. per tutti, nella letteratura ita- liana, v. BONINI, Quali spazi per una funzione simbolica del diritto penale?, in Indi- ce penale, 2003, pp. 491 ss. 70 Richard Abel ha parlato di ‘trattamento informale delle dispute’ per indicare il modo in cui la comunità dovrebbe reagire ai danni della parola, in un procedi- mento che sembra voler evitare il ricorso al potere coercitivo ma che appare non- dimeno fondato su una proceduta normativizzata: si parla di una ‘conversazione istituzionalizzata’ ma informale fra vittima e offensore, nel quale quest’ultimo deve «riconoscere la norma, ammetterne la violazione ed accettarne la responsa- bilità», nella convinzione che un simile scambio sociale di rispetto possa neutra- lizzare l’insulto, ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 128 ss.   234 Tra sentimenti ed eguale rispetto confutazione delle espressioni proferite dal reo, cercando dunque di disinnescarne il potenziale offensivo sul piano dei contenuti 71. Di primo acchito tale prospettiva potrebbe apparire come una sor- ta di ‘tribunale delle opinioni’, esposto al rischio di torsioni illiberali; tale obiezione, è però ben applicabile anche all’attuale situazione or- dinamentale. Di fatto il sindacato su forme di espressione è presente anche oggi: un giudizio su opinioni il quale risulta prevalentemente affidato alla sensibilità culturale del giudicante, senza potersi sottrar- re alle relative precomprensioni. Si tratta di un procedimento molto delicato poiché, come osserva Judith Butler, l’uso che lo Stato, attra- verso il potere delle sentenza, fa del linguaggio offensivo e discrimi- natorio dà luogo a una ripetizione dello stesso, contribuendo, pur con finalità differenti, a una sua reiterazione 72. Nondimeno: 71 Prendiamo atto della critica formulata da DI MARTINO, Assassini della memo- ria, cit., p. 193: «l’idea della pena-giudizio in quanto tale è intrinsecamente pro- blematica. La paternale didascalica finisce con l’essere risibile di fronte ai delin- quenti per convinzione ed ai fanatici; ed è una ipocrita autoassoluzione dell’or- dinamento per le omissioni od i fallimenti delle sue agenzie educative, di fronte ai miserandi frustrati, reietti e falliti». La sfiducia verso una prospettiva ‘rieducativa’ può essere anche condivisa, ma, più radicalmente, va osservato che l’eventuale approntamento di sanzioni di tipo ‘espressivo-pedagogico’ non dovrebbe essere letto in una prospettiva di prevenzione speciale, bensì quale strumento di preven- zione generale positiva; la ‘risibilità’, che assumiamo come impossibilità fattuale di indurre un cambiamento di opinione, è un aspetto comunque secondario poi- ché l’obiettivo del diritto, nel rispetto della libertà morale della persona anche quando ‘delinquente per convinzione’ o ‘fanatico’, non è indurre un cambiamento di opinione coattivo nel reo. Non condividiamo però l’afflato rinunciatario il qua- le rischia di condurre a un vero e proprio vicolo cieco, e significherebbe consenti- re che davvero l’ultima parola sia di menzogna, o di insulto, o di umiliazione. Pur essendo sostenitori di uno spazio comunicativo libero e aperto, facciamo fatica a immaginare il diritto spettatore del tutto inerte di fronte al potere performativo delle parole, soprattutto in tempi in cui l’indominabilità delle capacità di diffu- sione dei messaggi dovrebbe rendere più accorti nel formulare prognosi di perico- losità. Un terreno comunque scivoloso e che necessita di attente riflessioni, senza nutrire eccessiva fiducia nello strumento normativo, ma anche senza restare av- vinti in un disincanto rinunciatario che amplificherebbe le asserite mancanze del- le agenzie educative primarie. 72 Si osserva provocatoriamente che «è la decisione dello Stato, l’enunciazione ratificata dallo Stato, che produce (produce ma non causa) l’atto dello hate speech», v. BUTLER, Parole che provocano. Per una politica del performativo, tr. it., Milano, 2010, p. 137. L’atto di ‘produzione’ a cui si riferisce la BUTLER riguarda il fatto che prima che una sentenza definisca come hate speech delle semplici paro- le, queste non erano hate speech; più che una vera e propria produzione sembra potersi intendere come effetto del potere di nominazione. La stessa BUTLER spe- cifica successivamente che le parole che lo Stato adopera per emettere una sen-   Dilemmi 235 «Nessuno ha mai elaborato un’ingiuria senza ripeterla: la sua reitera- zione rappresenta sia la continuazione del trauma sia ciò che segna una presa di distanza all’interno della struttura stessa del trauma, la sua possibilità costitutiva di essere qualcosa di diverso. Non c’è possi- bilità di non ripetere. La sola questione che rimane aperta è: come av- verrà quella ripetizione, in quale sede – giuridica o non giuridica – e con quale dolore e quali speranze?» 73. Una questione aperta e complessa, la quale carica di responsabilità il momento giudiziario e la produzione narrativa del giudice. Dovendo fare i conti con la reimmissione in circolo di parole offensive, ritenia- mo che sarebbe opportuno riflettere su forme di ritualità che possano dare un valido supporto epistemico all’autorità giudiziale, contribuen- do a dare la giusta rilevanza e il necessario approfondimento all’erme- neutica del fatto, con l’auspicio di trasformare il processo in un mo- mento anche educativo e di apprendimento. Da penalisti, e dunque da studiosi delle possibilità negative del- l’umano, ci sembra doveroso interrogarci sul ruolo che lo strumento penale potrebbe eventualmente assumere in una prospettiva di cura degli equilibri di rispetto, cercando di privilegiare non la dimensione interdittiva e censoria ma facendo leva sulle potenzialità di quello che, tra le diverse manifestazioni del giuridico, rappresenta, piaccia o non piaccia, il più formidabile, e terribile, ‘marcatore etico’. 4. Sinossi Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive. Il progetto normativo definito ‘tutela di sentimenti’ può essere scorporato in due distinte traiettorie. La prima, definibile come ‘cura dei sentimenti’, è da intendersi come promozione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco rispetto. La seconda, definibile ‘tutela da sentimenti’, può identificarsi co- tenza sullo hate speech non sono certo la stessa cosa del discorso pronunciato dai soggetti di cui si sta giudicando la posizione; nondimeno, le due cose appaiono «indissociabili in maniera specifica e consequenziale»; cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 99.  73 BUTLER, Parole che provocano, cit., p. 147.  236 Tra sentimenti ed eguale rispetto me strategia politica di contrasto a spinte emozionali negative, l’odio in primis, ma non solo. Più in generale, ciò che definiamo come ‘tute- la da sentimenti’ rappresenta un’istanza funzionale alla messa a tema di profili inerenti la dimensione psico-sociale delle matrici dei dis- sensi, e dunque all’approfondimento delle concezioni antropologiche che guidano la riflessione penalistica. Obiettivo di fondo è addivenire a una visione meno astratta e disincarnata del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti. Tale atteggiamento di ‘realismo antropologico’ tende oggi a emergere anche nella dottrina penalistica. Riguardo il tema dei limiti penalistici alla libertà di espressione e ai problemi dell’eguale e reciproco rispetto, i penalisti mostrano un atteggiamento meno ‘concettualistico’ rispetto al passato; emergono posizioni di cauta apertura alla prospettiva di interventi normativi, modellati sul distacco da prospettive eminentemente sanzionatorie e fondati sulla valorizzazione del simbolismo positivo del precetto.  OSSERVAZIONI FINALI «[...] la mentalità sociale è in movimento, ciò che prima si diceva gratis oggi ha un costo etico, [...] ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono nuo- vi problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo» SERRA M., Amaca, Repubblica 27 gennaio 2016 SOMMARIO: 1. Bilanci e prospettive. – 1.1. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze. – 1.2. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della dignità del creden- te. – 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole. 1. Bilanci e prospettive Recuperiamo l’interrogativo di fondo da cui è partita la presente indagine, ossia se il diritto penale di una moderna democrazia libera- le possa essere invocato a tutela di sentimenti. La tentazione di opporre un assoluto, per quanto benintenzionato diniego, appare destinata a scontrarsi con un maturo senso di realtà. Beninteso, non stiamo in questo modo cercando di assegnare fretto- lose patenti di legittimità a una delle più controverse modalità di esplicazione dell’intervento penale, ma riteniamo che nell’analisi del problema si debba cercare di andare oltre le etichette retoriche, senza farsi abbagliare né in positivo né in negativo dalla ambigua parola ‘sentimento’. Il percorso compiuto finora riteniamo abbia mostrato come un’asserzione netta, sia in termini affermativi sia in termini negativi, peccherebbe per approssimazione. Sarebbe dunque più opportuno partire da una più articolata formulazione dell’interrogativo: in rela- zione a quali fenomeni e in quali accezioni, al di là delle scelte dei le- gislatori storici, sentimenti ed emozioni possono essere ragionevol- mente evocati quali elementi costitutivi e/o integrativi nella descri- zione dell’oggetto di tutela penale?  238 Tra sentimenti ed eguale rispetto Le incrostazioni di matrice collettivistica, che nel contesto italiano hanno ammantato gli interessi definiti dai legislatori ‘sentimenti’, hanno contribuito ad acutizzare, in modo giustificato, la diffidenza della dottrina penalistica di stampo liberale. Il senso di un nuova tematizzazione del sentimento quale problema di tutela deve essere in primo luogo funzionale a svincolare dalle ‘col- lettivizzazioni normative’ un fenomeno legato all’interiorità dell’indivi- duo e che invece si è prestato, con evidente slittamento di significato, a divenire veicolo di incriminazioni di stampo moralistico-identitario. Riteniamo che debba essere presa in considerazione, quale ulte- riore sfaccettatura, una dimensione di significato che valorizzi la proiezione universalistica e, per certi versi egualitaria, dei fenomeni affettivi: sentimenti ed emozioni come ‘addentellato fenomenico’ di una dotazione universalmente condivisa dagli esseri umani. In base a quest’ultima prospettiva, declinare determinate questio- ni di interesse penalistico, come ad esempio i rapporti fra manifesta- zioni espressive e sensibilità, anche come problema di sentimenti acutizza i dilemmi, poiché il sentimento non può esser limitato all’eventuale, problematica, identificazione con l’interesse di una sola delle parti, col rischio di modulare eventuali, ipotetici, interventi normativi sulle cadenze di uno sterile rivendicazionismo psicologico soggettivo. Il risvolto di reciprocità egualitaria assume il significato di una pretesa ‘responsabilizzante’ nei confronti di tutti individui, quale do- verosa, e in primo luogo spontanea, autolimitazione: «Se ognuno ha diritto alla propria narrazione individuale, ugualmente non può, in nome dei propri sentimenti, dichiararla “intoccabile”, af- fermarla come pretesa di verità assoluta e non metterla in discussione e confrontarla con quella degli altri» 1. È nella distinzione tra ethos ed etica che si inquadra uno dei fon- damentali tratti costitutivi del pluralismo: ethos come ordine valoriale costitutivo del singolo, ed etica come limite che tutti i diversi ethe de- vono osservare, nel rispetto di «ciò che è dovuto da ciascuno a tutti [...] Lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» 2, secondo dinamiche di simmetrica reciprocità che uni- scono profili di diversità fattuale e accenti di doverosità normativa. 1 TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, cit., p. 20. 2 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 153.   Osservazioni finali 239 La focalizzazione sul problema di un eguale e reciproco rispetto porta a emersione la duplice prospettiva di una tutela di sentimenti intesa come ‘cura’ del sentire individuale e collettivo, e come forma di contrasto a espressioni tese al disconoscimento dell’altro. Nell’atto di formulare delle osservazioni finali al presente lavoro emerge l’esigenza di distinguere fra linee di politica legislativa di va- lenza generale e spunti più dettagliati che richiedono di essere circo- scritti a singoli campi di materia. Il problema della tutela di senti- menti non può essere fatto confluire in un unico prospetto di model- lizzazione normativa, ma necessita di essere affrontato attraverso percorsi differenti: solo in rapporto al profilo della ‘cura’ si possono a nostro avviso proporre delle linee generali, mentre il tema, più stret- tamente penalistico, della tutela da sentimenti richiede di essere più attentamente contestualizzato. 1.1. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze Come abbiamo già specificato, il rapporto fra ‘cura’ e ‘tutela da’ è di complementarietà, per quanto sia la ‘cura’ a definire la declinazio- ne primaria del problema di tutela. La dimensione ‘ostativa’, ossia quella della ‘tutela da’, resta una parte residuale e strumentale al profilo della ‘cura’, finalizzata even- tualmente ed esclusivamente, al mantenimento di equilibri. Obiettivo di fondo, probabilmente non raggiungibile mediante il solo strumen- to giuridico, resta quello di un’adeguata formazione del sentire degli individui, intesa come capacità di rapportarsi all’altro nelle forme dell’ascolto, del confronto e anche della critica, da contestualizzarsi in un’arena polifonica aperta alla pluralità, poiché «di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto sarà, da un la- to, il sentimento delle differenze e delle priorità» 3. Il ruolo delle agenzie educative diviene in questo senso cruciale, a partire dalle istituzioni scolastiche 4: «l’arricchimento della giustizia da una condizione essenzialmente normativa a una condizione etica è [...] l’esito (un’aspirazione più che un traguardo certo) di un lavoro lungo e 3 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 169. 4 Si veda ad esempio la pubblicazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Abc: Teaching Human Rights – Practical Activities for Primary and Secondary Schools, pp. 19 ss., disponibile in http://www.ineesite.org/- en/resources/abc_teaching_human_rights_-_practical_activities_for_primary_and_se- condary.   240 Tra sentimenti ed eguale rispetto lento di educazione dei sentimenti, al quale partecipano le istituzioni politiche e quelle sociali, la vita pubblica e quella privata» 5. Qual è il messaggio di fondo che dovrebbe essere veicolato quale coordinata etica di una cura dei sentimenti? L’atteggiamento che ragionevolmente si pone a monte del recipro- co rispetto è la capacità di immedesimazione 6 e soprattutto di usare l’immedesimazione in modo da includere la differenza. In altri termini, «il rispetto basato sull’idea di dignità umana risulterà insufficiente a includere tutti i cittadini in termini di uguaglianza, a me- no che non sia nutrito da uno sforzo immaginativo nei confronti della vita degli altri e da una comprensione più intima della loro piena e co- mune umanità» 7. Ritorna anche in questo caso l’esigenza di non ridurre la dignità umana a un simulacro dispotico declinato in termini deonto- logici, bensì a modularne l’essenza su cadenze il più possibile inclusive. L’attenzione alle differenze può maturare attraverso percorsi di crescita emotiva finalizzati a migliorare la capacità di apertura al- l’altro 8, soprattutto ove si riesca a riconoscere e a dominare un’emo- zione che è tanto tremendamente umana quanto problematica nelle dinamiche di una società pluralista: la paura. La funzione primordia- le della paura è la difesa dell’essere umano da fonti di pericolo, ma la sua attuale variante sociale e adattiva (v. supra, cap. IV) corrisponde a un’emozione repulsiva e narcisistica, che si declina come una «pre- occupazione offuscante [e] un’intensa concentrazione su di sé che getta gli altri nell’ombra» 9. 5 URBINATI, Liberi e uguali, cit., p. 121. L’Autrice rimarca che tale passaggio è propriamente ciò che denota la cultura dell’individualismo democratico. 6 Richiamiamo il tema dell’empatia, soprattutto in relazione al suo valore etico per la vita di relazione: v., per tutti, BOELLA, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, 2006, pp. 53 ss., 87 ss. 7 NUSSBAUM, Emozioni politiche, cit., p. 455. 8 Riteniamo sia da accogliere positivamente l’iniziativa del Governo italiano che il 27 ottobre 2017 ha presentato, per voce della Ministra dell’Istruzione, il ‘Piano nazionale per l’educazione al rispetto’, ossia un progetto teso a introdurre nella formazione scolastica momenti di apprendimento per «promuovere nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado un insieme di azioni educative e for- mative volte ad assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche, che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadi- nanza attiva e globale» e per «promuover[e] azioni specifiche per un uso consa- pevole del linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con l’obiettivo di arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei pregiudizi, coinvol- gendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le famiglie».  9 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 67.  Osservazioni finali 241 Si pone dunque l’esigenza di non cedere alle chiusure indotte dalla paura, al fine di «adottare uno sguardo diverso, che dia rilevanza a mentalità, valori, idee, convinzioni e sensibilità culturali capaci di conferire significati inediti alle nostre paure» 10. In uno studio dedicato all’intolleranza come effetto della paura dell’altro, Martha Nussbaum afferma che l’eguale e reciproco rispetto richiede lo sviluppo dei cosiddetti ‘occhi interni’, ossia dello sguardo immaginativo, non corporeo, che consente di vedere l’altro 11: è preci- samente ciò che manca nell’odio, dove il sentire è cieco12 davanti all’individualità altrui. La promozione di un orizzonte di rispetto si gioca in primo luogo a un livello che ha a che fare con lo sviluppo di tale profondità di sguardo e di immaginazione: per rispettare l’altro bisogna ‘sentirlo’ 13, attraverso capacità di apertura, di ascolto, di discernimento. 1.2. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della di- gnità del credente Venendo al profilo più strettamente penalistico, un primo bilancio può essere stilato in relazione al panorama normativo italiano vigen- te. L’impressione è che nel complesso il lavoro di rielaborazione con- cettuale e di riassetto etico compiuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina abbia condotto a norme il cui coefficiente di compatibilità con le libertà costituzionali è tutto sommato accettabile. Come già osservato, non appare possibile in questa sede procedere all’enucleazione di prospettive de jure condendo calibrate su ogni sin- golo ambito in cui il codice fa riferimento a ‘sentimenti’ come oggetto di tutela. Ci limitiamo a prendere in analisi il settore in cui, a nostro avviso, 10 CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, cit., p. 204. 11 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 69. 12 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 254. 13 In questo senso la dimensione della ‘cura’ si proietta verso un rispetto non meramente ‘passivo’, bensì guarda anche, soprattutto, a un rispetto ‘attivo’. Con la prima accezione si indica un atteggiamento di astensione dall’ostilità e dalla vio- lenza; il rispetto ‘attivo’ si traduce in qualcosa di più: «un’attenzione [...] per i bi- sogni, le esigenze, gli obiettivi e anche i progetti esistenziali delle persone, il rico- noscimento del fatto che esse attribuiscono valore a qualcosa che sta loro a cuore e che intendono realizzare», v. MORDACCI, Rispetto, cit., p. 34.   242 Tra sentimenti ed eguale rispetto emerge maggiormente l’esigenza di procedere a una disambiguazione tra forme di intervento a tutela della sensibilità e presidi contro di- scorsi discriminatori. In quest’ottica l’impianto dei reati a tutela del sentimento religioso presenta delle criticità che si addensano nella portata applicativa del- l’art. 403 c.p., ossia l’offesa a una confessione religiosa mediante vili- pendio di persone. Partiamo dal presupposto che sia ragionevole che lo stato laico tu- teli lo spazio umano-personale e sociale in cui si dispiega la dimen- sione religiosa dell’individuo 14: il problema è con quali modalità. Una delle più acute posizioni a difesa della tutela del sentimento religioso osserva che «discussione non è offesa. A maggior ragione quando il bene tutelato diventa [...] la dignità e la personalità dell’essere umano sotto lo specifico profilo della dimensione religiosa», e formula con- seguentemente la propria proposta normativa, a superamento delle attuali disposizioni, elaborando una fattispecie che incrimina «i com- portamenti o le espressioni oltraggiose tenuti in pubblico [...] che le- dono intenzionalmente la dignità delle persone a causa delle loro convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza» 15. Ebbene, concordiamo con le ragioni di fondo di tale proposta, la quale ci sembra coerente con l’intenzione di circoscrivere l’impianto di tutela alla dignità della persona e non al prestigio e al patrimonio ideologico della confessione 16. Resta a nostro avviso il dubbio se sia opportuno mantenere una disposizione dedicata al fenomeno religioso, la quale potrebbe espor- si al rischio di assumere nuovamente le vesti di incriminazione sur- rogatoria del vilipendio17, come del resto oggi sembra capitare per l’art. 403 c.p., il quale tende a estendersi all’insulto alla confessione 14 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., p. 111. 15 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., pp. 117, 128. 16 La proposta di norma parla di ‘Offese alla libertà religiosa’, ma il richiamo alla dignità ‘a causa delle convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza’ sem- brerebbe aprire anche alla tutela della dignità del non credente. Su tale ultima prospettiva si veda, anche per richiami comparatistici, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 126 ss. 17 Benché non compaia il termine ‘vilipendio’, anche il modello di norma ipo- tizzato dalla Mazzucato parla, con formula rischiosa, di «comportamenti o [...] espressioni oltraggiose tenuti in pubblico, anche rivolti a cose che formino ogget- to di culto o siano consacrate al culto». Ad un’attenta lettura, l’emancipazione dal modello del vilipendio della confessione emerge però dalla traiettoria dell’offesa, la quale deve «[ledere] intenzionalmente la dignità delle persone», v. MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, cit., p. 128.   Osservazioni finali 243 piuttosto che limitarsi a sanzionare l’offesa alla persona 18. A nostro avviso, un riassetto e, soprattutto, una decisa disambigua- zione della linea di intervento penale potrebbe aversi attraverso un’abrogazione secca dell’art. 403 c.p., accompagnato da una parallela modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975 che estenda ai motivi re- ligiosi il tipo di discorso discriminatorio suscettibile di assumere rile- vanza penale, secondo una formula che incrimini «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso» 19. Ciò non porterebbe, ci sembra, ad alcun vuoto di tutela: si tratte- 18 Vedi supra, cap. V, sezione II, paragrafo 7.1. Anche partendo dal presupposto che la libertà di espressione non sia assoluta, ma incontri limiti espressamente rico- nosciuti dall’ordinamento interno e anche da fonti sovranazionali, incriminare una manifestazione del pensiero consistente nel ‘tenere a vile’, e dunque nel formulare critiche anche sferzanti e in grado di ferire la sensibilità del credente, è esposta al rischio di tracimare in una forma di illegittima compressione della libertà di critica e di satira; come osserva SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12, il vilipendio del credente è costantemente a rischio di trasformarsi in «vilipendio teolo- gale, più prossimo alla iper-sensibilità del credente rispetto al contenuto della verità di fede, al rigore della sua Autorità religiosa contro le critiche (anche satiriche) rivol- te a danno della Divinità, dei suoi simboli e dei suoi ministri di culto». Si è osservato criticamente che ipotetiche interpretazioni estensive della norma sul vilipendio ex art. 403 c.p., alla luce del dettato codicistico post riforma 2006, e dunque nel segno dell’uguaglianza fra confessioni religiose, sono da ritenersi applicabili anche alla tu- tela di religioni come l’Islam: un esito definito «non nello spirito dei tempi» da PULI- TANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, cit., p. 246, plausibilmente per eviden- ziare come l’estensione della tutela, doverosa in quanto sancita dal principio di uguaglianza, rischi di introdurre uno strumento giuridico invasivo a disposizione di fedeli di religioni particolarmente suscettibili. Esprime contrarietà rispetto all’ipotesi di un presidio penale specifico del fenomeno religioso VISCONTI C., La tutela penale, cit., pp. 1066 s.; si pone a favore di una tutela incentrata sulle fattispecie comuni, senza necessità di norme ad hoc sulla religione, anche MANTOVANI M., L’oggetto tute- lato nelle fattispecie penali in materia di religione, in AA.VV., a cura di De Francesco- Piemontese-Venafro, Religione e religioni, cit., p. 253. Per una posizione favorevole al mantenimento del vilipendio, considerato «prototipo dell’insulto all’atteggiamento individuale verso il problema religioso», v. STELLA, Il nuovo Concordato fra l’Italia e la Santa Sede: riflessi di diritto penale, in Jus, 1989, p. 103. 19 Per un’analisi dei modelli di tutela imperniati sulla persona del credente e che si identificano nel paradigma dello hate speech, v. CIANITTO, Quando la parola ferisce, cit., pp. 28 ss., 65 ss. Si veda in particolare il caso della Gran Bretagna, Paese nel quale non esiste più l’incriminazione per la condotta di Blasphemy (abo- lita nel 2008), e che ha introdotto nel 2006 (Racial and Religious Hatred Act) una fattispecie di reato che incrimina le manifestazioni di incitamento all’odio religio- so, v. EAD., Quando la parola ferisce, cit., pp. 168 ss.; GIANFREDA, La blasphemy nell’ordinamento inglese di Common Law e la tutela penale della “religione”: pro- blemi aperti e nuove prospettive, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese- Venafro, Religione e religioni, cit., pp. 403 ss.   244 Tra sentimenti ed eguale rispetto rebbe di una più netta ridefinizione di confini tra fattispecie, senza intaccare la soglia ‘inferiore’ dell’intervento penale (il nucleo duro delle offese alla persona e alla sua dignità), lasciando univocamente al di fuori offese limitate al piano ideologico, e incentrando l’inter- vento su espressioni discriminatorie basate su motivi religiosi 20. Da un lato le offese al singolo potrebbero assumere rilevanza co- me delitti contro l’onore (oggi, dopo l’abrogazione dell’ingiuria, resi- duerebbe la sola diffamazione), eventualmente aggravati ai sensi del- l’art. 3 del d.l. n. 122/1993 (aggravante relativa alle finalità di discri- minazione); dall’altro lato, l’orizzonte del discorso pubblico in mate- ria di critica e satira religiosa si troverebbe affrancato dall’incom- bente censura del vilipendio, fermo restando il limite, comunque pro- blematico ma ben più selettivo, di non tracimare in propaganda di- scriminatoria 21. Un impianto di tutela così strutturato consentirebbe a nostro avvi- so di mantenere aperto uno spazio di illiceità per forme di espressio- ne volte a negare la pari dignità del credente, le quali chiamano in gioco un profilo altamente significativo della condizione esistenziale umana come l’identità religiosa 22. Al contempo, la necessità di valu- 20 Si veda in questo senso il parere rilasciato dalla Commissione Europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. ‘Commissione Venezia’, organo consultivo del Consiglio d’Europa), nel quale si suggerisce agli Stati membri l’abrogazione delle leggi sulla blasfemia e il mantenimento di presidi basati sulle generiche norme che incriminano ingiuria e diffamazione e, soprattutto, sulle norme che incriminano la diffusione di idee fondate sull’odio religioso, v. Compilazione di pareri e rapporti della Commissione di Venezia riguardante la libertà d’espressione e i media, 19 settembre 2016, pp. 26 ss. 21 La strada della tutela antidiscriminatoria è additata anche da DONINI, “Dan- no” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1586, il quale sembra però aprire alla prospettiva di un’applicazione dei delitti contro la discriminazio- ne solo nei casi di incitamento alla discriminazione o ad atti discriminazione nei confronti di persone, lasciando fuori dal raggio dell’intervento penale le offese collettive che potrebbero, a nostro avviso, essere invece vagliate come eventuali forme di propaganda razzista, previa opportuna modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975. Richiama la prospettiva di una tutela tramite le norme antidiscri- minazione proprio al fine di tutelare anche i gruppi, e non solo i singoli, MAZZOLA, Diritto penale e libertà religiosa dopo le sentenze della Corte costituzionale, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2005, p. 89; cfr. PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 165 ss. 22 Nella dottrina penalistica italiana l’autorevole e cristallina posizione di ROMA- NO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 215 a sostegno di un presidio penale speci- fico per le religioni si basa su argomenti i quali possono, a nostro avviso, essere re- cuperati anche nella prospettiva da noi delineata. Secondo Romano, la non inop- portunità dell’intervento penale deriva dall’esigenza di mantenere all’interno del si-   Osservazioni finali 245 tare l’illiceità attraverso lo stretto filtro dell’incriminazione della pro- paganda discriminatoria potrebbe portare a un più cauto uso del di- ritto penale nei rapporti con la libertà di espressione e in particolare con la satira. Ci sembra questa una futuribile modifica che potrebbe contribuire a fissare in modo più definito spazi di libertà nella salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto che tenga conto del diritto liberale di critica e della necessaria distinzione con l’orizzonte della discriminazione. 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole Dietro il velo retorico dei sentimenti si pongono questioni di vitale importanza per la convivenza, non liquidabili dietro affrettate decla- ratorie di ‘irrazionalità’, e che richiedono un serio impegno in primo luogo nella prospettiva che abbiamo definito come ‘cura’. Resta aper- to, in via residuale, il problema di interventi limitativi delle libertà. Il giurista penale avverte il disagio di un’alternativa dilemmatica tra la fedeltà a principi di libertà e la ‘violazione’ che potrebbe scatu- rire dall’avallo di politiche di intervento; sì, perché di violazione si tratta in quanto un dilemma non ammette vie di fuga ma costringe, piaccia o non piaccia, ad accollarsi le conseguenze del cosiddetto ‘male minore’. Condividiamo l’atteggiamento combattuto che altre voci, ben più autorevoli, hanno confessato. Non lo diciamo semplicemente a no- stra discolpa, bensì a conferma della profondità del dilemma che ci attanaglia, nella convinzione che proclamare in questi casi un’asse- rita ‘soluzione’ rischi di sfociare in una hybris intellettuale, e che sia stema strumenti per marcare «l’essenziale differenza fra libertà di critica, anche in forme aspramente satiriche, e pura e semplice denigrazione o dileggio: differenza che deve modellarsi [...] su quanto comunemente accolto per le ingiurie rivolte ai singoli». Il richiamo all’offesa che caratterizza l’ingiuria contribuisce a connotare in termini personalistici l’interesse protetto, avvicinandolo univocamente alla, pur problematica, dimensione della dignità del credente. Fermo restando che le fatti- specie a tutela dell’onore restano comunque un presidio attivo per le offese ai singo- li, l’estensione dell'art. 3 della legge n. 654 del 1975 nella parte relativa alla propa- ganda si presterebbe, a nostro avviso, a perseguire l’auspicabile risultato teorizzato da Romano. Se intendiamo denigrazione o dileggio come forme di disconoscimento della pari dignità delle persone in quanto credenti in una determinata fede o visione del mondo, l’incriminazione della propaganda discriminatoria, debitamente estesa nella formulazione lessicale, può, a nostro avviso, assolvere in modo meno ambiguo dell’art. 403 c.p. ai predetti scopi di tutela.   246 Tra sentimenti ed eguale rispetto invece preferibile affrontare i problemi col dovuto rispetto per la complessità: «Un dilemma comporta un’oscillazione infinita; in quanto la nostra esperienza è teatro di continui dilemmi, la sua struttura è infinitamen- te provvisoria e le si fa torto ogniqualvolta si cerchi di rinchiuderla nello steccato di un arrogante e definitivo pronunciamento, nella su- perba convinzione di aver già sempre (prima che un qualsiasi proble- ma si ponga) visto giusto» 23. È comprensibile la tendenza a optare per la soluzione in grado di ‘lasciare in sospeso’ il più possibile le conseguenze di uno dei due ma- li, per evitare una violazione certa (delle libertà) nella speranza che il male alternativo non trovi realizzazione. Riteniamo che questa sia una possibile chiave di lettura, come ‘autorassicurazione psicologica’, di ciò che la filosofia ha definito ‘utilitarismo delle regole’, ossia l’at- teggiamento con cui si risponda all’incertezza di fronte a un conflitto cercando l’applicazione di una regola ritenuta giusta in quanto tale, quali che siano le conseguenze della sua applicazione 24, accettando il rischio di affidarsi a ragionamenti talvolta anche non adeguatamente orientati sul piano delle possibili conseguenze. Ed è altrettanto comprensibile che il cultore delle discipline pena- listiche, nella consapevolezza dei mali insiti nella coercizione, faccia il possibile per evitare di dare impulso e fornire ragioni allo strumen- to penale, cercando piuttosto di contenerne la pervasività. Vorremmo essere sicuri che la fede liberale ci porti nel giusto; ma un sano senso critico esorta a mettere in conto che potremmo anche aver torto. In linea di principio, sarebbero da evitare alcuni degli er- rori attribuiti a un pensiero irenisticamente liberale, che talvolta fini- sce per «esalta[re] la forma a discapito del contesto» 25, magari «eri- gendo steccati intellettualistici esibiti come fieri esercizi di democra- zia» 26. Quello che a nostro avviso va tenuto presente, e che parte della dottrina penalistica ha ben messo in luce, è il fatto che non vi sono risposte che possano considerarsi come esito indefettibile di un’ade- 23 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 78. 24 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 25 ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 107. 26 Così, efficacemente, BRUNELLI, Attorno alla punizione del negazionismo, cit., p. 998.   Osservazioni finali 247 sione ai principi liberali (quale tipo di liberalismo?) o come soluzione ricavabile ‘a rime obbligate’ dal testo costituzionale, ma ogni eventua- le prospettiva resta legata a opzioni politiche che vanno attentamente commisurate sia a criteri di legittimità sia a criteri di opportunità. La posta in gioco è estremamente significativa. La difesa dell’eser- cizio di una libertà del pensiero critico, aperto anche a manifestazio- ni ‘disturbanti’ 27 è ciò che identifica e distingue il nostro mondo libe- rale, pur con tutti i suoi difetti, dalle oscurità del fondamentalismo: non dobbiamo dimenticarlo. La costruzione di una campana di vetro al fine di garantire ‘im- munità emotiva’ agli individui suscettibili non può far parte dello strumentario giuridico di una democrazia liberale, la quale può (de- ve?) esigere dai cittadini responsabilizzazione e capacità di elabora- zione della limitata efficacia pratica delle proprie convinzioni, o, più icasticamente, «una certa dose di robustezza» 28. Si tratta in altri ter- mini di favorire l’interiorizzazione di un onere di tolleranza consi- stente nella consapevolezza di poter realizzare il proprio ethos «solo nei limiti di ciò che compete parimenti a tutti» 29. Il richiamo alla ‘robustezza’ vale sia come monito a non cadere in uno sterile e polemogeno ‘sentimentalismo vittimocentrico’, acriti- camente proclive ad avallare doglianze di animi suscettibili, ma costi- tuisce a nostro avviso anche un monito a non dare per scontata tale condizione di tenuta etica nelle persone, dovendosi mantenere l’oc- chio vigile e l’orecchio proteso a captare segnali in grado di mostrare le crepe prima che si arrivi a un collasso. È di tutta evidenza come nell’attuale momento storico le dinamiche del reciproco rispetto stiano subendo una particolare curvatura, proba- bilmente una deformazione, sia sul piano dei contenuti, sia sul piano dei canali espressivi. Rispetto al passato, anche recente, siamo oggi por- tati a constatare quasi quotidianamente, grazie ai (o a causa dei) media, condotte che sono dettate da atteggiamenti di repulsione dell’altro. Se è vero che rinvenirne la dannosità immediata risulta operazio- ne assai complessa, la quale molto difficilmente riesce a soddisfare appieno i filtri dell’armamentario concettuale penalistico, non può essere però escluso che volgere gli occhi al cielo, confidando sul fatto che lo spirito critico e gli ideali di tolleranza riescano ad avere la me- glio, possa rivelarsi un atteggiamento «totalmente alien[o] dai calcoli 27 PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 315. 28 HÖRNLE, Protezione penale di identità religiose?, cit., p. 381. 29 HABERMAS, Tra scienza e fede, tr. it., Roma-Bari, 2006, pp. 160 s.   248 Tra sentimenti ed eguale rispetto pazienti e minuziosi che sarebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione» 30. Tali riflessioni ci vengono suggerite dall’esigenza di non sottovalu- tare un repertorio ormai troppo consistente di fatti che rimandano a un passato non del tutto trascorso e con preoccupanti echi nel tempo presente. Le ragioni del diritto si intrecciano con un tessuto anche emozionale, il quale costantemente ci ricorda che il diritto è «priori- tariamente una risposta alla memoria del male, che esseri umani possono fare ad altri esseri umani» 31. Tenere ben ferma l’attenzione sui mondi umani e sulla realtà so- ciale è un impegno necessario per monitorare la qualità delle libertà in un contesto pluralista. Il diritto penale non rappresenta lo stru- mento più idoneo a svolgere una funzione promozionale 32, ma rite- niamo non debba essere aprioristicamente tacciato di vena illiberale il proposito di immaginare strumenti perché vi possa essere anche, eventualmente, un redde rationem sull’uso della libertà di espressione, non quale forma di soffocamento ma quale chiamata a dare spiega- zioni e ad assumersi la responsabilità di un certo uso del linguaggio, il quale è performativo non solo nei confronti della realtà esterna ma anche di sé stessi 33. Non intendiamo avallare forme di ‘democrazia protetta’34, bensì evitare di chiudere aprioristicamente il discorso su ciò che il diritto, e anche eventualmente il diritto penale, potrebbe fare nelle forme non 30 BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, cit., p. 47. 31 VECA, La priorità del male e l’offerta filosofica, Milano, 2005, p. 20. 32 FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, cit., p. 37. 33 Secondo quanto osservato da Michele Serra in esergo a questo capitolo, di fronte a nuove libertà e a nuove dignità conseguono nuovi problemi, di pensiero e di linguaggio, e le parole che usiamo definiscono gli altri ma al contempo ci defini- scono. 34 Concetto che peraltro rischia di prestarsi a usi retorici. Cosa vuol dire ‘de- mocrazia protetta’? Una democrazia liberale di tipo ‘aperto’ ha dei valori da di- fendere? Certamente non può dirsi che la democrazia sia una forma di governo relativistica; al contrario, essa «non ha fedi o valori assoluti da difendere a ecce- zione di quelli su cui essa stessa si basa. Nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica», v. ZAGREBELSKY, Imparare de- mocrazia, Torino, 2007, p. 15. A partire da queste premesse, si può concordare con quanto osservato da SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espressione, cit., p. 80, ossia che «non esistono “democrazie indifese”, cioè impossibilitate a difendersi se vogliono rimanere fedeli a se stesse, dovendo semmai distinguersi tra Costituzioni dotate di un sistema di protezione meno “appariscente” e quelle che, invece, ne esibiscono uno maggiormente strutturato».   Osservazioni finali 249 di una censura autoritaria, ma quale veicolo, tramite i precetti, di ri- chiamo simbolico a valori della convivenza liberale, nella convinzio- ne che lo strumento giuridico debba essere pensato non soltanto co- me un mezzo ‘di giustizia’, ma possa anche assumere le vesti di «un luogo di scoperta del giusto. È l’idea che l’istituzione del diritto nella sua essenza sia precisamente il mezzo che la nostra ragione ha indi- cato non solo per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire attraverso il confronto e non più lo scontro delle diverse concezioni del bene sempre nuovi aspetti di questo dovuto» 35.  35 DE MONTICELLI, La questione morale, cit., p. 156.Grice: “Falzea interprets, correctly, Roman law as imperativistic or better, volitive – volontarismo giuridico – My reflections on “Aspects of Reasons” point to the same direction. Indeed my focus is on the conversational IMPERATIVE!” Angelo Falzea. Falzea. Keywords: QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM, interesse, valore, disvalore, assiologia, accertare, apparire, efficacia, interesse, does moral philosophy rest on a mistake, duty cashes on interest, on desire. ‘sentimento condiviso’ -- H. L. A. Hart. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Falzea” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761754946/in/dateposted-public/

 

Grice e Fano – glossogonia – imago acustica e imagine sensibile – filosofia italiana-- (Trieste). Filosofo. Grice: “I like Fano; for one, he took very seriously Plato’s Cratilo – “origine e natura del linguaggio,’ he has also explored a rather extravagant trend for Italian philosophers, when philosophy is reduced to ‘analisi del linguaggio’!” Neo-idealista, appartene a quel gruppo di artisti, letterati, e scrittori che hanno reso famosa Trieste. Legge in modo originale l'opera di Croce e Gentile. Sottolinea l'importanza delle scienze naturali e della matematica, che nel suo sistema non sono governate dagli pseudo-concetti. Da molta importanza agli aspetti più semplici e ferini dello spirito seguendo le riflessioni di Vico. Suo padre Guglielmo era un medico affermato, sua madre Amalia Sanguinetti. Il padre fu uno dei pochi ebrei di allora che passano al cattolicesimo per sincera fede. Ma tale conversione e accompagnata da manie religiose e disordini mentali precoci. Fin dall'adolescenza Fano ha un impulso di rivolta contro gli adulti, il loro conformismo, il loro spirito oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia di Ettore Cantoni si parla di due ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore Ettore e Fano, che viaggiano e arrivano addirittura in Africa, appunto per sfuggire all'atmosfera pesante instaurata dagli adulti. Fu un ragazzo ribelle, non volle accettare la disciplina della scuola. Un episodio contraddistingue il suo carattere, quando getta nella stufa il registro di classe. Frequenta la scuole austriaca con scarso profitto. Afferma che una parte delle sue difficoltà era dovuta al fatto di avere poca memoria (non quella concettuale, in cui eccelleva, ma quella specifica, dettagliata, necessaria ad es. nello studio della storia e della geografia). Così abbandona gli studi assai prima di aver conseguito la maturità. Ritiratosi da scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto di impiegato. Ma abbandonò l’impiego e affitta, assieme ad alcuni coetanei, una cameretta sul colle di Scorcola, dove si dedica non solo a discussioni senza fine con gli amici, ma passò ore e ore a studiare filosofia. Più tardi a Vienna poté sentire le lezioni universitarie di alcuni luminari del tempo. Fu la lettura dei classici tedeschi, da Leibnitz a Schopenhauer, da Kant a Fichte e Hegel, a dare al suo pensiero un indirizzo al quale sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, a fargli trovare le armi per la sua personale battaglia contro il dogmatismo, il fideismo, il clericalismo del proprio ambiente familiare. Certo alla formazione di Fano ha contribuito anche l'ambiente eccezionale della Trieste di allora. Fu suo amico Poli, il cui pseudonimo, Saba, fu inventato proprio da lui.  Si ispira certamente alla figura di Fano anche il sesto de I prigioni di Saba: «L’Appassionato/Natura, perché ardo, m’ha di rosso/pelo le guance rivestite e il mento./ Non è una brezza lo spirito: è un vento /impetuoso, onde anche il Fato è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse d’Egitto, / ed ho sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia Maometto». Saba e Fano comprano in società la libreria antiquaria Mayländer, la futura "Libreria antica e moderna", ma non andano d’accordo, perché Fano non era persona da accollarsi diligentemente troppi compiti "noiosi". Così i due decisero di separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere proprietari, Fano propose di giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma Saba, che era amante e cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della sorte e convinse l’amico a cedergli ugualmente la libreria. Un'altra persona dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Giotti. E un incontro come di un artista toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un grande giovamento. Egli leggeva a quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io non conosco. Per il suo carattere indolente, in molte cose esteriori della vita fece ciò che gli consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la famiglia a Firenze e cose simili. Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo contraccolpo a causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella di Virgilio, che Fano sposa. Ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che fu ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita. Fu una tragedia che scosse profondamente tutto Trieste. Sposa Anna Curiel, da cui ebbe un figlio di nome Guido. Durante il periodo della grande guerrafu irredentista, come molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e altri. In seguito il suo atteggiamento fu molto simile a quello di Croce, e per analoghi motivi ideologici. Gli ideali egalitari non facevano presa su di lui e gli sembrava utopistico, e comunque non desiderabile, l’instaurare una società comunista. Anzi si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento di allora, tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione per la reazione fascista. Ma, già prima di Croce, divenne un antifascista, che non perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le sue opinioni.  Si laurea in filosofia a Padova con “Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di una filosofia solipsistica” pubblicata sulla Rivista d’Italia. Probabilmente non frequenta le lezioni universitarie a Padova, anche perché era già sposato e doveva pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la sua formazione si compì, oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva trascorso qualche anno prima della guerra e dove aveva frequentato l’ambiente de La Voce. Professore di filosofia presso vari licei di Trieste, Fano aspira tuttavia all’insegnamento universitario, a cui giunse dopo molte traversie causate da intralci posti dalle autorità. Il motivo di queste difficoltà si deve alla fama di antifascista che egli si procurò quando, commemorando il cugino Enrico Elia, volontario nella grande guerra e morto sul Podgora, tenne un discorso in cui traspariva, in maniera non molto velata, la convinzione che il sacrificio di tante vite per la libertà veniva rinnegato dal regime politico allora dominante. Questa sua presa di posizione gli costò alcuni giorni di carcere nella fortezza di Capodistria e la fama di antifascista si ripercosse sulla sua carriera universitaria. Attorno a quegli anni a Trieste si andavano diffondendo le idee della psicoanalisi di Weiss, discepolo di Freud. A Fano non piaceva questa teoria, affermando che si basava su supposte attività del pensiero immaginarie e non verificabili. Il concetto di inconscio non posse venir accettato da chi come lui basava tutto sull' ‘auto-coscienza’. Studioso di Croce, che conosce, pubblicò vari articoli sulla filosofia crociana. Il saggio “La negazione della filosofia nell’idealismo” gli procurò l’attenzione di Radice, che gli offrì un posto di assistente a Roma. Da notare che nel suo primo saggio viene esposto organicamente il suo pensiero, Il sistema dialettico dello spirito. Dopo l'invasione tedesca trova rifugio a Rocca di Mezzo, in Abruzzo. La tranquilla sicurezza, la noncuranza dei pericoli non gli vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai tedeschi (lui e la moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i bombardamenti alleati. I tedeschi lo usarono spesso come interprete e poiché la sua casa stava proprio sulla strada maestra, spesso la cucina era piena di soldati che avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella cucina mal riscaldata, incurante dei rischi immediati, lavora forse più di quanto non avesse mai fatto in precedenza e portò a termine l'opera: La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito. Finita la guerra ritrovò il suo posto a Roma. Nel saggio sul Croce aveva rivendicato l'importanza delle scienze empiriche, che nella filosofia crociana non avevano dignità conoscitiva. In Teosofia orientale e filosofia greca  troviamo una descrizione dello sviluppo storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza della matematica, mentre Croce sostene che la matematica è uno pseudo-concetto. Inoltre cura la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni futura metafisica di Kant. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle origini del linguaggio, poi riedito accresciuto a cura di Guido Fano.  Altre opere: “Il sistema dialettico dello spirito” *Roma, Servizi editoriali del GUF/); “La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito” (Milano, Istituto editoriale italiano); “Teosofia orientale e filosofia greca. Preliminari ad ogni storiografia filosofica” (Firenze, La nuova Italia); “Saggio sulle origini del linguaggio. Con una storia critica delle dottrine glottogoniche” (Torino, Einaudi); “Origini e natura del linguaggio” (Torino, Einaudi); “Neo-positivismo, analisi del linguaggio e cibernetica” (Torino, Einaudi);  “Prolegomeni ad ogni futura metafisica” (Firenze, G. C. Sansoni). Ettore Cantoni, Quasi una fantasia: romanzo, Milano, Treves, Cantóni, Ettore, su treccani.  Giorgio Voghera su Il Piccolo. Viene venduta a Giorgio Fano e Umberto Poli, il poeta Umberto Saba, che ne diventa proprietario unico. Dice che una teoria può essere accettata solo se si prospettano anche delle ipotesi — che poi appariranno assurde e non si verificheranno concretamente — nelle quali essa dovrebbe venir respinta. La psicanalisi, invece, si mette accuratamente al coperto da ogni prova contraria. L'estetica nel sistema di B. Croce, L'Anima, da filosofia di B. Croce, Giornale critico della filosofia italiana, Un episodio illustra bene sia l’importanza che egli annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio. Una mattina, scendendo in cucina, che e diventata il suo studio, la trova invasa da soldati tedeschi che cercano acqua ed altro. Con l’abituale tono tranquillo, dimenticando con chi aveva a che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta, addita ai soldati della Wehrmacht la porta. Prego, dice in tedesco se lor signori avessero la compiacenza di andare da un’altra parte. Io ho da lavorare. Senza fiatare, i soldati infilano la porta ed egli si rimise tranquillamente al suo tavolo di lavoro per battagliare con Croce, dimentico che la più superficiale inchiesta e sufficiente a convogliarlo assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio. L'ottimismo di Fano e il pessimismo di Voghera. Brani da lettere e testi, Milano, Mimesis, Silvano Lantier, La filosofia del linguaggio (Trieste, Riva); Silvano Lantier, “Vico e Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del Bianco); Dizionario biografico degli italiani, Roma.  The ‘signifier’, drawn from Saussurean linguistics, was arguably the central concept in Jacques Lacan’s engagement with psychoanalysis. As indicated in its programmatic texts, the effort to develop a ‘logic of the signifier’ that would account for the relations between subject, science, and ideology, was one of the guiding concerns of the Cahiers pour l’Analyse.  See also: Linguistics, Logic, Meaning, Speech, Structure, Subject, Unconscious Three conceptual distinctions lay at the heart of Ferdinand de Saussure’s innovative structural linguistics, the science that was foundational for twentieth-century French structuralism. The first was the distinction between langue [language] and parole [speech]. For Saussure, the former was to be considered in synchronic terms and as the primary terrain of linguistic analysis; in this it was opposed to the diachronic reality of the latter, which put language to use in time in spoken form. In his synchronic analysis of language, Saussure insisted on another distinction, that between the sign and the referent. For example, the sign ‘cat’ may in multiple instances refer to an actual cat which would be its real world referent, i.e., this cat. Most crucial, however, was the third distinction, that within the sign between the ‘signified’ and the ‘signifier’. The former was the conceptual content of the sign, in this case the idea of a cat, as a four-legged mammal, often domesticated, distinct from ‘dogs’ and other domestic pets. Opposed to this mental concept or ideational content, was the signifier ‘cat’ – as an ‘acoustic image’ or phoneme, a sequence of letters, i.e., the word itself apart from its meaning or content. For Saussure, meaning was produced through a sequence of differential relations in which signifiers were correlated to signified contents; in all instances, it was the difference between signifiers that allowed them to function as linked to specific signifieds or contents. In this regard, the production of the signified was the locus of Saussure’s linguistic concerns.  Jacques Lacan’s meeting of Roman Jakobson (a follower of Saussure’s, via their mutual friend Claude Lévi-Strauss) in 1950 was arguably the central event in Lacan’s own intellectual itinerary. His introduction to structural linguistics moved him away from the Hegelianism of his youth, and paved the way for his later concern with mathematics, formalisation, and systems theory analysis. Inspired by Saussure, Lacan nonetheless departed from him on several significant points. First, the sign/referent distinction was of minimal concern for Lacan. Second, where Saussure tended to denigrate parole in favour of a thoroughly synchronic approach to language, Lacan, as a psychoanalyst, was eminently concerned with speech, itself the medium of psychoanalytic practice and the crucial mechanism for the emergence of the subject of the unconscious. Finally, and most importantly, Lacan reversed the priority of the signified/signifier relationship found in Saussure’s example. For Lacan, meaning was the result of the play of signifiers apart from any synchronic correlation to fixed signified contents. Lacan introduced his new structural interrogation of Freud in his famous ‘Rome Discourse’ in 1953, reprinted in the Écrits as ‘The Function and Field of Speech and Language in Psychoanalysis’ (E, 237-322). The increasing pertinence granted to the signifier would be evident in the later texts of this volume, culminating in ‘The Subversion of the Subject and the Dialectic of Desire in the Freudian Unconscious’ (1960), wherein Lacan claims that ‘[s]tarting with Freud, the unconscious becomes a chain of signifiers that repeats and insists somewhere (on another stage or in a different scene, as he wrote), interfering in the cuts offered it by actual discourse and the cogitation it informs’ (E, 799).  For Lacan, the primacy of signifier was what accounted for the uniqueness of the human and distinguished its relationship to language from any notion of mere communication or the simple transfer of meaning. In his third seminar, on the psychoses, delivered in 1955-56, Lacan provides an illuminating example of this phenomenon that deserves to be quoted at length:  I’m at sea, the captain of a small ship. I see things moving about in the night, in a way that gives me cause to think that there may be a sign there. How shall I react? If I’m not yet a human being, I shall react with all sorts of displays, as they say – modelled, motor, and emotional I satisfy the descriptions of the psychologists, I understand something, in fact I do everything I’m telling you that you must know how not to do. If on the other hand I am a human being, I write in my log book – At such and such a time, at such and such a degree of latitude and longitude, we noticed this and that.  This is what is fundamental. I shelter my responsibility. What distinguishes the signifier is here. I make a note of the sign as such. It’s the acknowledgment of receipt [l’accusé de réception] that is essential to communication insofar as it is not significant, but signifying. If you don’t articulate this distinction clearly, you will keep falling back upon meanings that can only mask from you the original mainspring of the signifier insofar as it carries out its true function.  […] Indeed, it isn’t as all or nothing that something is a signifier, it’s to the extent that something constituting a whole, the sign, exists and signifies precisely nothing. This is where the order of the signifier, insofar as it differs from the order of meaning, begins.  If psychoanalysis teaches us anything, if psychoanalysis constitutes a novelty, it’s precisely that the human being’s development is in no way directly deducible from the construction of, from the interferences between, from the composition of, meanings, that is, instincts. The human world, the world that we know and live in, in the midst of which we orientate ourselves, and without which we are absolutely unable to orientate ourselves, doesn’t only imply the existence of meanings, but the order of the signifier as well.1  Lacan will ultimately link the ‘signifier, as such, signifying nothing’ to the Oedipus complex, and argue that the entry to the symbolic order of language is a result of a submission to the ‘law’ of the phallic signifier, grounded in the ‘Name-of-the-father’. More broadly, the signifier, distinct from meaning, lacking fixed signified or referent, will for Lacan come to be the concept for sexual difference as such – the integral incompleteness or indeed lack that constitutes the subject.  In the Cahiers pour l’Analyse Much as in Lacan’s teaching, the signifier is a ubiquitous concept in the Cahiers pour l’Analyse. In the inaugural article, ‘La Science et la vérité’ (CpA 1.1), Lacan develops his theses concerning lack and ‘truth as cause’ in scientific discourse. After making a distinction between the formal and material cause along Aristotelian lines, Lacan specifies that psychoanalyse is concerned with the latter and its relation to the former:  This material cause is truly the form of impact of the signifier that I define therein.   The signifier is defined by psychoanalysis as acting first of all as if it were separate from its signification. Here we see the literal character trait that specifies the copulatory signifier, the phallus, when – arising outside of the limits of the subject’s biological maturation – it is effectively (im)printed; it is unable, however, to be the sign representing sex, the partner’s sex – that is the partner’s biological sign; recall, in this connection, my formulations differentiating the signifier from the sign.  […] Conveyed by a signifier in its relation to another signifier, the subject must be as rigorously distinguished from the biological individual as from any psychological evolution subsumable under the subject of understanding (CpA 1.1:26, trans. 875).  The primacy of the signifier in Lacan’s teaching, and his attempt to provide a ‘rigorous’ account of it, are the inspiration behind Jacques-Alain’s Miller’s attempt in ‘La Suture’ to provide, as the subtitle suggests, the ‘elements for a logic of the signifier’ (CpA 1.3). Note, however, that in ‘La Science et la vérité’ Lacan is already gesturing toward tying the signifier back to the body, without however reducing it to anything that could be confused with biology. Miller’s contribution to the Cahiers will emphasize the formal elements of Lacan’s account, whereas others, chiefly André Green and Serge Leclaire will work to bring the body back in to analysis in response to Miller’s ultra-formalism.  Miller presents the ‘concept of logic of the signifier’ in clear terms at the outset of ‘La Suture’ (CpA 1.3):  What I am aiming to restore, piecing together indications dispersed through the work of Jacques Lacan, is to be designated the logic of the signifier - it is a general logic in that its functioning is formal in relation to all fields of knowledge including that of psychoanalysiswhich, in acquiring a specificity there, it governs; it is a minimal logic in that within it are given those pieces only which are necessary to assure it a progression reduced to a linear movement, uniformly generated at each point of its necessary sequence. That this logic should be called the logic of the signifier avoids the partiality of the conception which would limit its validity to the field in which it was first produced as a category; to correct its linguistic declension is to prepare the way for its importation into other discourses, an importation which we will not fail to carry out once we have grasped its essentials here (CpA 1.3:38-9, trans. 25).  The analysis that follows is a reading of Gottlob Frege’s Grundlagen der Arithmetik (1884), based around a demonstration that Frege’s attempt to give a logical construction of the series of whole natural numbers is predicated on this prior logic of the signifier. Frege’s concept of zero involves a simultaneous ‘summoning’ and ‘annulment’ of the non-identical that Miller claims can be related to Lacan’s account of primary repression and metonymic displacement in the ‘signifying chain’. For Miller, Frege does not recognize that the truth of his own discourse is predicated on a suturing over of an inaugural non-identity. He misrecognises ‘the paradox of the signifier’, that ‘the trait of the identical represents the non-identical’ (CpA 1.3:48/32).   In the concluding section of this article, Miller ties the logic of the signifier to the subject (CpA 1.3:47-49). In effect, Miller follows Lacan in defining the subject as ‘the possibility for one signifier more’:  In order to ensure that this recourse to the subject as the founder of iteration is not a recourse to psychology, we simply substitute for thematisation the representation of the subject (as signifier) which excludes consciousness because it is not effected for someone, but, in the chain, in the field of truth, for the signifier which precedes it (CpA 1.3:48/33).  The key point is that the signifying chain, in which the subject ‘flicker[s] in eclipses’, is marked by a constitutive lack that is sutured over. It is this lack, in its determinant capacity, that accounts for the persistence of the subject in his own discourse.  The signifier is a crucial concept in the first segment of Serge Leclaire’s seminar ‘Compter avec la psychanalyse’ that concludes Volume 1 (CpA 1.5). According to Leclaire, the analyst does not obey a logic of meaning [logique du sens] (CpA 1.5:57), but in listening for the unconscious must rather follow the formal paths opened up by the signifier.   In a discussion of clinical approaches to fantasy, Leclaire says that ‘two references are essential for the determination of the structure of the fantasy’ (CpA 1.5:61). On the one hand, fantasies are tied to an emotion that is corporeally localized. He gives examples: anal excitation, oral or dental excitations, or ‘sensations of threshold or passage [émoi de seuil, de passage]’. On the other hand, they are attached to signifiers; and more particularly to ‘signifiers as such’, that is, signifiers detached from their relation to the signified. This is how one should understand Freud’s suggestion that fantasies are ‘made up from things that are heard, and made use of subsequently’ (SE 1: 248). Leclaire gives examples of how certain signifiers used by the mother (proper names and pet names) can become detached from their common significance for the child and become sites for unconscious signifying chains.  Later, Leclaire turns to the notion of the ‘unconscious concept’, emphasizing its role in the constitution of signifiers which mark the body. Indeed, the chain created by the unconscious concept, the concept of the ‘small piece’ detached from the body, as Freud says, ‘in order to gain the favour of some other person whom he loves’ (SE 17: 131) is the libidinal condition for the emergence of the signifier. Leclaire goes on to elaborate that ‘this wandering piece that can be separated, by figuring the place of separation, transgresses, in the literal sense of the term, the surface’s function of limit. And as a limit itself, it marks difference, thus transcending the effaceable trace of the sensible: the pain of the wound becomes an ineradicable mark’ (CpA 1.5:68). This initial transgression, he says, is rediscovered in orgasm and in sadistic jouissance. It is, says Leclaire, ‘the void or hole around which fantasy turns’.  In his ‘Réponse à des étudiants en philosophie sur l’objet de la psychanalyse’ which opens Volume 3, Lacan insists that, while posing a challenge to dialectical materialism, his theory of language is nonetheless materialist; the signifier, he claims, is ‘matter transcending itself in language’ (CpA 3.1:10, trans. 111). This is in fact a crucial moment for the legacy of the Cahiers, e.g. in the work of Badiou and Slavoj Žižek, in that the symbolic nature of the signifier, as it well as its transcendentalizing character, remains grounded in a materialism irreducible to an account of raw inchoate matter.  In a section titled ‘The Suture of the Signifier, its Representation and the Object (a)’ from his contribution to this volume, André Green further develops some of Leclaire’s criticisms of Miller and also seeks to link the logic of the signifier to a more robust account of affect and the body (CpA 3.2:22ff). The signifier plays a key role in Luce Irigaray’s contribution to Volume 3 as well. Developing Miller’s arguments from ‘La Suture’, and supplementing them with a more extensive engagement with linguistics, Irigaray focuses on the family romance of the Oedipus complex and the emergence of subjectivity out of this scene. Irigaray maps out and explains the linguistic and intersubjective features of the transformation produced by the entrance of a third term into the original dyad of child and Other. In his or her very first relationship with the first Other, the child starts out as a fluid entity, ‘not yet structured as “I” by the signifier’ (CpA 3.3:40; trans. 9). ‘At the introduction of the third party into the primitive relation between the child and the mother, “I” and “you” are established as disjunction, separation’ (CpA 3.3:40/10). The mere presence of a third term, however, is insufficient for a radical break with the imaginary dyad, since the third initially appears in the form of a rival. ‘This opposition of “I” and “you”, of “you” and “I” remains “one” [on], without potential for inversion or permutation - the father being only another “you” - if the mother and the father do not communicate with each other’.  Later, Irigaray develops some of Lacan’s theses concerning the crucial role of the phallic signifier. The ‘fundamental fantasy’ of the hysteric is that they ‘did not get enough love’. With regard to his or her mother’s desire, he or she experiences themselves as marked by the sign of incompleteness and rejection, ‘unable to sustain the comparison with the phallic signifier’. For the male hysteric, ‘the confrontation with the mirror is like the test of his insignificance’ (CpA 3.3:51/20).  The obsessional neurotic, on the other hand, suffers from an early excess of love. ‘His mother found him too appropriate a signifier for her desire’ (CpA 3.3:51/22). The phallic reference is attributed to some absent hero, an all-powerful figure, whose death (as with the death of the father of the primal horde in Freud’s Totem and Taboo) would only in any case guarantee the subject’s ongoing acquiescence. The neurotic’s problem comes down to the adequacy of his signified to his signifier; he remains ‘riveted to what he has been’, unable to become. He is trapped in an empty ‘metonymy’, unable to metaphorise, and thus enter a ‘true temporal succession’.  As the title suggests, the ‘signifier’ is the central concept of Jean-Claude Milner’s reading of Plato’s Sophist in Volume 3, ‘Le Point du signifiant’ (CpA 3.5). For Milner, deeply inspired in this instance by Miller’s ‘La Suture’ (CpA 1.3) the key movement in Plato’s text is the vacillation of non-being as alternately function and term in the chain of Plato’s discourse, a movement which evokes the summoning and annulment of the subject that Miller found in Frege’s discourse. The signifying chain is the ‘sole space suited to support the play of vacillation’. Wherever an element in a linear sequence is replaced by an element which, as element, transgresses this linearity (as in the mechanism of structural causality identified by Miller in ‘Action de la structure’, CpA 9.6), a ‘vacillation’ is produced within the chain. Milner gives the examples of (1) the founding exception of a chain, and (2) any marking of the place of an erasure. The institution of a linear sequence is governed by a vacillation that testifies to a ‘double formal dependence’, and which ‘retroactively defines the signifier as a chain’ (CpA 3.5:77). Plato’s chain of genera thus points towards the possibility of an ‘order of the signifier in which being and non-being would regain those traits whose very coupling guarantees truth and authorizes discourse’ (CpA 3.5:77).  Milner speculates that the notions of being and non-being might borrow their traits from the order of the signifier itself in its basic constitution. In a passage cited by Leclaire in CpA 5.1:12, Milner mentions three aspects of vacillation. First, there is ‘the vacillation of the element’, which is ‘the effect of a singular property of the signifier’, and develops in a space ‘where the only laws are production and repetition: being and non-being recover this relation through their inverse symmetry, dividing themselves between term and expansion, between mark and abyss’ (CpA 3.5:77). There is also a ‘vacillation of the cause’ insofar as both being and non-being cannot posit themselves as cause except by revealing themselves to be the effect of the other. Finally, there is the movement of vacillation whereby the term that initially ‘transgresses the sequence’ calls up a transgression that annuls the whole chain.  Milner claims that grounding Platonic ontology on the logic of the signifier also makes possible a new understanding of the opposition between being and subjectivity. On the one hand, there is being as the order of the signifier, the ‘radical register of all computations’, totality of all chains, and on the other hand, the ‘one’ of the signifier, the unity of computation, the element of the chain, non-being, as the signifier of the subject (CpA 3.5:77). This latter reappears as such every time that discourse deploys its power to ‘annul’ signifying chains.  In the next segment of his seminar, in Volume 3, Leclaire focuses on the concept of drive [pulsion]. He asks: is the object of the drive a signifier or the objet petit a in Lacan’s sense? Leclaire explains that these two are indissociable: insofar as it is the terminus of sought-for satisfaction, it is the objet petit a, but insofar as it is connected with a differentiation in the body, it is a signifier. The difference between the objet petit a and the obtained corporeal satisfaction is ‘lived’ as an ‘antinomy of pleasure’, and through ‘the representation of the splitting of the subject’ [la schize du sujet] (CpA 3.6:87).  Jacques Derrida’s contribution to Volume 4, on the ‘writing lesson’ in Claude Lévi-Strauss’s Tristes Tropiques, presents his general case for a concept of ‘arche-writing’ that is in many respects distinct from the logic of the signifier (CpA 4.1:34). For Derrida, the metaphysical tradition and classical linguisticshave always presented writing as secondary to and dependent upon speech, which they understood as the absolute immediacy of meaning, of the signified to the signifier. Nevertheless, the rigorous development of linguistics by Saussure and his followers demonstrated that spoken language was structured not by a referential relationship to a signified but rather by the homology of the differences between signifiers and the differences between signifieds. In this situation, despite Saussure’s continued and classical disdain for writing, the traditional understanding of writing provided a better model for structural linguistics, because it also forewent the immediate presence of a signified to its signifier. The general structure of language then could be named ‘arche-writing.’ From this perspective, ‘the passage from arche-writing to writing as it is commonly understood […] is not a passage from speech to writing, it operates within writing in general’ (CpA 4.1:34).  In the first section of his reading of Freud’s ‘Wolf Man’ case in Volume 5, ‘On the Signifier’ (CpA 5.1:9-17), Leclaire distinguishes the psychoanalytic signifier from the linguistic signifier, which he describes a ‘psychic entity with two faces:’ a combination of two elements - signifier (Saussure’s ‘acoustic image’) and signified - that together constitute the sign; as such, it refers to the signified object it denotes. According to this definition, ‘the signifier is the phonic manifestation of the linguistic sign’ (CpA 5.1:10). As used by Jacques Lacan, however, the signifier cannot be considered as an element derived from the problematic of the sign, but rather as a fundamental element constituting the nature and truth of the unconscious (CpA 5.1:11). While Peirce famously defined the signifier as what ‘represents something for someone,’ Lacan declares that the psychoanalytic signifier ‘represents a subject for another signifier.’ Their functions of representation thus differ radically.  To elucidate this function, Leclaire cites two important essays from previous issues of the Cahiers, Jacques-Alain Miller’s ‘La Suture’ (CpA 1.3) and Jean-Claude Milner’s ‘Le Point du signifiant’ (CpA 3.5). For Miller, the central paradox of the Lacanian signifier is that ‘the trait of the identical represents the non-identical, from which can be deduced the impossibility of its redoubling, and from that impossibility the structure of repetition as the process of differentiation of the identical’ (CpA 5.1:12). Milner adds that ‘The signifying order develops itself as a chain, and every chain bears the specific marks of its formality’: the vacillation of the element, the vacillation of the cause, and ultimately the vacillation of transgression itself, ‘where the term that transgresses the sequence, situating as a term the founding authority of all terms, calls the one to be repeated as term transgression itself, an agent [instance] which annuls every chain’ (CpA 5.1:12). Leclaire embraces these formulations, but points out that they do not explain how the psychoanalyst can distinguish a given signifier. While any element of discourse may be a signifier, the psychoanalyst must be able to differentiate between signifiers, to privilege some over others. He warns against ‘the error of making the signifier no more than a letter open to all meanings,’ and argues that ‘a signifier can be named as such only to the extent that the letter that constitutes one of its slopes necessarily refers back to a movement of the body. It is this elective anchoring of a letter (gramma) in a movement of the body that constitutes the unconscious element, the signifier properly speaking’ (CpA 5.1:14).  Its development of a kind of prototype of the sought-after ‘logic of the signifier’ accounts for the inclusion of Georges Dumézil’s ‘Les Transformations du troisième du triple’ in Volume 7 (CpA 7.1). Dumézil argues that the multiple references in Roman legend to figures named ‘Horace’ (for instance, the story of Horatius Cocles in Livy 2.10) ‘have a signifying trait in common’ [un trait significatif] (CpA 7.1:9). All the narratives concern single combatants performing feats of extraordinary military prowess. The recurrence of these narratives, suggests Dumézil, indicate the remnants of a ritual ‘function’ (CpA 7.1:19-23). This emphasis on a recurrent function resonates with Milner’s insistence to Leclaire on the homogeneity of places, as opposed to the heterogeneity of terms, in the ‘Compter avec la psychanalyse’ segment in Volume 3 (CpA 3.6:96).  In his analysis of Freud’s ‘A Child is Being Beaten’, also in Volume 7, Jacques Nassif arrives at an account of ‘the place assigned to the subject in the signifying order’ (CpA 7.4:88). He suggests that the model can also help to explain the process of the overdetermination of symptoms, which can be thought as a ‘co-presence in the same archaeological disposition’ of superseded phases (CpA 7.4:86). Fantasy thus becomes the privileged site where the unconscious, structured like a language, ‘communicates with the signifying order that is language properly speaking’ (CpA 7.4:88).  In their questions to Michel Foucault which open Volume 9, the Cercle d’Épistémologie enquires into Foucault’s method for reading texts, navigating his conception of language and the signifier. ‘What use of the letter does archaeology suppose? This is to say: what operations does it practice on a statement in order to decipher, through what it says, its conditions of possibility, and to guarantee that one attains the non-thought which, beyond it, in it, incites it and systematises it? Does leading a discourse back to its unthought make it pointless to give it internal structures, and to reconstitute its autonomous functioning?’ (CpA 9.1:6).  In his ‘Remarques pour une théorie générale des idéologies’ in Volume 9, Thomas Herbert [Michel Pêcheux] develops an Althusserian account of ideology in which the logic of the signifier plays a key role. Herbert establishes how operations which take place within the ‘ideology of the empirical form’ are ‘fascinated by the problem of the reality to which the signifier must adjust’ (CpA 9.5:80). In establishing these semantic adjustments, the process itself is never forgotten or hidden. Indeed, it is the very process of adjustment itself that is the motor of ideological operations, and ruptures, at this level. By contrast, with ideologies of the speculative form, the operation takes place at the level of syntax, that is, in the relation of signifier to signifier, not in the ‘adjustment’ of signifier to signified. In Herbert’s reading, the ‘social effect’ is well described by Lacan’s description of the mechanism in the signifying chain which produces the subject effect in language: ‘the signifier represents the subject for another signifier.’ What is essential to this Lacanian formulation is that the sequence is one that covers its own traces; unlike the adjustment between signifier and signified that occurs out in the open in type ‘A’ ideologies (empirical form), in type ‘B’ (speculative form) the subjectification that occurs is constitutively forgotten. The ‘subject effect’ covers over the rupture that was its own condition. The ideas of Nicos Poulantzas serve Herbert in the following formulation: ‘let us say briefly that the putting into place of subjects [i.e., the syntactic chain] refers to the economic instance of the relations of production, and the forgetting of this putting into place to the political instance’ (CpA 9.5:83). In other words, what goes by the name of ‘politics’ in this social formation, i.e., the ‘State’, is the sign of the forgetting of the social ordering itself, which is anterior to ‘politics’.  In their preamble to the dossier on the ‘Chimie de la Raison’ which concludes Volume 9, the Cercle d’Épistémologie presents the ‘chemistry of reason’ – found in the works of D’Alembert, Lavoisier, Mendeleev, or Cuvier – in a manner that evokes the ‘logic of the signifier’ that has been the journal’s guiding concern:  To construct a chemistry of reason is thus to refer the sciences to the jurisdiction of the whole [tout], but this is also by the same stroke to submit them to another necessity. For this whole is also substantial since, being the science of the simple and the compound [composée], chemistry must direct its effort toward generating, through the sole operation of combination, all the materials that make all the things of the world; saving phenomena thus requires that chemistry constitute them as such, as a plenitude and liaison of substances. We see here that the crucial relation [relation] to the whole is but the reverse of a relation [rapport] to the representation to which chemistry is so intimately tied, namely that, given that anything representable is an object of analysis, all analysis is thus deduction from a representable body (CpA 9.11:169).Grice: “Fano is too obsessed with the ‘acoustic image’ (imagine Acustica) whereas Saussure is careful to add “acosutique ou sensible” – ‘immagine Acustica o imagine sensibile” – if we allow for imagine sensibile, the priority of the sound evaporates, and so does that of the tongue – and all the glossological societies of Europe!” -- Giorgio Fano. Fano. Keywords: Fano insists that the semiogonia, i. e. the origin of meaningful gestures will provide a clue as to the essence of the semiotic communication. He relies on Morris, Ferruccio Landi, Peirce, and Croce. He is interested in Croce’s views on ‘expression’ and Landi’s views on ‘lavoro.’ Fano is critical of Peirce. This is going on at the same time as Grice is giving seminars on Peirce at Oxford. Grice: “I agree with Fano that ontogenesis repeats phylogenesis, and that we should concentrate on utterances which are meaningful generally – ‘signare’ is a good verb in Italian for that.’ Grice: “In my view, it is the agent who signs that… ‘signa che’ – signat quod. The ‘-ficare’ only complicates things. A dark cloud ‘signa’ rain. And, by my hand gesture, I sign that going out is not a good day in view of the coming rain. Keywords: glossogonia, glottogonia, teoria glottogonica, dottrina glottogonica, teoria glossogonica, dottrina glossogonica, semiotics of the tongue, Croce. La glossogonia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689659858/in/photolist-2mR7Xaf-2mPF8UJ-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKD233

 

Grice e Fardella – sensuale, sensismo, sensualismo – romano -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trapani). Filosofo. Grice: “I like Fardella; for one, he is a systematic philosopher; for another, he compares Aristotle (‘demonstratio peripatetica’) with Cartesio, as the Italians call him (‘demonstratio cartesiana’) – And while Italians consider him a reactionary Cartesian, I deem  him a closet Aristotelian!”. Studia a Messina sotto Borelli, dal quale accetta l’atomismo di Lucrezio, ma abbracciò il pensiero di Cartesio, dopo averne appreso gli insegnamenti durante il suo soggiorno a Parigi, grazie alle conversazioni con Arnauld, Malebranche e Lamy.  Insegna matematica a Roma, Modena, e Padova. Tenne corrispondenza con Leibniz e polemizza con Giorgi attacca il cartesianesimo. Il suo razionalismo, per quanto riconosca che solo Cartesio trova, fra gli antichi e i moderni, il retto e naturale metodo di filosofare, è tuttavia relativo, adeguato com'è al platonismo. Il mondo è organizzato secondo principi d’aritmetica e geometria. Ogni cosa ha peso, numero e misura, ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche. Mediante l’aritmetica e la geomtria si comprende il mondo e si comprende così la logica.  Nel punto, che non ha peso, non ha grandezza, non è divisibile, è tuttavia l'origine di ogni estensione. Nel punto, come il numero nell'unità, si risolve l'estensione. L'anima, che non ha estensione (non e ‘res extensa’), è un punto. Non è possibile dimostrare l'esistenza indipendente della realtà materiale. La stessa esperienza ci insegna che spesso nel sogno percepiamo oggetti che veramente non possiamo ammettere realmente esistenti. Quante volte, la notte, mentre dormo, vedo splendere il sole sopra l'orizzonte e vedo muoversi in vari modi moltissime cose prodigiose, che non sono niente extra ideam? Dunque, quel che sento e *vedo* non può in nessun modo essere dedotto come realmente esistente. E se si obbietta che una cosa è sognare, altra cosa è la veglia, per lui le cose che percepiamo nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose percepite con maggiore chiarezza, distinzione e ordine, benché non siano niente in sé. I sensi non danno certezza del mondo, la quale può ritrovarsi soltanto in la legge dell’aritmetica e della geometria.  Altre opere: “Universae philosophiae systema, in qua nova quadam et extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta explanantur (Venezia); “Universae usualis mathematicae theoria” (Venezia); “Utraque dialectica rationalis et mathemathica”; “Animae humanae natura ab Augustino detecta in libris de Animae Quantitate, decimo de Trinitate, et de Animae Immortalitate” (Venezia); Pensieri (Napoli); “Lettera antiscolastica” (Napoli). Recensito immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico volume sulla rivista scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema, Descartes e l'eredità cartesiana in Italia” Dizionario biografico degli italiani. Fardella elaborated a Cartesian philosophy of language, pretty much avant Chomsky, but using the same sources: Arnauld. While Chomsky focuses on Harris and others, he could at least have dropped the “Fardella” name! Grice: “He possibly did have some Italian friends in the Bronx!” Wikipedia Ricerca Sensismo Lingua Segui Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sensazione (filosofia). «Infatti, dato che ogni sensazione è necessariamente gradevole o sgradevole, si è interessati a godere delle prime e a sottrarsi alle seconde. Questo interesse è sufficiente a spiegare le origini delle operazioni dell'intelletto e della volontà. Il giudizio, la riflessione, i desideri, le passioni e via dicendo, non sono altro che la sensazione stessa, la quale si trasforma in diverse maniere»  (E. Condillac, da Trattato sulle sensazioni) Il sensismo è un termine che designa quelle dottrine filosofiche che riportano ogni contenuto e la stessa azione del conoscere al sentire, ossia al processo di trasformazione delle sensazioni, escludendo in tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia riportabile ai sensi. A volte viene usato come suo sinonimo sensualismo, che però trova definizione diversa.  OriginiModifica Mentre nella storia della filosofia la parola sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele[1], per indicare la facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti.  Già Protagora affermava che l'anima non fosse altro che un complesso di sensazioni: fu una tesi ripresa in maniera più approfondita dagli stoici e dagli epicurei.  La cultura romana e quella medievale hanno conservato il concetto riduttivo di senso, proprio della definizione aristotelica: è solo nei tempi moderni, con Locke prima e poi specialmente con Kant, che la parola senso assume il significato di sentire insieme alla consapevolezza di ciò che avviene sentendo.  I sensisti moderniModifica La dottrina sensista si precisa nella filosofia moderna, con il pensiero rinascimentale, nella filosofia della natura di Bernardino Telesio (1509–1588), che dà vita a una prima forma di metodologia scientifica basata sull'esperienza, e poi in Tommaso Campanella(1568-1639) e Antonio Persio (1543-1612).  Quest'ultimo intende la natura come un complesso di realtà viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio fine (in base al concetto aristotelico di entelechia), e d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso un fine universale da una comune Anima del mondo, secondo la concezione tipicamente neoplatonica. La visione campanelliana è detta per questo pansensismo cosmico, (dal greco πάν, pàn, che significa tutto, e sensismo) a indicare una specie di sensibilità cosciente di tutto l'universo: il grande bestione vivente nella visione di Giordano Bruno.  Il sensismo nel '600Modifica Caratteristiche del sensismo, che lo accostano al materialismo, si trovano in Thomas Hobbes(1588-1679) il quale negli Elementi (1640) e nel De corpore (1655) sviluppa il suo sistema materialistico, meccanicistico onnicomprensivo, basandolo sull'elemento sostanziale corpo e su quello accidentale di moto. La sensazione è il risultato del moto dei corpi che generano le immagini, le sensazioni di piacere e dolore e le passioni. Tutto si origina da un moto, da un'azione a cui corrisponde un contromovimento, una reazione, che produce immagini fenomeniche; tutta la vita teoretica e morale può essere ricondotta alla sensazione.  Pur da una posizione di deciso rigetto della filosofia di Hobbes, anche Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury esprimerà una teoria di tipo sensista.  Il sensismo di CondillacModifica  Condillac Il termine "sensismo" è stato attribuito prevalentemente alla dottrina di Condillac (1714-1780) espressa nel Traité des sensation (1754), la quale riprende molte formulazioni che erano state proprie delle teorie di John Locke (1632-1704), [2]eliminandone però gli aspetti più propriamente psicologici, e sottolineando come tutte le facoltà conoscitive si sviluppino, in modo più o meno diretto, dall'azione dei sensi.   In questo senso, è famoso l'esempio di Condillac, il quale suggerisce di immaginare una statua dalle fattezze umane, la quale progressivamente si anima a mano a mano che prendono vita i vari sensi, e in particolare il tatto, il quale le permette la consapevolezza della realtà propria e del mondo circostante. Ciò che finora veniva attribuito all'attività spirituale, al giudizio, al desiderio e alla volontà non sono che "sensazioni trasformate".  Sensismo e materialismo                                   Modifica Va sottolineato che il sensismo non coincide con il materialismo, giacché il primo si limita a esprimere la posizione di chi afferma il primato della conoscenza sensibile, senza tuttavia determinare in alcun modo i contenuti che questa conoscenza possa raggiungere.   La posizione sensista riguarda quindi esclusivamente la forma della conoscenza, in particolare il modo in cui si formano e si espletano le varie facoltà conoscitive. Dire che la nostra conoscenza si origina dalla sensazione non vuol dire che la materia di per sé sia causa di movimento e sensazione per cui l'uomo alla fine sia un essere completamente materiale. Proprio in ragione di questo, Condillac poté teorizzare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima, congiungendo sensismo gnoseologico e spiritualismo.  La via del materialismo su base sensistica venne intrapresa invece da Julien Offray de La Mettrie (1709-1751), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771) e Paul Henri Thiry d'Holbach (1723-1789), più conosciuto con lo pseudonimo di Mirabaud.  Per Julien Offray de La Mettrie estensione, movimento e sensibilità caratterizzano tutto ciò che è materiale; l'uomo stesso è una macchina ("L'homme machine") condizionata da leggi biologiche.  Helvetius condivide con Condillac l'idea che la conoscenza derivi dalle sensazioni ed estende quindi, nell'opera Lo Spirito (1758), la natura sensibile anche alla moralità riducendola a pure motivazioni utilitaristiche.   Per Holbach l'affermazione decisa del materialismo è collegata all'ateismo e alla negazione di ogni libera volontà nel comportamento dell'uomo.  Il materialismo in effetti era negato dagli illuministipoiché essi vi vedevano il mascheramento della vecchia pretesa metafisica di spiegare in maniera onnicomprensiva e totale l'universo. Si può affermare che, da molti di loro, il materialismo era sostenuto non tanto per ragioni gnoseologiche quanto per fini politici e morali come una polemica protesta, cioè, nei confronti dell'autoritarismo politico e religioso dei loro tempi.  NoteModifica ^ Aristotele, De anima (II, 5, 416 b 33) aveva dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere umano come caratteristica peculiare della sua individualità. ^ «Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu». (Locke Saggio sull'Intelletto Umano, Libro II, Cap. 1, § 5. «Nulla è nell'intelletto che non fu già nei sensi».) Ed aggiungeva  Leibniz(1646-1716):«excipe: nisi intellectus ipse» (Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto umano, Libro II, Cap. 1, § 6.) «fatta eccezione per l'intelletto stesso». Bibliografia                                 Modifica Guido Calogero, «SENSISMO», in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. Voci correlate                             Modifica Intuito Sensibilità (filosofia) Senso comune Pensiero Percezione Altri progettiModifica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «sensismo» Collegamenti esterniModifica sensismo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Guido Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. Modifica su Wikidata sensismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Sensismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                                                            Thesaurus BNCF 28632 · GND ( DE ) 4181004-1 · BNF ( FR ) cb11959281f (data)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di 2.32.16.76 PAGINE CORRELATE Materialismo concezione filosofica  Étienne Bonnot de Condillac filosofo, enciclopedista e economista francese  Sensazione (filosofia) concetto filosofico  Wikipedia Il contenuto  Sessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti e i comportamenti riferibili alla sessualità nell'antica Roma sono stati variamente descritti nell'arte romana, nella letteratura latina e nel Corpus Inscriptionum Latinarum; in misura minore anche da reperti di archeologia classica, quali manufatti di arte erotica (vedi ad esempio l'arte erotica a Pompei e Ercolano) e di architettura romana.   Rapporto sessuale in posizione con donna sopra, calco in gesso di un medaglione in terracotta del I secolo. L'iscrizione dice: "guarda come mi stai aprendo bene". È stato talvolta ipotizzato che la "licenza sessuale illimitata" fosse una delle caratteristiche più peculiari del mondo Romano antico[1]: "La sessualità degli antichi Romani non ha mai avuto buona stampa in Occidente, da quando si è verificato il predomino culturale del cristianesimo. Nella fantasia popolare e nella cultura di massa questa è sinonimo di licenziosità e abuso sessuale"[2]. Tuttavia la sessualità non è stata affatto esclusa dalle preoccupazioni del mos maiorum[3], il nucleo della tradizione etica della civiltà romana; ciò si è verificato attraverso consolidate norme sociali che hanno interessato la vita pubblica, privata e finanche militare[4].  "Pudor", ossia vergogna-pudore, è stato un fattore di regolazione del comportamento[5], oltre che parte di sentenze legali riguardanti casi di trasgressioni sessuali avvenute sia durante il periodo della repubblica romana che in quello dell'impero romano[6]. Il censore, pubblico ufficiale nonché magistrato adibito alla supervisione della "moralità pubblica", era anche atto a determinare il rango (ossia la classe sociale) degli individui; egli aveva tra gli altri anche il potere di rimuovere quei cittadini ritenuti colpevoli di cattiva condotta sessuale dal senato romano e/o dall'antica casta aristocratica del patriziato, ed in alcuni casi ciò è effettivamente avvenuto[7]. Lo studioso e filosofo francese Michel Foucault, nella sua opera Storia della sessualità, ha considerato la realtà sessuale in tutto il mondo greco-romano come severamente disciplinata dalla moderazione e dall'arte di gestire il piacere sessuale[8].  La società romana era fortemente intrisa di patriarcato(vedi la figura del Pater familias), e il concetto di mascolinità si basava essenzialmente sulla capacità di governare se stessi e gli altri, cioè oltre che gli schiavi e i sottoposti anche la propria persona, e ciò valeva pure nell'ambito delle relazioni sessuali[9]. "Virtus", la virtù-il valore, è stato un ideale mascolino di auto-disciplina attiva e che si viene direttamente a riferire alla parola latina indicante il maschio-Vir (la virtù è pertanto caratteristica dell'uomo inteso come rappresentante mascolino della società).   Un satiro in compagnia di una ninfa, simboli mitologici della sessualità. Mosaico rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei. L'ideale corrispondente al termine "Vir" per la donna era la pudicitia, spesso tradotta come castità o modestia; ma essa rappresentava in realtà anche una qualità personale più pro-positiva e finanche competitiva, che doveva ben raffigurare sia il fascino che l'auto controllo di cui doveva essere dotata per Natura la matrona romana[10]. Le donne delle classi superiori avrebbero dovuto essere colte, forti di carattere, ed attive nell'impegnarsi a mantenere la posizione del proprio clan familiare all'interno della società civile[11].  Ma, tranne pochissime eccezioni, la letteratura ha conservato nei riguardi della sessualità solamente le voci dei colti patrizi di sesso maschile; è sopravvissuta quindi soltanto una parte del "discorso sessuale" presente nell'antica Roma. L'arte visiva era invece solitamente creata da individui di status sociale inferiore e rappresentanti di una gamma etnica più ampia di quella più prettamente letteraria; ma essa si è anche trovata a doversi adattare al gusto ed alle inclinazioni di coloro che erano abbastanza ricchi da permettersela e che potevano includere durante l'epoca imperiale anche alcuni liberti[12]; pertanto, anche in tal caso, non risulta essere completamente affidabile.  Alcuni atteggiamenti e comportamenti di natura sessuale ben presenti all'interno della cultura romanadifferiscono notevolmente da quelli della successiva cultura occidentale[13]. La religione romana ad esempio promuoveva la sessualità come uno degli aspetti fondamentali di prosperità per l'intero Stato; singoli individui potevano rivolgersi alla pratica religiosa privata, o anche alla magia, per migliorare la loro vita erotica o la salute e capacità riproduttiva; inoltre la prostituzione nell'antica Roma era legale, pubblica e diffusa. Soggetti artistici che oggi definiremmo senza esitazione come pornografia erano ampiamente presenti tra le collezioni d'arte delle famiglie più rispettabili e di elevato status sociale[14].  Si riteneva del tutto naturale, e il fatto in sé era "moralmente" irrilevante, che un uomo adulto potesse essere attratto sessualmente da adolescenti di entrambi i sessi; la pederastia veniva tranquillamente accettata fintanto che essa riguardava partner maschili - anche giovanissimi - che non fossero cittadini romani, quindi coloro che non erano nati liberi o attualmente in una condizione di schiavitù. La dicotomia moderna di eterosessuale ed omosessualenon costituiva in alcuna maniera la distinzione primaria del pensiero romano nei riguardi della sessualità ed in lingua latina non esistono neppure parole indicanti gli attuali termini[15] che vengono a distinguere nella sua totalità l'identità di genere o l'orientamento sessuale.  Nessuna censura morale vigeva contro l'uomo che godesse degli atti sessuali compiuti con donne o altri uomini di livello inferiore al suo; a patto che questi comportamenti non venissero a rivelare carenze o eccessi nel carattere, né violassero i diritti e le prerogative degli altri coetanei maschi. Era invece la caratteristica dell'effeminatezza a venir percepita in maniera unanimemente negativa, con casi divenuti celebri di denuncia letteraria pubblica a mo' di scherno e invettiva; questo poteva accadere particolarmente all'interno della retorica politica, quando si accusavano spesso e volentieri gli avversari di essere effemminati, cioè affetti da forti carenze caratteriali e pertanto del tutto inaffidabili anche per quel che concerneva la gestione della cosa pubblica.  Il sesso praticato con moderazione con prostitute o giovani schiavi maschi non è mai stato considerato come improprio o un rischio che potesse "viziare" l'intrinseca mascolinità, costitutiva dell'uomo romano adulto; l'importante era che il cittadino assumesse sempre il ruolo sessuale attivo e mai quello passivo (vedi attivo e passivo nel sesso). L'ipersessualitàtuttavia è stata d'altro canto condannata sia moralmente che come patologia medica, questo sia negli uomini che nelle donne.  La componente femminile della società era solitamente tenuta ad un codice morale più rigoroso rispetto alla sua controparte maschile[16]; relazioni omosessuali tra donne sono scarsamente documentate, ma la sessualità femminile in genere è stata ampiamente celebrata o insultata, a seconda dei casi, in tutta la letteratura latina. Nella sua generalità, gli antichi Romani si trovarono ad avere categorie di genere, se così si può dire, più flessibili rispetto all'antica Grecia[17].  Anche se analizzare la sessualità nell'antica Roma in rigidi termini di opposizione binaria "penetratore-penetrato" può risultare in parte fuorviante e dunque può oscurare la pienezza dell'espressività sessuale antica tra individui presi nella loro singolarità[18], l'assenza d'una qualsiasi altra "etichetta" per l'interpretazione culturale dell'esperienza erotica fa sì che tale distinzione continui ad essere utilizzata[19]. Anche la rilevanza stessa data alla parola "sessualità" nella cultura romana antica è stata da alcuni contestata ed è oggetto di disputa[20].  Arte e letteratura erotica                                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica e Letteratura erotica.  Pan che insegna al suo eromenosDafni a suonare il flauto. La letteratura antica concernente la sessualità romana rientra principalmente in quattro categorie: testi giuridici, medici, poetici e politici[21]. Riferimenti a tipologie di espressività sessuale ci provengono dalla commedia del teatro latino, dalla satira, dalla poesia amorosa e dall'invettiva, dai graffiti, dagli incantesimi magici e dalle iscrizioni; tali forme culturali considerate come minori nell'antichità hanno avuto molto più da dire nei riguardi della sessualità che i generi cosiddetti più elevati della tragedia e dell'epica.  Varie informazioni sulla vita sessuale della popolazione è sparsa anche nella storiografia (nei riguardi di personalità conosciute), nell'oratoria e in alcuni testi filosofici, oltre che negli scritti di medicina, agricoltura e di altri argomenti tecnici[22]. I testi di diritto romanosi soffermano su quei comportamenti che si volevano disciplinare o vietare, senza necessariamente indicare quel che le persone realmente facevano o meno[23].  I principali autori latini le cui opere hanno contribuito significativamente alla comprensione della sessualità nell'antica Roma comprendono:  Il commediografo Tito Maccio Plauto, le cui opere ruotano spesso su trame concernenti casi sessuali, con giovani amanti ad esempio tenuti separati dalle avverse circostanze (200 a.C. circa). Lo statista e moralista Marco Porcio Catone(detto "il Vecchio") il quale offre scorci sulla sessualità vigente in un momento storico che successivamente fu considerato come epoca avente gli standard morali più elevati, di tutta la storia latina (150 a.C. circa). Il poeta e filosofo Tito Lucrezio Caro, che presenta un lungo trattato sulla sessualità epicurea nella sua opera De rerum natura (55 a.C. circa). Gaio Valerio Catullo, le cui poesie esplorano tutta una serie di esperienze erotiche avvenute verso la fine dell'epoca repubblicana; esse spaziano da un più delicato sentimento romantico (l'amore verso le donne-Lesbia e nei confronti dei ragazzi-Giovenzio) per giungere fino alle invettive più brutalmente oscene ("Pedicabo ego vos et irrumabo"-io ve lo metto in culo e in bocca; 50 a.C. circa). Marco Tullio Cicerone con numerosi interventi avvenuti in Senato in cui attacca il comportamento sessuale degli avversari politici, a cominciare da Gaio Giulio Cesare più volte additato come sessualmente ambiguo e quindi anche pericoloso per l'incolumità statale; ma anche con lettere disseminate di pettegolezzi contro l'élite romana che gli si opponeva (45 a.C. circa). I poeti Sesto Properzio e Albio Tibullo, che rivelano alcuni degli atteggiamenti sociali dell'epoca quando descrivono le loro storie d'amore avvenute con giovani donne e adolescenti maschi. Publio Ovidio Nasone, in particolare con i suoi Amores e Ars amatoria i quali, secondo la tradizione, hanno contribuito notevolmente ad affrettare la decisione dell'imperatore romanoAugusto di esiliare il poeta; ma anche tramite la sua raccolta epica Metamorfosi la quale presenta tutta una serie di miti a forte impronta sessuale (e ancora una volta sia con esempi di amori tra uomini e donne che tra uomini e ragazzi) riguardante figure divine ed esseri umani, con un'enfasi particolare data allo stupro - alla violenta aggressione di tipo sessuale - attraverso la lente della lettura mitologica (10 d.C. circa). Marco Valerio Marziale, le cui osservazioni sulla società in genere sono spesso e volentieri arricchite e rinforzate da invettive sessualmente esplicite (100 d.C. circa). Decimo Giunio Giovenale, che inveisce contro i costumi sessuali del suo tempo, attaccando con particolare fervore le donne e gli uomini effeminati (200 d.C. circa). Ovidio elenca anche un certo numero di scrittori molto noti al tempo per il materiale salace contenuto nelle rispettive opere, nessuna delle quali è però riuscita a giungere fino a noi[24]. Manuali sessuali greci, ma anche semplici testi di natura pornografica[25] sono stati pubblicati sotto il nome di famose etere (-cortigiane) e diffusi ampiamente. Le novelle erotiche di Aristide di Mileto, i Milesiaká furono tradotte da Sisenna, uno dei pretori del 78 a.C.; Ovidio definisce il libro come una raccolta di misfatti-crimina e ci dice che l'intera narrazione era infarcita con "barzellette sporche"[26]. A seguito della battaglia di Carre nel 53 a.C. i parti sarebbero rimasti scioccati nel trovare proprio quel libro nel bagaglio ufficiale appartenente a Marco Licinio Crasso[27].  L'arte erotica a Pompei e Ercolano, rinvenuta solamente a partire dal tardo XVIII secolo, è una ricca fonte di indizi sulla natura della sessualità nell'antica Roma, anche se non del tutto priva di ambiguità; alcune delle immagini paiono difatti contraddire almeno in parte le preferenze sessuali sottolineate in letteratura, ma potevano queste essere destinate ad un intento satirico, per provocare quindi il riso o alternativamente per sfidare gli atteggiamenti convenzionali seguiti[28].  Oggetti di uso quotidiano quali specchi e vasi in ceramica sigillata potevano essere decorati con scene decisamente erotiche le quali potevano andare dalle eleganti danze compiute in abiti succinti a disegni espliciti di penetrazione sessuale[29]. Dipinti erotici sono stati trovati nelle case più rispettabili della nobiltà romana, come nota Ovidio: "vi è un piccolo dipinto (-tabella[30]) raffigurante varie tipologie di accoppiamenti... ma anche una Venere bagnata che si asciuga i capelli gocciolanti con le dita, a malapena coperta dalle acque"[31]. Questa Venere carica di erotismo appare tra le vari immagini che un intenditore d'arte potrebbe sicuramente apprezzare[32].  Tutta una serie di dipinti rinvenuti all'interno delle terme suburbane di Pompei, scoperti solo nel 1986 e pubblicati in riproduzione nel 1995, presentano una varietà di scenari erotici che paiono destinati a divertire lo spettatore con rappresentazioni sessuali assai scandalose, tra cui un ampio numero di posizioni sessuali, sesso orale e sesso di gruppo eterosessuale, omosessuale e lesbico a scelta[33].  L'arredamento di una camera da letto romano poteva riflettere letteralmente il suo uso sessuale: il poeta augusteo Orazio possedeva presumibilmente una stanza con le pareti interamente ricoperte di specchi, di modo che quando aveva la compagnia di una prostituta poteva osservarla da tutte le angolazioni possibili[34]. L'imperatore Tiberio aveva le camere da letto decorate con i più lascivi e sconci dipinti e sculture, ma veniva rifornito costantemente di "guide del sesso" ricche di consigli e proposte scritte appositamente per lui dal medico greco Elefantide[35].  Nel II secolo si è verificato un autentico boom di testi riguardanti la sessualità, scritti sia in lingua greca che in lingua latina, assieme ai romanzi d'amore[36]; ma questo discorso franco e sincero sulla sessualità scompare quasi del tutto dalla letteratura successiva, con i temi sessuali che vengono riservati alla scrittura medica o alla teologia cristiana.  Nel III secolo il celibato era divenuto un ideale per un crescente numero di fedeli cristiani; gli stessi padri della Chiesa come Tertulliano e Clemente di Alessandria hanno disquisito sul fatto che anche il sesso coniugale dovesse essere consentito solamente per la procreazione. Nel martirologio la sessualità viene descritta come una delle peggiori torture rivolte contro la santa castità del cristiano[37], soffermandosi anche sugli atti di mutilazione sessuale (in particolare i seni) a cui venivano sottoposte in special modo le donne[38].  L'umorismo osceno di Marziale è stato per breve tempo fatto rivivere nel IV secolo dallo studioso e poeta Ausonio, seppur nominalmente cristiano, evitando però la predilezione dell'autore latino nei confronti della pederastia[39].  Sesso, religione e Stato              Modifica Così come per gli altri aspetti della vita romana, anche la sessualità è stata sostenuta e regolata da precise tradizioni religiose (vedi religione romana), sia per quanto concerne il culto pubblico statale sia per quel che riguarda le pratiche religiose private e magiche. La sessualità è in ogni caso una categoria importante del pensiero religioso romano[40].  Il complemento di maschile e femminile è stato di particolare importanza per la definizione del concetto romano di divinità. I Dei Consenti erano un consiglio di coppie divine maschio-femmina equivalenti in qualche misura alle dodici maggiori divinità Greche (vedi gli Olimpi)[41]. Almeno due tra i "sacerdozi statali" erano svolti congiuntamente da una coppia di coniugi[42].  Le vergini Vestali, uno status sacerdotale riservato alle donne, prendendo il voto di castità perenne, si vedevano riconosciuta una relativa indipendenza dal controllo maschile; tra gli oggetti religiosi di maggior pregio che avevano in custodia vi era anche il "fallo sacro"[43]. il fuoco di Vesta doveva evocare l'idea della purezza sessuale nella femmina e contemporaneamente rappresentare il potere procreativo del maschio[44].  Gli uomini che servivano nei vari collegia di sacerdoti (vedi pontefice (storia romana)) avrebbero dovuto in ogni caso sposarsi e crearsi una famiglia. Cicerone ha dichiarato che il desiderio di procreare era il vivaio della repubblica, causa prima per l'esistenza di quella forma di istituzione sociale chiamata matrimonio; a sua volta la casa-domus rappresentava l'unità familiare ch'era il mattone della vita urbana[45].  Molte delle festività romane stagionali contenevano in sé degli elementi sessuali: i Lupercalia del mese di febbraio sono stati celebrati fino al V secolo ed includevano un rito arcaico di fertilità; mentre i Floraliaerano caratterizzati da danze che si svolgevano tra persone nude. In alcune tra le più importanti feste religiose del mese di aprile, partecipavano e venivano ufficialmente riconosciute anche le prostitute.  Le connessioni esistenti tra riproduzione umana, prosperità generale e benessere dello Stato vengono ben incarnate dal culto romano di Venere, che si differenzia dalla sua controparte Greca Afroditesoprattutto per il suo ruolo di madre dell'intero popolo romano, questo attraverso il figlio per metà mortale Enea[46].  Durante il periodo delle guerre civili degli anni 87-82 a.C. Lucio Cornelio Silla, in procinto d'invadere il proprio stesso paese con le legioni assoggettate al proprio comando, ha fatto emettere una moneta raffigurante una Venere incoronata in qualità di suo personale nume tutelare, affiancata da un Cupido in possesso di un rametto di Palma (segno di vittoria). Sul retro vi erano tropaion (trofei militari) assieme a simboli degli àuguri, sacerdoti statali che svelano il volere degli dei. L'iconografia collega quindi la divinità dell'amore col buon augurio di successo militare e con l'autorità religiosa. Il dittatore romano assunse anche il titolo di Epafrodito-appartenente ad Afrodite[47].  Il fascinus fallico era onnipresente nella cultura romana ed appare praticamente su ogni tipo di oggetto, dai gioielli agli antichi campanelli eoliche o tintinnabulum fino alle lampade[48]; era inoltre un potente amuleto atto a proteggere i bambini[49] e ai generali che celebravano il proprio trionfo[50]. Cupido è colui che ispira il desiderio erotico; Priapo invece, importato dalla Grecia, rappresenta più la vera e propria lussuria, intrisa però d'un fondamento fortemente umoristico; Mutunus Tutunus promuoveva infine il sesso coniugale. Il dio Liber (versione latina di Dioniso) si prendeva cura, tra le altre cose, anche delle "risposte fisiologiche" durante l'atto sessuale. Vi erano infine tutta una serie di divinità atte a supervisionare ogni aspetto della relazione amorosa, dal concepimento fino al parto[51].  Quando un maschio assumeva la toga virile Libero diveniva il suo patrono; secondo quel che raccontano i poeti, in questo momento egli lasciava la modestia innocente (-pudor) caratteristica dell'infanzia per acquisire la libertà sociale (-Libertas) e poter iniziare così la sua personale vita sessuale[52].  La mitologia classica tratta spesso di temi sessuali anche molto impegnativi, quali adulterio, incesto e stupro; l'arte e la letteratura hanno proseguito con la scuola alessandrina la trattazione di figure mitologiche erotiche le quali compivano in modo molto umano, ma anche umoristico, atti sessuali in seguito del tutto rimossi dalla dimensione religiosa[53].  Concetti morali e giuridici                                              Modifica Castitas                                             Modifica La parola latina castitas, da cui deriva l'attuale castità, è un sostantivo astratto che denota "una purezza morale e fisica di solito in un contesto specificamente religioso" e a volte, ma non sempre, riferendosi specificatamente alla castità sessuale[54]. Il relativo aggettivo castus-puro poteva esser usato sia per riferirsi a luoghi ed oggetti, così come anche alle persone; l'aggettivo "pudicus" (da cui pudicizia, pudore) descrive in maniera più particolareggiata una persona che è sessualmente morale[54].  I rituali di Cerere concernevano sia la castitas che la sessualità, incarnando la Dea anche la maternità; la torcia portata in suo onore in processione durante lo svolgersi del corteo nuziale era associata alla purezza sessuale della sposa[55]. Vesta era la divinità primaria del pantheon romano associata al concetto di castitas, ed era essa stessa una Dea vergine; le sue sacerdotesse vestali dovevano mantenersi vergini per tutta la vita, avendo fatto voto di rimanere nubili.  Incestum                 Modifica L'incestum, da cui deriva l'attuale incesto, ossia ciò che è "non castum", è un atto che viola la purezza religiosa[54], forse sinonimo di ciò che è "nefas" (nefasto) ovvero religiosamente inammissibile[56].  La violazione ad esempio del voto di castità professato da una Vestale era considerato come incestum: la punizione riguardava sia la donna che l'uomo che la rendeva impura attraverso il rapporto sessuale, sia che l'atto fosse stato consensuale che ottenuto con la forza. Lei veniva seppellita viva, lui lapidato nel Foro. La perdita di castitas di una vestale equivaleva alla rottura del patto stipulato tra Roma e gli dei, la pax deorum[57] e veniva generalmente accompagnata dall'osservazione di cattivi presagi (-prodigia). L'accusa d'incestum che veniva a coinvolgere una vestale poteva spesso coincidere con una situazione di agitazione politica e con pericoli di sommosse[58].  Marco Licinio Crasso venne assolto dall'accusa d'aver commesso incestum con una vestale che condivideva il proprio nome di famiglia[59]. Quello che oggi s'intende per rapporti incestuosi erano solo una delle forme di incestum[54], a volte tradotto anche come sacrilegio. Quando Publio Clodio Pulcro si travestì da donna, violando così i riti della Bona Dea rivolti esclusivamente alla componente femminile della società, si attirò l'accusa di incestum[60].  Stuprum         Modifica Nel diritto romano, ma anche nella morale vigente comune, lo stuprum è il rapporto sessuale illecito, traducibile come "depravazione criminale"[61] o crimine sessuale[62]; esso viene a comprendere diversi reati di natura sessuale, tra cui vi è anche "l'atto sessuale illegale ottenuto con la forza"[63] e l'adulterio (uno stupro morale rivolto contro il coniuge).  Inizialmente col termine stuprum è stato considerato un atto vergognoso in generale, o qualsiasi disgrazia pubblica, il che includeva ma non si limitava alla sessualità considerata illecita[64], ma ai tempi della commedia romana di Tito Maccio Plauto la parola aveva già acquisto il suo più ristretto significato sessuale[65]: innanzitutto uno stuprum può avvenire solo tra cittadini, in quanto qualsiasi violenza sessualecommessa contro la schiavitù era perfettamente lecita e quindi non punibile. Proprio la protezione contro la cattiva condotta sessuale è sempre stato tra i diritti legali che maggiormente contraddistinguono il cittadino dal non-cittadino[65].  Raptus                                                 Modifica Derivante dal verbo latino rapio/rapere, significa "strappar via, portar via, rapire". Nel diritto romano il termine raptio viene utilizzato principalmente per indicare il rapimento o sequestro[66]. Il mitico ratto delle Sabine rappresenta un sequestro della sposa o rapimento a scopo matrimoniale in cui la violazione sessuale delle donne diviene un problema del tutto secondario. Il sequestro di una ragazza non sposata dalla casa di suo padre era in certi casi una "fuga di coppia" messa in atto in quanto non vi era il permesso paterno alla celebrazione delle nozze.  Leggi relative alla violenza sessuale (azioni sessuali commesse con violenza o coercizione) sono state codificate per la prima volta solo verso la fine dell'era repubblicana, mentre il rapimento avvenuto con lo scopo di commettere un reato sessuale è emerso come distinzione giuridica[67].   Offerte votive di Pompei: peni, seni e un utero. Guarigione e Magia Modifica L'aiuto divino poteva essere ricercato anche tramite rituali religiosi privati che avvenivano, associati a lunghi trattamenti medici, col compito di migliorare o bloccare la fertilità, o per cerar di curare malattie degli organi riproduttivi  Teorie della sessualità                            Modifica Antiche teorie riguardanti l'ambito sessuale sono stati prodotti da e per un'élite istruita. La misura in cui queste teorizzazione del sesso abbia effettivamente interessato il comportamento quotidiano rimane discutibile, anche tra coloro che fossero stati attenti agli scritti filosofici e medici che hanno presentato tali opinioni. Questo si presenta come un discorso elitario, mentre spesso deliberatamente critica i comportamenti più tipici o comuni, ma allo stesso tempo non può essere assunta per escludere la possibilità che questi valori fossero più o meno ampiamente seguiti nella società.   Una coppia eterosessuale, lampada a olio. Nel IV libro di [Lucrezio], il De rerum natura viene fornito uno dei passaggi più estesi sulla sessualità umana nella letteratura latina. Yeats descrivendo la traduzione da John Dryden l'ha definita la più bella descrizione del rapporto sessuale mai scritto[68]. Lucrezio era contemporaneo di Catullo e di Cicerone(verso la metà del I secolo a.C. ed il suo poema didattico è una presentazione della filosofia epicureaall'interno della tradizione della tradizione della poesia latina di Ennio.  L'epicureismo era materialista e dedito all'edonismo; il sommo bene qui è il piacere, definito come l'assenza di dolore fisico e stress emotivo. L'epicureo cerca di gratificare i suoi desideri con il minimo dispendio di passione e fatica. I desideri sono classificati come quelli che sono naturali e necessari, come la fame e la sete; quelli che sono naturali ma non necessari, come il sesso; e quelli che non sono né naturali né necessari, compreso il desiderio di dominare sugli altri e glorificare se stessi[69]. È in questo contesto che Lucrezio presenta la sua analisi dell'amore e del desiderio sessuale, che contrasta l'ethos erotico di Catullo e ha influenzato i poeti d'amore del periodo augusteo[70]  La sessualità maschile                                       Modifica Durante tutta l'epoca repubblicana la libertà politica di un cittadino romano ("Libertas") è stata definita in parte dal diritto come un preservare il corpo dalla costrizione fisica, il che comprendeva sia la punizione corporale che l'abuso sessuale[71]. Il valore-virtus era quella cosa che rendeva un uomo adulto ancor più completamente uomo/maschio-vir ed era questa una delle principali tra le virtù considerate attive[72].  Gli ideali romani di mascolinità furono così la premessa per l'assunzione di un ruolo attivo e dominante in ogni campo e sfera della vita; questa era anche la prima tra le direttive imposte al comportamento sessuale maschile: "lo slancio verso l'azione potrebbe esprimersi più intensamente in un ideale di dominio che riflette la gerarchia della società patriarcale romana"[73]. La mentalità di conquista faceva parte di un vero e proprio culto della virilità che, in particolare, dava forma alle "regole" riguardanti le pratiche omosessuali[74]. Un tal accento posto sull'idea di sottomissione e dominio ha portato gli studiosi a vedere le espressioni della sessualità maschile degli antichi romani esclusivamente in termini di modello binario penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello d'inserire il suo pene nel/nella partner[18]. Permettere di lasciarsi penetrare invece rappresentava una minaccia contro la sua libertà in quanto cittadino e contro la propria integrità sessuale: l'attività sessuale definisce così, almeno in parte, la definizione di libero cittadino rispettabile dallo schiavo o dalla persona "libera ma sottomessa-passiva".  Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un maschio romano nato libero il voler intrattenere rapporti intimi con partner di entrambi i sessi, questo almeno fintanto che egli prendeva ed assumeva su di sé il ruolo dominante[75]. Oggetti consentiti del desiderio erano quindi le donne di qualsiasi condizione sociale o giuridica, coloro che esercitavano la prostituzione maschile o gli schiavi, mentre i comportamenti sessuali al di fuori dal vincolo matrimoniale dovevano essere limitati a schiavi e prostitute o, meno frequentemente, ad una concubina.  La mancanza di autocontrollo, anche nella gestione della propria vita sessuale, era un'indicazione che quell'uomo era incapace di governare gli altri[76]; il puro e semplice godimento dato dal "basso piacere sensuale" minacciava pertanto di erodere l'identità maschile elitaria della società, così come la stima ed il rispetto rivolti naturalmente alla persona istruita[77]. Era un punto di orgoglio per Caio Gracco il sostenere che durante il suo mandato come governatore provinciale rimase senza alcuno schiavo scelto tra i ragazzi di più bell'aspetto, che nessuna prostituta visitò la sua casa, e che non avvicinò mai gli schiavi-bambini appartenenti ad altri uomini[78].  In epoca imperiale, preoccupazioni circa la perdita della libertà politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore sono stati espressi da un percepibile aumento di comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato ciò anche da una crescita documentata di punizioni corporali inflitte ai cittadini[79]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di interità fisica in relazione alla Libertas contribuisce e viene riflessa dalla licenza sessuale e dalla decadenza associata con l'Impero[80].   Nudo eroico rappresentante Eurialo e Niso, esempio di omoerotismo maschile in linea con la morale romana a detta di Publio Virgilio Marone. Jean-Baptiste Roman 1827. Nudità maschile      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità. Mostrarsi nudi in pubblico poteva essere offensivo o sgradevole anche in ambienti tradizionali; Cicerone deride Marco Antonio come indegno di apparire quasi nudo come partecipante al Lupercalia, anche se ciò veniva ritualmente richiesto[81]. La nudità è uno dei temi principali di questa festa religiosa che attira l'attenzione di Ovidio nei Fasti, il suo lungo forma poema sul calendario romano[82]. Augusto, durante il suo programma di revivalismo religioso, tentò di riformare i Lupercalia, in parte sopprimendo l'uso della nudità, nonostante il suo aspetto di fertilità[83].  Connotazioni negative di nudità includono la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri sono stati spogliati, e la schiavitù, dal momento che gli schiavi in vendita sono stati spesso esposti nudi. La disapprovazione nei confronti della nudità era quindi nei tutta nei confronti della "marcatura" ch'essa dava al corpo (esser nudi marchiava d'indegnità il corpo deprivandolo della nobiltà che lo caratterizza in quanto cittadino; questo significato era molto più presente rispetto a quello d'esser una mera questione di cercare di reprimere il desiderio sessuale considerato inadeguato[84].  L'influenza proveniente dall'arte greca tuttavia ha portato sempre più a creare ritratti di nudità eroicariferibili sia agli uomini che alle divinità romane, pratica questa che ha avuto inizio nel II secolo a.C. Quando le statue dei generali romani nudi alla maniera del culto rivolto ai sovrani ellenistici cominciarono per la prima volta a diffondersi, vi fu da parte della popolazione una forte reazione "scandalizzata", non tanto o non semplicemente perché veniva esposta la figura maschile nuda, ma soprattutto in quanto evocante concetti di regalità e divinità che si trovavano in contrasto con gli ideali repubblicani di cittadinanza così com'era incarnata dalla toga[85].  Il dio Marte si presenta come uomo barbuto maturo in abito di generale, ciò quando viene concepito come padre del popolo in tutta la sua dignità, mentre le sue raffigurazioni giovanili, senza barba e nudo, mostrano tutta l'influenza proveniente dalla rappresentazione greca di Ares. Nella prima arte augustea e giulio-claudia l'adozione programmatica dello stile neoatticoe dell'arte ellenistica ha portato alla più complessa significazione del corpo maschile mostrato nudo, parzialmente nudo oppure indossante una lorica musculata (o corazza eroica)[86].  Una notevole eccezione nei confronti della nudità in pubblico riguardava le terme, purtuttavia anche in quest'ambito gli atteggiamenti sono cambiati nel corso del tempo. Nel II secolo a.C. Catone il Vecchiopreferiva non fare il bagno nudo alle terme in presenza del figlio, mentre Plutarco pare sottolineare il fatto che nei suoi tempi e in quelli immediatamente precedenti poteva esser ritenuto assai vergognoso per gli uomini maturi esporre i loro corpi davanti a maschi più giovani[87]. In seguito vi fu addirittura la possibilità per uomini e donne di fare il bagno assieme[88].  Fallicismo                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Simbolismo fallico. La sessualità romana, così com'è ripetutamente rappresentata in letteratura, è stata descritta come essenzialmente fallocentrica[89].  Il "fallo" (simbologia del pene in erezione) doveva avere il potere di scacciare il malocchio ed altre forze soprannaturali malefiche; è stato utilizzato come amuleto dalle capacità "fascinatorie" (fascinus), di cui sopravvivono molti esempi in particolare sotto forma di tintinnabulum[90].  Il fallo dalle dimensioni e dalla lunghezza esagerata è stato associato nell'arte romana col dio Priapo, divinità itifallica per eccellenza). La raccolta poetica di autori anonimi intitolata Carmina Priapea fa parlare direttamente il "dio dei giardini", che minaccia allegramente di stupro tramite sesso anale qualsiasi ladro potenziale e chiunque si azzardi ad oltrepassare i confini della casa quando non ben accetto dai padroni. La maledizione scagliata da Priapo può causare sia l'impotenza che uno stato tormentoso di eccitazione perenne senza alcuna possibilità di remissione, il priapismo.  Ci sono all'incirca 120 termini latini registrati per indicare metaforicamente l'organo sessuale maschile e nella stragrande maggioranza dei casi questi vengono a descrivere il sesso del maschio come uno strumento d'aggressione, quando non come una vera e propria arma[91]. L'oscenità più comune per chiamare il pene è "mentula", molto utilizzato da Marziale al posto di termini più gentili o soft. Virga, come altre parole significanti ramo, asta, palo, trave erano metafore comuni, così anche vomere o aratro.  Castrazione e circoncisione                                                  Modifica Alcuni romani, bramosi di conservare il più a lungo possibile la bellezza pre-adolescenziale e femminea dei propri schiavi (considerati e chiamati come deliciae o delicati-"giocattoli, delizie") a volte li facevano sottoporre poco dopo la pubertà alla castrazione, cioè all'asportazione dei testicoli nel tentativo di preservare l'aspetto androgino della loro giovinezza. L'imperatore Nerone aveva il suo castrato preferito di nome Sporo, che giunse fino al punto di sposarlo in una cerimonia pubblica[92].  Effeminatezza e travestitismo                                                  Modifica Quella di effeminatezza era tra le accuse preferite rivolte agli avversari nel corso dell'invettiva politica; essa colpiva soprattutto coloro che difendevano le istanze dei populares, quella fazione politica i cui capi si presentavano come difensori del popolo (democratici), che si trovava perennemente in contrasto con gli ottimati, l'élite conservatrice nobiliare[93].  Negli ultimi anni della repubblica varie personalità tra i populares sono state tacciate d'esser irrimediabilmente effeminate, oltre a Gaio Giulio Cesare anche Marco Antonio, Publio Clodio Pulcro e Lucio Sergio Catilina assieme a tutti i suoi amici cospiratori (vedi congiura di Catilina): venivano tutti derisi in quanto eccessivamente curati (ben vestiti e profumati) o perché giravano voci insistenti su loro trascorsi sessuali con altri uomini nei cui confronti avrebbero assunto il ruolo denigrato della femmina; allo stesso tempo però l'effeminato era anche il donnaiolo, il Don Giovanni impenitente in possesso di fascino e carisma superiori alla norma e che amava vestirsi elegantemente ed esser sempre profumato[94].  Forse l'episodio più celebre di crossdressingnell'antica Roma si è verificato nel 62 a.C. quando il succitato Clodio Pulcro violò i riti annuali della Bona Dea e che erano riservati alle sole donne; essi si svolsero nella casa di Cesare, nell'epoca in cui questi si trovava quasi al termine del suo mandato di pretoree s'apprestava ad assumere l'investitura di pontefice massimo. Clodio si travestì come una flautista per riuscire ad entrare, come viene descritto da Cicerone che lo addita come sacrilego[95]:  «Togli il suo vestito color zafferano, la sua tiara, le sue scarpette dai lacci viola, il suo reggiseno e il suo Salterio, togli il suo comportamento sfacciato e il suo crimine sessuale, ed ecco che allora Clodio si rivela improvvisamente come un democratico.[96]»  Le azioni di Clodio, che era stato appena eletto questore ed era in procinto di compiere trent'anni, sono spesso state considerate come un ultimo scherzo giovanile. La natura tutta femminile di questi riti notturni ha attirato nel corso del tempo molta speculazione pruriginosa negli uomini; sono state fantasticate come enormi orge lesbiche compiute tra i fumi dell'alcol e che potevano pertanto anche essere molto divertenti da osservare[97]. Clodio si suppone che avesse avuto lo scopo di sedurre la moglie di Cesare, ma la sua voce maschile lo ha smascherato prima di poter riuscire ad averne la possibilità. Lo scandalo ha spinto Cesare a cercare di ottenere un divorzio immediato per poter in tal maniera tenere sotto controllo i danni sopravvenuti alla propria reputazione, dando origine alla famosa frase divenuta proverbiale "la moglie di Cesare deve essere sopra di ogni sospetto." L'incidente ha riassunto comunque il disordine vigente durante gli ultimi anni della repubblica romana[98].  L'ambiguità sessuale è poi una caratteristica peculiare dei sacerdoti della dea Cibele conosciuti come Galli, il cui abbigliamento rituale includeva capi femminile. Essi sono a volte considerati come una specie di sacerdozio transgender, in quanto veniva richiesto loro di sottoporsi ad auto-evirazione ad imitazione di Attis. La complessità dell'identità di genere nella religione di Cibele e Attis e nel relativo mito sono ben esplorate da Catullo in una delle sue poesie più lunghe, il Carme 63[99].  Rapporti omosessuali           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità nell'Antica Roma.  Lato della Coppa Warren che mostra il "conquistatore erotico" del puer delicatus (ragazzino), incoronato. Gli uomini romani erano del tutto liberi di avere rapporti sessuali con maschi di status inferiore, senza per questo aver alcuna percezione di una qualche perdita di mascolinità; soltanto coloro che prendevano il ruolo passivo nel rapporto (a volte indicati come sottomessi) venivano fortemente denigrati come deboli e privi di virilità.  I cittadini romani che erano solitamente contrassegnati come "maschile" potevano attuare la penetrazione sessuale di uomini sia verso coloro che esercitavano la prostituzione maschile che nei confronti degli schiavi i quali solitamente erano ragazzi sotto i vent'anni d'età[100].  La letteratura comprende molte opere che parlano di omoerotismo; comprende le poesie di Catullo[101]dedicate al suo ragazzino quattordicenne di nome Juventius (Giovenzio), le elegie di Tibullo[102] e Properzio[103], la seconda egloga delle Bucoliche di Virgilio e diverse poesie di Orazio. Lucrezio affronta il tema dell'amore provato nei confronti dei ragazzi nel suo De Rerum Natura (4.1052–1056). Sebbene Publio Ovidio Nasone includa di trattare esempi mitologici di omoerotismo nelle sue Metamorfosi, egli risulta altresì prendere al riguardo una posizione che è insolita fra i poeti d'amore latini, ed in effetti tra i Romani in generale, quando esprime opinioni aggressivamente eterosessuali. Il Satyricon di Petronio Arbitro è talmente permeato di erotismo culturale di tipo omosessuale che nei circoli letterari europei del XVIII secolo, il suo nome è diventato addirittura un sinonimo di omosessualità.  Anche se il diritto romano non riconosceva il matrimonio tra uomini, nel periodo imperiale alcune coppie maschili celebrarono riti matrimoniali tradizionali. Tali forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che li deridono; i sentimenti dei partecipanti non sono registrati.  Lo stupro sugli uomini            Modifica Gli uomini che erano stati violentati perdevano la legittimazione all'agire sociale, ne venivano esentati; acquisivano lo status di infamia, lo stesso degli uomini dediti alla prostituzione maschile o di quelli che assumevano volontariamente il ruolo passivo nell'atto sessuale. Secondo il giurista Pomponio, dopo che l'uomo è stato violentato con la forza dai ladri o dal nemico in tempo di guerra, dovrebbe sopportarne lo stigma. I timori di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare veniva esteso anche ai maschi oltre che alle potenziali vittime di sesso femminile.  Il diritto romano ha affrontato lo stupro di un cittadino di sesso maschile già nel II secolo a.C., quando venne emessa una sentenza riguardante una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale; anche se un uomo che aveva lavorato nell'ambito della prostituzione non poteva essere violentato per una questione di diritto, è stato stabilito difatti che anche un uomo poco raccomandabile e discutibile fosse in pieno possesso degli stessi diritti degli altri uomini liberi di non avere il proprio corpo sottoposto da una sessualità forzata. In un libro sull'arte della retorica del I secolo a.C. lo stupro di un maschio nato libero (ingenuus) è equiparato a quello di una matrona ed in quanto ciò trattarsi di un crimine capitale. La Leges Iuliae#Lex Iulia de vi publica et privata (17 a.C.) definisce lo stupro come il sesso forzato contro un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione, una sanzione alquanto rara nel diritto romano. Costituiva inoltre un delitto capitale per un uomo rapire un bambino nato libero per utilizzarlo in scopi eminentemente sessuali; la corruzione del protettore del ragazzo per averne l'opportunità ne rappresentava un'aggravante: in questo caso la negligenza degli accompagnatori poteva essere perseguita sotto varie leggi, riversando patte della colpa su coloro che non erano riusciti nelle loro responsabilità come guardiani, piuttosto che sulla vittima. Anche se la legge riconosceva l'irreprensibilità della vittima, la retorica utilizzata dalla difesa indica che i cosiddetti "atteggiamenti colpevoli" avrebbeto potuto essere sfruttati fra i giurati.  Nella sua collezione di codici aneddotici che si occupavano d assalti alla castità, lo storico Valerio Massimo dispone in egual misura di un numero di vittime di sesso maschile rispetto a quelle di sesso femminile.  Sessualità militare                                          Modifica Il soldato romano, come ogni romano libero e rispettabile dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina in materia di sesso. Ai soldati colpevoli di adulterio veniva dato un congedo disonorevole, mentre agli adulteri condannati era impedito l'arruolamento[104], con condanne rigorose che potevano vietare le prostitute e i magnaccia dal campo,[105].  Anche se in generale l'esercito romano, sia in marcia che in un forte permanente (castra) mantenevano tra i partecipanti un numero di seguaci di campo che potevano includere anche le prostitute. La loro presenza sembra essere data per scontata e menzionata soprattutto quando poteva diventare un dato problematico[105]; per esempio quando Scipione Emiliano stava partecipando all'assedio di Numanzianel 133 a.C. respinse i seguaci sessuali del campo come una delle sue misure per il ripristino della disciplina[106].  Forse la cosa più singolare è il divieto contro il matrimonio romano mentre si faceva parte degli effettivi dell'esercito imperiale. Nel suo primo periodo, Roma aveva un esercito di cittadini che avevano lasciato le proprie famiglie per prendere le armi, quando ve ne fosse stato bisogno. Durante l'espansionismo della media repubblica romana, Roma iniziò ad acquisire vasti territori da difendere come le province (vedi la provincia romana), ma nel corso dell'epoca di Gaio Mario (fino all'86 a.C.) l'esercito era stato sempre più professionalizzato.  Il divieto di matrimonio per i soldati in servizio iniziò sotto Augusto (27 a.C.-14 d.C.), forse per scoraggiare le famiglie al seguito dell'esercito e compromettendone così la sua mobilità. Il divieto di matrimonio era applicato a tutti i ranghi fino a quello del centurione; mentre per gli uomini delle classi dirigenti c'era l'esenzione. Con il II secolo la stabilità dell'impero conosciuta come pax romana ha costretto la maggior parte delle unità a forti permanenze in terre lontane, cosicché si potevano spesso sviluppare rapporti anche con donne locali. Sebbene legalmente queste unioni non potevano essere formalizzate in matrimonio legittimo, è stato riconosciuto che il loro valore stava nel fornire un supporto emotivo.  Dopo che un soldato fosse stato dimesso, alla coppia era concesso il diritto di matrimonio legale in quanto cittadini (il connubium) e tutti i bambini che già eventualmente avevano veniva loro concesso lo status di esser nati cittadini[107]. Settimio Severo revocò il divieto augusteo nel 197[108].  Altre forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati erano l'uso di schiavi, gli stupri di guerra e la relazione tra persone dello stesso sesso[109]. Il comportamento omosessuale tra i soldati è stato oggetto di sanzioni, compresa la pena la morte[105] in quanto violazione della disciplina e del diritto militare. Polibio (2 sec a.C.) riferisce che l'attività omosessuale all'interno delle forze armate era punita con la fustuarium, una fustigazione fino a morte[110].  Il sesso tra commilitoni violava il decoro romano in quanto s'intratteneva un rapporto sessuale con un altro maschio nato libero. Un soldato aveva sopra ogni altra cosa il dovere di mantenere la propria mascolinità, non consentendo in nessun caso pertanto che il proprio corpo potesse essere utilizzato per scopi sessuali. Questa integrità fisica era in contrasto con i limiti imposti sulle sue azioni come uomo libero all'interno della gerarchia militare; più sorprendentemente, i soldati romani erano i soli cittadini regolarmente sottoposti a punizioni corporali, riservate al mondo civile soprattutto agli schiavi. L'integrità sessuale ha contribuito a distinguere lo status del soldato, che altrimenti avrebbe sacrificato molto della sua autonomia civile rispetto a quella dello schiavo[111].  Nella guerra, subire lo stupro equivaleva alla sconfitta, un altro motivo per il soldato di non compromettere il proprio corpo sessualmente[112].  La sessualità femminile                    Modifica A causa dell'enfasi romana data alla famiglia, la sessualità femminile è stata considerata una delle basi per l'ordine sociale e la prosperità. Ci si aspettava che le donne romane esercitassero la propria sessualità all'interno del matrimonio, e venissero premiate per la loro integrità sessuale (pudicitia) e fecondità. Augusto concesse onori e privilegi speciali alle donne che avevano dato alla luce almeno tre bambini, attraverso lo Ius trium liberorum; la sua legge morale era incentrata sullo sfruttamento della sessualità delle donne.  Il controllo della sessualità femminile era considerata necessaria per la stabilità dello Stato, tanto che era sancito nella forma più vistosa data dalla verginitàassoluta delle Vestali[113] attendenti al sacro fuoco. Una vestale che avesse violato il proprio voto sarebbe stata sepolta viva in un rituale che avrebbe imitato per alcuni aspetti le pratiche funerarie romane ed il suo amante l'avrebbe seguita[114]. La sessualità femminile, sia disordinata sia esemplare, spesso poteva avere impatti anche profondi sulla religione di Stato in tempo di crisi per la repubblica romana[115].  Come avveniva per gli uomini, anche per le donne libere che si fossero esposte sessualmente, come prostitute od esecutrici di lenocinio, o che si fossero rese disponibili indiscriminatamente, sarebbero state escluse dalla protezione legale dovuta loro nonché dalla rispettabilità sociale[116].  Molte fonti letterarie romane approvano le donne rispettabili che esercitano la passione esclusivamente all'interno dell'istituzione matrimoniale[117]; mentre la letteratura antica prende con prepotenza una visione fortemente maschilista della sessualità, il poeta augusteo Publio Ovidio Nasone esprime invece un interesse esplicito e praticamente unico del modo in cui le donne subiscono il rapporto sessuale[118] (ciò innanzi tutto nellArs amatoria ma anche negli Amores).  Il corpo femminile                                Modifica Gli atteggiamenti morali nei confronti della nudità femminile differivano, almeno in parte, da quelli dei Greci, pur essendo notevolmente influenzati da loro; questi ultimi avevano idealizzato il corpo maschile nudo - il nudo eroico - mentre ritraggono sempre le donne rispettabili coperte. La parziale nudità delle dèe nell'arte imperiale romana, tuttavia, poteva mettere in evidenza il seno come parte fisica dignitosa, ma in quanto per renderne un'idea piacevole d'immagine di nutrimento, abbondanza e tranquillità[119].  L'arte erotica sopravvissuta di questo periodo indica che le donne con seni piccoli e fianchi larghi raffiguravano l'ideale forma del corpo umano femminile[120]. Dal I secolo d.C. l'arte romana comincia a mostrare un vasto interesse per il nudo artisticofemminile impegnato in varie attività tra le quali anche la sessualità[121] (vedi l'arte erotica a Pompei e Ercolano); l'arte pornografica rappresentante donne in qualità di presunte prostitute nel momento in cui svolgono atti sessuali poteva mostrare il seno coperto da uno "strophium" (una sorta di reggiseno) anche quando il resto del corpo era nudo.  Nel mondo reale, così come viene descritto in letteratura, le prostitute a volte si presentavano nude all'ingresso del cubicolo del bordello a loro riservato, oppure si mostravano indossare abiti di seta trasparente; gli schiavi (e schiave) in vendita sono stati spesso esposti nudi per consentire agli acquirenti d'ispezionare i loro eventuali difetti, ma anche per simboleggiare che non avevano il diritto di controllare il proprio corpo[122]. Seneca il Vecchio descrive il momento della vendita di una donna: "lei si presentò nuda sulla riva, a piacere dell'acquirente: ogni parte del suo corpo è stato esaminato e ritenuto. Volete ascoltare il risultato della vendita? Il pirata ha venduto, il protettore ha comprato, che la si potesse impiegare come una prostituta"[123].  La visualizzazione del corpo femminile lo rendeva maggiormente vulnerabile, Varrone ha detto che la vista era il più grande dei sensi, perché mentre gli altri sono in un modo o nell'altro limitati dalla vicinanza, la vista poteva penetrare anche fino all'altezza delle stelle; egli pensava che la parola latina per vista-lo sguardo intenso, "visus", fosse etimologicamente collegato a vis-forza/potere. Ma il legame tra visus e vis, continua, implica anche la possibilità sempre presente di violazione (tramite quindi lo sguardo maschile), come Atteone guardando nuda Diana ne aveva violato la divinità[124].  Il corpo femminile completamente nudo come viene ritratto nella scultura romana è stato pensato essenzialmente per incarnare un concetto universale di Venere, la cui controparte greca Afrodite è la Deapiù spesso dipinta in stato di nudità nell'arte greca[125].  Genitali femminili              Modifica Il termine basilare osceno per i genitali femminili è "cunnus"-fica, anche se forse non così fortemente offensiva come per la moderna lingua anglosassone[126]. Marziale utilizza la parola più di trenta volte, Catullo una volta e Orazio tre solo nei suoi primi lavori; appare anche nei Priapea e nei graffiti[127]. Una delle parole gergali usate dalle donne per i loro genitali era "porcus", in particolare quando donne mature discutevano di ragazze; Varrone collega quest'uso della parola al sacrificio di un maiale alla dea Cerere nel corso dei riti preliminari di nozze[128].  Le metafore di campi, giardini e prati sono anch'esse comuni, come lo è l'immagine dell'aratro maschile riferito al solco femminile[129]; altre metafore includono la grotta, la fossa, il sacchetto, il vaso, la stufa, il forno e l'altare[130].  Anche se i genitali delle donne appaiono spesso nelle invettive e all'interno dei versi satirici come oggetti di disgusto, sono invero raramente presenti nell'elegia d'amore[131]. Ovidio, il più eterosessuale dei poeti classici d'amore, è l'unico che si riferisce al dare un piacere alla donna attraverso la stimolazione dei genitali[132]; Marziale invece scrive dei genitali femminili solamente in una maniera offensiva, descrivendo la vagina di una donna come fosse l'esofago di un pellicano.[133] e la paragona inoltre al sedere del ragazzo come ricettacolo per il fallo[134].  La funzione della clitoride ("landica") è stata ben compresa[135]; nel latino classico il termine era di un'oscenità altamente indecorosa ritrovato solo nei graffiti e nei Priapea. Il clitoride era solitamente indicato come una metafora, come ad esempio fa Giovenale quando lo chiama "crista" (cresta)[136]  Omosessualità femminile          Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                          Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. Le parole greche indicanti una donna che preferisce il sesso con un'altra donna includono l'hetairistria (da confrontare con hetaira-cortigiana/compagna), tribas (plurale tribadi) e lesbia  Sessualità e gioventù                              Modifica Sia i maschi che le femmine nati liberi potevano indossare la "Toga praetexta", una toga bianca normale con una larga striscia viola sui bordi; era riservata ai ragazzi cittadini che non avevano però ancora raggiunto la maggiore età. Questa toga assegnava chi la portava lo status di inviolabilità[137]; lo stupro di un ragazzo nato libero costituiva un crimine capitale.  Riti di passaggio                               Modifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sessualità è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Sesso, matrimonio e società                       Modifica Relazione padrone-schiavo                              Modifica L'attrattiva sessuale era una delle caratteristiche principali richieste negli schiavi in quanto considerati proprietà oggettiva, il loro padrone poteva utilizzarli sessualmente a piacimento o anche richiederli in prestito se appartenevano ad altri. Le lettere di Cicerone hanno suggerito ad alcuni studiosi che egli potesse aver avuto una relazione omosessuale a lungo termine col proprio schiavo, e poi liberto, di nome Marco Tullio Tirone.  Prostituzione                 Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Prostituzione nell'antica Roma. Atti sessuali e relative posizioni                                                  Modifica Masturbazione                                        Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della masturbazione. Ermafroditismo e androginia                                                            Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Ermafrodito, Afrodito e Androgino. Note      Modifica ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), p. 65. ^ Beert C. Verstraete and Vernon Provencal, introduzione a Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Press, 2005), p. 5. Per una più estesa discussione su come la percezione moderna della decadenza sessuale romana sia stata prodotta ad arte dalla polemistica cristiana nei suoi strali anti-pagani, vedi Alastair J. L. Blanshard, "Roman Vice," in Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, 2010), pp. 1–88. ^ Rebecca Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 2006), p. 17. ^ Karl-J. Hölkeskamp, Reconstructing the Roman Republic: An Ancient Political Culture and Modern Research (Princeton University Press, 2010), pp. 17–18. ^ Langlands, Sexual Morality, p.17. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 20. ^ Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome", in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 121; Amy Richlin, "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men", Journal of the History of Sexuality 3.4 (1993), p. 556. Under the Empire, the emperor assumed the powers of the censors (p. 560). ^ Michel Foucault, Storia della sessualità vol. II: la cura di sé (New York: Vintage Books, 1988), vol. 3, p. 239 (in contrasto con la visione cristiana della sessualità come "legata al male") et passim, e come viene sintetizzato da Inger Furseth and Pål Repstad, An Introduction to the Sociology of Religion: Classical and Contemporary Perspectives (Ashgate, 2006), p. 64. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale University Press, 1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Langlands, Sexual Morality, pp. 37–38 et passim. ^ Cantarella, Bisessualità nel mondo antico, pp. xii–xiii. ^ John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250 (University of California Press, 1998, 2001), pp. 9, 153ff. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 31, in special modo la nota 55; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 11. ^ Thomas A. McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World (University of Michigan Press, 2004), p. 164. ^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p. 304, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, 1983), p. 122. ^ Martha C. Nussbaum, "The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman", in The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome (University of Chicago Press, 2002), p. 299. ^ Marilyn B. Skinner, introduction to Roman Sexualities (Princeton University Press, 1997), p. 11. ^ a b Langlands, Sexual Morality, p. 13. ^ Edwards, The Politics of Immorality, pp. 66–67, especially note 12. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 8, sostiene che gli antichi romani "non hanno un'idea consapevole della loro sessualità". Vedi anche Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas", in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 15–16 et passim, e la discussione di costruttivismo sociale contrario all'essenzialismo di Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome", in The Roman Cultural Revolution (Cambridge University Press, 1997), p. 2ff. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 9. ^ Amy Richlin, "Sexuality in the Roman Empire", in A Companion to the Roman Empire (Blackwell, 2006), p. 330. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 331. ^ Ovid, Tristia 2.431ff. ^ Jasper Griffin, "Propertius and Antony", Journal of Roman Studies 67 (1977), p. 20. ^ Ovid, Tristia 2. 413 and 443–444; Heinz Hofmann, Latin Fiction: The Latin Novel in Context (Routledge, 1999), p. 85. ^ Plutarco, Vita di Crasso 32. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 3 et passim. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 108. ^ La "Tabella" era un piccolo dipinto portatile, distinto dalla pittura murale permanente. ^ Ovidio, Tristia 2, così com'è citato da Clarke in Looking at Lovemaking, pp. 91–92. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 93. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 3 and 212 ff., quotation on p. 216. ^ L'osservazione critica proviene da Svetonio, Vita di Orazio: Ad res Venerias intemperantior traditur; nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque respexisset ibi ei imago coitus referretur; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 92. ^ Svetonio, Vita di Tiberio 44.2; Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 92–93. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p.329. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 329. ^ Ad esempio, Agatha of Sicily e Febronia of Nisibis; Sebastian P. Brock and Susan Ashbrook Harvey, introduction to Holy Women of the Syrian Orient (University of California Press, 1987), pp. 24–25; Harvey, "Women in Early Byzantine Hagiography: Reversing the Story," in That Gentle Strength: Historical Perspectives on Women in Christianity (University Press of Virginia, 1990), pp. 48–50. I racconti di mutilazione del seno si trovano nelle fonti e nell'iconografia cristiana, non nell'arte e nella letteratura romana.. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 330. Anche se non vi sono dubbi sul fatto che Ausonio fosse un cristiano, le sue opere contengono molte indicazioni che dimostrano un notevole interesse - forse addirittura ne è stato un praticante - nei riguardi delle religioni tradizionali romane e celtiche. ^ Come sostenuto da Ariadne Staples in tutto il suo From Good Goddess to Vestal Virgins: Sex and Category in Roman Religion (Routledge, 1998). ^ Celia E. Schultz, Women's Religious Activity in the Roman Republic (University of North Carolina Press, 2006), pp. 79–81; Michael Lipka, Roman Gods: A Conceptual Approach (Brill, 2009), pp. 141–142 ^ See Flamen Dialis and rex sacrorum. ^ Mary Beard, J.A. North, and S.R.F. Price, Religions of Rome: A History (Cambridge University Press, 1998), vol. 1, p. 53; Robin Lorsch Wildfang, Rome's Vestal Virgins: A Study of Rome's Vestal Priestesses in the Late Republic and Early Empire (Routledge, 2006), p. 20. ^ Staples, From Good Goddess to Vestal Virgins, p. 149. ^ Cicerone, De officiis 1.17.54: nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium reipublicae; Sabine MacCormack, "Sin, Citizenship, and the Salvation of Souls: The Impact of Christian Priorities on Late-Roman and Post-Roman Society," Comparative Studies in Society and History 39.4 (1997), p. 651. ^ Com'è espresso nella prima invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro nel De rerum natura: "Begetter (genetrix) of the line of Aeneas, the pleasure (voluptas) of human and divine." ^ J. Rufus Fears, "The Theology of Victory at Rome: Approaches and Problem," Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.17.2 (1981), pp. 791–795. Silla poteva in quel momento essere o meno stato un àugure. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity(Oxford University Press, 1999), p. 92. ^ Martin Henig, Religion in Roman Britain(London: Batsford, 1984), pp. 185–186. ^ Plinio, Naturalis historia 28.4.7 (28.39), dice che quando un generale celebrava un trionfo, le Vestali appendevano l'effigie del Fascinus nella parte inferiore del suo carro per proteggerlo dall'invidia. ^ Robert Turcan, The Gods of Ancient Rome(Routledge, 2001; originally published in French 1998), pp. 18–20; Jörg Rüpke, Religion in Republican Rome: Rationalization and Ritual Change (University of Pennsylvania Press, 2002), pp. 181–182. ^ Iter amoris, "journey" or "course of love". See Propertius 3.15.3–6; Ovidio, Fasti) 3.777–778; Michelle George, "The 'Dark Side' of the Toga," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture(University of Toronto Press, 2008), p. 55. Robert E. A. Palmer, "Mutinus Titinus: A Study in Etrusco-Roman Religion and Topography," in Roman Religion and Roman Empire: Five Essays(University of Pennsylvania Press, 1974), pp. 187–206, ha sostenuto che quello di Mutunus Tutunus fosse un sotto-culto di quello che era dedicato a Libero; Agostino di Ippona, De civitate Dei 7.21, ha detto che un fallo era un oggetto divino utilizzato durante la Liberalia per respingere le influenze malevoli dalle colture. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 46–47. ^ a b c d Langlands, Sexual Morality, p. 30. ^ Barbette Stanley Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, 1996), pp. 115–116, citing Festus (87 in the edition of Müller) parlando della torcia, rileva che le sacerdotesse devote e dedicate al culto di Cerere nelle province romane nordafricane fanno voto di castità come avviene tra le Vestali (Tertulliano, Ad uxorem 1.6 Oehler). Ovidio nota che Cerere è soddisfatta anche da piccole offerte, purché siano caste (Fasti 4.411–412). Statius dice che Cerere stessa è casta (Silvae 4.311). La preoccupazione di associare la dea con la "castitas" può avere a che fare con la sua funzione di tutelare i passaggi oltre i confini, compresa quindi anche la transizione tra la vita e la morte, come avviene nelle religioni misteriche. ^ H.H.J. Brouwer, Bona Dea: The Sources and a Description of the Cult (Brill, 1989), pp. 367–367, note 319. ^ Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus, p. 51; Susanne William Rasmussen, Public Portents in Republican Rome («L'Erma» di Bretschneider, 2003), p. 41. ^ Wildfang, Rome's Vestal Virgins, p. 82 et passim. ^ Crassus's nomen was Licinius; the Vestal's name was Licinia (see Roman naming conventions). His reputation for greed and sharp business dealings helped save him; he objected that he had spent time with Licinia to obtain some real estate she owned. For sources, see Michael C. Alexander, Trials in the Late Roman Republic, 149 BC to 50 BC (University of Toronto Press, 1990), p. 84. The most likely year was 73 BC; Plutarch, Life of Crassus 1.2, implies that the prosecution was motivated by political utility. One or more Vestals were also brought before the College of Pontiffs for incestum in connection with the Catiline Conspiracy (Alexander, Trials, p. 83). ^ The sources on this notorious incident are numerous; Brouwer, Bona Dea, p. 144ff., gathers the ancient accounts. ^ Bruce W. Frier and Thomas A. J. McGinn, A Casebook on Roman Family Law (Oxford University Press, 2004), pp. 38 and 52. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, 1983, 1992), p. 30. ^ Stuprum cum vi or per vim stuprum: Richlin, "Not before Homosexuality," p. 562. ^ For instance, in the mid-3rd century BC, Naevius uses the word stuprum in his Bellum Punicum for the military disgrace of desertion or cowardice; Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, 2011), p. 117. ^ a b Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties," p. 118. ^ Diana C. Moses, "Livy's Lucretia and the Validity of Coerced Consent in Roman Law," in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies (Dunbarton Oaks, 1993), p. 50; Gillian Clark, Women in Late Antiquity: Pagan and Christian Life-styles (Oxford University Press, 1993), p. 36. ^ Moses, "Livy's Lucretia," pp. 50–51. ^ Stuart Gillespie and Philip Hardie, introduction to The Cambridge Companion to Lucretius(Cambridge University Press, 2007), p. 12. ^ A scholiast gives an example of an unnatural and unnecessary desire as acquiring crowns and setting up statues for oneself; see J.M. Rist, Epicurus: An Introduction (Cambridge University Press, 1972), pp. 116–119. ^ Philip Hardie, "Lucretius and Later Latin Literature in Antiquity," in The Cambridge Companion to Lucretius, p. 121, note 32. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 326. See the statement preserved by Aulus Gellius 9.12. 1 that " it was an injustice to bring force to bear against the body of those who are free" (vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^ Elaine Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius' Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects of Propaganda in the De bello gallico: Caesar’s Virtues and Attributes,” Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Craig A. 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Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton University Press, 1993). ^ Julia Heskel, "Cicero as Evidence for Attitudes to Dress in the Late Republic," in The World of Roman Costume (University of Wisconsin Press, 2001), p. 138; Larissa Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," in American Journal of Archaeology 93.4 (1989), p. 563. ^ Ovid, Fasti 2.283–380. ^ Carole E. 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Alcuni studiosi hanno pensato che solo le donne delle classi inferiori si bagnassero con gli uomini, o le prostitute che erano infames, ma Clemente di Alessandria ha osservato che le donne delle più alte classi sociali potevano essere viste nude ai bagni. Adriano vietata la balneazione mista, ma il divieto non sembra fosse rigorosamente rispettato. In breve, i costumi variavano non solo nel tempo e nei luoghi, ma anche rispetto alla struttura sociale predominante; vedi Garrett G. Fagan, Bathing in Public in the Roman World (University of Michigan Press, 1999, 2002), pp. 26–27. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 84; David J. 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Clodius, a crocota, a mitra, a muliebribus soleis purpureisque fasceolis, a strophio, a psalterio, <a> flagitio, a stupro est factus repente popularis: Cicero, the speech De Haruspicium Responso 21.44, delivered May 56 BC, and given a Lacanian analysis by Eleanor Winsor Leach, “Gendering Clodius,” Classical World 94 (2001) 335–359. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. ^ Edwards, The Politics of Immorality, p. 34; see also W. Jeffrey Tatum, Always I Am Caesar(Blackwell, 2008), p. 109. ^ Stephen O. Murray, Homosexualities (University of Chicago Press, 2000), pp. 298–303; Mary R. Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford University Press, 2008), pp. 19, 33, 36. See also "Hermaphroditism and androgyny" below. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 85 et passim. ^ Catullo, Carmina 24, 48, 81, 99. ^ Tibullus, Book One, elegies 4, 8, and 9. ^ Propertius 4.2. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 40. ^ a b c McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 40. ^ David Potter, "The Roman Army and Navy," in The Cambridge Companion to the Roman Republic, p. 79. ^ Pat Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, 2006), p. 144. ^ Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, p. 3. Il [[De Bello Hispaniensi|]], circa la guerra civile di Cesare sul fronte della Spagna romana, parla di un ufficiale che ha una concubina di sesso maschile (concubinus) che si porta appresso. ^ Polibio, Storie 6.37.9 (translated as bastinado). ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press, 2008), p. 93. See also "Master-slave relations"below. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. Roman law recognized that a soldier was vulnerable to rape by the enemy: Digest 3.1.1.6, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Beth Severy, Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire (Routledge, 2003), p. 39. ^ Hans-Friedrich Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus (Routledge, 2002), p. 51. ^ Langlands, Sexual Morality, p. 57. ^ See further discussion at Pleasure and infamy below. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 103. ^ Roy K. 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Voci correlate Modifica Arte erotica a Pompei e Ercolano Omosessualità nell'Antica Roma Sessualità nell'antica Grecia Storia della sessualità umana Altri progetti                                                Modifica    Portale Antica Roma   Portale Erotismo Ultima modifica 23 giorni fa di Rodolfo Baraldini PAGINE CORRELATE Omosessualità nell'antica Roma Irrumatio tipo di pratica del sesso orale  Lex Scantinia Wikipedia Il contenuto  Omosessualità nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti sociali nei confronti dell'omosessualità nell'antica Roma e i comportamenti relativi differiscono - spesso in una maniera assai notevole - da quelli assunti della contemporanea civiltà occidentale e presenti in essa; il tema deve pertanto essere affrontato necessariamente attraverso la visione del mondo e della sessualità tipica della maggioranza delle società antiche, molto diversa da quella moderna.   Graffito in versi proveniente da Pompei antica. Lo scrivente, bruciato dalle fiamme d'amore, incita il mulattiere a smetterla di bere e a pungolare semmai i muli per arrivare prima a casa, dove un bel ragazzo, di cui egli è innamorato, lo attende (là ove l'amore è dolce). Il ruolo passivo come discriminante morale                                                       Modifica Per le antiche civiltà precristiane intrise di paganesimo, soprattutto per quelle del mondo classico (antica Grecia e antica Roma), non esisteva un'autentica differenziazione individuale basata sull'orientamento sessuale o di identità di genere. Piuttosto, questa esisteva in base al ruolo assunto all'interno del rapporto sessuale: l'identificazione e le leggi che regolavano le relazioni e le varie pratiche amorose non si fondavano sull'oggetto del desiderio (una persona dello stesso sesso o di quello opposto), ma la discriminante era bensì data dal fatto che quella persona ricoprisse un ruolo attivo e associato quindi alla virilità e alla mascolinità, oppure uno passivo, generalmente considerato come estremamente degradante e tipico della femminilità (era dato cioè dall'atto che poteva essere dominante o sottomesso, come viene indicato anche nell'uso dei termini catamite e irrumatio).  Agli antichi romani era peraltro completamente sconosciuta anche la dicotomia del concetto moderno tra un'esclusiva omosessualità e un'altrettanto esclusiva eterosessualità[1], proprio per il fatto che l'identificazione sessuale avveniva per lo più in base al ruolo svolto durante l'atto intimo (vedi attivo e passivo nel sesso); la stessa lingua latina manca di parole traducibili con eterosessuale o omosessuale come un'identità consapevole di chi prova attrazione solo nei confronti di persone dell'altro o del proprio stesso sesso.   Antinoo, il giovane di cui s'innamorò l'imperatore romanodel II secolo Publio Elio Traiano Adriano. Quando l'amato morì, Adriano ne fece letteralmente un dio, innalzandogli decine di statue in tutto l'impero. La società romana seguiva i dettami del patriarcato, un sistema impregnato da forti connotazioni di maschilismo; per i maschi adulti ingenui, quelli che possedevano cioè a tutti gli effetti la cittadinanza romana (la Libertas-libertà politica e il diritto di governare sé stessi e la propria familia con l'autorità derivante dal pater familias), la Virtus è stata sempre intesa come una delle qualità attive per eccellenza e attraverso la quale l'uomo-vir si viene maggiormente a definire. Gli uomini erano liberi d'intrattenere rapporti sessuali con altri maschi senza alcuna percezione di perdita di virilità o di status sociale, fintanto e a condizione che avessero assunto la posizione di comando (sessualmente penetrativa).  Il ruolo attivo come segno di virilità             Modifica La mentalità di conquista e il culto della virilità formano nel corso del tempo anche le relazioni omoerotiche; la pratica omosessuale a Roma si afferma molto presto come rapporto di dominazione, ad esempio del cittadino sopra lo schiavo, il tutto a conferma della decisa virilità mascolina dell'uomo romano; la schiavitù nell'antica Roma contemplava difatti anche una decisiva sudditanza sessuale nei confronti di chi deteneva il potere sopra altre persone[2]. L'ideale romano di mascolinità funge in tal modo da premessa all'assunzione di un ruolo attivo sempre e comunque, preso e innalzato a valore supremo: ciò costituiva "la prima direttiva del comportamento sessuale maschile per i Romani"[3].  Partner maschili accettabili erano sia gli schiavi sia tutti coloro che si dedicavano alla prostituzione maschile ma anche quelli il cui stile di vita li immetteva nel nebuloso campo sociale dell'infamia, gli esclusi dalle normali protezioni accordate a ogni cittadino, questo anche se fossero stati tecnicamente liberi. Pur preferendo nella generalità dei casi la pederastia(compagnia intima con giovani di età compresa tra i 12 e i 20 anni), con i minori di sesso maschile nati liberi agli uomini adulti era rigorosamente proibito qualsivoglia tipo di approccio, mentre i prostituti di professione e gli schiavi potevano essere anche molto più vecchi[4].  Omosessualità femminile                                                   Modifica Le relazioni omosessuali tra le donne sono meno documentate. Anche se le donne nell'antica Romaappartenenti alle classi più alte (come le matrone) erano solitamente istruite e vi sono esempi noti di scrittura poetica e vaste corrispondenze con parenti di sesso maschile, molto poco e frammentario è ciò che è sopravvissuto rispetto a quello che potrebbe essere stato effettivamente scritto da mani femminili. Gli scrittori maschi hanno mostrato ben poco interesse al modo in cui le donne hanno sperimentato e vissuto la sessualità in generale; il poeta latino dell'era augustea (vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.)) Publio Ovidio Nasone risulta qui un'eccezione, dimostrandosi particolarmente acuto e sensibile al riguardo; ma egli è anche uno dei più strenui sostenitori di uno stile di vita fortemente improntato all'amore verso le donne e in opposizione alle norme sessuali romane alternative a esso[5].  Durante la repubblica romana e nel corso dell'epoca costituita dal principato e dall'inizio dell'alto impero romano assai poco viene registrato riguardo a relazioni sentimentali tra donne, mentre prove migliori e di più ampio genere sussistono, anche se variamente disperse, per il successivo periodo del tardo impero romano e della tarda antichità.  Excursus storico                           Modifica Quando si parla di omosessualità nella romanità antica bisogna necessariamente distinguere almeno tre grandi periodizzazioni storiche, in cui spesso cambia la concezione e la visione e accettazione stessa dei rapporti omosessuali:  il periodo dell'Età regia di Roma e quello repubblicano antecedente al 146 a.C. (Grecia romana); il periodo repubblicano successivo alla conquista della Grecia fino all'Alto Impero romano; infine il periodo del basso Impero.  Busto antico romano di ignoto adolescente, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo e datato al II secolo d.C. Periodo antecedente la conquista della Grecia                                                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Vizio greco (antica Roma). Nel periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali erano osteggiati e visti con sospetto. I Romani identificavano infatti il rapporto tra persone dello stesso sesso come il vizio greco, sostenendo che nei loro antenati non esistesse l'omosessualità, ritenuta un'offesa al costume degli avi (il famoso mos maiorum), contraria al rigore del "civis Romanus" e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della società romana stessa.  La libertà politica di un cittadino è stata definita in parte dal diritto di preservare il proprio corpo da qualsivoglia costrizione fisica, comprendente pertanto sia la punizione corporale sia l'abuso sessuale[6]; il sentimento di mascolinità era la premessa imprescindibile della capacità di governare sia sé stessi sia altre persone di status inferiore[7] e la Virtus, come già sottolineato, è il valore che rende l'uomo più pienamente uomo: la virtù attiva per eccellenza, quindi[8].  Periodo successivo alla conquista della Grecia e Alto Impero                           Modifica Con la conquista della Grecia, assieme alla cultura della Grecia classica, Roma assorbe anche molte usanze, tra cui il cosiddetto "amore greco". Ma i civesromani praticavano l'omosessualità solamente con gli schiavi e con i liberti. Era deprecabile che un cittadino assumesse il ruolo passivo in un rapporto omosessuale, perché questo era in conflitto con una certa ideologia virile e dominatrice presente in tutta la società romana.  La conquista sessuale diviene presto metaforacomune, utilizzata spesso nell'arte retorica romana più favorevole all'imperialismo[9], e la mentalità da conquistatori, inerente anche alla sfera della sessualità nell'antica Roma, faceva parte di un culto generico della virilità il quale poteva condurre anche a particolari forme di pratiche omosessuali tra gli uomini[10]. Gli studiosi contemporanei tendono pertanto a vedere le espressioni inerenti alla sessualità maschile umana all'interno della civiltà romana in termini di opposizione binaria nel modello penetratore-penetrato; cioè l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello di inserire il suo pene nel/nella partner[11]: permettere di lasciarsi penetrare avrebbe invece minacciato la propria libertà come cittadino, oltre che la sua intrinseca integrità sessuale. Il ruolo passivo indicante sottomissione era sommamente disprezzato e visto come sintomo di mollezza, di rinuncia alla virilità e perciò deprecabile e vergognoso, specialmente se era un cittadino romano a ricoprirlo.[12]  Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un uomo romano nato libero di voler consumare esperienze sessuali con entrambi i tipi di partner, sia maschili sia femminili, l'importante era mantenere un ruolo dominante[13]. La moralità del comportamento dipendeva poi anche dalla posizione sociale del partner, indipendentemente dal fatto che fosse un uomo o una donna; le donne e i giovani uomini sono stati entrambi considerati normali oggetti del desiderio, ma fintanto che si manteneva al di fuori del vincolo matrimoniale un uomo avrebbe dovuto cercare di soddisfare i propri desideri solo con schiavi, prostitute (che spesso erano schiave o ex-schiave anch'esse) e gli infames (i succitati sottoposti a infamia).  Il sesso di un partner non determinava se questa relazione fosse accettabile o meno, sempre però a patto che il godimento di un uomo non usurpasse l'integrità di un altro uomo: era altamente immorale ad esempio avere una relazione con la moglie di un altro uomo nato libero, con una ragazza in età da marito o con un ragazzo minorenne di buona famiglia, o con lo stesso cittadino libero adulto; mentre l'uso sessuale degli schiavi di un altro uomo doveva sottostare al permesso del proprietario. La mancanza di autocontrollo, anche nell'ambito della gestione della propria vita sessuale, indicava platealmente che quell'uomo era del tutto incapace di governare gli altri; troppa indulgenza nei confronti dei "bassi piaceri sensuali" minacciava di erodere l'identità del maschio dell'élite nella sua qualità di persona istruita (quindi migliore e destinata a governare)[14].   Particolare della tomba-monumento di un giovane che mostra un antico ragazzo romano con indosso una bulla, l'amuletopensato per proteggere un bambino nato libero da influenze sovrannaturali malevoli e lo segnava come sessualmente indisponibile/intoccabile. La Lex Scantinia (149 a.C.) condannava espressamente l'uomo nel caso di rapporti omosessuali tra un adulto e un puer o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi che non avevano ancora raggiunto l'età della piena maturità sessuale (fino ai 15-17 anni)), mentre nel caso di rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000 sesterzi.  La Lex Scantinia, di cui non ci è pervenuto il testo ma che abbiamo solamente attraverso citazioni tratte dagli scritti del filosofo Marco Tullio Cicerone, di Decimo Magno Ausonio, dello storico Gaio Svetonio Tranquillo, del poeta Decimo Giunio Giovenale e infine da parte degli autori cristiani Tertulliano e Prudenzio, è un'importante testimonianza a dimostrazione del fatto che l'omosessualità veniva praticata in tutti gli ambienti sociali.   Stele funebre dell'adolescente Philetos, del demo di Aixone (prima metà del I secolo d.C.) che indossa la toga. Esposta nel cortile interno coperto del "Museo archeologico del Ceramico" ad Atene. In età imperiale, le ansie circa la perdita della libertà politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore si sono espresse nella percezione di un aumento del volontario comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato da una crescita documentata nell'esecuzione di punizioni corporali sui cittadini[15]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di integrità fisica in relazione alla "libertas" contribuisce alla licenza sessuale e si riflette nella decadenza associata con l'impero[16].  A ogni modo, analizzando i testi e i poemi degli scrittori antichi, non si può fare a meno di notare alcune contraddizioni, almeno dal punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualità: se da una parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta omoerotiche, vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi e liberti (in molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo[17]), o addirittura dando consigli su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo[18]); dall'altra altri scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento, contro chi si macchia di effeminatezza (gli uomini che ricoprono il ruolo passivo nei rapporti omosessuali maschili) soprattutto se cittadini romani, scherniti e derisi quando non violentemente attaccati come causa di decadimento sociale (lo stesso Catullo nei Carmina 16, 25 e 33).  Questa apparente contraddizione è in un certo senso giustificata dalla visione che della società avevano i romani, tipicamente e prettamente maschilista, dove il ruolo attivo in un rapporto sessuale, sia con donne sia con uomini, era sintomo di virilità e veniva esaltato, in rapporto anche alla superiorità della Gens Romana sopra gli altri popoli, destinata quindi a dominarli anche sessualmente[19].  Giulio Cesare                      Modifica  Statua di Giulio Cesare, esempio di nudo eroico. Anche molti uomini illustri tra i più noti e stimati, uno fra tutti Gaio Giulio Cesare - membro autorevole della Gens Giulia e capostipite della dinastia giulio-claudia - provavano una forte attrazione nei confronti di persone dello stesso sesso: l'omosessualità, o meglio la bisessualità, di Cesare è ben testimoniata da Cicerone secondo cui egli era "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti".  I suoi gusti nella sfera sessuale furono spesso motivo di pettegolezzo e canzonatura da parte sia dei detrattori sia degli stessi soldati a lui sottoposti; Plutarco e Svetonio[20] narrano approfonditamente della sua relazione omoerotica avuta in gioventù con l'ultimo sovrano del regno di Bitinia Nicomede IV; non vi fu nemico o personaggio pubblico che non cogliesse l'occasione, anche a distanza di anni, per fare della maldicenza a proposito dei rapporti particolari intercorsi fra il giovane Cesare e il re.  Cesare veniva di volta in volta definito "rivale della regina di Bitinia", "stalla di Nicomede", "bordello di Bitinia". Marco Campurnio Bibulo, collega di Cesare nel consolato del 59, riprendendo la vecchia accusa che lo dipingeva come regina di Bitinia, per attaccare la sfrenata ambizione di Cesare che manifestava tendenze monarchiche affermò: "Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno". I legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume che consentiva ai soldati di indirizzare il giorno del trionfo versi piccanti e scurrili al proprio comandante, intonarono un canto che suonava più o meno così:   (LA)  «"Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem"»  (IT)  «Cesare ha sottomesso le Gallie, ma Nicomede ha messo sotto lui. Oggi trionfa Cesare che le Gallie ha sottomesso, non trionfa Nicomede che ha messo sotto lui.»  (Svetonio, Vita di Cesare.) Lo stesso Cicerone, riferendosi ai fatti di Bitinia, scriveva nelle sue lettere che con Nicomede IV Cesare “aveva perso il fiore della giovinezza” e un giorno, in Senato, durante una seduta in cui Cesare per perorare la causa di Nisa, figlia di Nicomede, ricordava i benefici ricevuti da quel re, Cicerone pubblicamente lo interruppe esclamando: “Lascia perdere questi argomenti, ti prego, poiché nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e ciò che tu hai dato a lui”.  Gaio Valerio Catullo[21] ebbe a sostenere che Cesare e il suo ufficiale Mamurra durante la campagna di Galliaavessero avuto una relazione, ma più tardi si scusò: in quest'episodio Cesare dimostrò tutta la sua clementia, concedendo al poeta il suo perdono e lasciandogli frequentare la sua domus.[22] Marco Antonio, infine, insinuò, nel tentativo di diffamare il suo avversario durante la guerra civile, che Cesare avesse avuto un rapporto anche con il nipote Ottaviano, e che la causa della sua adozione fosse stata proprio la loro relazione amorosa.   Ottaviano Augusto da giovinetto. Omoerotismo tra gli imperatori                Modifica D'altra parte, tra i primi imperatori romani tutti (tranne Claudio) ebbero predisposizione ad abituali e ripetute esperienze omoerotiche: dopo Cesare, soprannominato con dileggio la "Regina di Bitinia" e la "moglie di tutti i mariti"; Augusto, il quale quand'era chiamato ancora solo Ottaviano veniva additato con disprezzo dai detrattori col nome di Ottavia: Marco Antonio ebbe modo in seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato la sua adozione da parte di Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre dire che Svetonio[23] descrive l'accusa rivoltagli da Antonio come pura calunnia politica.  Dopo che Marco Favonio fu catturato e giustiziato a seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquistò uno dei suoi schiavi, un certo Sarmento, quando tutte le proprietà del nemico sconfitto vennero messe in vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello stesso futuro imperatore[24]. Quinto Dellio dirà in seguito a Cleopatra che, mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino acido da Antonio, Ottaviano si stava gustando il "catamite Falerno" a Roma[25].   Busto giovanile di Tiberio. Tiberio a Capri prediligeva i ragazzini appena puberi raccolti tra i figli della comunità locale e li chiamava i suoi "pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina o intrattenevano rapporti sessuali tra di loro[26]; è sempre Svetonio a dirci, forse volutamente esagerando (tanto da fargli commentare: "si rese colpevole anche di azioni ancora più turpi e infamanti, che a mala pena si possono riferire e ascoltare, o addirittura credere"), che l'anziano imperatore avesse addestrato dei fanciulli in tenerissima età per andare in seguito a vivere con lui nella residenza di Villa Jovis, li invitava poi a scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a risvegliare i suoi sensi con baci e morsi. Nelle ville capresi infine, le orge sarebbero state all'ordine del giorno e si sarebbero svolte davanti a una collezione di dipinti erotici di arte greca da prendere a modello.[27].  Caligola era bisessuale e incestuoso; Neronesottopose a castrazione il suo schiavo adolescente Sporo per poi incoronarlo come propria sposa reale, ma sposò anche un uomo di nome Pitagora.  Anche i successivi imperatori pare non fossero immuni dall'amore tutto maschile: Servio Sulpicio Galba, che amava gli uomini grandi e grossi; Vitellio, soprannominato spintria ("marchetta") per esser stato tra i favoriti di Tiberio quando si trovava alla sua corte a Capri durante gli anni giovanili[28]; Domiziano, accusato dagli avversari di essersi prostituito per far carriera al pretore Clodio Pollione e poi per interesse al predecessore Marco Cocceio Nerva, fu accusato anche di mollezza[29] e di essere un dissoluto. Ebbe varie relazioni con uomini, come del resto anche il fratello Tito:[30] il grande amore provato nei confronti dell'eunuco Flavio Earino[31], suo schiavo affrancato, fu celebrato sia da Stazio[32] sia da Marco Valerio Marziale[33].  Traiano era noto per la sua predilezione nei confronti dei bei ragazzi[34]; Publio Elio Traiano Adriano fece diventare il suo giovane amante Antinoo dopo la morte niente meno che un dio, innalzandolo in apoteosi; Eliogabalo a 18 anni promise metà dell'impero a chi fosse riuscito a dotarlo di genitali femminili per poter così diventare una donna a tutti gli effetti[35], scandalizzando l'intera Roma che lo vide sposarsi con un auriga, un certo Ierocle di Smirne.   I busti di Adriano e Antinoo al British Museum. Adriano e Antinoo                    Modifica Il caso riguardante la relazione d'amore tra Adriano e Antinoo è particolarmente significativo; l'imperatore ebbe per anni come suo amasio preferito questo giovinetto di origini greche (che molto probabilmente non era uno schiavo) proveniente dalla Bitinia.[36].  Dopo la sua morte, avvenuta in circostanze rimaste in parte oscure, Adriano innalzò in apoteosi l'amato Antinoo e fondò un culto organizzato dedicato alla sua persona che si diffuse presto a macchia d'olio in tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il proprio diletto, fondò la città di Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo dove il ragazzo aveva trovato la sua prematura fine terrena e che divenne un centro di culto per l'adorazione del "dio Antinoo" in forma di Osiride.  Infine Adriano, per commemorare il ragazzo, organizzò dei giochi che si tenevano in contemporanea ad Antinopoli e ad Atene, con Antinoo divenuto simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore.   Busto di Polideuce, allievo e amante[37][38] di Erode Attico; quando egli morì in giovane età nel 173/174[39] divenne un autentico oggetto di culto da parte di Erode. Erode Attico e Polideuce                                     Modifica Il filosofo di origini greche ed esponente della seconda sofistica Erode Attico (Lucius Vibullius Hipparchus Tiberius Claudius Herodes Atticus), è stato un retore e politico al servizio dell'impero; amico personale di Adriano, tra i suoi allievi vi fu anche il giovane erede al trono Marco Aurelio. Erode era noto, oltre che per la ricchezza e munificenza (fece costruire tra gli altri anche l'Odeo di Erode Attico) nella sua qualità di filantropo e mecenate di opere pubbliche, anche per i numerosi rapporti amorosi con i propri discepoli, in riferimento alla tradizione della pederastia greca.  Il suo affetto nei confronti del figlio adottivo Polideuce (Polydeukes/Polydeukion, da "Polluce") ha creato uno scandalo, non per il rapporto omosessuale intercorrente tra i due o per la giovane età del ragazzo, ma per l'intensità della passione dimostrata, considerata smodata e del tutto sconveniente.  Quando l'adolescente morì prematuramente Erode - come già precedentemente l'imperatore Adriano aveva fatto con Antinoo - incominciò un plateale culto della personalità del defunto e proclamandolo "eroe", facendo costruire tutta una serie di statue e monumenti in suo onore. L'anziano visse in un parossismo di disperazione pubblica alla morte del suo eromenos[40], arrivando a commissionare giochi sontuosi, iscrizioni e sculture su ampia scala[41].   Rilievo votivo in marmo pentelico del II secolo raffigurante l'apoteosidi Polideuce, il ragazzo amato da Erode Attico. Qui è mostrato con attributi eroici: il serpente e la sua nudità. Lo scrittore Luciano di Samosata racconta, nella sua biografia del filosofo esponente del cinismoDemonatte che questi affermò di avere in suo possesso una lettera proveniente dal defunto giovinetto; quando Erode chiese di essere informato su che cosa vi fosse scritto, Demonatte gli disse che il ragazzo dichiarava di essere triste perché il suo amante non era ancora giunto a fargli visita (nell'aldilà)[42].  Demonatte vuol qui criticare come eccessiva e indegna di un filosofo l'espressione dei sentimenti di dolore di Erode: soltanto l'enorme ricchezza e l'enorme potere di Erode gli permisero di esprimerlo in modo pubblico, anziché celarlo nel silenzio.  Arte erotica e oggetti di uso quotidiano                      Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica a Pompei e Ercolano e Simbolismo fallico. Le rappresentazioni della sessualità omosessuale maschile e lesbica sono meno rappresentate nell'arte erotica dell'antica Roma rispetto a quelle che mostrano atti sessuali tra maschio e femmina. Un fregio di Pompei antica presente alle Terme Suburbanemostra una serie di sedici scene di posizioni sessuali, in cui ve n'è una omosessuale e un'altra lesbica, oltre ad abbinamenti omosessuali in rappresentazioni di sesso di gruppo.   Due uomini e una donna che si accoppiano. Pittura parietale pompeiana, da una delle Therms (bagni), parete sud degli spogliatoi - dipinta intorno al 79 a.C. Il sesso a tre (o threesome) nell'arte romana mostra solitamente due uomini che penetrano una donna, ma in una delle tante scene presenti nei muri delle "Terme suburbane" si vede un uomo penetrare una donna in posizione da dietro mentre a sua volta viene penetrato da un altro uomo posto dietro di lui: questo scenario viene descritto anche da Catullo nel Carmen 56ritenendolo un fatto umoristico[43]. L'uomo in mezzo potrebbe essere un cinaedus-cinedo, un uomo cioè a cui piace subire il sesso anale ma che al contempo è anche considerato attraente dalle donne[44]. Anche l'attività sessuale a quattro (foursome o "quartetto") appare, in genere composta da due donne e due uomini e a volte in coppie composte da persone dello stesso sesso.  Gli atteggiamenti romani verso la nudità maschile (vedi storia della nudità) differiscono anche in maniera notevole se confrontati con quelli assunti dagli antichi Greci, che hanno sempre considerato le rappresentazioni idealizzate del nudo maschile come espressione di eccellenza, ad esempio attraverso il nudo eroico. L'uso della toga virile designa un uomo romano come libero cittadino[45]; connotazioni negative della nudità includono anche la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri venivano spogliati, e la schiavitù, poiché gli schiavi messi in vendita in piazza erano spesso esposti nudi[46].   Amuleti fallici della fertilità e della buona fortuna. Al tempo stesso il Phallus-fallo è stato visualizzato ubiquitariamente in forma di fascinus, ossia un "fascino magico" pensato per allontanare le forze maligne (come i moderni cornetti portafortuna), ed è divenuto col tempo una decorazione facente parte delle consuetudini e che si ritrova ampiamente tra le rovine pompeiane, in particolare sotto forma di speciali campanelli eolici detti Tintinnabulum[47].  Il fallo eretto e smisurato del dio Priapo potrebbe originariamente essere servito per uno scopo apotropaico, ma in arte il suo aspetto grottesco ed esagerato provoca spesso una grande risata[48].  L'ellenizzazione tuttavia ha influenzato la rappresentazione della nudità maschile all'interno dell'arte romana, portando a una più complessa significazione della forma del corpo umano maschile mostrato nudo, parzialmente nudo o indossando la lorica musculata[49].   La coppa Warren, skyphos romano d'argento che rappresenta una scena erotica omosessuale. Warren Cup Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Warren Cup. La Coppa Warren è una coppa d'argento raffigurante due scene di atti omosessuali in ambiente di simposio(pratica socio-rituale della convivialità collegata al banchetto), di solito datata al tempo della dinastia giulio-claudia (I secolo d.C.)[50]. Si è sostenuto[51] che i due lati di questo calice rappresentino la dualità nella tradizione presente nel mondo classico dell'istituzione della pederastia greca in contrasto con la forma esistente all'interno della cultura romana.  Sulla parte della coppa che rappresenta l'ideale greco vediamo un uomo maturo con la barba mentre si unisce in posizione da dietro a un giovane maschio già sviluppato e muscoloso il quale gli sta seduto sopra. L'adolescente si tiene in equilibrio rimanendo attaccato con la mano sinistra a un sostegno, così da mantenere una posizione sessuale altrimenti imbarazzante o scomoda. Uno schiavo bambino osserva la scena di nascosto attraverso una porta socchiusa.   L'uomo con la corona del "conquistatore erotico" e il suo puer delicatus. Lato B della Warren Cup Il lato romano della coppa invece mostra un puer delicatus, all'incirca di 12 o 13 anni, mentre viene tenuto saldamente stretto tra le braccia di un maschio più anziano, ben rasato e in perfetta forma fisica. Mentre il primo uomo con la barba può essere greco, con un partner che partecipa più liberamente all'incontro e con uno sguardo di piacere, la sua controparte, che ha un taglio di capelli più grave, sembra a tutti gli effetti essere romano e quindi utilizza uno schiavo; la corona di mirto che indossa simboleggia inoltre il suo ruolo di conquistatore erotico[52].  La coppa potrebbe essere stato concepita come un ritratto atto a stimolare la conversazione su quel tipo di ideali di amore e di sesso, che avevano luogo durante i banchetti simposiali tradizionali greci[53]. L'antichità della Coppa Warren è stata però contestata e potrebbe invece rappresentare la percezione dell'omosessualità greco-romana com'era al momento della sua ipotetica fabbricazione, forse a cavallo tra il XIX e il XX secolo[54].   Busto di Publio Virgilio Marone. Letteratura omoerotica                                                      Modifica Numerose testimonianze riguardanti la presenza dell'omosessualità e dell'omoerotismo in generale ci vengono da poeti e scrittori dell'epoca. Il tema omoerotico viene introdotto in letteratura latina a partire dal II secolo a.C. con la crescente ellenizzazione e una sempre maggior influenza Greca sulla cultura romana.  Il console nonché letterato Quinto Lutazio Catulofaceva parte di un circolo letterario frequentato da poeti che componevano brevi strofe richiamantesi alla moda della poesia ellenistica; uno dei suoi pochi frammenti superstiti è costituito da una poesia d'amore rivolta a un maschio con un nome greco[55]. L'innalzamento della letteratura greca, ma anche dell'arte greca in generale a modello espressivo in ambito poetico ha promosso tra le altre cose anche la celebrazione dell'omoerotismo come uno dei segni distintivi delle personalità urbanizzate e maggiormente sofisticate[56]. Nonostante ciò non vi sono prove o ipotesi generali su come questo abbia potuto avere un qualsiasi effetto sull'espressione del comportamento sessuale nella vita quotidiana reale tra i romani[57].  L'amore greco ha influenzato esteticamente i latini in relazione ai mezzi di espressione, molto meno nei riguardi della natura dell'omosessualità romana in quanto tale. L'omosessualità nell'antica Greciadifferiva da quella Romana principalmente nell'idealizzare dell'eros tra i cittadini maschi nati liberi di pari status, anche se di solito con una differenza di età (vedi pederastia greca) inserita nell'istituto erastes-eromenos. L'esistenza di un rapporto erotico-sentimentale tra un ragazzo e un adulto al di fuori della famiglia, visto come un'influenza positiva tra i Greci, nella società romana avrebbe minacciato l'autorità del paterfamilias[58].  Poiché le donne romane erano attive nell'educazione dei figli e si mescolarono con gli uomini socialmente, e le donne delle classi dirigenti spesso continuavano a consigliare e influenzare i loro figli e mariti anche nella vita politica, l'omosocialità non era così diffusa a Roma così come lo era stata ad esempio nell'antica Atene la quale ha indubbiamente contribuito a produrre il più avanzato livello di cultura pederastica, quella della pederastia ateniese[59].  La poesia neoterica dei Poetae novi introdotta alla fine del II secolo si è concretizzata negli anni attorno al 50 a.C. preminentemente con l'opera poetica di Caio Valerio Catullo (i Liber o Carmina) la quale include diverse poesie che esprimono il suo forte desiderio nei riguardi di un giovane nato libero chiamato esplicitamente "Giovenzio" (Juventius); il poeta, oltre ad amare l'amica Lesbia non era quindi meno ambiziosamente desideroso dei baci del suo bel ragazzo quattordicenne, che esalta in vari versi di volta in volta amorosi o ironici, definendolo effeminatoe passivo.[60].  Il nome latino e lo status di cittadino libero del ragazzo amato da Catullo sovverte totalmente la tradizione romana[61], ma contemporaneamente a lui anche Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura riconosce esplicitamente la propria attrazione nei confronti dei "ragazzi"-pueri, il che può designare invero un partner sottomesso accettabile e non necessariamente ragazzino appena adolescente[62]; vi si può leggere inoltre che il piacere sublime consiste nel trasferire il proprio seme in un'altra persona, preferibilmente in un ragazzo piuttosto che in una donna[63]  «Si agita in noi questo seme, appena l'adolescenza rafforza le membra. Dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme Così dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere lo trafigga un fanciullo di membra femminee tende là ove è ferito e anela a congiungersi e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo[64].»   Eurialo e Niso, 1827, Louvre. A testimoniare il fatto che il fenomeno omosessuale stava divenendo sempre più un rapporto di desiderio e amore, interviene anche Publio Virgilio Marone, il quale racconta nell'Eneide le storie di due coppie di guerrieri, gli appartenenti al popolo dei troiani Eurialo e Niso[65] e i latini Cidone e Clizio, che nel reciproco amore trovano la forza per combattere da autentici eroi (soltanto Cidone scamperà alla morte)[66]; coppie di giovani uniti da un tenero legame omoerotico.  Di Clizio, Virgilio ci dice che è ancora un giovinetto, solo una leggerissima barba bionda incornicia il suo bellissimo volto; su Cidone invece il poeta non dà una descrizione fisica: scrive invece che prima di Clizio ha amato altri adolescenti, sicché è da ritenere che rispetto al compagno egli abbia un'età leggermente superiore (Eneide, libro X, vv.324-330).  Il particolare rapporto che lega Eurialo e Niso è definito dall'autore "amore", ciò che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuità tra l'amicizia fraterna e l'affettuosità omoerotica. Qui il poeta si avvale della tradizione dell'omosessualità militare nell'antica Grecia, ritraendo apertamente il rapporto amoroso esistente tra questi giovani il cui valore militare li segna solidamente come autentici uomini romani (viri)[67]. Virgilio descrive il loro legame come "pius", collegandolo alla virtù suprema della "pietas", in egual modo posseduto dallo stesso eroe Enea; una relazione avallata come "onorevole, dignitosa e collegata ai valori della centralità di Roma"[68].  Ancora nelle Bucoliche il poeta latino canta e descrive numerosi amori omosessuali e riconducibili alla pederastia greca, come la vicenda riguardante il giovane schiavo Alessi che viene concupito sia dal suo padrone Iolla sia dal bel pastore Coridone (Ecloga II), o quella di un altro pastore di nome Menalca il quale elogia la bellezza di Aminta (Ecloga III)[69].   Il mito di Ciparisso e Apollo, tratto dal racconto di Ovidio descritto nelle Metamorfosi (Ovidio). Temi omoerotici appaiono anche nelle opere di altri poeti del periodo augusteo (vedi Storia della letteratura latina (31 a.C. - 14 d.C.)): Albio Tibullo[70], Sesto Properzio[71] e Quinto Orazio Flacco fra tutti. A schierarsi invece decisamente a favore dell'amore femminile sarà Publio Ovidio Nasone: avere una relazione sessuale con una donna è più piacevole perché, a differenza delle forme di comportamento omosessuale ammesse all'interno della cultura romana, qui il piacere è reciproco[72]. Non mancano comunque anche in questo autore descrizioni di amori omosessuali, tutti appartenenti alla tradizione della mitologia greca: Ati e Licabas, il dio Apollo con Giacinto e Ciparisso[73]. Thomas Habinek ha fatto infine notare che il significato di rottura presentato da Ovidio nella categorizzazione delle preferenze sessuali è stata oscurata nella storia della sessualità umana dal concetto di eterosessualità (considerata normale e innata) sopravvenuto nella più tarda cultura occidentale[74].  Nella letteratura del primo periodo dell'impero romanoun posto privilegiato spetta al Satyricon di Petronio Arbitro; la narrazione è talmente permeata da riferimenti al comportamento omosessuale che nei circoli letterari europei del XVIII secolo il nome dell'opera finì col divenirne un sinonimo[75].  Anche il poeta e autore di epigrammi Marco Valerio Marziale spesso deride le donne come uniche partner sessuali preferendo di gran lunga i bei ragazzi-pueri.  Atti sessuali                                     Modifica Oltre al sesso anale, che viene frequentemente descritto sia nell'arte figurativa sia in quella letteraria, era comune anche il sesso orale. Uno dei graffiti di Pompei è in questo caso inequivocabile: "Secundus felator rarus" ("Secundus è un fellatore di rara abilità")[76].  A differenza che nell'antica Grecia, il pene di grandi dimensioni era un importante elemento d'attrattiva; Petronio ne descrive uno veduto in un bagno pubblico[77]. Molti imperatori vengono raffigurati circondati da uomini con grandi sessi[78].  Il poeta Ausonio fa una battuta su un trio sessuale maschile in cui "quello che sta nel mezzo compie il doppio dovere"[79].  Impudicitia     Modifica Il sostantivo astratto impudicitia (aggettivo impudicus) raffigura la negazione assoluta della pudicitia (morale sessuale, castità); come caratteristica dei maschi spesso implica la volontà e il desiderio di essere penetrati sessualmente[80]. Ballare era espressione, per un maschio, di impudicitia (la danza era difatti caratteristica della prostituta e dell'effeminato)[81].  L'impudicitia può anche essere associata a comportamenti in quegli uomini giovani che avevano conservato un certo grado di fascino da ragazzini, ma che erano comunque abbastanza grandi da esser tenuti a comportarsi secondo le ferree regole maschili e a sottostare alle sue normative. Giulio Cesare fu accusato di portare l'infamia su di sé perché quando aveva circa 19 anni assunse per un certo periodo di tempo il ruolo passivo in una relazione pederastica con Nicomede IV re di Bitinia e in seguito anche per i molti "affari sessuali" avuti con donne adultere[82]. Lucio Anneo Seneca il giovane (il tutore di Nerone) ha osservato che "l'impudicitia è un crimine per colui che è nato libero, una necessità in uno schiavo, un dovere per il liberto"[83].  Come già detto la pratica omosessuale a Roma affermò il potere del cittadino sopra gli schiavi, confermandone al di sopra di ogni dubbio la propria mascolinità[84]   Ganimede rapito dall'aquila di Giove. Scultura romana copia di un originale greco, esposta nel Palazzo Grimani a Venezia. Il termine catamite, indicante per lo più un giovane prostituto, è una derivazione latina del nome "Ganimede". Ruoli sessuali   Modifica Un uomo o un ragazzo che assumeva il ruolo passivo all'interno della relazione omosessuale poteva venir denominato in vari modi, tra cui i più comuni e frequenti erano cinaedus, pathicus, exoletus, concubinus (prostituto), spintria (marchetta), puer(ragazzo), pullus (pulcino), puso, delicatus(specialmente come puer delicatus-ragazzino squisito), mollis (molle, utilizzata in genere come qualità estetica in contrapposizione alla naturale aggressività maschile), tener (tenero, in opposizione alla durezza mascolina), debilis (debole), effeminatus(effeminato), discintus (discinto, volgare come una prostituta) e morbosus (malato).  Come si può notare, il significato del termine moderno gay (come anche di omosessuale) non è contemplato in quest'elenco, in quanto nel pensiero antico non v'era alcun'idea di identità sessuale: la persona era invece definita solo dal ruolo svolto all'interno dell'atto sessuale (attivo=maschio; passivo=femmina)[85].  Alcuni di questi termini, come exoletus, vengono a riferirsi specificamente a un adulto: gli antichi romani, fra cui vigeva il valore sociale contrassegnato come mascolinità, limitavano genericamente la penetrazione anale ai prostituti maschi o agli schiavi di età inferiore a 20 anni (chiamati ragazzi)[86].  Alcuni uomini più anziani potevano a volte preferire il ruolo passivo; Marco Valerio Marziale descrive ad esempio, nella sua solita maniera molto schietta, il caso di un uomo che aveva assunto il ruolo passivo facendo occupare al suo giovane schiavo quello attivo:  (LA)  «Mentula cum doleat puero, tibi, Naevole, culus Non sum divinus, sed scio quid facias.»  (IT)  «Se al tuo schiavetto fa male l'uccello; mentre tu, Nevolo, hai il culo dolorante Non è necessario essere un mago per indovinare quel che è accaduto.»  (Epigrammi (Marziale) liber III-LXXI) Il desiderio di un maschio adulto di essere penetrato sessualmente veniva considerato un morbus, una malattia; il desiderio di penetrare un bel ragazzo era invece considerato del tutto normale[87].  Cinaedus Modifica Cinedo è una parola dispregiativa che denotava un maschio con una identità di genere considerata deviante dalla norma, per la sua scelta di determinati atti sessuali o per la preferenza di certi partner sessuali; tali preferenze erano percepite come una carenza di virilità[88]. Catullo definisce cinedo (cioè un effeminato senza attributi virili) il collega poeta Marco Furio Bibaculo che si trova in compagnia d'un suo amico, nel famoso Carme osceno numero 16, in cui afferma senza tanti giri di parole che "pedicabo ego vos et irrumabo" (io ve lo metto prima nel didietro e poi direttamente in bocca).  Anche se in alcuni contesti il cinedo può denotare l'omosessuale passivo[88], ed è il termine più frequentemente usato per indicare un maschio che si è lasciato penetrare analmente[89], un uomo chiamato cinedo poteva bensì, in certi determinati casi, anzi esser considerato molto attraente e desiderabile per le donne[88] (non necessariamente quindi equivale al termine dispregiativo inglese faggot[90] o agli italiani frocio-checca, tranne per il fatto che tutti questi termini vengono usati per deridere e insultare un uomo considerato carente di virilità): con caratteristiche così ambiguamente androgine che le donne possono trovare sessualmente anche molto eccitanti)[91].  L'abbigliamento, l'uso di cosmetici e i manierismi (atteggiamenti, movimenti, modi di parlare) di un cinedo lo contrassegnavano inequivocabilmente come un effeminato[88]: ma la stessa effeminatezza che gli uomini romani potrebbero trovare allettante in un puer, diventa assolutamente poco attraente nel maschio adulto e anziano[92]. I cinaedus rappresentano quindi l'assenza generalizzata fatta persona di quello che i Romani consideravano un vero uomo, e la parola rimane di fatto intraducibile nelle lingue moderne[93].  In origine un cinaedus (parola derivante dal Greco Kinaidos) era un ballerino professionista generalmente poco più che adolescente, di origini persiane o comunque orientali, la cui performance era caratterizzata da una danza accompagnata dal suono di tamburelli e timpani e da movimenti ancheggianti del sedere che mimavano il rapporto anale[89].  Concubinus                       Modifica Alcuni uomini romani tenevano un concubinus (concubina maschio) in casa fino a quando non si sposavano con una donna: Eva Cantarella ha descritto questa forma di concubinato come "una relazione sessuale stabile, non esclusiva ma privilegiata"[94]. All'interno della gerarchia degli schiavi domestici, il concubinus sembra essere stato considerato in possesso di uno status speciale o comunque abbastanza elevato, e che veniva minacciato con l'arrivo di una moglie.  In uno dei suoi inni nuziali (Ephitalamium) Catullo[95] il concubinus dello sposo si ritrova ansioso per il suo futuro e con la paura d'esser abbandonato[96]: i suoi lunghi capelli saranno tagliati e dovrà d'ora in poi ricorrere alle schiave per la sua gratificazione sessuale, il che indica ch'egli prevedeva di dover presto cambiare ruolo sessuale da passivo ad attivo[97]. Al concubino poteva poi anche capitare di intrattenere relazioni sessuali con le donne della casa, diventando magari anche padre di qualche bambino, questo almeno a seguire le invettive di Marziale (Epigrammi 6.39.12-4)[98].  I sentimenti e la situazione del concubino sono trattati nella citata poesia matrimoniale di Catullo e occupano 5 strofe: egli svolge un ruolo attivo durante la cerimonia, distribuendo le noci tradizionali che poi i ragazzi dovevano lanciare in segno di buon augurio (un po' come il riso nella tradizione occidentale moderna)[99].  Il rapporto di un cittadino romano col proprio concubino poteva essere sia discretamente tenuto nell'ombra sia manifestato in modo più aperto: i concubini maschi a volte partecipavano anche alle cene (convivium) indette dal padrone di casa e rappresentar ufficialmente la parte di compagno, un ruolo particolarmente ambito e pregiato[100]. Marziale sembra anche suggerire che il concubino del padrone di casa poteva esser ereditato dal figlio alla morte de padre[101]. Un ufficiale poteva anche essere accompagnato durante le campagne militari dal proprio concubino[102].  Come il catamite e il puer delicatus (vedi sotto) il ruolo del concubino è stato regolamentato ispirandosi al mito greco di Ganimede (il cui nome in latino diventa Catamitus), il principe adolescente troiano rapito da Zeus affinché lo servisse sull'Olimpo come coppiere[103].  La concubina femminile, che poteva anche essere una donna libera, manteneva uno status legale tutalato dal diritto romano, ma i concubinus no dal momento che erano tipicamente degli schiavi[104]  Pathicus                                              Modifica Pathicus era una parola un po' soft per indicare l'uomo che è stato penetrato sessualmente; deriva dall'aggettivo greco phatikos (verbo paskhein) ed equivalente al latino patior-pati-passus (subire, sottomettersi, sopportare e soffrire)[89]: il termine passivo deriva proprio dal latino passus[85].  Pathicus e cinaedus non sono spesso così distinti nell'uso che ne fanno gli scrittori latini, ma cinedo può essere indicativamente il termine più generale per indicare un maschio non conforme al suo ruolo di vir - vero uomo; mentre pathicus denota precisamente un maschio adulto che ha assunto il ruolo passivo da donna all'interno di un rapporto, che desidera essere usato così[105].  Nella cultura romana sodomizzare un altro maschio adulto esprime quasi sempre disprezzo e desiderio d'umiliazione; il pathicus può essere interpretato allora, ancor più che come omosessuale passivo, come un masochista a cui piace farsi umiliare (da un uomo o da una donna indifferentemente): potrebbe anche esser penetrato da una donna tramite un dildo o essere costretto a eseguire cunnilingus, senza dimostrare alcun desiderio di assumere un ruolo attivo o alcuna eccitazione sessuale[106].  Puer      Modifica Con la parola puer s'indicava sia un ruolo nell'ambito sessuale sia uno specifico gruppo d'età[107]. Sia puersia il suo equivalente femminile puella-ragazza possono riferirsi al partner sessuale di un uomo. Il cittadino romano nato libero all'età di 14 anni assumeva la toga virile[108] e questo era il primo rito di passaggio oltre l'infanzia, ma doveva attendere poi fino a 17-18 anni prima di poter cominciare a prender parte attivamente alla vita pubblica[109]. Uno schiavo, che non veniva mai considerato un vir, un uomo vero, sarebbe stato chiamato puer, ragazzo, per tutta la vita[110].  I pueri venivano utilizzati come alternativa sessuale alle donne[111], cosa che non si poteva assolutamente fare con gli adolescenti maschi nati liberi[112]: accusare un uomo romano d'essere un puer era un insulto contro la sua virilità, soprattutto in campo politico[113]. Un cinedo anziano, un omosessuale passivo potevano anche voler presentare sé stessi come puer[114].  Puer delicatus                       Modifica Il puer delicatus era uno "squisito" schiavo giovanissimo, scelto dal padrone per la sua bellezza come giovane amante[115], citato anche al plurale come deliciae ('dolcetti' o 'delizie')[116]  A differenza dell'eromenos greco, che era protetto dal costume sociale, il romano delicatus rimaneva sempre invece, sia fisicamente sia moralmente, inferiore rispetto all'adulto che ne disponeva[117]. La relazione spesso coercitiva, di sfruttamento e non certo alla pari, tra il padre di famiglia e il delicatus (il quale poteva benissimo anche essere un minore di 12 anni), può essere definita come pedofila a differenza della pederastia greca[118].  Il ragazzino, appena compiuti 13 anni, veniva a volte castrato nel tentativo di preservare intatti nel tempo i suoi caratteri giovanili: l'imperatore Nerone fece questo nei confronti del suo puer Sporo, che fece evirare per poterlo poi sposare[119].  Vari pueri delicati sono stati idealizzati nella poesia latina: nelle Elegie erotiche di Tibullo il delicatus di nome Marathus indossa abiti sontuosi e molto costosi[120]. La bellezza che doveva caratterizzare il delicatus è stata misurata mediante le norme e misure apollinee, soprattutto per quanto riguardava i lunghi capelli i quali avrebbero dovuto sempre essere ondulati e profumati[121].  Il tipo mitologico per eccellenza del delicatus era rappresentato da Ganimede, il principino troiano rapito da Zeus per diventare il proprio compagno divino nonché coppiere alla corte olimpica[122]. Nel Satyricon, il ricco liberto Trimalcione parla del puer delicatuscome di un bambino-schiavo al servizio sia del padrone sia della padrona di casa[123].  Pullus                                   Modifica Il termine pullus indicava genericamente un piccolo animaletto e in particolare il pulcino[124]: era una parola affettuosa usata tradizionalmente per un ragazzo-puer che era stato amato da qualcuno in senso osceno[125].  Il lessicografo Sesto Pompeo Festo ne fornisce la definizione illustrandola con un aneddoto comico: Quinto Fabio Massimo Eburno, console nel 166 a.C. e poi censore era molto noto per il suo rigore morale, tanto da guadagnarsi il soprannome (Cognomen) di Eburno che significa avorio (l'equivalente moderno più simile potrebbe essere anche porcellana); questo a causa del suo candido e avvenente aspetto. Si diceva fosse stato colpito tempo addietro da un fulmineproprio sulle natiche (riferimento a una voglia che aveva sul sedere)[126]. Si scherzò quindi sul fatto che fosse stato contrassegnato da Zeus signore dei fulmini che s'era accorto della sua bellezza tanto da farne il proprio pullus/pulcino[127] pensando anche al rapporto esistente tra il re degli Dei col giovanissimo coppiere catamite Ganimede.  Anche se l'inviolabilità sessuale dei cittadini maschi minorenni era di solito molto ben sottolineata, quest'aneddoto è una prova che anche i giovani romani di buona famiglia avrebbero potuto passare attraverso una fase in cui potevano esser veduti come "oggetti sessuali"[128] Forse colpito dal destino,[129]questo stesso membro della illustre Gens Fabia ha dovuto concludere la sua vita in esilio come punizione per aver ucciso suo figlio dopo averlo incolpato di impudicitia[130].  Nel IV secolo il poeta Ausonio registra la parola pullipremo e dice che per primo tale termine è stato utilizzato dal poeta satirico Lucilio[131].  Pusio                                 Modifica Etimologicamente relazionato a puer, anche pusiosignifica ragazzetto; spesso aveva una connotazione spiccatamente sessuale e umiliante[132]. Giovenaleindica che il pusio era desiderabile in quanto più compiacente e al contempo meno impegnativo di quanto fosse una donna[133].  Scultimidonus Modifica Questo è un relativamente raro termine gergale[134] tra i più volgari (equivalente a pezzo di m. o buco di c.)[89]che appare in uno dei frammenti di Lucilio[134] e glossato[135] come: "coloro che elargiscono gratuitamente il proprio orifizio anale-scultima" (cioè la parte corporea più intima di sé, come fosse la parte interna di una prostituta/scortorum intima)[89].   Iolao assieme all'eroe e amante Ercole. Mosaico dalla Fontana del Ninfeo di Anzio, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Sottoculture                                                   Modifica Il mondo e la cultura latina hanno avuto una tale ricchezza di parole per indicare gli uomini al di fuori della norma maschile-vir, che alcuni studiosi sostengono l'esistenza di una vera e propria sottocultura di tipo omosessuale a Roma[136]. Plautomenziona una strada che era conosciuta come luogo d'incontro con giovani che praticavano la prostituzione maschile[137], e anche i bagni pubblici sono indicati come uno dei luoghi più usuali quando si voleva andar in cerca di partner sessuali maschi: Giovenale indica il grattarsi la testa con l'indice come segno di riconoscimento reciproco (nella II delle sue Satire).  Apuleio dice che i cinaedi formavano una vera e propria alleanza sociale allo scopo di realizzar il piacere generale, soprattutto organizzando banchetti e feste: nelle Metamorfosi (Auleio) (o Asino d'oro) descrive un gruppo che ha acquistato e condiviso un concubinus; mentre in un'altra occasione hanno invitato un giovane molto ben dotato (rusticanus iuvenis) alternandosi subito dopo nel sesso orale su di lui[138].  Altri studiosi, soprattutto quelli che sostengono il punto di vista del costruttivismo socio-culturale, sostengono invece che non vi è mai stato un gruppo sociale identificabile di maschi che si sarebbero auto-identificati come appartenenti a una qualche "comunità omosessuale"[139].  Matrimonio omosessuale                                            Modifica (LA)  «Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta referri»  (IT)  «Vivi ancora per qualche tempo e poi vedrai, vedrai se queste cose non si faranno alla luce del sole e magari non si pretenderà che vengano anche registrate.»  (Giovenale, Satira II, vv 135-136.) Anche se, in generale, i romani consideravano il matrimonio come unione eterosessuale al fine di generare figli, durante il periodo imperiale si sono verificati episodi in cui coppie maschili hanno celebrato il rito tradizionale del matrimonio romano in presenza di amici; queste forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che ne deridono gli intenti, mentre non vengono registrati i sentimenti dei partecipanti.  Il primo riferimento nella letteratura latina di un matrimonio avvenuto tra uomini si trova nelle Filippiche di Marco Tullio Cicerone, il quale si trova a insultare Marco Antonio per essere stato in gioventù "la sgualdrina" di Gaio Scribonio Curione e aver "stabilito con lui un matrimonio vero e proprio (matrimonium), come se avesse indossato una stola(l'abito tradizionale di una donna sposata) da matrona"[140]. Anche se le implicazioni sessuali a cui vuole alludere Cicerone sono chiare, il punto fondamentale del passaggio oratoriale del filosofo stoico latino è quello è di gettare discredito su Antonio indicandolo nel ruolo di sottomesso all'interno del rapporto omosessuale, mettendo così in tal maniera in dubbio la sua virilità di cittadino; non vi è alcun motivo di pensare che siano stati effettivamente eseguiti riti matrimoniali ufficiali[141].  Sia Marziale sia Giovenale - nelle sue Satire - si riferiscono al matrimonio tra uomini come a un fatto che non accade di rado, cioè come qualcosa di usuale e diffuso, abbastanza ricorrente all'interno della società dell'epoca, anche se poi i due autori citati si ritrovano a disapprovarlo[142]. Il diritto romano non ha mai ufficialmente riconosciuto il matrimonio tra uomini, ma uno dei motivi principali di disapprovazione espressi nella satira datata alla prima metà del II secolo è che continuare a celebrarne i riti avrebbe anche potuto condurre a un'aspettativa di registrazione ufficiale per tali unioni[143].  Giovenale si scaglia contro la diffusione dei rapporti omosessuali, identificati dal poeta con l'effeminatezzae il vizio in generale; passa a descrivere coloro che mascherano i propri vizi sotto il mantello della filosofia greca: i pervertiti si vestono effeminatamente in pubblico, vi è poi chi difende la sua causa in vesti trasparenti, chi giunge fino al punto di sposare un qualche "suonatore di corno"... ma peggio ancora sono coloro che partecipano ai misteri della Bona Deavestiti e truccati come fossero delle donne (II satira).   Busto di Nerone. Nerone        Modifica Varie fonti antiche (tra cui Svetonio, Tacito, Dione Cassio, e Aurelio Vittore) affermano che l'imperatore romano del I secolo Nerone abbia celebrato ben due matrimoni pubblici con degli uomini, una volta assumendo per sé il ruolo della moglie (questo accadde col liberto chiamato Pitagora), un'altra volta invece prendendo il ruolo del marito (con l'eunucoSporo); vi sono poi indizi su un terzo caso in cui sembra aver avuto ancora la parte della moglie[144].  Le cerimonie neroniane includevano elementi tradizionali come la dote e l'indossare il velo da sposa romana[141]. Anche se le fonti al riguardo si trovano a essere nella loro generalità pregiudizialmente ostili, lo stesso Dione Cassio fa implicitamente notare che gli atti pubblici e politici di Nerone venivano considerati molto più scandalosi dei suoi matrimoni con degli uomini[145].  Sporo rimase accanto a Nerone fino all'ultimo giorno, e si tramanda che fu presente anche alla sua morte (Vita di Nerone 48, 1; 49, 3), e, addirittura, secondo Sesto Aurelio Vittore (Epitome de Caesaribus 5, 7), sarebbe colui che resse il gladio con cui egli si dava la morte. Un ruolo di rilievo al suo personaggio compare viene dato anche in varie opere teatrali che descrivono tale evento (ad esempio Martello 1735). Alcuni studiosi considerano quella effettuata su Sporo come la prima operazione di cambiamento di sesso storicamente descritta[146].   Profilo dell'imperatore Eliogabalo. Eliogabalo                                  Modifica Agli inizi del III secolo il giovanissimo imperatore di origini siriache Eliogabalo è indicato per esser stato la sposa in un matrimonio che ha voluto celebrare col suo partner maschile; ma anche molti altri uomini maturi della sua corte sembra avessero dei mariti ufficiali, facendo per lo più notare che ciò era fatto a imitazione dei "matrimoni imperiali"[147].  L'orientamento sessuale di Eliogabalo e la sua identità di genere sono stati origine di controversie e dibattiti; va notato, però, che in Eliogabalo l'aspetto religioso e quello sessuale erano profondamente intrecciati, come normale nella cultura orientale, ma la società romana non comprese questo aspetto a essa alieno e dunque considerò stravaganti e scandalose le pratiche sessuali del proprio imperatore, tra cui le orge, i rapporti omosessuali e transessuali, la prostituzione, all'interno delle quali va intesa la ricerca - nella figura dell'androgino - del desiderio di castrazione.  Stando a quanto ne dice il membro del senato romanoe storico contemporaneo Cassio Dione Cocceiano, la sua relazione più stabile sarebbe stata quella con un auriga, uno schiavo biondo proveniente dalla Caria di nome Ierocle, al quale l'imperatore si riferiva chiamandolo suo marito,[148]. La Historia Augusta, scritta un secolo dopo i fatti, afferma che sposò anche un uomo di nome Zotico, un atleta di Smirne, con una cerimonia pubblica svoltasi nella capitale.[149].  Cassio Dione scrisse inoltre che Eliogabalo si dipingeva le palpebre, si depilava e indossava parrucche prima di darsi alla prostituzione nelle taverne e nei bordelli di Roma,[150] e persino all'interno del palazzo imperiale:   «Infine, riservò una stanza nel palazzo e lì commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro, mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti.»  (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, lxxx.13) Erodiano commenta che Eliogabalo sciupò il suo bell'aspetto naturale facendo uso di troppo trucco[151]. Venne spesso descritto mentre «si deliziava di essere chiamato l'amante, la moglie, la regina di Ierocle», e si narra che abbia offerto metà dell'Impero romano al medico che potesse dotarlo di genitali femminili[152]. Di conseguenza, Eliogabalo è stato spesso descritto dagli scrittori moderni come transgender, molto probabilmente transessuale.[153][154]  Proibizioni legali chiare e nette contrarie al matrimonio omosessuale cominciarono ad apparire durante il IV secolo, via via che la popolazione dell'impero romanostava sempre più convertendosi al cristianesimo[143].   Sileno ed Eros abbracciati. Bassorilievo in terracotta degli inizi del I secolo. Lo stupro omosessuale                                   Modifica Il diritto romano ha affrontato la questione relativa allo stupro di un cittadino di sesso maschile già nel II secolo a.C.[155], quando venne emessa una sentenza all'interno di una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale. È stato stabilito che anche un uomo "disdicevole e discutibile" (infamis e suspiciosus) aveva lo stesso diritto appartenente a tutti gli altri uomini liberi che il proprio corpo non fosse sottoposto al sesso forzato[156].  Nella "Lex Julia de vi publica"[157], registrata nei primi anni del III secolo ma con tutta probabilità risalente al tempo del dittatore romano Gaio Giulio Cesare lo stupro viene definito come un forzare al rapporto sessuale un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto romano[158].  Gli uomini che erano stati stuprati venivano esentati dalla perdita dello status giuridico e sociale subita da coloro che concedevano volontariamente il proprio corpo per dare piacere agli altri (soprattutto attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane che si dedicava alla prostituzione maschile o che comunque intratteneva sessualmente altri uomini era sottoposto a infamia e pertanto escluso dalle protezioni legali di regola concesse ed estese a tutti gli altri cittadini[159]. Considerata come una questione di diritto, uno schiavo o una schiava non avrebbero potuto essere violentati, ma in quanto oggetto di proprietà e non in quanto persone il proprietario dello schiavo poteva tuttavia perseguire il violentatore per danni alla proprietà[160].  Il timore di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare si estendeva anche a tutte le potenziali vittime di sesso maschile (in primis i bambini) oltre che alle donne[161]. Secondo il giurista Pomponio qualunque cosa l'uomo abbia subito (compresa la violenza sessuale a causa della forza soverchiante dei ladri o da parte del nemico in tempo di guerra), è una cosa che si deve sopportare senza alcuna stigmatizzazione[162].  La minaccia di un uomo di sottoporne un altro alla pedicatio (rapporto anale) o irrumatio (rapporto orale) è un tema assai frequente delle invettive poetiche, particolarmente famosa quella espressa da Catullo nel suo "Carmen 16"[163] ed è stata anche una forma comune di millanteria maschile[164]; lo stupro è stato inoltre una delle punizioni tradizionali inflitte su un uomo adultero da parte del marito offeso[165], anche se forse più come fantasia di vendetta che effettivamente realizzato nella pratica[166].  In una raccolta di dodici aneddoti che si occupano di "assalti subiti dalla castità" lo storico Valerio Massimodispone le vittime di sesso maschile a parità di numero se confrontate con le donne[167]. In un caso di processo farsa (esempio processuale) descritto da Seneca il Vecchio, un adulescens (un giovane che non ha ancora formalmente incominciato la propria vita da adulto) viene violentato da dieci suoi coetanei; anche se il caso è ipotetico Seneca qui presuppone che la legge contempli la possibilità effettiva di un tal accadimento[168]. Un'altra ipotesi immagina un caso estremo in cui la vittima di stupro venga indotta al suicidio; qui il maschio nato libero (appartenente agli ingenui) che ha subito violenza si uccide[169]: i romani consideravano lo stupro su un ingenuus come uno tra i peggiori crimini che potevano essere commessi, assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ancora in condizione di verginità e il furto all'interno di un tempio romano[170].  Relazioni omoerotiche nelle forze armate                                       Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                           Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità militare nell'antica Grecia. Il soldato romano, come ogni altro cittadino maschio libero e rispettoso dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina anche in materia sessuale. Augusto aveva vietato ai militari di sposarsi e questa proibizione è rimasta in vigore per l'esercito romanoimperiale per quasi due secoli[171]; le forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati rimanevano quindi la prostituzione e l'utilizzo di persone ridotte in schiavitù, lo stupro di guerra e le relazioni tra persone dello stesso sesso[172].  Il Bellum Hispaniense, narrante gli eventi della guerra civile romana (49-45 a.C.) nella Spagna romana, cita un ufficiale che tiene con sé un concubinus/prostituto durante tutta la campagna militare. Il sesso tra commilitoni tuttavia violava il decoro romano, contrario a ogni tipo di rapporto sessuale tra cittadini liberi; di primaria importanza per un soldato era mantenere intatta la propria virilità (da vir, la sua condizione di uomo) non permettendo mai quindi che il suo corpo potesse venir utilizzato da altri per soddisfare scopi sessuali[173].  In guerra lo stupro simboleggiava la sconfitta, un motivo che rendeva il corpo del soldato costantemente vulnerabile sessualmente[174]. Durante il periodo della repubblica romana gli atti omosessuali tra commilitoni erano soggetti a sanzioni severe, che potevano comprendere anche la condanna capitale[175], in quanto violazione della disciplina militare; Polibio (II secolo a.C.) riferisce che la punizione per un soldato che volontariamente avesse acconsentito a essere sottomesso sessualmente, quindi sottoposto a penetrazione, era il fustuarium(ossia la bastonatura a morte)[176].  Gli storici romani registrano racconti cautelativi di ufficiali che abusano del loro potere per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali e quindi a subire conseguenze disastrose[177]. Agli ufficiali più giovani, che ancora potevano mantenere alcune delle caratteristiche attrattive adolescenziali favorite maggiormente nelle relazioni tra maschi, era consigliato di rinforzare le proprie qualità maschili e non usare profumi, né tagliarsi i peli alle narici e non radersi le ascelle[178].  Un episodio riferito da Plutarco nella sua biografia di Gaio Mario illustra il dovere del soldato di mantenere la propria integrità sessuale nonostante le pressioni che potevano provenire dai suoi superiori. Una bella e giovane recluta di nome Trebonio[179] aveva subito molestie sessuali per un certo periodo di tempo dal suo ufficiale superiore, che si trovava anche a essere il nipote di Mario, Gaio Luscius. Una notte, dopo essersi nuovamente difeso, in una delle numerose occasioni in cui era stato sottoposto alle attenzioni indesiderate dell'uomo, Trebonio è stato convocato alla tenda di Luscius. Incapace di disobbedire al comando del suo superiore, si trova così a essere improvvisamente l'oggetto di una violenza sessuale e, a questo punto, sfoderata la spada uccide Luscius.  La condanna per l'uccisione di un ufficiale tipicamente provocava l'esecuzione immediata. Quando è stato portato a processo, il ragazzo è stato però in grado di produrre testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere Luscius, e che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno, nonostante le profferte di regali costosi". Marius non solo ha assolto Trebonio dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma gli ha consegnato una corona (vedi ricompense militari romane) per il coraggio dimostrato[180].   Diana e Callisto (1770), di Nicolas-René Jollain. Lesbismo                                           Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. I riferimenti al sesso tra donne non sono frequenti nella letteratura latina della repubblica romana e dell'inizio del principato (storia romana). Ovidio, che è uno dei massimi sostenitori d'uno stile di vita generalmente rivolto all'amore per le donne, descrive e nota poi con partecipazione la storia di Ifi (o Ifide, cresciuta e allevata come fosse un maschio) che s'innamora di Iante e in seguito anche di Anassarete: si tratta di uno dei pochissimi miti lesbici presenti nella tradizione classica[181].   Scena di sesso lesbico. Terme Suburbane (Pompei). In epoca imperiale successiva le fonti riguardanti relazioni omosessuali tra donne divengono via via più abbondanti, in forma di ricette mediche, incantesimi e pozioni d'amore, tesi di astrologia e interpretazione dei sogni[182]. Un graffito rinvenuto nei muri di Pompei antica esprime il desiderio di una donna nei confronti di un'altra: "vorrei poter tenerla stretta al collo, abbracciandola ed accoglier tutti i suoi baci sulle mie labbra[183].  Parole di lingua greca indicanti una donna che preferisce la compagnia intima di un'altra donna includono hetairistria (in parallelo a hetaira-compagna (l'etera o cortigiana), tribas (tribade, da cui deriva tribadismo) e lesbia (dall'isola di Lesbo patria della poetessa Saffo). Alcuni termini della lingua latina sono tribas (per prestito linguistico, fricatrix-colei che strofina o sfrega (i propri genitali su quelli di un'altra) e virago (da vir-uomo, quindi una donna-maschio)[184].   Saffo e le sue amiche a Lesbo, dipinto erotico di Édouard-Henri Avril. Un primo riferimento ai rapporti omosessuali tra donne definito come lesbismo si trova nello scrittore greco del II secolo Luciano di Samosata: "dicono che ci sono donne come quelle di Lesbo, di aspetto maschile e che si prendono come consorti altre donne, proprio come se fossero uomini"[185].  Dato che il modo di pensare romano nei riguardi del rapporto sessuale era eminentemente fallocratico e richiedeva in ogni caso un partner attivo dominante gli scrittori uomini immaginavano che nella sessualità tra lesbiche una delle due donne avrebbe dovuto utilizzare un fallo finto (dildo) oppure avere una clitoride eccezionalmente grande tanto da consentire con essa la penetrazione sessuale; per entrambe sarebbe stata un'esperienza piacevole proprio in quanto si verificava l'atto penetrante[186].  Raramente menzionati nelle fonti romane, oggetti a forma di fallo da utilizzare al posto del reale penemaschile sono un popolare elemento di comicità nella letteratura greca e nell'arte in genere[187], anche attraverso la tradizione del simbolismo fallico; esiste invece una sola raffigurazione nota nell'arte romana di una donna che penetra con questo sistema un'altra donna, mentre l'utilizzo di un fallo artificiale da parte di donne è più comune nella pittura vascolare greca[188].  Marco Valerio Marziale descrive le lesbiche come aventi appetiti sessuali fuor di misura che, prese da quest'esagerazione di desiderio, potevano giungere a eseguire atti sessuali con penetrazione su altre donne, ma anche su bambini[189]; i ritratti imperiali di donne che sodomizzano ragazzi, che bevono e mangiano come i maschi e che s'impegnano in vigorosi regimi fisici, possono riflettere in parte le ansie culturali circa la crescente indipendenza delle donne romane[190].  Identità di genere                                Modifica  Mosaico che mostra Ercole mentre porta un abbigliamento femminile ed è in possesso di un gomitolo di lana (a sinistra), mentre Onfaleindossa la pelle del Leone di Nemea. Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Temi transgender nell'antica Grecia. Travestitismo e crossdressing                                                 Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del crossdressing. Il crossdressing appare nell'arte e nella letteratura latina in vari modi per contrassegnare l'incertezza nell'identità di genere:  come invettiva politica, quando un uomo pubblico è accusato di indossare abiti eleganti e seducenti al modo degli effeminati. come tropo mitologico, come nella storia di Ercole e Onfale che si scambiano gli abiti e con essi anche i ruoli sessuali. come una forma di investitura religiosa, ad esempio nel sacerdozio degli adoratori di Cibele. molto raramente come feticismo di travestimento. Ulpiano categorizza l'abbigliamento romano sulla base di coloro che possono più opportunamente indossarlo: l'abbigliamento virilia-da uomo e caratteristico dei paterfamilias-i capi famiglia; puerilia è invece l'abbigliamento che marca chi lo indossa come bambino o minore; muliebria sono i capi d'abbigliamento della materfamilias; communia quelli che possono essere indossati da entrambi i sessi; infine i familiarica ovvero gli abiti per i famigli, i subalterni e gli schiavi di una casa[191].  Un uomo che volesse indossare abiti adatti alle donne, osserva sempre Ulpiano, rischierebbe di farsi oggetto di scherno: le prostitute erano le uniche donne a cui era concesso d'indossare a piacere anche la togamaschile, essendo loro di fatto al di fuori della categoria sociale e legale normativa indicante la donna[192].  Un frammento del commediografo Accio sembra riferirsi a un uomo che indossava segretamente "fronzoli più adatti a una vergine"[193]. Un esempio di travestitismo è riferito in una causa legale, in cui "un certo senatore era abituato a indossare di sera vestiti da donna"[194]. In una delle lezioni di diritto lasciateci da Seneca[195] un giovane-adulescens viene violentato mente indossava abiti da donna in pubblico, ma il suo abbigliamento è spiegato come atto di sfida compiuto davanti agli amici, non come una scelta basata sulla ricerca del piacere erotico[196].  L'ambiguità di genere era una caratteristica dei sacerdoti della Dea Frigia Cibele: conosciuti come Galli, il loro guardaroba rituale comprendeva capi di abbigliamento femminile. Essi sono a volte considerati come un'autentica casta sacerdotale transgender o transessuale: durante la celebrazione più importante in onore della Dea, a imitazione di Attis si auto-eviravano presi da smania e follia sacra[197]. La complessità della religione e del mito di Cibele e Attis viene esplorata in una delle poesie più lunghe di Catullo, la numero 63.   L'Ermafrodito dormiente, conservato al museo del Louvre. Ermafroditismo e androginia                                                        Modifica Il termine ermafroditismo viene riferito a una persona nata con caratteristiche fisiche di entrambi i sessi (vedi intersessualità); nell'antichità la figura dell'ermafrodita era una delle questioni primarie riguardanti l'identità di genere[198]. Plinio il Vecchioosserva nella sua Naturalis historia che "ci sono anche coloro che sono nati con entrambi i sessi, sono quelli che noi chiamiamo ermafroditi, un tempo detti androgini" (dal Greco Andr-uomo + Gyn-donna; un uomo che è anche una donna quindi)[199].  Lo storico Diodoro Siculo del I secolo a.C. scrisse che "alcuni dichiarano che il nascere di creature di questo tipo sia un evento meraviglioso (teratogenesi) in quanto, essendo un fatto molto raro, sia annunziatore del futuro, a volte con profezie benevole e altre con previsioni più malevoli"[200]. Isidoro di Siviglia descrive in maniera abbastanza fantasiosa un ermafrodito come colui "che ha il seno destro di un uomo e quello sinistro di una donna e dopo l'atto sessuale possono diventare sia il padre sia la madre dei loro eventuali figli"[201].  Secondo il diritto romano un ermafrodito doveva essere classificato o come maschio o come femmina, non esistendo una terza possibilità all'interno della categorizzazione giuridica[202]: l'ermafrodito rappresenta così una "violazione dei confini sociali, in particolare di quelli fondamentali per la vita quotidiana, come l'essere maschio o l'essere femmina"[203].  Nella religione romana tradizionale la nascita di un ermafrodito rientrava nell'ambito del prodigium, un evento cioè che segna un'interruzione nella pace tra Dei e umani; ma Plutarco osserva anche che mentre una volta erano considerati dei presagi divini, ora gli ermafroditi erano diventati oggetto di piacere-deliciae e venivano ampiamente contrattati e venduti al mercato degli schiavi[204].   Ermafrodito in un dipinto murale di Ercolano (prima metà del I secolo). Nella tradizione mitologica classica Ermafrodito era un ragazzino molto avvenente e grazioso figlio di Hermes(il romano Mercurio) e Afrodite (Venere)[205]. Ovidione ha scritto in dettaglio il racconto più famoso e influente, nelle sue Metamorfosi[206] sottolineando che, anche se il bel giovane era nel pieno della sua bellezza e attrattiva adolescenziale, respinse l'amore che gli veniva offerto esattamente come già aveva fatto Narciso[207].  La ninfa Salmace che lo aveva scorto lo desiderò immediatamente: rifiutata lei finse di ritirarsi ma poi, appena il ragazzo cominciò a spogliarsi per poter fare il bagno nel fiume, si slanciò su di lui abbracciandolo stretto e nel contempo pregando gli Dei di non essere mai separati. Gli spiriti benevoli accolsero la sua richiesta supplicante e così i due corpi, quello del ragazzo e quello della ninfa, si fusero in uno dando luogo a un essere fisicamente bisessuato.  Come risultato tutti gli uomini che andavano a bere dalle acque di quella sorgente avrebbero sentito sempre più crescere dentro sé caratteri da effeminatoe il morbo dell'impudicitia[208].  Il mito di Ila, il giovane compagno e amante maschio di Ercole che venne rapito da una ninfa delle acque (Lympha), condivide con Ermafrodito e Narciso il tema dei pericoli che si affacciano sul maschio adolescente nell'età della transizione che lo dovrebbe portare alla riconosciuta virilità adulta, e che invece ha esiti differenti per ognuno[209].  Raffigurazioni di Ermafrodito erano molto popolari tra i romani: "Rappresentazioni artistiche di Ermafrodito portano in primo piano le ambiguità concernenti le differenze sessuali costitutive di uomini e donne, nonché l'intima ambiguità esistente in tutti gli atti sessuali... Gli artisti trattano sempre Ermafrodito in qualità di spettatore di sé stesso, che scopre improvvisamente la sua più autentica identità sessuale... La figura di Ermafrodito è una rappresentazione altamente sofisticata, invadendo i confini esistenti tra i due sessi che sembra essere così chiara nel pensiero classico"[210].  Macrobio descrive infine una forma maschile della Dea Venere la quale aveva il suo culto principale nell'isola di Cipro: dotata di barba e genitali femminili, indossava invece abiti femminili. Gli adoratori di tale divinità travestita erano uomini vestiti da donna e donne vestite da uomini[211]. Il poeta latino Laevius ha parlato dell'adorazione di una Venere che non si sapeva bene se fosse maschio o femmina (sive femina sive mas); questi è stato talvolta chiamato Afrodito e in diversi esemplari di scultura questi si tira su le vesti rivelando d'avere genitali maschili, gesto tradizionalmente riconducibile a un rito magico dal potere apotropaico.  La transizione da paganesimo a cristianesimo                                      Modifica Infine non va sottovalutato il fatto che, è vero, nel tardo impero romano fu la condanna cristiana a rendere l'omosessualità un reato (cioè uno stuprum) sempre e comunque; tuttavia la terminologia usata per giustificare la condanna non è cristiana, ma è ripresa dalla filosofia greca e non dalla teologica ebraica. Il concetto di "contro natura", per esempio, viene da Platone, non dalla Bibbia. Per l'ebraismo, l'omosessualità non è "contro natura", ma semmai "impura", "abominazione" (to'ebah)[senza fonte].  Magnifying glass icon mgx2.svg                   Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualità ed Ebraismo. Tuttavia è innegabile che il Cristianesimo e la morale giudaica e testamentaria funzionarono da base e fulcro alle leggi che, successivamente adottate dagli imperatori cristiani come Costante, Teodosio I e Giustiniano, proibirono e punirono con la pena capitale il nuovo reato di omosessualità. Teodosio era infatti fortemente influenzato dal vescovo di Milano Sant'Ambrogio, tanto che quando promulgò la legge che condannava gli atti omosessuali passivi era sotto una penitenza assegnata dallo stesso Ambrogio[212] in un contesto in cui si stava svolgendo una lotta tra ariani e cattolici e in cui gli "eunuchi", molto influenti nella corte imperiale, erano schierati per la maggior parte con gli ariani affermando la natura umana di Gesù, ed esercitavano pressioni nei municipi contro i cristiani niceni, cioè cattolici, che sostenevano la duplice natura, divina e umana di Gesù, figlio di Dio[213]. Nel 389, cioè un anno prima del decreto che puniva gli atti omosessuali, un decreto di Teodosio tolse agli eunuchi neo-ariani il diritto di fare e ricevere testamento[214].  Sotto il dominio cristiano                           Modifica Nel Basso Impero il modo di concepire l'omosessualità cambia via via in modo sempre più restrittivo, fino ad arrivare al codice Teodosiano che, recependo due leggi precedenti databili rispettivamente al 342 e 390 d.C., reprimeva l'omosessualità passiva e l'effeminatezza con la pena capitale o la mutilazione, mentre con Giustiniano (483-565 d.C.) ogni manifestazione di omosessualità, anche attiva, fu bandita perché in ogni caso offendeva Dio, con riordino del sistema della persecuzione criminale e con pena di morte per infanda libido, formulando anche un giudizio morale ("infanda" = letteralmente che non può esser detta, innominabile).  Le cause di questo cambiamento legislativo, di irrigidimento e intolleranza sempre più crescente verso l'omosessualità sono ancora oggi dibattute da alcuni storici e studiosi. Indubbiamente un ruolo importante fu svolto dalla morale cristiana e dal passaggio del Cristianesimo da religione segreta e proibita a religione di Stato, unica ammessa in tutto l'Impero. La morale cristiana infatti, a differenza di quella pagana greco-romana, considerava comunque peccato l'atto omosessuale, di là dal ruolo svolto, contrapponendo, alla visione maschilista tipica della società romana sul sesso, una visione più ascetica e distaccata in cui il sesso era sempre considerato un peccato e un atto impuro, al di fuori della finalità di unione nella complementarità sessuale evocata in Genesi 2-3 e della apertura alla procreazione, e quindi dividendo le pratiche sessuali in lecite (rapporto tra uomo-donna atto alla riproduzione, sacralizzato a Dio tramite il matrimonio) e in illecite (tutto il resto, cioè gli atti sessuali non atti alla riproduzione, tra cui anche l'omosessualità attiva e passiva, oltre che la masturbazione).  Alcuni studiosi tuttavia ritengono che l'irrigidimento fosse stato coadiuvato, senza niente togliere alla morale cristiana sempre più dominante, anche a un certo puritanesimo pagano sempre più crescente di fronte alla decadenza dei costumi tipica del Tardo Impero.   Apollo tra gli amati Giacinto (mitologia) e Ciparisso (1834), di Aleksandr Andreevič Ivanov (pittore).  Scultura del 1846 di Herman Wilhelm Bissen che ritrae Ila, bellissimo giovinetto amato da Ercole.  Uno dei tanti busti dedicati da Adriano ad Antinoo.  Rapporto sessuale tra Antinoo e l'imperatore Adriano in uno dei tanti dipinti erotici di Édouard-Henri Avril.  Corteo trionfale del dio Bacco. Mosaico del II secolo.  Busto romano di ragazzo (forse Polydeukes amato da Erode Attico), conservato all'Ermitage di San Pietroburgo e risalente al II secolo d.C. Note                                                   Modifica ^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford University Press, 1999, 2010), p. 304, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, 1983), p. 122. ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, 1988 p. 100. ^ Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford University Press, 1999), p. 18. ^ Williams, Roman Homosexuality, passim; Elizabeth Manwell, "Gender and Masculinity," in A Companion to Catullus (Blackwell, 2007), p. 118. ^ Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman Cultural Revolution (Cambridge University Press, 1997), p. 31 et passim. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 326. Si veda la dichiarazione conservata in Aulo Gellio 9.12. 1 sul fatto che vim in corpus liberum non aecum ... adferri). ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico-"Bisexuality in the Ancient World" (Yale University Press, 1992, 2002, originariamente pubblicato nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Elaine Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius' Thebiad," Arachnion 3; Andrew J.E. Bell, "Cicero and the Spectacle of Power," Journal of Roman Studies87 (1997), p. 9; Edwin S. Ramage, “Aspects of Propaganda in the De bello gallico: Caesar's Virtues and Attributes,” Athenaeum 91 (2003) 331–372; Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic(Cambridge University Press, 2006) passim; Rhiannon Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge, 2008), pp. 156–157. ^ Davina C. 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Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton University Press, 1993). ^ Liber (Catullo) Carmina 21, 37, 55, 56, ^ Elegie (Tibullo), Libro I, 4 ^ Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico (Yale University Press, 1992, 2002, pubblicato originariamente nel 1988 in italiano), p. xii. ^ Svetonio, Vita di Cesare 45-53; ^ Carmina, 29. ^ Svetonio, Vita di Cesare, 73. ^ (Vita di Augusto 68, 71) ^ Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, CUP, 2006, p. 263, in books.google.com ^ Plutarco,http://penelope.uchicago.edu/Thayer/E/Roman/Texts/Plutarch/Lives/Antony*.html Vite parallele: Antonio] ^ M. 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Ramsey MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," Historia 31 (1982), p. 496. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 24, citing Martial 8.44.16-7: tuoque tristis filius, velis nolis, cum concubino nocte dormiet prima ^ Caesarian Corpus, De Bello Hispaniensi 33; MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," p. 490. ^ "They use the word Catamitus for Ganymede, who was the concubinus of Jove," according to the lexicographer Festus (38.22, as cited by Williams, Roman Homosexuality, p. 332, note 230. ^ Butrica, "Some Myths and Anomalies in the Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, p. 212. ^ Holt N. 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See also Plauto, Poenulus 1292, come ha osservato Richard P. 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See also Digest 48.5.35 [34] on legal definitions of rape that included boys. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," pp. 558–561. ^ Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, pp. 99, 103; McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, p. 314. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 104–105. ^ Digest 3.1.1.6, as noted by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Richlin, The Garden of Priapus, pp. 27–28, 43 (in Marziale), 58, et passim. ^ Williams, Roman Homosexuality, p. 20; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, p. 12; Amy Richlin, "The Meaning of irrumare in Catullus and Martial," Classical Philology 76.1 (1981) 40–46. ^ Williams, Roman Homosexuality, pp. 27, 76 (con un esempio proveniente da Marziale 2.60.2. ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge University Press, 1993), pp. 55–56. ^ Valerio Massimo 6.1; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Quintiliano, Institutio oratoria 4.2.69–71; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 565. ^ Richlin, "Not before Homosexuality," p. 565, citando il passaggio proveniente da Quintiliano. ^ Men of the governing classes, who would have been officers above the rank of centurion, were exempt. Pat Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, 2006), p. 144; Sara Elise Phang, The Marriage of Roman Soldiers (13 B.C.–A.D. 235): Law and Family in the Imperial Army (Brill, 2001), p. 2. ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, p. 3. ^ Sara Elise Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press, 2008), p. 93. ^ Phang, Roman Military Service, p. 94. See section above on male rape: Roman law recognized that a soldier might be raped by the enemy, and specified that a man raped in war should not suffer the loss of social standing that an infamis did when willingly undergoing penetration; Digest 3.1.1.6, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 559. ^ Thomas A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford University Press, 1998), p. 40. ^ Polibio, Storie 6.37.9 (metodo antico di bastinado). ^ Phang, The Marriage of Roman Soldiers, pp. 280–282. ^ Phang, Roman Military Service, p. 97, citing among other examples Juvenal, Satire 14.194–195. ^ Lo stesso nome è citato anche altrove in Plozio Tucca. ^ Plutarco, Vita di Mario 14.4–8; vedi anche Valerio Massimo 6.1.12; Cicerone, Pro Milone 9, in Dillon e Garland, Ancient Rome, p. 380; in Dionigi di Alicarnasso 16.4. Discussione di Phang, Roman Military Service, pp. 93–94, e The Marriage of Roman Soldiers, p. 281; Eva Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nell'antica Roma, pp. 105–106. ^ Ovidio, Metamorfosi (Ovidio) 9.727, 733–4, citato in Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 346. ^ Bernadette J. Brooten, Love between Women: Early Christian Responses to Female Homoeroticism (University of Chicago Press, 1996), p. 1. ^ The Latin indicates that the I is of feminine gender; CIL 4.5296, as cited by Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 347. ^ Brooten, Love between Women, p. 4. ^ Luciano, Dialoghi delle cortigiane 5. ^ Jonathan Walters, "Invading the Roman Body: Manliness and Impenetrability in Roman Thought," pp. 30–31, and Pamela Gordon, "The Lover's Voice in Heroides 15: Or, Why Is Sappho a Man?," p. 283, both in Roman Sexualities; John R. Clarke, "Look Who's Laughing at Sex: Men and Women Viewers in the Apodyterium of the Suburban Baths at Pompeii," both in The Roman Gaze, p. 168. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 351. ^ Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas," in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, 2007), pp. 11–12. ^ Martiale 1.90 e 7.67, 50; Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," p. 347; John R. Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art 100 B.C.–A.D. 250(University of California Press, 1998, 2001), p. 228. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 228. ^ Digest 34.2.23.2, as cited by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 540. ^ Edwards, "Unspeakable Professions," p. 81. ^ Cum virginali mundo clam pater: Kelly Olson, "The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture(University of Toronto Press, 2008), p. 147. ^ Digest 34.2.33, as cited by Richlin, "Not before Homosexuality," p. 540. ^ Vedi sopra alla sezione "stupro maschio-maschio"." ^ Lucio Anneo Seneca il Vecchio, Controversia5.6; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 564. ^ Stephen O. Murray, Homosexualities (University of Chicago Press, 2000), pp. 298–303; Mary R. Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford University Press, 2008), pp. 19, 33, 36. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, p. 49; Rabun Taylor, The Moral Mirror of Roman Art(Cambridge University Press, 2008), p. 78. ^ Pliny, Natural History 7.34: gignuntur et utriusque sexus quos hermaphroditos vocamus, olim androgynos vocatos; Veronique Dasen, "Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," Oxford Journal of Archaeology 16.1 (1997), p. 61. ^ Diodorus Siculus 4.6.5; Will Roscoe, "Priests of the Goddess: Gender Transgression in Ancient Religion," in History of Religions 35.3 (1996), p. 204. ^ Isidoro di Siviglia, Etimologie 11.3. 11. ^ Lynn E. Roller, "The Ideology of the Eunuch Priest," Gender & History 9.3 (1997), p. 558. ^ Roscoe, "Priests of the Goddess," p. 204. ^ Plutarco, Moralia 520c; Dasen, "Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," p. 61. ^ Ovid, Metamorphoses 4.287–88. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 77; Clarke, Looking at Lovemaking, p. 49. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 78ff. ^ Paulus ex Festo 439L; Richlin, "Not before Homosexuality," p. 549. ^ Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, p. 216, note 46. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, pp. 54–55. ^ Macrobio, Saturnalia 3.8.2. Macrobio dice che Aristofane chiama una tale figura col nome di Aphroditos. ^ Wilhelm Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco, 1953. In: Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Anno 1953, N. 2 ^ Atanasio, Storia degli Ariani, 5.38 ^ Codice di Teodosio,16.5.17 Bibliografia      Modifica Gaio Valerio Catullo, I Carmi. Publio Virgilio Marone, Bucoliche. Albio Tibullo, Elegie. Tito Petronio Nigro, Satyricon. Wilhelm Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco, 1953. Michel Foucault, La volontà di sapere. (Storia della sessualità, vol. 1), Feltinelli, Milano 1978. Michel Foucault, L'uso dei piaceri. (Storia della sessualità, vol. 2), Feltrinelli, Milano 1984. Craig Arthur Williams: Roman Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. in: Oxford University Press (ed.): Ideologies of Desire. Oxford 1999. ( EN ) Guillermo Galán Vioque, Martial, Book VII: A Commentary, traduzione di J.J. Zoltowski, Brill, 2002, pp. 61, 206, 411, ISSN 0169-8958 (WC · ACNP). Thomas K. Hubbard: Homosexuality in Greece and Rome, a Sourcebook of Basic Documents. Los Angeles, London 2003. ISBN 0-520-23430-8 Eva Cantarella, Secondo natura - La bisessualità nel mondo antico, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2006. ISBN 88-17-11654-8 RAYOR, Diane J. Homosexuality in Greece and Rome: A sourcebook of basic documents. Univ of California Press, 2003. ISBN 978-0520234307 Voci correlate                    Modifica Storia LGBT Omosessualità nell'antica Grecia Omosessualità nel Medioevo Pederastia Pederastia greca Storia dell'omosessualità in Italia Altri progetti       Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su omosessualità nell'Antica Roma   Portale Antica Roma   Portale LGBT Ultima modifica 16 giorni fa di Botcrux PAGINE CORRELATE Lex Scantinia Sessualità nell'antica Roma Terminologia dell'omosessualità Wikipedia Il contenuto – Grice: “And then there’s Roman sex”. Grice: “Like me in ‘Some remarks about the senses, Fardella with Giorgi follow Lucrezio’s materialism, -- and Cicero’s sensible terminology on sensibilia!” Michelangelo Fardella. Fardella. Keywords: metafisica, ontologia, razionalismo, aritmetica, geometria, solipsismo, percezione, vedere – sentire – atomismo di lucrezio, sensismo di Giorgi – Cartesio is actually borrowing it all from Platone’s Timeo – for whom the world is also only interpretable ‘more geometrico’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fardella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690424692/in/photolist-2mKEbWv-2mKGWoQ

 

Grice e Fassò – Igitur est RES PVBLICA RES POPVLI – l’implicatura di Bruto filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I like Fassò; for one, he was, like my friend H. L. A. Hart, a philosophical lawyer! But unlike Hart, Fassò, being a Roman, knew what he was talking about!” “My favourite is his explication of Bruto’s reaction when being brought the corpses of his two sons!” Fassò, mi viene a conforto col suo ottimo lavoro, che dà una diligentissima ed acuta interpretazione ed esposizione del corso non già logico ma storico, o per meglio dire, psicologico della formazione della Scienza nuova; esposizione che è utile possedere e che si segue con curiosità. Con pari bravura è condotta la ricerca di quel che Vico attinse o credette di attingere ai quattro suoi autori. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori,). Figlio di Ernesto, generale dell'esercito, e Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie Barbieri (il di lei nonno era Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia, moglie di Lodovico, era sorella di Alberto e Alfredo Dallolio), trascorre i suoi primi anni, fino all'adolescenza, fra il Piemonte (Mondovì), l'Emilia-Romagna (Parma) e la Lombardia (Mantova). Temperamento religioso, ereditato dall'educazione famigliare e dalla frequentazione con un anziano sacerdote, si caratterizza sempre per il rigore negli studi (perciò Mazzetti, suo compagno di gioventù, poté definirlo schivo degli incontri e quasi della società, teso in un impegno di chiarezza mentale, di serietà e finezza di sentire. Conseguita la maturità classica al Virgilio di Mantova, si laurea a Bologna, sotto Borsi con “L'elemento demografico nelle provvidenze assistenziali a favore dei lavoratori: la legislazione del lavoro”. Dopo aver rinunciato ad impiegarsi come funzionario nell'Unione industriale, ottiene anche la laurea in Filosofia, sotto Saitta, con “Vico e Michelet”. Confiderà poi al suo allievo, Enrico Pattaro, che la scelta della filosofia, lungi dall'essere redditizia, è un matrimonio con «madonna povertà», cui egli, tuttavia, non volle sottrarsi, non essendo versato, come rivelò a Fausto Nicolini, nella «professione forense». Svolse, quindi, l'attività di docente di storia e filosofia, inizialmente come supplente al "Galvani" di Bologna, poi a Forlì e, infine, al Liceo scientifico "Augusto Righi" di Bologna. Il suo saggio, dedicato a Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese, che, però, a causa dell'indisponibilità degli editori, sarebbe stato pubblicato, grazie all'intervento di Giuseppe Saittacome memoria dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Vicino al Partito Liberale Italiano, a guerra conclusa accetta di candidarsi, per il medesimo partito, alle elezioni comunali bolognesi.  Divenuto assistente volontario di Filosofia del diritto nell'Ateneo felsineo, fu convinto da Felice Battaglia a concorrere per la libera docenza, che ottenne nel 1949. Nel medesimo anno, all'Parma, gli viene quindi assegnato l'incarico in Filosofia del diritto. Aggiudicatosi l'ordinariato, si trasferì successivamente a Bologna, dove insegnò filosofia giuridica, presso la Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine politiche, nella Facoltà di Lettere e Filosofia.  Si occupò di studi vichiani (della cui validità scientifica è testimonianza una epistola di Gioele Solari del 17 maggio 1949, in cui si apprende che «l'interpretazione giuridica della Scienza nuova proposta da Fassò supera la visione Croce-Nicolini», ponendosi al livello qualitativo di quelle del Fubini e del Donati) e groziani, della cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio e scrisse Vico e Grozio, nonché, la Storia della filosofia del diritto in tre volumi, giudicata da Bobbio come la «storia della filosofia del diritto più completa» esistente «sulla faccia della terra».  Oltre Croce, Fassò criticò anche Gentile, autore di una «concezione speculativa indubbiamente grandiosa», che si risolveva, però, in «vana retorica», negante, entro la dialettica dello spirito, la realtà del fenomeno giuridico. Fra le altre opere, La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; dello stesso anno è La legge della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia del diritto uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata rivalutazione» del diritto naturale; Società, legge e ragione, apparso nell'anno della morte (i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono scritti precedenti). Le pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza l'ispirazione teoretica di Fassò sono, invece, La storia come esperienza giuridica  (in cui, ha commentato Bobbio, si dimostra che tutti i rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un germe di organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche») e Cristianesimo e società, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico, incontrando financo il favore di Prezzolini. Il suo testament disponeva funerali semplici, «senza fiori e senza seguito di estranei». In un codicillo, inoltre, soggiungeva che, «se si trovassero miei scritti incompiuti, manoscritti o dattilografati, non si stampino, perché non possono essere stati riveduti come avrei ritenuto necessario», congiuntamente all'invito a non raccogliere «in volume opuscoli sparsi o "scritti minori", operazione che non dovrebbe mai esser fatta se non dall'autore». Alla memoria di Fassò, oltre che a quella di Augusto Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica a Bologna,. Benché Fassò abbia apprezzato il Romano sostenitore della concezione non normativistica del diritto, egli non poté tacerne il limite, consistente nell'assenza di una «definizione esauriente» dell'istituzione, dovuto alla volontà di Romano di tenersi «fuori dal campo della filosofia». Il più limpido storico del giusnaturalismo». Formatosi filosoficamente nella temperie culturale neoidealistica, Fassò se ne distaccò, rifiutandone soprattutto l'immanentismo, con La storia come esperienza giuridica, opera ispirata dalle suggestioni istituzionalistiche di Santi Romano (ma di questi deplorerà, nella successiva Storia della filosofia del diritto, il circolo vizioso, per cui una «istituzione è giuridica [solo] quando è giuridica» A Croce, che faceva coincidere storia e filosofia, Fassò replicava con l'identificazione di storia e giuridicità, estendendo il concetto di istituzione — contrariamente a quanto aveva fatto Romano, e risolvendone così il «circolo vizioso» — a «tutti gli aspetti della vita sociale, cioè della vita dell'uomo nella storia, che è sempre vita dell'uomo in società». L'elisione dell'identità fra realtà storica e razionalità filosofica non implica la rimozione dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità conoscitiva, ricadendo la «concreta unità del reale» (sotto l'aspetto gnoseologico) nell'ambito del privo di senso, sebbene restasse attingibile in uno slancio mistico, descritto, in una pagina de La legge della ragione, come partecipazione dell'«uomo al Valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli Dio per unirsi a lui, trascendendo la propria umanità, la propria soggettività empirica, storica». È importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia legato l'Assoluto a uno slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo misticheggiante, ma — giusta l'osservazione di Lombardi Vallauri — abbia formulato un «dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità dell'etica intesa come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione essenziale della ragione giuridica nel mondo». Proprio il riconoscimento della centralità della ragione giuridica nel governo della «concreta molteplicità del reale» costituì, per Fassò, un ulteriore motivo critico nei confronti dell'anti-gius-naturalismo crociano, da cui, dopo l'approfondimento della storia del giusnaturalismo, prese più convintamente le distanze. La concezione giusnaturalistica fassoiana, infatti, cerca di non cadere nell'errore proprio della tradizione precedente (errore che nella Storia della filosofia del diritto, non esitò a indicare quale «difetto capitale» della scuola del diritto naturale, consistente nell'«astrattismo e nel conseguente antistoricismo»), intendendo il diritto naturale quale «ordine che nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere inserito proprio per la sua dimensione storica, che è la sua dimensione essenziale». Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte. B. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori, su Quaderni della Critica, Laterza, Ora anche in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, Cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza. La sua ricerca di Saitta, anche storica, sembra inscindibile da una polemica e da una protesta. Polemica e protesta che attraversano ugualmente l'attività così del Calogero come dello Spirito, annoverati talora col Saitta fra gli esponenti della "sinistra" gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo benevolmente, di crocianesimo».  E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò. Fassò segue con particolare attenzione i corsi di Saitta, che gli suggerì di approfondire Michelet, che lo avrebbe condotto a Vico.  Scheda senatore Dallolio Alberto, su Scheda senator Dallolio Alfredo, su senato. Le parole di Mazzetti sono riportate in Faralli, Il maestro e lo studioso, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico, Bologna, Società Tipografica già Compositori,Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico. Bologna, Tipografia Compositori, E. Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni sulla gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di Fassò, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino. “Mi disse che ci sarebbe stato un concorso per assistente ordinario alla cattedra e mi chiese se fossi interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due avvertimenti sui quali avrei dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi sono: "chi fa filosofia del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa madonna povertà e nell'università occorre sapere ingoiare amaro e sputare dolce perché l'intelligenza degli accademici è di regola superiore a quella dei comuni mortali, e ciò implica che essi siano capaci di cattiverie più raffinate e perfide di quelle di cui sono capaci i comuni mortali. La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini, richiamato da E. Pattaro, nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò, premesso. In altre lettere allo stesso Nicolini, scrive di non sentire nessuna vocazione per la professione forense. Curriculum vitae di Andrea Fassò, Consiglio Nazionale del Notariato.. Gli studi vichiani di Guido Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani,  5, Napoli, Guida, Ha ultimato Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese nel ma causa la difficoltà di trovare un editore — non gli fu possibile pubblicarlo allora: soltanto poté presentarlo all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Giuseppe Saitta. E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero dFassò, in G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto,  E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini,  1, Milano, Giuffrè.  Dopo i disagi della guerra, aveva ripreso le proprie ricerche incoraggiato da Felice Battaglia, che lo convinse ad affrontare l'esame di libera docenza in filosofia del diritto. Conseguita la libera docenza in filosofia del diritto, nello stesso anno Fassò ebbe il suo primo incarico in questa materia, all'Parma. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. Battaglia, Guido Fassò: in memoria, in Rivista internazionale di filosofia del diritto [giunse] alla libera docenza, e nello stesso anno lo abilitarono a tenere l'incarico della filosofia del diritto nella Parma, ove divenne professore della materia. Passa all'Bologna, dove rimase titolare della disciplina, tenuta con alto prestigio e qualificata dignità fino alla morte che ne chiuse la laboriosa giornata».  Enrico Pattaro, Gli studi vichiani di Guido Fassò, in Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida. Tra le carte personali di Guido Fassò ho trovato una cartolina postale, vergata fitta fitta da Gioele Solari. In essa, tra le altre cose, è scritto: ‘Da tempo ero convinto della verità della interpretazione giuridica della Scienza Nuova: ma Lei ne ha dato ampia, profonda, persuasiva dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta è frutto della Sua modestia, e della Sua serietà di studioso. Il suo saggio sui quattro autori può stare a paro cogli scritti vichiani del Donati e del Fubini e supera la visione Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della scienza nuova stanno ancora sulle generali. Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più complete. Così Bobbio saluta la Storia della filosofia del diritto. In tutta la filosofia del Gentile si ha una concezione speculativa indubbiamente grandiosa, ma che si risolve in vana retorica, negante l'esperienza della realtà effettuale. Non è tuttavia dalla negazione della molteplicità dei soggetti che discende la negazione della realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come in quella del Croce, essa è compiuta in relazione alla dialettica dello spirito, cioè del soggetto assoluto. È importante, infine, sottolineare il valore di impegno civile che il filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso venne riconosciuto dalla traduzione greca. Thessalonike, Poseidonas], all'epoca della dittatura militare in Grecia».  Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, prefazione di Luigi Ferrajoli, Roma-Bari, Laterza,  Norberto Bobbio, La filosofia del diritto in Italia, in Jus, Milano,  Faralli, I momenti della riflessione critica su Guido Fassò, Prezzolini chiosa Cristianesimo e società sia in un articolo su Il resto del carlino sia nel libro Cristo e/o Machiavelli. Conservo la prima edizione di Cristianesimo e società, egli scrive. La volli come compagna perché dovevo moltissimo a quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la conferma dotta, serena, eppure appassionata di un punto di vista importante. Prezzolini ritiene di aver trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al corrente della produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi filosofici, quelle stesse idee che anch'egli aveva manifestato ‘lanciate piuttosto da un intuito che da un sapere storico Annuario, Bologna, Tipografia Compositori, E. Pattaro, Ricordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica, sStoria della filosofia del diritto, edizione aggiornata C. Faralli,  Roma-Bari, Laterza. Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della filosofia, non sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti quello del Croce, che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è sostenuta unicamente sul terreno della considerazione empirica del diritto, e non vuole avere né premesse né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra di essa.Neppure il Romano dà del concetto di istituzione una definizione esauriente».  G. Marini, Il giusnaturalismo nella cultura filosofica italiana del Novecento, in Storicità del diritto e dignità dell'uomo, Napoli, Morano, Cfr. N. Matteucci, recensione a G. Fassò, Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano, in Il Mulino,  «L'esigenza filosofica fondamentale che si palesa nei lavori del Fassò è quella di uscire dallo storicismo immanentistico dei Croce e dei Gentile che vedeva nella storia la manifestazione di un principio assoluto (lo Spirito, l'Atto. Cfr. E. Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale, in appendice a G. Fassò, La storia come esperienza giuridica, C. Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino. L'esperienza che Fassò aveva avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima metà del secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani, condotti in chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva un'ipoteca con cui dover fare conti precisi, in sede teoretica, sia pure di filosofia del diritto, venne chiamata ad un inevitabile redde rationem. G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, edizione aggiornata C. Faralli, Roma-Bari, Laterza, Il giudizio, tuttavia, è già presente in G. Fassò, La storia come esperienza giuridica. È proprio questo, del resto, il punto debole della dottrina del Romano, che fu subito rilevato dai suoi critici: il circolo vizioso in cui egli si aggira, presupponendo la giuridicità di quella istituzione che poi identifica con il diritto. In altre parole, il Romano afferma che sono istituzione, ossia ordinamento giuridico, ossia diritto, quegli enti o corpi sociali che hanno carattere giuridico. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, B. Croce, La storia come pensiero e come azione, M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, «Si può dire che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. La storia come esperienza giuridica. L'esperienza giuridica non è altro che l'esperienza umana nella sua totalità, la storia stessa insomma dell'uomo. In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, «La concreta unità del reale, l'universale concreto, è un residuato della grandiosa retorica metafisica idealistica. Fassò, con l'onore delle armi, lo colloca nella dimensione che gli compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile, incomunicabile per definizione: dell'indiscutibile che è tale non perché sia vero o certo di là da ogni ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile oggetto di discorso, non è suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni comprensione e spiegazione razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di senso. Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale. Resti chiaro, peraltro, che Fassò rinvia sì al piano mistico l'unità del reale, l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma che, non per questo, egli professa una filosofia mistica intuizionistica. Il giudizio di Lombardi Vallauri è espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano. Considerata nel suo arco complessivo, forma un dittico, che da un lato ribadisce rigorosamente la sopragiuridicità della esperienza cristiana giunta al suo culmine (identificato nella carità), e dall'altro lato riconosce la funzione preziosa della ragione giuridica ‘nel mondo, dove ogni individuo limita e contraddice l'altro e dove una norma di coesistenza è indispensabile’») e accolto in Guido Fassò, Società, legge e ragione, Milano, Edizioni di Comunità, Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, La concreta molteplicità del reale, il flusso eracliteo dei particolari concrerti, l'eterogeneo continuum di cui parla richiamando Ross, è la realtà empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili, non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente identici. Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr., per esempio, Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis. Contraddittorio è altresì il concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori, si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di colpo lo svolgimento, concludersi la Storia, morire la vita, disfarsi la realtà. Sulla presa esplicita di distanza di Fassò da Croce, cfr. Società, legge e ragione. Ho continuato a ripetere la stessa cosa. Il diritto nasce dalla natura umana, la quale è natura storica e natura sociale. Ho rifiutato dapprima, sotto la suggestione dell'anti-gius-naturalismo del tempo in cui ero cresciuto, di chiamare naturale un siffatto diritto. Più tardi, dopo avere approfondito la conoscenza storica del gius-naturalismo ed essermi meglio chiarito la parte che esso ha avuto nella difesa della libertà contro l'assolutismo politico, mi sono deciso a designare con quell'aggettivo in realtà equivoco il diritto che la ragione trova nella natura della società. Laddove, invece, si è riscontrata coincidenza cronologica, si è preferito seguire l'ordine alfabetico. Altre opere: “I quattro auttori del Vico: saggio sulla genesi della Scienza nuova” (Milano, Giuffre); “La storia come esperienza giuridica, Carla Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristianesimo e società” (Milano, Giuffrè); “La democrazia in Grecia, Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini (Milano, Giuffrè); “Il diritto naturale” (Torino, ERI, “La legge della ragione, Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini (Milano, Giuffrè); “Storia della filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza); “Vico e Grozio” (Napoli, Guida);  “Società, legge e ragione” (Milano, Edizioni di Comunità); “Scritti di filosofia del diritto” (Milano, Giuffrè); Diritto della guerra” (Napoli, Morano). Dizionario biografico degli italiani,.Gli studi vichiani di Guido Fassò, Centro Studi Vichiani,  5, Napoli, Guida),“Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò”, “In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò”, “Lo storicismo di Guido Fassò”, “Sulla annosa e ricorrente disputa tra positivisti e giusnaturalisti”, “Un itinerario filosofico tra diritto e natura umana”.  L'iniziativa di raccogliere gli scritti di filosofia del diritto di Guido Fassò è altamente opportuna e meritoria. Gli studiosi ne debbono essere grati ai curatori: Enrico Pattaro (che al Maestro è succeduto sulla cattedra bolognese), Carla Faralli, Giampaolo Zucchini. Con questi tre ricchi volumi diviene facilmente accessibile una produzione, altri- menti sparsa in riviste e in atti occasionali, che sta a testimoniare il cammino limpido e coerente di una tra le personalità intellettualmente più vive ed oneste della nostra cultura del secondo dopoguerra, pur- troppo strappata anzi tempo agli studi. I curatori avvertono che del- l'opera di Guido Fassò (1915-1974)rimangono escluse da questa pur ampia raccolta: a) le opere pubblicate quali volumi separati; b) arti- © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 499 coli occasionali che sono parsi non riconducibili alla ((filosofia del di- ritto )); c) scritti di letteratura e di critica cinematografica, risalenti agli anni giovanili (p. XIII). Si può convenire sull’opportunità di pre- servare la purezza e omogeneità scientifica della raccolta, escludendo gli scritti delle due ultime categorie menzionate; giudicheranno i cura- tori, o altri studiosi interessati, se non sia opportuna la pubblicazione separata degli scritti minori ora esclusi, per dare un’immagine completa della cultura e dell’evoluzione di Fassò, ovvero di uno studioso che, alieno quant’altri mai da digressioni e dilettantismi, mostrava però in ogni pagina la vastità e classicità delle proprie conoscenze. Evidente è invece la necessità di escludere le opere apparse quali volumi separati. Tra esse sono opere a tutti note, che hanno saldamente stabilito il prestigio scientifico di Fassò: basti ricordare gli studi vichiani e gro- ziani (da I (( quattro auttori D del Vico. Saggio sulla genesi della Scienza nuova )), del 1949, alla cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio, dello stesso anno, a Vico e Grozio, del 1971) e la fondamentale Storia della filosofia del diritto (in tre volumi: 1966, 1968, 1970). Sono anche da ricordare: La democrazia in Grecia, del 1959;Il diritto naturale, del 1964; La legge della ragione, dello stesso anno; Società, legge e ragione, apparso nell’anno della morte (ma i due ultimi volumi raccolgono e rifondono scritti precedenti, che si trovano in questa stessa raccolta). Ricordiamo per ultimi, non per caso, i due scritti in cui è documentata la fisionomia teoretica di Fassò, il quale, se fu grande storico del pensiero, ebbe anche un’impronta filosofica originalissima, e una chiarezza ideale che diede senso unitario ai molti interventi su problemi teoretici, oggi raccolti nei presenti volumi. Ci riferiamo alle opere L a storia come esperienza giuridica, del 1953, e Cristianesimo e società, del 1956. Oltre agli scritti di Fassò, la raccolta contiene: una Nota dei curatori, che spiega i criteri seguiti (pp. XIII-XV);un’ampia Introduzione di En- rico Pattaro, dal titolo Sull’assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò (pp. XIX-LXXXu);na Bibliografia degli scritti filosofico- giuridici di Guido Fassò, a cura di Giampaolo Zucchini (pp. 1465- 1473); uno studio di Carla Faralli dal titolo I momenti della riflessione critica su Guido Fassò (pp. 1477-1517). Di modo che questi volumi offrono una base per chiunque si accosti criticamente all’opera e al pensiero di Fassò: lo status quaestionis è chiaramente delineato. È ancora da dire che gli scritti di Fassò sono ripartiti in tre categorie: a) saggi e articoli, b) voci di enciclopedia, c) recensioni. Se i ((saggie articoli )) occupano la maggior parte dei volumi, notevole è però anche la mole delle ((vocidi enciclopedia )) (pp. 1205-1377): un genere lette- rario che Fassò coltivò con assiduità, e che era particolarmente conge- niale alla sua mente storica, e alla chiarezza concettuale alla quale egli era sempre solito congiungere rigorosamente la ricostruzione storica: poche pagine sono in grado, in queste voci, di dare le linee maestre di © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   500 LETTURE un tema, o dell’opera di un autore (esemplari ci sembrano, tra le voci su temi teoretici, Democrazia, del 1960,e Giusnaturalisrno, apparso postumo nel 1976;tra le voci su temi storici, quelle sui due autori di Fassò per eccellenza, Groot, del 1967,e Vico, apparso postumo nel 1975). Non molte sono invece le recensioni (28, di contro a 49 voci di enci- clopedia) in chi pure fu studioso di larghissime letture. Se si tolgono le recensioni legate agli esordi scientifici e ai loro temi, rimangono pochi interventi; tra questi dobbiamo ricordare, per l’interesse oggettivo e per la luce che portano sulla personalità di Fassò, le recensioni dedi- cate ad autori coi quali egli fu in singolare vicinanza spirituale: come le recensioni a volumi di Bobbio su temi filosofico-giuridici, o al volume di Piovani, Giusnaturalismo ed etica moderna (del 1961;la recensione è dell’anno seguente), Peraltro, per valutare la presenza attiva, insieme critica e costruttiva, di Fassò nella cultura italiana, si deve pensare alle molte discussioni che egli costantemente e con passione sollevava su temi storici e teoretici: più della recensione, lo attraeva la discussione ampia che ruotasse intorno a un problema a lui congeniale. Si pensi alle osservazioni che egli svolse su due libri di Sergio Cotta, ancora uno studioso col quale egli fu in profondo dialogo: i libri di questo su San Tommaso e su Sant’Agostino (degli anni 1955 e 1960)sollecitarono la meditazione di Fassò in due articoli: .Sa% Tommaso giurista laico? (del 1958) e Sant’Agostino e il giusnaturalismo cristiano (del 1964).Inoltre, tutta l’attività di Fassò fu segnata dalla polemica, spesso anche dura o sarcastica, che egli rivolgeva ad autori grandi e piccoli, lontani e vicini. Polemizzava su temi filologici ed eruditi, riprendendo e correg- gendo; polemizzava su problemi teoretici, dove non trovasse chiarezza di pensiero, egli che era scrittore limpido e rifuggiva da qualsiasi ambi- guità o da compiacenti silenzi. Talvolta colpisce, ancor oggi, la durezza della polemica; ed egli ne era certo consapevole, e scrisse una volta queste parole, che valgono a spiegare un tratto della sua personalità: nella sua connaturata avversione ai (( radicatissimi luoghi comuni (nella ricerca scientifica come nei modi del pensare politico), egli re- plicava sempre con vigore, e talora con troppo vigore, e metteva in luce G componenti H opposte a quelle Comunemente accettate, Seri- veva: (( Forse, nel cercare di metterle in luce, ho calcato troppo sulla loro importanza? Se questo è avvenuto, è stato (per ricorrere ancora una volta a Grozio e prendere a prestito da lui l’immagine di cui si serve a proposito di Erasmo) con l’intenzione con cui si piegano in senso opposto gli oggetti incurvatisi, per cercare di farli tornare nella posi- zione giusta D (p. 830). I n quell’occasione, egli parlava delle convin- zioni diffuse sulle (( componenti )) originarie dell’etica laica, di solito vista derivare dal protestantesimo e dai suoi moti preparatori; mentre egli vedeva {< componenti D più ampie, e <<radici H che egli individuava ((pergran parte proprio nel tomismo (p.809).Egli era quindi in uno dei campi prediletti della sua indagine; ma quell‘intenzione lì dichia- © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 501 rata e illustrata, con l’immagine degli G oggetti incurvatisi vale a farci comprendere la intransigente vena polemica, strumento per ri- portare alla (( posizione giusta H, che nel suo caso era la posizione della verità scientifica e del rigore metodologico. Di quella vena polemica, gran parte degli scritti qui pubblicati sono testimonianza, talora viva- cissima. C’era in Fassò tutta la serietà intellettuale di chi conosce la fatica della paziente ricerca quotidiana. Non solo la storia del pensiero propriamente detta, con le sue regole filologiche; anche la filosofia aveva i suoi canoni e le sue conoscenze tecniche. Nel corso di una pole- mica del 1956, su uno dei temi che più gli stettero a cuore, quello del rapporto fra cristianesimo e società, egli scrisse, sulla dignità della filosofia, parole di sapore hegeliano, che hanno la loro permanente e ritornante validità. Allora, ammoniva disinvolti (( giuristi cristiani)) a starsene nei propri confini (di giuristi; il cristianesimo era altra cosa), e scriveva: (( E strano, ma mentre tutti fanno a gara a dire che la filo- sofia è cosa astrusa, non v’è nessuno che non si senta legittimato a discuterne senza alcuna preparazione: ciò che non si sognerebbe di fare riguardo a qualsiasi altro argomento scientifico o tecnico )) (p. 287). Perché egli, che era in senso proprio e fino in fondo (<filosofo del diritto )), ebbe chiara la dimensione ((filosofica))della propria ricerca, e non intese mai che la propria controversa disciplina fosse riducibile a ri- flessione o generalizzazione di giuristi dotati di vocazione, tempera- mento, sia pure cultura, Opportunamente, gli scritti di Fassò sono riprodotti in ordine cro- nologico (all’interno delle tre categorie citate sopra: saggi e articoli; voci di enciclopedia; recensioni). Se si tengono presenti anche i lavori pubblicati come volumi a parte, e sopra ricordati, ne viene la possibi- lità di giungere ad una periodizzazione. Pattaro, nel suo studio intro- duttivo, suggerisce la quadripartizione seguente: I) il periodo 1947-51, (( dedicato alla storia della filosofia, in particolare a Vico )); 2) il periodo 1951-58 (che comprende La stovia come esfierienza giuridica e Cvistia- %esimo e società), (( caratterizzato precipuamente dalla tematica, che potrebbe dargli il nome, ‘Assoluto e storia )>; 3) il periodo 1958-68 (culminante nei volumi primo e secondo della Storia della filosofia del divitto), che (( potrebbe intitolarsi a ‘ I1 diritto naturale )>; 4) il periodo 1969-74 (nel quale si conclude la grande opera storiografica), che (( po- trebbe di converso intitolarsi a ‘I1 diritto positivo D (pp. xx-xxr). Così Pattaro, e con buone ragioni. Ma egli stesso ricorda che il Maestro (( riconobbe valida in uno dei suoi ultimi scritti la distinzione-periodiz- zazione suggerita da Luigi Eombardi Vallauri)) (p. XXI), il quale ve- dittico >) affermante - così riferiva Fassò consentendo intesa come esperienza religiosa, e dall’altro (. ..) la funzione essen- ziale della ragione giuridica nel mondo )) (p. XXI, da Società, legge e vagione, pp. 8-9; Lombardi Vallauri aveva formulato quel suggerimento deva nella sua ope- ra come un (( G da un lato (. ..) la sopragiuridicità dell’eticità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   502 LETTURE in Amicizia, carità, diritto, Milano 1969,p. 238).Tenendo presenti i punti di vista espressi dai due studiosi, saremmo propensi a vedere una tripartizione, che è insieme una partizione temporale e tematica, una periodizzazione e una distinzione di interessi scientifici; dove i periodi si collegano l’un l’altro per affinità e per approfondimenti in- terni. I1 primo periodo è certamente da collocare tra il 1947e il 1951; è il periodo che vede nascere gli studi su \‘ico e su Grozio, e che è se- gnato dalla presenza di motivi neoidealistici e dall’emergere dell’origi- nale storicismo di Fassò. Ilsecondo periodo, dal 1951al 1958,è quello che vede apparire il (<dittico )) di cui parla Lombardi Vallauri, quel dittico a cui Pattaro dà il nome di (( Assoluto e storiao. In questi anni è enunciata la filosofia di Fassò; gli anni successivi approfondiranno e talora ritoccheranno, ma i pilastri sono già posti saldamente. Dove la periodizzazione di Pattaro sembra meno giustificata, perché forse c’è soltanto accentuazione all’interno di un’unità, è nella cesura che pone tra il 1968e il 1969.Sembra di poter dire che tutta l’attività successiva al 1958,ovvero dal 1959al 1974(e che muove, come Pattaro ricorda, dall’articolo San Tommaso giurista laico?), è dedicata alla meditazione integrale, per estensione diacronica e sincronica, del problema della ragione giuridica nel mondo storico-sociale: è ripercorso tutto il pensiero occidentale; si ha la progressiva accettazione di un diritto di ragione, il quale ha una sua autonomia di fronte al diritto tradotto in leggi. Anche la riflessione politica di Fassò, intensa in quegli anni, e più, certamente, dopo gli sconvolgimenti del 1968,rientra in quella visione di una ragione che opera nella storia con i suoi equilibri e meccanismi. Gli scritti raccolti in questi volumi consentono di ritrovare gli aspetti salienti della meditazione di Fassò, di ripercorrerla nelle singole tappe del suo maturarsi, di seguire, come in una fuga a più voci, l’ac- cedere di nuovi motivi a quelli di datazione più antica. In questo senso, come s’è già detto all’inizio, grande è l’utilità di questa raccolta per chi studi l’opera di Fassò; non solo, ma per chi si dedichi a ricostruire la vita intellettuale e morale, la cultura politica di quegli anni, I n questa occasione, a chi scrive interessa porre in luce alcuni essenziali aspetti teoretici di quella riflessione. Ma ciò non intende certo sminuire il ri- lievo che si deve riconoscere a Fassò storico delle idee. Lo studioso di Vico e di Grozio, del diritto naturale classico, cristiano e moderno, è tale che ogni suo contributo è degno di attento studio vuoi per l’oggetto trattato, vuoi per ricostruire in modo più adeguato l’evoluzione dello stile di ricerca storiografica del suo autore, vuoi infine per gli apporti d’ordine teoretico che esso fornisce. In quest’ultimo senso, quello che qui interessa maggiormente, molti studi storici apportano argomenti per la visione della storia e della sua organizzazione giuridico-politica. Ma per fermarsi al solo rilievo storiografico, si deve ricordare che in questi volumi tornano studi su molti temi tipici e prediletti dell’atti- vità di Fassò. Si vedano i vari ritorni su Vico: quello del 1947,11 Vico © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTERE 503 nel pensiero del suo primo traduttore francese (dedicato al rapporto Vico- Michelet); al quale si ricollega, ventun anni dopo, U n presunto disce- polo del Vico. Giulio Michelet; e inoltre vari interventi critici sulla Scienza Nuova e su temi vichiani, a cominciare dal saggio del 1948, Genesi storica e genesi logica della filosofia della ((Scienza nuova D, per finire con lo scritto postumo Il problema del diritto e l’origine storica della (( Scienza Nuova a di G. Vico. Si vedano anche gli scritti vari su Grozio: Ugo Grozio tra medioevo ed età moderna, del 1950, e il saggio, assai signi- ficativo per l’evoluzione personale di Fassò, Ragione e storia nella dot- trina di Grozio, del 1950. Accanto a tali studi dovrebbero esserne men- zionati molti altri, a cominciare da quello del 1961 su Sociologia e diritto nella filosofia civile del Romagnosi, fino ai molti studi su temi storici, sulla laicità immanente in pensatori cristiani, o sull’evoluzione del pensiero giuridico in senso più stretto, come nel saggio postumo, scritto per la Storia delle idee politiche, economiche e sociali diretta da Luigi Firpo, dal titolo La scienza e la filosofia del diritto: ricostruzione storica ammirevole nella sua lucida sinteticità, frutto maturo di una mente storica che aveva già prodotto le sue opere maggiori. Né si devono dimenticare i ritornanti interessi per il mondo greco, e per la forma democratica che in esso si realizzò: valga l’esempio dello studio del 1959La democrazia .izell’antica Grecia e la riforma agraria. Si può dire che non manchi, in questa raccolta, nessuno dei grandi temi storiografici di Fassò: Vico e Grozio, il pensiero cristiano, l’affermarsi della ragione giuridica, la grecità. Chi voglia ricostruire l’itinerario scientifico di Fassò storico delle idee, avrà ora a disposizione un materiale impo- nente, qui riunito dalle varie sedi in cui egli usava pubblicare i suoi saggi e articoli, e che erano quasi sempre riviste giuridiche: singolare e significativa predilezione in un autore che non ridusse mai la filosofia del diritto a teoria generale del diritto, ne volle preservata la filosoficità, ma volle anche mostrare come non si potesse prescindere dalla cono- scenza dei problemi scientifici del diritto. I n questo senso si può esser certi che Fassò ebbe profonda e genuina dimestichezza con i problemi dei giuristi. Anche lo stile del suo pensiero e il suo stesso modo di esprimersi, serio e sobrio, tutto attento alle prove e ai nessi concettuali, risentiva beneficamente della formazione giuridica e degli interessi giuridici, anche se questi non furono pecu- liari ad un ramo specifico del diritto, ma si rivolsero piuttosto alla teoria generale, e semmai ai modi procedurali del divenire del diritto - si pensi all’interesse per il problema del giudice - come a quelli in cui meglio si scorge l’originalità della ragione giuridica nel suo affermarsi. Si può anche dire che la cultura giuridica di Fassò influì sull’originale forma del suo storicismo, al quale, fino agli ultimi anni, egli non venne mai meno, Gli scritti appartenenti al primo periodo mostrano Fassò che, movendo dall’interno della prospettiva neoidealistica, ne esce con una propria visione della realtà come storia, e della storia come © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   504 LETTURE struttura in sé organizzata, razionale, scandita in istituzioni. Lo stori- cismo assoluto di Croce (un autore che, pure, Fassò ha ben conosciuto) è estraneo a questa forma di storicismo, tutto fatto di cose e di nessi reali, Vico e Grozio sono stati i fondamenti filosofici di questa visione della storia, Pattaro pone bene in luce come l'avversione di Fassò a un razionalismo astratto divenga visione storicistica (<nei primi studi vichiani )) (pp. XXIX-xxx)ri;ferisce quanto Fassò stesso scriveva, sul- 1'((esser vichiani )) per il fatto di avere una (<visione della storia come concreta razionalità )). Pattaro prosegue illustrando il passaggio di Fassò dagli studi vichiani, condotti in quell'atmosfera speculativa (non necessariamente o integralmente condivisa), alla personale vi- sione storicistica del diritto. Qui influirono le nuove correnti che si affacciavano in Italia. (<Le suggestioni del neoempirismo che si affac- ciava nella nostra cultura tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta trovarono un'accoglienza non ostile in un Fassò convinto che, ' nella filosofia del diritto, molto spesso l'empirismo non è lontano dallo storicismo ', La specifica tematica giuridico-filosofica (. , .) lo faceva incontrare con le correnti sociologiche ed istituzionalistiche, ma nel contempo lo induceva, per superarne 1" oggettivismo naturalistico ', ad adottare un'impostazione filosofica di fondo lato sensu kantiana (così Pattaro, ibidem, p. XXIV). In queste parole è detto l'essenziale sulla visione filosofica di Fassò. I1 quale descriveva egli stesso, nel 1951, come vedeva la (( crisi dell'idealismo D, provocata da varie correnti di pensiero, che egli enumerava: il marxismo, l'esistenzialismo, lo spiri- tualismo cristiano, il neopositivismo. Empirismo e storicismo, egli li aveva accostati nelle parole prima citate, tratte dall'Introduzione ai Prolegomeni di Grozio (nella edizione 1961~,p. 7) e nuovamente li aveva accostati, parlando dell'opera di Alessandro Levi, quando rite- neva utile muovere, sia pur con misura e senso delle sfumature, dalla constatazione delle affinità tra (( storicismo idealistico e sociologismo positivistico )) (in questa raccolta, p. 216). In quello stesso scritto su Levi, Fassò avvertiva un'analogia tra due generazioni in crisi, quella di Levi, che usciva dal positivismo, la sua, che usciva dall'idealismo: due generazioni accomunate da ((una posizione che conduce ad ap- prezzare, non già i beati possessori della verità, ma coloro che sono andati faticosamente fabbricandosene una, senza cieche fedeltà a dogmi e senza chiudere gli occhi davanti alla storia in cammino (ibi- dem, p. 225). Quello scritto su Levi era del 1954,e vedeva, come altri scritti, lo sgretolarsi dell'idealismo per l'irruzione di nuove tendenze di pensiero, più legate all'osservazione diretta dell'esperienza. Rien- trano in questo quadro anche le polemiche che Fassò condusse in quegli anni contro le facili riesumazioni del diritto naturale, talora troppo coerenti, e inconsapevoli nella loro professione di un diritto astorico, talora troppo incoerenti e disinvolte nella loro combinazione di diritto naturale e storia. Lo storicismo era così diffuso in quegli anni, e senza © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 505 effettiva consapevolezza critica, che si ebbero anche coloro che Fassò chiamò i (( giusnatural-storicisti )) (p. 521). Lo storicismo di quegli anni, e specialmente all’interno della cultura filosofico-giuridica (una cultura, in quel periodo, assai vivace, in ricambio con altri àmbiti filosofici e culturali), fu uno storicismo di origine, più che filosofica, empiristica, o addirittura empirica: fu lo storicismo di chi era cresciuto nell’indagine delle teorie giuridiche sociologiche e istituzionalistiche, e aveva medi- tato sul diritto e sui modi del suo farsi.I1diritto come t( sistema stori- camente progrediente)), avrebbe detto Savigny; e in modi affini ave- vano pensato Santi Romano, Gurvitch, Capograssi, per fare soltanto pochissimi ma influenti nomi (per la valutazione dell’influenza di Capo- grassi, si può qui vedere la recensione di Fassò alla IntevFYetazione di CaFogYassi, pubblicata da Carnelutti nel 1956). Anche lo storicismo di Fassò si modellò in aspetti affini, pur nella indubbia sua penetrazione filosofica. Ma quello storicismo, se aveva le sue basi in Vico e in Gro- zio, si approfondì e dispiegò nella visione istituzionalistica del diritto. Tra gli autori di Fassò non è Hegel (né in sé né nelle scuole che a lui si richiamarono), e non sono gli autori del moderno storicismo indivi- dualistico, da Dilthey in poi, che tanta influenza avrebbero avuto su Pietro Piovani, pure affine a Fassò per più interessi ed aspetti. Si può dire allora che lo storicismo professato da Fassò fu di impronta giu- ridica. Ebbe tratti affini allo storicismo post-crociano da molti condi- viso in quegli anni; ma non derivava tanto da precise correnti filosofi- che, quanto dai giuristi non strettamente positivisti: la scuola storica del diritto in Germania; ma molto di più le correnti istituzionalistiche; e infine la tradizione di common-law, da Fassò ammirata come esem- plare organizzazione giuridica e politica e presidio del valore liberale della dignità deli’individuo. La storia era, secondo il titolo dell’opera del 1953,esperienza giuridica; e non era questo un pensiero da poco, ma anzi una robusta e meditata posizione storicistica, perché il diritto, come struttura razionalizzatrice e regolatrice della convivenza, mo- strava la ragione immanente alla storia, che era anche l’unica ragione accessibile all’uomo. Avverso al razionalismo omnicomprendente - fosse la metafisica metastorica della tradizione o la metafisica della storia come totalità (idealismo, materialismo storico) -, Fassò credette in una razionalità che guida la convivenza, che nasce dall’interazione di individui e di gruppi, che è garanzia di libertà per gli individui. I valori nltimi, invece, non sono accessibili agli uomini per via razionale; la ragione non può che fermassi a questo mondo terreno, e studiarlo nelle strutture che in esso si formano e variano. Era una visione, se voglia- mo parlar filosoficamente, neokantiana, nel senso di tanto neokantismo diffuso nella filosofia del diritto e nelle scienze sociali. Conoscibile ra- zionalmente il mondo dei fenomeni come mondo storico; non-conosci- bile, ma soltanto sperimentabile emozionalmente, il mondo del valore. Cadeva la fondazione pratica della morale; restava la inconoscibilità © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   506 LETTURE dei valori ultimi. In questo senso, Radbruch o Max Weber non pensa- vano diversamente. Quel che ebbe Fassò, a differenza di questi autori (ma non del neokantismo in genere), fu l’interesse per quel sopramondo che egli affermava non-conoscibile, e che vedeva tradotto, nella forma più pura, nel cristianesimo, fi questo l’altro versante della filosofia di Fassò, che si tradusse nel 1956 in Cristianesimo e società, opera tra le più alte della nostra cultura recente. E forse interessante notare quel che scriveva Fassò, recensendo nel 1962 il libro di Piovani sul giusna- turalismo. Piovani faceva sua la proposizione (( la personalità stessa è l’assoluto )), che d’altronde traeva da Kierkegaard, e la svolgeva nel senso di un individualismo visto come unico coerente sbocco dell’etica moderna. Scriveva Fassò: (( E qui si potrebbe, naturalmente, discutere a lungo (, ..); e del resto anche chi, come me, davanti alle affermazioni di una presenza, che non sia totalmente mistica, dell’assoluto nell’indi- viduo, rimanga perplesso, e non veda come un ipersoggettivismo quale quello professato dal Piovani possa sfuggire al relativismo, non può non apprezzarne il profondo significato morale: assai più alto in ogni caso di quello delle etiche oggettivistiche, che, coprendosi della reto- rica dei valori eterni, conducono all’alienazione dell’uomo, e lo pri- vano di ciò che costituisce la sua umana essenza morale (p. 1436). Tre affermazioni sono da rilevare in questo passo: a) v’è il rifiuto della (( retorica dei valori eterni )), giudicata alienante e tale da privare l’uomo della sua essenza morale, che è, evidentemente, collegata alla ricerca e all’irrequietezza; b) l’ipersoggettivismo (ma tanto varrebbe dire sog- gettivismo) non può sfuggire al relativismo, sentito da Fassò come pericolo; c) Fassò si dichiara (( perplesso )) (( davanti alle affermazioni di una presenza (. ..) dell’assoluto nell’individuo )), ma con l’eccezione che si tratti di una presenza a totalmente mistica B. Rifiutate un’etica oggettivistica e un’etica soggettivistica, che cosa rimane nella visione morale di Fassò? Rimangono: la razionalità formale del diritto come ragione vivente nella storia e l’esperienza mistica come unica via di accesso all’assoluto. Questi due piani sono privi di relazione; ma essi appaiono tali da produrre queste conseguenze: a) è salvata l’irrequie- tezza che è condizione della morale; b) è evitato il pericolo del relati- vismo; c) è consentito l’accesso all’assoluto. 11 mondo dei valori assoluti è accessibile soltanto all’esperienza mistico-religiosa. La carità, intesa in senso teologico, ovvero come virtù teologale, è proprio questa capacità di inserirsi nella vita divina, La simpatia di Fassò va agli spiriti capaci di questa immedesimazione: da San Paolo a Kierkegaard, va a coloro che hanno ben chiara la di- stinzione tra mondo della terra, della legge, della ragione, e mondo divino, della carità. Quella linea del cristianesimo aveva contrapposto il mondo, regno del peccato e della legge, al regno della carità, del- l’immedesimazione in Dio (quel mondo che non conosce diritto). Tra © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 507 cristiaizesimo e società v’era quindi un contrasto ineliminabile, come tra generi diversi e inconciliabili, come tra santità e peccato, come tra l’assolutezza dei valori e il mondo degli uomini comuni, I1 libro in cui queste tesi erano argomentate fu quello che sollevò le maggiori pole- miche. Sul piano più propriamente filosofico, Luigi Bagolini fu il cri- tico più attento - come Pattaro ricorda (pp. LXV-LXVI) a lucida analisi quella divisione netta tra la realtà e il valore, per affer- marne l’insostenibilità: gli appariva inconseguente negare la conosci- bilità razionale del valore e allo stesso tempo parlarne. Ma si può dire - prosegue Pattaro - che Fassò (iintenzionalmente rinvia tutti i ‘ Va- lori che si pretende siano di questo mondo nel cielo indefinito e inde- finibile dell’assoluto )) (p. LXVI). Fassò conobbe e trattò il mondo im- perfetto e relativo; non dimenticò - era la strada della mistica - il mondo perfetto e assoluto del quale ci hanno dato testimonianza grandi spiriti, e che noi stessi avvertiamo nel nostro desiderio di perfezione. Ma quella divisione così recisamente affermata provocò le polemiche più accese al di fuori del campo propriamente filosofico, e se fu discussa e rispettata da teologi e da uomini di fede e di chiesa (questa raccolta ne reca più tracce: dai giudizi del padre Salvatore Lener fino a quelli espressi nel colloquio di Strasburgo del novembre 1959,dedicato pro- prio al tema tipico di Fassò: L a révélation chrétienne et le droit), fu trat- tata invece con non altrettanta serietà e consapevolezza da giuristi, e da coloro che, professandosi (igiuristi cristiani o, o (( giuristi catto- lici)), si fondavano proprio sulla tesi opposta a quella sostenuta da Fassò nel suo libro. Erano due tesi teologiche a confronto, dov’era conoscenza dei problemi; ma Fassò aveva buon gioco a spiegare ai suoi interolcutori giuristi che la carità e la giustizia di cui parla il Vangelo riguardano il rapporto con Dio, rispetto al quale tutto il resto vien dato per soprappiù, e non il rapporto con gli uomini, che è soltanto una con- seguenza del vivere in Dio. Se carità e mondo sono in un tale contrasto, non si può parlare, senza cadere in contraddizione, di diritto cristiano, di giuristi cristiani, di politica cristiana, di cristianesimo sociale. Ripe- tutamente Fassò polemizzava con i (( giuristi cristiani )), innanzi a tutti con Carnelutti; e ricordava che carità non è filantropia, e che la giu- stizia,nelVangelo,(( sta(...)aindicareunasituazioned’ordineesclu- sivamente religioso, l’elezione, la perfezione, la santità)), e non è la virtù sociale pur teorizzata da teologi e filosofi morali cristiani, e che San Tommaso definisce iustitia meta$horice dicta (p. 244). Rispondendo nel 1956a Carnelutti (è lo stesso scritto nel quale deplorava, con pa- role prima ricordate, che tutti si sentissero autorizzati a parlar di filo- sofia), Fassò precisava: (( Ciò di cui (. ..) non posso ringraziare l’illustre Maestro è d’aver pensato che a me non garberebbe d’aggiungere al mio titolo di filosofo del diritto l’aggettivo ‘ cristiano il che mi fa ritenere che anche a me, anzi soprattutto a me egli si rivolga, quando, nell’intitolare il suo scritto garbatamente parodiando l’intitolazione del © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano - e sottopose   508 LETTURE mio, parla di pericoli per i ‘filosofi non cristiani Non vedo in verità perché quell’aggettivo non dovrebbe garbarmi, né che cosa abbia po- tuto far sospettare ciò al pur benigno lettore: forse perché ho criticato qualche ‘ giurista cattolico (. , .) il quale mostrava di non conoscere con troppa esattezza alcuni termini usati nei testi cristiani? >) (pp. 285- 286). Nel 1960, quei concetti venivano organicamente presentati, dal punto di vista storico e teorico, nello scritto Giwtizia, carità e filantro- pia, e furono anche inseriti negli scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, grande giurista storico e grande spirito religioso, uno degli spiriti più congeniali a Fassò, se non forse il più congeniale. La separazione di cristianesimo e società era pure destinata a scontrarsi con l’opinione dominante nel mondo religioso, e di coloro che, richiamandosi al cristia- nesimo, intendevano tradurlo nella società. Fassò dissentiva (( in ma- niera totale )) dalle idee di Felice Balbo (Ritorna il sufposto cristiane- simo sociale, era il titolo di una nota polemica del 1958), come pure, naturalmente, dalle idee di chi nutrisse progetti politici meno radicali. Ribadiva che ((ilcristianesimo è una religione, e che la religione ha per oggetto Dio e soltanto Dio )), e (( che la novità, e quindi l’essenziale significato del cristianesimo rispetto alla filosofia ed alla morale greca ed alla morale ebraica sta tutta in questa sua proiezione totale verso Dio, che consuma e supera ogni interesse umano e mondano e perciò anche sociale )) (p. 357). Non negava certo un ideale di vita cristiano; negava che il cristianesimo potesse tradursi in dettami politici. Fac- ciamo cristiani noi stessi, diceva; ma guardiamoci dall’a immischiare Dio nei problemi di Cesare )) (p. 359). E concludeva quelle pagine ammi- rando la scelta religiosa di Dossetti, che così commentava: a Questo sì è il vero ideale cristiano; ed è bello vedere che c’è chi, riconosciutolo, ha - o riceve - la forza di realizzarlo. 1 superficiali interpreteranno tutto ciò come una rinuncia, come l’accettazione dolorosa di una scon- fitta. Io penso che sia una grande vittoria, la sola vera vittoria cri- stiana (. ..) B (p. 362). Questa visione del problema andava risoluta- mente, e con insofferenza dichiarata, contro la sintesi politico-religiosa di Maritain, che tanto ha influenzato nel nostro tempo il cristianesimo sociale (si vedano in proposito i vari cenni di Fassò, e in particolare quelli a p. 382, a p. 597, a 667). E andava contro le soluzioni e con- ciliazioni dello (<spiritualismo cattolico )) (del quale spesso si trova menzione in queste pagine), nel quale ultimo Fassò svelava (( una grave contraddizione (. ..) nello sforzo di assumere una posizione che sia ad un tempo religiosa e razionalistica, trascendentistica e storicistica, salvando in pari tempo, e connettendoli e conciliandoli, il valore (tra- scendente) e la storia, la moralità e la giuridicità, la città di Dio e quella città terrena, che è pur sempre, per chi senta davvero religiosamente, la città del demonio e del peccato: soddisfacendo ecletticamente due istanze pienamente legittime e valide, certo, ma irriducibili fra di loro (. ..) )) (p. 1401; parole del 1954). © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 509 Tutto un periodo della vita di Fassò - quello che sopra si è detto il secondo - gravita intorno a questi pensieri; ma è il periodo in ogni senso centrale della vita di Fassò. Quel che valeva per il problema religioso valeva per l’àmbito filosofico generale, Di qui anche l’avver- sione di Fassò alle facili combinazioni di diritto naturale e storia, e ai teorici di un diritto naturale razionalmente deducibile e perciò anche applicabile (si vedano le ripetute e dure critiche a Leo Strauss, e parti- colarmente lo scritto del 1958 Diritto naturale e storicismo, appunto in polemica con questo). L’assoluto non è conoscibile; conoscibile è soltanto il mondo della storia, e ad essa, come a mondo pervaso da strutture e istituzioni che si formano, volge lo sguardo lo studioso del fenomeno giuridico, La storia, aveva scritto Fassò nell’opera del 1953, è esperienza giuridica; e su quella visione egli avrebbe fondato negli anni le sue riflessioni, le sue ricerche storiche, i suoi interventi sui pro- blemi politici e culturali. Di lì nascevano la sua concezione del diritto e la sua concezione della vita associata. La storia del pensiero giuridico occidentale conduceva a una visione razionalistica, che poteva ben dirsi ((laicae liberaleD. Questi due attributi sono usati da Pattaro (a p. XXXIV), e si può esser d’accordo con quella definizione; natural- mente non dimenticando tutto quel che s’è detto finora sulla com- plessità e ricchezza del pensiero di Fassò: nel senso, in ogni modo, nel quale se ne potrebbe parlare per Jemolo, ma anche per studiosi prima menzionati, e a lui in quel tempo vicini per affinità di sentire su molti temi, come Bobbio, Piovani, Cotta. In questo senso può dirsi che dopo il 1958la meditazione di Fassò sia tutta rivolta alla inve- stigazione storiografica e teoretica di quella visione razionalistica, laica e liberale della storia, I1 diritto diviene, allora, la ragione cono- scibile agli uomini, la ragione che salva la convivenza degli individui. L’assoluto può essere attinto da invididui eccezionali o in momenti eccezionali, è un dono concesso e non una strada consentita alla ragione; ma il mondo della storia ha una sua dimensione razionale proprio nel diritto, che assicura istituzioni in grado di garantire gli individui nel loro vivere in comune, Se Cristianesimo e società insegna che non si può mescolare Dio a Cesare, le opere successive al 1958, insistendo sul- l’indagine del mondo storico-giuridico, già avviata nell’opera del 1953, insegnano che neppure si può, né si deve, trasformare Cesare in Dio, e vedere nella storia valori e significati immanenti. Questa etica e questa visione politica si chiariscono e arricchiscono via via nella ri- cerca di Fassò. I1 problema si intreccia con quello del rispetto della legge, e quindi con la valutazione del positivismo giuridico. Già nel 1960, Fassò si domandava, e concludeva senza risposte perentorie: (( Dobbiamo insegnare l’obbedienza assoluta alla legge?>). Era il pro- blema del fondamento della convivenza e del fondamento dell’obbliga- torietà della legge. Diventava anche il problema se fosse razionalmente deducibile la democrazia, Fassò negava, e con chiarezza in uno scritto © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   510 LETTURE del 1961, che fra diritto naturale e democrazia ci fosse nesso necessario, contraddicendo in tal modo diffuse concezioni. Conveniva invece su di un fondamento morale della forma democratica (che per la cristal- lina mente di Fassò volle sempre dire forma democratico-liberale) della convivenza. Era un diritto che poteva magari esser detto natu- rale, ma ricordando la storicità della natura umana: ((ildiritto natu- rale sul quale la libertà e la democrazia possono fondarsi non può essere un astratto dogma esterno alla storia dell’uomo: esso non può consistere che nell’idea di giustizia che l’uomo ritrova nella propria coscienza morale, il cui valore è sì certamente assoluto, ma il cui con- tenuto può essere soltanto quello che lo sviluppo storico di questa coscienza comportaD (p. 576). La limpida relazione su Stato di diritto e stato di gizlstizia, del 1963, rivendicava il valore dello stato liberale di diritto, che non ha fra i suoi scopi - Fassò concludeva con i versi di Holderlin - di far dello stato il paradiso dell’uomo, col risultato di farne un inferno, Si richiamava all’esperienza costituzionale inglese, che avrebbe ribadita come modello di sviluppo giuridico, civile e poli- tico nella prolusione bolognese dell’anno successivo, La legge della ra- giofie. In quell’occasione, contemporanea al libro dallo stesso titolo, Fassò affermava che (( non possiamo, oggi, rifiutare il giusnaturalismo, quando il giusnaturalismo si propone come appello alla legge della ragione D (p. 747). Era un modo di affermare, più che un diritto natu- rale, il diritto di giudicare le circostanze storiche al lume della ragione; al modo seguito dai giuristi inglesi di commofi law. Le leggi, il diritto positivo, avevano il loro valore, e si doveva loro obbedienza, ma la ragione giuridica non si limita a sistemare i loro dettami, in un modo che sarebbe anch’esso astratto, pur se in modo opposto a quello tenuto dal giucnaturalismo meta-storico (<<ma se continuiamo a rifiutare)) - obiettava Fassò a Scarpelli nel 1967 - ((come abbiamo sempre rifiutato, l’idea di un diritto naturale extrastorico, immutabile ed eterno, dobbiamo per questo abbracciare il culto di un diritto positivo altrettanto extrastorico e astratto? p. 789). Stava avvenendo in Fassò un passaggio dal rifiuto dell’espressione (( diritto naturale ove non fosse coerentemente inserita in una metafisica soprastorica, ad un’accettazione della medesima espressione in un senso più lato, come diritto di una natura dell’uomo che è ragione operante nella storia. In questo senso si poteva anche affermare un diritto naturale, che giudicasse razionalmente, in modo storico, fatti, istituzioni, leggi, ma senza sistemazioni assolute. Era il sistema pragmatico, empirico, sto- rico, anche antiilluministico, seguito dalla civiltà giuridica anglosas- sone, la quale, non a caso, era anche quella che aveva dato il più dura- turo esempio di stato democratico-liberale. Su questa base, scientifica e politico-morale, si sarebbe espresso Fassò negli ultimi anni della sua vita, durante i sussulti del 1968 e degli anni seguenti, durante quegli avvenimenti e quelle teorizzazioni che tanto avrebbero influito sulla © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   LETTURE 511 nostra ultima storia, e che da lui furono giudicati senza le incertezze, le ambiguità, i silenzi, le fragili adesioni, di cui molti si resero respon- sabili. In verità, tutta la formazione culturale, oltreché l’intransigenza morale, garantiva Fassò di fronte alla crisi di quegli anni. Era stato sempre convinto che il diritto è il momento razionalizzatore nella sto- ria, e che è esso stesso fenomeno storico. I1 riferimento all’esperienza anglosassone gli permetteva di criticare con misura il positivismo giu- ridicolegalistico(sivedaIlpositivismogiuvidico(( contestato del1969); ma lo faceva anche accorto, sul piano politico, del valore irrinunciabile dello stato democratico-liberale, coi suoi valori di tutela della libertà individilale attraverso metri comuni a tutti gli individui e attraverso misure inevitabilmente repressive. Contro la riduzione del diritto a politica, egli non cedette alle nuove idee che si diffondevano tra giuristi e magistrati, e che pretendevano di richiamarsi a una ((democrazia sostanziale))(p. 924); seppe subito additare le fonti teoriche di quelle idee, e le rintracciò in Carl Schmitt, nelle (( parole, certo, di un insigne giurista; il giurista più insigne del Terzo Reich 1) (p. 925). Poté par- lare, per quelle correnti, di (( nazismo giuridico )), e dovendo scegliere tra Positivismo e nazismo giuvidico (pp. 921-932), egli potè richiamarsi tranquillamente ai suoi autori, e a quella (<ragione artificiale (. ..) di cui aveva parlato fin dal Seicento Edward Coke )) (p, 931). Si trattava, come egli intitolava un saggio nel 1972, di vedere in modo razionale e insieme storico il rapporto tra giudice e legge (si veda Il giudice e l’ade- guamento del diritto alla realtà storico-sociale, pp. 987-1050, ampia inda- gine teorica e storica del problema). Vedeva i pericoli insiti nel rifiuto del principio di legalità; rifiutava, nel 1971, che si potesse parlare del diritto di resistenza nella società democratico-liberale, e vedeva nella (( contestazione )) di quegli anni non il riferimento a una ragione diversa per stabilire un ordine più giusto, ma la negazione di qualsiasi ordine, di qualsiasi istituzione repressiva, della stessa ragione, in nome di un atteggiamento che definiva anarchico )) e (( religioso R (pp. 1055-1056); ripeteva che diritto è necessariamente repressione, e che si trattava soltanto di fare in modo che quella repressione fosse frutto della ra- gione (si veda, del 1973, Società, diritto e repressione, pp. 1067-1087). Da questi stessi principi e preoccupazioni era ispirato l’ampio saggio postumo già menzionato su La sciefiza e la filosofia del diritto, viste nel loro sviluppo storico. Questa indagine, come d’altronde tutta la Stovia della filosofia del divitto, ribadiva la visione del diritto come Fassò era venuto maturandola negli anni della sua coerente medita- zione. In queste occasioni, di fronte ai problemi più gravi dei tempi, Fassò poteva richiamarsi a quanto aveva pensato, sul rapporto fra cristianesimo e storia, nel suo periodo teoretico. (<Nella società - che non è società, e neppure comunità, ma comunione - dei santi, come si è liberi dal diritto, così lo si è dalla ragione (. ..). Siccome invece © Dott. A. Giuffrè Editore - Milano   512 LETTURE purtroppo non siamo guidati dallo Spirito, siamo, come ci ricordava San Paolo, sotto la legge; e l’unica cosa che possiam fare per non sen- tirne troppo la ‘ repressione è cercare che essa sia conforme alla ra- gione (, ..) )) (pp. 1086-1087). Ma sarebbe riduttivo vedere l’ultimo periodo della riflessione di Fassò nella luce di queste polemiche contro idee effimere; anche se si doveva ricordarle per rendere onore alla coe- renza e alla rettitudine dello studioso. In realtà, alla base di quelle polemiche era la meditazione di tutta una vita, nella quale era sempre stato operante l’amore per la distinzione: distinzione tra Dio e Cesare, tra esperienza religiosa ed esperienza giuridica, tra assoluto e storia.  Wikipedia Ricerca Lucio Giunio Bruto politico romano Lingua Segui Modifica Lucio Giunio Bruto Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana Capitoline Brutus Musei Capitolini MC1183.jpg Busto di Bruto, nei Musei Capitolini in Roma. Nome originale                     Lucius Iunius Brutus Nascita                                     545 a.C. circa Roma Morte                                       509 a.C.[1] Roma Gens                                         Iunia Consolato                                              509 a.C. Lucio Giunio Bruto (in latino: Lucius Iunius Brutus; 545 a.C. circa – 509 a.C.) è stato il fondatore della Repubblica romana[2] e secondo la tradizione uno dei due primi consoli nel 509 a.C.[3].  Biografia                                  Modifica Il nome di Bruto è legato alla leggendaria cacciata dell'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.  Secondo la narrazione di Livio, rafforzata da Ovidio, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re, di cui era nipote in quanto figlio di una sorella: nel corso degli eccidi familiari che spesso accompagnano la presa di potere di un despota, Tarquinio aveva disposto fra l'altro l'omicidio del fratello di Bruto, il senatore Marco Giunio. Bruto, temendo di subire la stessa sorte, allora si mimetizzò nella famiglia di Tarquinio, impersonando la parte dello sciocco (in latino brutus significa sciocco).  Lui accompagnò i figli di Tarquinio, Tito ed Arrunte, in un viaggio all'oracolo di Delfi[4][5]. I figli chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma e l'oracolo rispose che la prossima persona che avesse baciato sua madre sarebbe diventato re.[4]Bruto interpretò la parola "madre" nel significato di "Terra" così, al ritorno a Roma, finse di inciampare e baciò il suolo.[6]  In seguito Bruto dovette combattere in una delle tante guerre di Roma contro le tribù vicine e tornò in città solo quando venne a sapere della morte di Lucrezia.   Lucio Giunio Bruto da giovane  Il giuramento di Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, 1771  I littori portano a Bruto i corpi dei due figli, Jacques-Louis David, 1789 Secondo la leggenda, la cacciata dell'ultimo re da Roma ebbe inizio con il suicidio di Lucrezia, moglie di Collatino e parente di Bruto, perché costretta a cedere con le minacce alle richieste amorose di Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo.[2][7]  Tito Livio racconta che, suicidatasi davanti ai suoi occhi, del marito Collatino e del padre di lei Spurio Lucrezio, Bruto estrasse il coltello dalla ferita e disse:  «Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 59.) Bruto, il padre ed il marito di Lucrezia giurarono di vendicarne la morte. Quindi trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l'attenzione della folla, che dopo aver saputo dell'accaduto si indignò per la protervia di Sesto Tarquinio.  Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per condurre una guerra contro i Tarquini. Le truppe ora riunite riconobbero in Bruto il loro comandante, facendo rotta su Roma per conquistarne il potere. Giunti a Roma, Bruto si rivolse al popolo romano riunito nel Foro, raccontando della triste sorte toccata a Lucrezia.  Aggiunse quindi della superbia del re, Tarquinio, e della miseria della plebe romana, costretta dal tiranno a costruire ed a ripulire le fogne, invece che portata a combattere come era nella natura dei Romani.[8]  Ancora ricordò dell'indegna morte di re Servio Tullio, calpestato da sua figlia, moglie di Tarquinio, con un cocchio. Invocò infine gli dei vendicatori, infiammando gli animi del popolo romano alla rivolta contro il tiranno, tanto da trascinarlo ad abbattere l'autorità regale e a esiliare Lucio Tarquinio, insieme alla moglie ed i figli.[8] Partì quindi per Ardea, dove il re era accampato, per ottenere che anche l'esercito si schierasse dalla sua parte, dopo aver lasciato il comando di Roma a Lucrezio (in precedenza nominato praefectus della città, da parte dello stesso Superbo). Frattanto, Tullia, moglie di Lucio Tarquinio riuscì a fuggire dalla città.[8]  Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò ad Ardea, Tarquinio il Superbo, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta. Bruto, allora, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro, fece una breve diversione e raggiunse l'accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati, i quali espulsero i figli del re, mentre a quest'ultimo venivano chiuse in faccia le porte di Roma e comunicata la condanna all'esilio.[9]  Due dei figli seguirono il padre in esilio a Cere(Cerveteri), Sesto Tarquinio invece, partito per Gabii, qui fu assassinato, da coloro che si vendicarono delle stragi e razzie da quello compiute.  In seguito a questi eventi, il prefetto della città di Roma convocò i comizi centuriati, che elessero i primi due consoli della città: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino.[3][9][10][11]   Busto conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli I primi provvedimenti di Bruto furono: evitare che il popolo, preso dalla novità di essere libero, potesse lasciarsi convincere dalle suppliche allettanti dei Tarquini, costringendolo a giurare che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare re a Roma;[12]rinforzare il senato ridotto ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il totale a trecento, nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista anche dell'ordine equestre. Da qui l'uso di convocare per le sedute del senato i padri (patres) ed i coscritti (dove è chiaro che con questo termine si alludeva agli ultimi eletti). Il provvedimento aiutò notevolmente l'armonia cittadina ed il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale.[12]  Durante il consolato i suoi figli, Tiberio e Giunio, complottarono con il deposto re Tarquinio il Superbo, per farlo tornare a Roma come re, ma furono scoperti grazie ad uno schiavo[13]. Incatenati, chiesero pietà e il popolo, impietosito, ne chiedeva la loro liberazione. Ma Bruto fu irremovibile, e li fece uccidere, assistendo personalmente senza versare una lacrima per la loro morte[14][15].  In seguito alle dimissioni forzate del collega Lucio Tarquinio Collatino, Bruto chiese al popolo di nominare un altro console in sua sostituzione, così da non dare adito al sospetto che volesse governare sulla città come un monarca. Allora i cittadini riuniti elessero Publio Valerio Publicola.[16]  Il suo consolato terminò con la battaglia della Selva Arsia, combattuta contro gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini, per restaurarne il potere. Durante la battaglia Bruto si scontrò con Arrunte Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo e cugino di Bruto; i due, spronati i loro cavalli al galoppo, si trafissero vicendevolmente con le loro lance, perdendo la vita nello scontro[17].  Il console superstite, Valerio, dopo aver celebrato un trionfo per la vittoria, tenne un funerale di grande magnificenza per Bruto, che fu pianto dalle nobildonne per un anno.  Altro                                                    Modifica  Servilio Ahala e Bruto in un denario di Marco Giunio Bruto. Marco Giunio Bruto, il cesaricida che si vantava di essere un discendente di Lucio Giunio Bruto, nel 54 a.C., dieci anni prima delle Idi di marzo quando Giulio Cesare rimase ucciso, emise un denario con al diritto la testa di Lucio Giunio Bruto, il fondatore della repubblica romana e la scritta BRVTVS ed al rovescio la testa di Gaio Servilio Strutto Ahala e la scritta AHALA.[18]  Secondo Michael Crawford (Roman Repubblican Coinage - p. 455-6) il denario fu emesso quando a Roma corse la voce che Pompeo volesse diventare dittatore.  Critica storica                      Modifica Il racconto proviene dall'Ab Urbe condita di Livio e tratta di un punto della storia di Roma che precede le annotazioni storicamente affidabili (praticamente tutte le annotazioni precedenti furono distrutte dai Galliquando saccheggiarono Roma nel 390 a.C.)  La figura di Bruto nell'arte                                      Modifica Il busto di Bruto si trova nel palazzo dei Conservatoridi Roma. Proveniva dalla collezione privata del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che la donò alla città nel XVII secolo. Trafugato da Napoleone che lo fece esporre al Louvre, fu riportato a Roma nel 1815.  Dante lo citò nel limbo, nel IV canto dell'Inferno, quando scrive   «Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino...»  (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto IV, 127) William Shakespeare, nella sua tragedia Giulio Cesare, fa un riferimento a Lucio Giunio, quando fa ricordare a Cassio che parlava a Bruto, l'altro cesaricida, lo spirito repubblicano dei propri antenati.  Lucio Giunio Bruto è uno dei personaggi principali de Il ratto di Lucrezia, un poema sempre di Shakespeare, e nella tragedia di Nathaniel Lee, Lucius Junius Brutus; Father of his Country.  A Giovan Francesco Maineri è attribuito un dipinto, databile tra il 1490 e il 1493, dal titolo Lucrezia, Bruto e Collatino.  Nel 1789, all'alba della rivoluzione francese, il pittore francese Jacques-Louis David realizzò il dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, oggi esposto al Louvre di Parigi. Il dipinto provocò grandi timori nelle autorità, poiché si temeva un paragone tra l'intransigenza del console Lucio Giunio Bruto, che non esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro la Repubblica, e la debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d'Artois, favorevole alla repressione dei rappresentanti del Terzo Stato.  Giunio Bruto è anche un'opera seria musicata da Cimarosa nel 1781, libretto di Eschilo Acanzio.  Note                                                           Modifica ^ Matyszak, pp. 14, 43. ^ a b Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 8. ^ a b Eutropio, Breviarium ab Urbe condita, I, 9. ^ a b Livio, Ab Urbe condita libri, 1.46. ^ Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi, p. 42, ISBN 978-88-459-1788-2. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.47. ^ Livio, Ab Urbe condita libri, 1.49. ^ a b c Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 59. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro I, 60. ^ Livio, Periochae ab Urbe condita libri, 1.50. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 1, 2. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita libri, II, 1. ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 4, 5-6. ^ Tito Livio, Ab urbe condita libri, Libro II, 5, 5-8. ^ Dionigi racconta che furono due i figli accusati ed uccisi da Bruto, Antichità romane, Libro VIII, 79. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V, 12, 13-14. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, Libro II, 6, 6-9. ^ (Iunia 30 e Servilia 17; Sydenham. 932; Crawford 433/2). Bibliografia              Modifica Fonti primarie Tito Livio, Ab Urbe condita. Fonti secondarie William Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, vol. I, Taylor, Walton and Maberly, London, 1849. Philip Matyszak, Chronicle of the roman Republic, New York, Thames & Hudson, 2003, ISBN 0-500-05121-6. Andrea Carandini, Res publica: Come Bruto cacciò l'ultimo re di Roma, Milano, RCS Libri S.p.A., 2011, ISBN 978-88-586-1712-0. Voci correlate                                                Modifica Bruto capitolino Consoli repubblicani romani Gens Iunia Lapis Satricanus Elenco degli oracoli di Delfi Altri progetti                               Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Lucio Giunio Bruto Collegamenti esterni                   Modifica Bruto, Lucio Giunio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata ( EN ) Lucio Giunio Bruto, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN)  Lucio Giunio Bruto nel Dizionario delle antichità greco-romane di William Smith Controllo di autorità                                          VIAF ( EN ) 296192012 · ISNI ( EN ) 0000 0004 4891 5955 · CERL cnp00541602 · LCCN( EN ) n83206586 · GND ( DE ) 1032033371   Portale Antica Roma   Portale Biografie Ultima modifica 5 mesi fa di Podz00 PAGINE CORRELATE Tarquinio il Superbo settimo e ultimo re di Roma  Lucrezia (antica Roma) figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino  Lucio Tarquinio Collatino politico romano  Wikipedia Il contenuto Guido Fassò. Fasso. Keywords: RES PVBLICA RES POPVLI, ius, Grice on Hart, Hart’s failure as a jurisprudentialist – “La filosofia romana” “La giurisprudenza romana” la genesi logica della scienza nuova di Vico, la genesi storica della scienza nova di vico, Michelet, filosofo uganotto discipolo di Vico, Croce su Fasso, Fasso su Gentile, Fasso su Romano – iurisprudenza, ius-naturalismo – legge e raggione, legge raggione, societa – positivismo – storia come esperienza giuridica, l’assoluto giuridico – natura umana – grozio e vico – lo stato fascista di Gentile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fassò” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761863938/in/dateposted-public/

 

Grice e Fazzini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vieste). Filosofo. Grice: “I like Fazzini; he can be too theological, but that’s okay!”  Divulgatore di materie  filosofiche e il fondatore dell'omonima scuola private a Napoli, una delle più celebri nel Regno delle Due Sicilie. Figlio di Tommaso e Porzia Medina, che appartenevano a due delle famiglie più agiate della città. Il suo talento per la matematica fu notato fin dai primi anni; i genitori decisero quindi di far proseguire i suoi studi in ambienti che potessero garantire una formazione adeguata. Fazzini si trasferì a Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco. Qui trascorse l'adolescenza approfondendo anche lo studio dei classici. Terminato il seminario, torna a Vieste. Lì, poco dopo il suo rientro, recita in Duomo un'orazione in lode dell'Arcangelo Michele che fu molto apprezzata dal clero e dai fedeli.  Il rientro nella città natale fu comunque di breve durata. Desiderando continuare i suoi studi, Fazzini si trasferì a Napoli. Venne ordinato sacerdote e nello stesso anno ebbe come insegnante Fergola. La scuola di quest'ultimo era un rinomato centro per la formazione e un punto di incontro per studiosi e ricercatori del Mezzogiorno. Ne fu uno degli allievi più illustri. Proseguì anche gli studi in filosofia. Si era avvicinato al sensismo (empirismo). Ottenne dalla Chiesa il permesso di acquisire testi proibiti sul sensismo, a patto che non ne divulgasse i contenuti. Questo aspetto della formazione filosofica influirà sulla sua docenza e sulla sua personalità, determinando una contraddizione che, secondo le testimonianze di allievi e amici, lo accompagnò per tutta la vita. Apre una scuola privata in cui venivano insegnate filosofia, matematica e fisica. La scuola aveva sede nella Strada nuova dei Pellegrini, nel quartiere di Montecalvario, e divenne uno dei centri di studio più rinomati di Napoli.  Nel periodo di maggior successo La Fazzini arrivò a contare tra i 300 e i 400 allievi. In una data non precisabile, dovette quindi spostare la scuola in una sede più grande, in via Magnacavallo, nello stesso quartiere. Anche dopo aver aperto la propria scuola, comunque, insegnò presso altre scuole private. Dedica all'insegnamento sei o sette ore al giorno. La maggior parte del tempo di insegnamento di Fazzini e dedicata alla matematica. Al servizio di questa attività Fazzini pubblica aritmetica, geometria piana e geometria solida. Oltre all'insegnamento della filosofia, si dedica alla ricerca e alla divulgazione. Al servizio di queste tre attività allestì anche un laboratorio scientifico, considerato all'epoca uno dei migliori di Napoli. Per Fazzini venne composta da Gaetano Donizetti una Messa da Requiem oggi perduta, mentre Basilio Puoti recitò un elogio di Fazzini, di cui era amico. Si occupa a lungo di ricerche scientifiche in vari campi della fisica. In particolare, studiò l'induzione elettromagnetica, il magnetismo in generale e la relazione tra luce e magnetismo. Non pubblica però quasi nulla a proposito di queste ricerche, che sono note soprattutto attraverso le testimonianze di Tellini e di Gaetano Fazzini.  Era convinto che diverse delle forze naturali allora note, e in particolare il calorico, la luce, l’elettricismo, il galvanismo e il magnetismo, fossero in realtà diverse manifestazioni di un'unica forza. Partendo da questa idea di base, studia soprattutto il magnetismo, e in particolare due fenomeni di induzione, oggi spiegati in base alla Legge di Faraday, che erano stati scoperti negli anni immediatamente precedenti:  il magnetismo di rotazione, scoperto da Arago -- il fenomeno per cui un ago magnetico posto sopra un disco di rame in rotazione inizia a sua volta a ruotare -- l'induzione tellurica, scoperta da Faraday: la generazione di una corrente elettrica indotta in un circuito che si muove attraverso il campo geo-magnetico Per quanto riguarda il magnetismo di rotazione, ripeté e approfondì le esperienze di Arago notando che la rotazione dell'ago magnetico si verificava anche quando al di sopra del disco di rame si sovrapponeva materiale isolante, mentre non si verifica se il disco di rame veniva sostituito da un disco di materiale isolante.  Per quanto riguarda l'induzione tellurica, ne identifica con maggiore chiarezza le modalità. Cerca poi di combinare lo studio di questo fenomeno con quello del magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre diversi apparecchi. Una ricostruzione dettagliata del modo in cui gli apparecchi operano è fornita sulla base delle testimonianze lasciate da Cirelli e Gaetano Fazzini. Descrisse una delle sue esperienze sull'induzione tellurica in una lettera a Faraday.Questa lettera è l'unica descrizione lasciata da Fazzini in persona riguardo ai propri esperimenti. Eseguì inoltre esperimenti sul rapporto tra luce e magnetismo, proiettando raggi di luce su un ago magnetico. Le testimonianze rimaste, tutte indirette, non permettono però di ricostruire in modo sicuro le intenzioni di Fazzini e i risultati dei suoi esperimenti. Opere: “Elementi di geometria piana” (Napoli), “Geometria solida: la sfera e il cilindro (Napoli); Elementi di aritmetica (Napoli). Dizionario biografico degli italiani. INDICE  NOTA DEL CURATORE  pag. III » 1  PREMESSE Cap. I  »  12  »  25  Cap. III - La terna dei numeri primi dispari entro la decade  »  34  Cap. IV - Il pentalfa pitagorico e la stella fiammeggiante  »  45  Cap.  »  59  Cap. VI - La tavola tripartita  »  71  Cap. VII - La Grande Opera e la Palingenesi  »  78  Cap.  - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico II - La quaterna dei numeri composti o sintetici  V - Il numero e le sue potenze  II  Arturo Reghini  NOTA DEL CURATORE «Il matematico ed erudito fiorentino Arturo Reghini (1878-1946), alto dignitario della Massoneria prima del suo scioglimento ad opera del fascismo, fu il più noto esponente del neo-pitagorismo nel XX secolo e teorico dell’“lmperialismo Pagano”. Amico di Giovanni Amendola e di Giovanni Papini, personaggio di punta della scapigliatura fiorentina all’epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La Voce”, fu a sua volta fondatore delle riviste “Atanòr” (1924), “Ignis” (1925) e - con Julius Evola - “UR” (19271928). Alla sua opera sono legate la riproposizione della “magia colta”, neo-platonica e rinascimentale, che contrappose al Cristianesimo come via d’accesso al divino, ed una critica radicale dell’occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In collaborazione con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente attraverso la formazione di un’élite iniziatica nel quadro di un processo di rigenerazione della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica organizzazione ermetico-pitagorica, d’origine pre-cristiana ed erede degli antichi Misteri. Polemista efficacissimo; fu interventista e fautore del primo fascismo, ma ruppe con Mussolini all’epoca del delitto Matteotti e con l’instaurazione della dittatura, ritirandosi nello studio della geometria e della matematica pitagoriche. Già in vita, sul suo conto s’era formata una corposa leggenda di “mago” e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo di altre fantasiose aggiunte». In questi termini, icastici ma sostanzialmente esatti, una recente biografia (1) presentava la complessa figura di Arturo Reghini. La storia della presente opera, l’ultima scritta da Reghini prima della morte, è stata brevemente narrata dal suo discepolo Giulio Parise nella “Nota” di presentazione ad un opuscolo postumo dello stesso Reghini (2): «Chiesi ad A. R. lo sviluppo filosofico ed iniziatico della opera sui numeri pitagorici; poté condurre a termine, in circa due mesi, un volume su I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica…». 1  DI LUCA N. M., Arturo Reghini. Un intellettuale neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma, 2003. 2 REGHINI A., Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore con una nota sulla vita e l’attività massonica dell’Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi Iniziatici, Napoli, s.d. [1946].  III  Il libro fu finito di stampare il 20 gennaio 1947 «per i tipi dello stab. tip. S. Barbara di Ugo Pinnarò, Roma – Via Pompeo Magno, 29». Editore fu il già citato Parise, attraverso la Casa editrice Ignis, la medesima che nel 1935 aveva pubblicato lo studio reghiniano Per la restituzione della geometria pitagorica. Reghini era morto sei mesi prima, il 1° luglio 1946. Nell’elaborazione del testo elettronico si è provveduto ad operare le correzioni indicate dall’Editore nell’Errata Corrige in allegato alla prima edizione del 1947, nonché quelle di errori di stampa individuati nel corso della trascrizione, come pure a rettificare talune (rarissime) imprecisioni bibliografiche sparse qua e là ed indubbiamente dovute alle particolari condizioni in cui Reghini si trovò a lavorare nell’immediato dopoguerra, senza la possibilità di effettuare gli opportuni riscontri. Con ciò il Curatore ha inteso assolvere un debito di riconoscenza contratto esattamente 40 anni fa nei confronti di Giulio Parise, sebbene all’insaputa di quest’ultimo. Cosmopoli, 24 maggio 2007  IV  ARTURO REGHINI  I NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Premesse Libertà va cercando ch'è sì cara Come sa chi per lei vita rifiuta. DANTE, Purg., I, 71-72.  Secondo quanto affermano concordemente gli antichi rituali e le antiche costituzioni massoniche, la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell'uomo. Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola, tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre vostro che è nei cieli», sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che «nessuno è perfetto ad eccezione del Padre mio che è nei cieli». La definizione che abbiamo riportato sembrerebbe esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa ha subìto una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario etimologico del Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il perfezionamento dell'umanità; e non soltanto molti profani ma anche molti massoni accettano questa seconda definizione. A prima vista può sembrare che perfezionamento dell'uomo e perfezionamento dell'umanità significhino la stessa cosa; di fatto si riferiscono a due, concetti profondamente diversi, e l'apparente sinonimia genera un equivoco e nasconde una incomprensione. Altri adopera l'espressione: perfezionamento degli uomini, anche essa equivoca. Ora, evidentemente, non è possibile sentenziare quale sia l'interpretazione giusta, perché ogni massone può dichiarare giusta quella che si confà ai suoi gusti, e magari può compiacersi dell'equivoco. Se però si vuole determinare quale sia, storicamente e tradizionalmente, la interpretazione corretta e conforme al simbolismo muratorio, la questione cambia aspetto e non è più questione di gusti. Il manoscritto rinvenuto dal Locke (1696) nella Biblioteca Bodleyana e pubblicato solo nel 1748 e che è attribuito alla mano di Enrico VI di Inghilterra, definisce la Massoneria come «la conoscenza della natura e la comprensione delle forze che sono in essa»; ed enuncia espressamente l'esistenza di un legame tra la Massoneria e la Scuola Italica, perché afferma che Pitagora, un greco, viaggiò per istruirsi in Egitto, in Siria, ed in tutti i paesi dove i Veneziani (leggi i Fenicii) avevano impiantato la Massoneria. Ammesso in tutte le loggie di Massoni, acquistò un grande sapere, tornò in Magna Grecia... e vi fondò una importante loggia in Crotone (1). A vero dire il manoscritto parla di Peter Gower; e, siccome il cognome Gower esiste in Inghilterra, Locke rimase alquanto perplesso nella identificazione di Peter Gower con Pitagora. Ma altri (1) HUTCHINSON, Spirit of Masonry; PRESTON, Illustrations of Masonry; DE CASTRO, Mondo segreto, IV, 91; ARTURO REGHINI, Noterelle iniziatiche. Sull’origine del simbolismo muratorio, Rassegna Massonica, giugno-luglio 1923.  2  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  manoscritti e le stesse Costituzioni dell'Anderson fanno esplicita menzione di Pitagora. Il manoscritto Cooke dice che la Massoneria è la parte principale della Geometria, e che fu Euclide, un sottilissimo e savio inventore, che regolò quest'arte e le dette il nome di Massoneria. E delle reminiscenze pitagoriche nelle «Old Charges» è traccia anche nel più antico rituale stampato (1724) il quale (2) attribuisce un pregio speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica (3). Gli antichi manoscritti massonici concordano dunque nell'indicare come fine della massoneria quello del perfezionamento dell'uomo, del singolo individuo; e le prove iniziatiche, i viaggi simbolici, il lavoro dell'apprendista e del compagno hanno un manifesto carattere individuale e non collettivo. Secondo la concezione massonica più antica, la «grande opera» del perfezionamento va attuata operando sopra la «pietra grezza», ossia sopra l'individuo singolo, squadrando, levigando e rettificando la pietra grezza sino a trasformarla nella «pietra cubica della Maestria», ed applicando nella operazione le norme tradizionali dell'«Arte Regia» muratoria di edificazione spirituale. Con perfetta analogia una tradizione parallela, la tradizione ermetica che almeno dal 1600 compare anche innestata a quella puramente muratoria, insegna che «la grande opera» si attua operando sopra la «materia prima» e trasformandola in «pietra filosofale» seguendo le norme dell'«Arte Regia ermetica». Essa è compendiata nella massima di Basilio Valentino: Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem (4) oppure nella Tabula smaragdina attribuita da moderni arabisti al pitagorico Apollonio Tianeo. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all'ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell'individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La concezione tradizionalmente corretta è sicuramente la prima, e nella letteratura massonica di due secoli fa ebbero grande voga esagerati e fantasiosi avvicinamenti ed identificazioni dei misteri eleusini e massonici. Senza ombra di dubbio il patrimonio ritualistico e simbolico dell'Ordine muratorio è in armonia soltanto con la concezione più antica del fine della massoneria; infatti il testamento dell'iniziando, i viaggi simbolici, le terribili prove, la nascita alla luce iniziatica, la morte e resurrezione di Hiram, non si capisce quale relazione possano avere coi lavori massonici e con lo scopo della Massoneria se tutto si deve ridurre a fare della politica. Storicamente l'interessamento e l'intervento della Massoneria nelle questioni politiche e sociali si manifesta solo verso il 1730 e solo in alcune regioni europee col trapiantamento della Massoneria inglese nel continente. Quel poco che si conosce delle antiche loggie muratorie prima del 1600, mostra la presenza e l'uso nei lavori massonici di un simbolismo di mestiere, architettonico, geometrico, numerico; il quale per sua natura ha un carattere universale, non è legato ad una civiltà determinata e neppure ad una lingua particolare, ed è indipendente da ogni credenza di ordine politico e religioso. Per questa ragione il massone, secondo il rituale, non sa né leggere né scrivere. . Un elemento ebraico compare nella leggenda di Hiram e della costruzione del Tempio, e le parole sacre del novizio e del compagno (i soli gradi allora esistenti) che si riferiscono a questa leg(2) The Grand Mystery of Free-masons discovered wherein are the several questions put to them at their Meetings and installation, London 1724. (3) VERGILIUS, Bucolicon, Eglo VIII: Numero impari Deus gaudet. (4) Le iniziali di questa massima formano la parola vitriol, il solvente universale degli alchimisti, detto ancor oggi acqua regia.  3  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  genda sono ebraiche. Questa leggenda non fa parte del patrimonio tradizionale dell'Ordine; la morte di Hiram non figura negli antichi manoscritti massonici, e le costituzioni dell'Anderson ignorano il terzo grado. Comunque la presenza di elementi e parole ebraiche non deve stupire in un tempo in cui l'ebraico era considerato una lingua sacra, anzi la lingua sacra in cui Dio aveva parlato all'uomo nel Paradiso terrestre; è una presenza di cui non va esagerata l'importanza ed il significato, e che non basta certo a giustificare l'asserzione del carattere ebraico della Massoneria. La lettera G dell'alfabeto greco-latino, iniziale di geometria e dell'inglese God, che compare talora nella Stella Fiammeggiante o nel Delta massonico, sembra che sia una innovazione (senza utilità per chi non sa né leggere né scrivere), mentre quei due simboli fondamentali dell'Ordine non sono altro che i due più importanti simboli del pitagoreismo: il pentalfa o pentagramma e la tetractis pitagorica. L'arte muratoria od arte reale od arte regia, termine di cui fa uso il filosofo neoplatonico Massimo di Tiro (5), era identificata con la geometria, una delle scienze del quadrivio pitagorico, e non si capisce come Oswald Wirth, il dotto massone ed ermetista, possa scrivere che i Massoni del XVII secolo (6) hanno potuto proclamarsi adepti dell'Arte reale perché dei re si interessarono un tempo all'opera delle corporazioni costruttive privilegiate del Medio Evo. Gli elementi di carattere muratorio puro costituiscono, insieme al simbolismo numerico e geometrico, il patrimonio simbolico e ritualistico arcaico e genuino della fratellanza. Non diciamo patrimonio caratteristico perché questi elementi compaiono, almeno parzialmente, anche nel compagnonnage, del resto assai affine alla Massoneria. In seguito, tra il 1600 ed il 1700, quando le loggie inglesi principiano ad accettare come fratelli anche gli accepted masons, vale a dire anche persone che non esercitano la professione di architetto od il mestiere di muratore, compaiono anche elementi ermetici e rosacroce, ad esempio Elia Ashmole, come mostra il Gould nella sua storia della Massoneria. Questo contatto tra la tradizione ermetica e quella muratoria avviene anche fuori dell'Inghilterra presso a poco nel medesimo tempo, il che naturalmente implica l'esistenza nel continente di loggie massoniche non derivanti dalla Gran Loggia d'Inghilterra. Il frontespizio di un importante testo di ermetismo edito nel 1618 (7) contiene accanto a simboli ermetici (il Rebis) anche i simboli prettamente muratori della squadra e del compasso, ed altrettanto accade in un libretto italiano di alchimia (8) impresso in lamine di piombo e che risale presso a poco a quel periodo. In questo libretto è raffigurato, tra l'altro, Tubalcain che tiene nelle mani una squadra ed un compasso. Ora Tubalcain è nella Bibbia il primo fabbro; e per un errore etimologico allora accettato ed assai diffuso, per esempio dall'erudito Vossio, venne identificato con Vulcano, il fabbro degli Dei e Dio del fuoco, che secondo il concetto degli alchimisti ed ermetisti presiedeva al fuoco ermetico (od ardore spirituale), fuoco il quale compiva da solo la grande opera della trasmutazione. In un nostro lavoro giovanile (9) abbiamo dato una errata interpretazione della parola di passo Tubalcain, non conoscendo la errata identificazione di Vulcano con Tubalcain accettata dagli ermetisti ed in generale dagli eruditi del seicento e del settecento. Ci sembra oggi manifesto che questa parola ed altre parole di passo traggano la loro derivazione dall'ermetismo, e riteniamo probabile che siano state introdotte in massoneria e poste a lato delle parole sacre a testimonianza del contatto stabilito tra le due tradizioni, la muratoria e l'ermetica. Le parole di passo del 2° e 3° grado non esistono (5) MAXIME DE TYR, Discours Philosophiques, trad. par FORMEY, Leida 1764. Disc. XI, pag. 173. (6) Cfr. OSWALD WIRTH, Le Livre du Maître, 1923, pag. 7. (7) Si tratta della Basilica Philosophica - JOHANNIS MYLII, Francof. 1618. (8) Cfr. PIETRO NEGRI, Un codice plumbeo alchemico italiano, nella rivista UR, anno 1927, n.ri 9 e 10 [Nota del Curatore: “Pietro Negri” era lo pseudonimo impiegato dallo stesso Reghini sulla rivista «UR»] (9) Cfr. ARTURO REGHINI, Le parole sacre e di passo ed il massimo mistero massonico, Todi 1922.  4  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nel rituale del Prichard (1730). Ermetismo e Massoneria hanno per fine la «grande opera della trasmutazione», e le due tradizioni trasmettono il segreto di un'arte, che entrambe designano con il termine di arte regia, già usato da Massimo di Tiro. Era quindi naturale che si riconoscessero mutuamente affini. Osserviamo come l'adozione del simbolismo ermetico non avvenga a detrimento della universalità massonica e della sua indipendenza dalla religione e dalla politica, perché anche il simbolismo ermetico od alchemico è per sua natura estraneo ad ogni credenza religiosa o politica. L'arte massonica e l'arte ermetica, detta anche semplicemente l'arte, è un'arte e non una dottrina od una confessione. Sino al 1717 ogni loggia massonica era libera ed autonoma; i fratelli di una officina erano ricevuti come visitatori nelle altre purché sapessero rispondere alla tegolatura, ma ogni maestro Venerabile era l'autorità unica e suprema per i fratelli di una officina. Nel 1717 si ebbe un mutamento con la costituzione della prima Grande Loggia, la Grande Loggia di Londra, e poco dopo venivano compilate per opera del pastore protestante Anderson le Costituzioni massoniche per le Loggie all'Obbedienza della Gran Loggia di Londra; e, sebbene teoricamente un'officina potesse e possa mantenere la propria autonomia o mettersi all'Obbedienza di una Gran Loggia (10), nella pratica vengono oggi considerate loggie regolari quelle che direttamente od indirettamente sono emanazione e derivazione della Gran Loggia di Londra, supponendo che questa derivazione e soltanto essa possa conferire la «regolarità». Ora è molto importante notare che le Costituzioni dell'Anderson affermano esplicitamente che per essere iniziato ed appartenere alla Massoneria si richiede solo di essere un uomo libero e di buoni costumi, ed esaltando (a differenza delle varie sette cristiane) il principio della tolleranza reciproca di ogni fratello per le altrui credenze, aggiungendo solo che un massone non sarà mai uno «stupido ateo». Taluno potrà forse pensare che l'Anderson ammetta che il massone possa essere un ateo intelligente, ma è più verosimile che l'Anderson da buon cristiano ammetta che un ateo è necessariamente uno stupido, seguendo la massima che dice: Dixit stultus in corde suo: Non est Deus. Bisognerebbe qui fare una digressione ed osservare che in questa disputa tanto chi afferma quanto chi nega non ha in generale nozione alcuna di quanto afferma esistere o no, e che la parola Dio viene adoperata di solito con un senso talmente indeterminato da rendere vana qualunque discussione. Comunque le Costituzioni della Massoneria sono esplicitamente teistiche; e quei profani che accusano la Massoneria di ateismo sono in mala fede od ignorano che essa lavora alla gloria del Grande Architetto dell'Universo; ed osserviamo ancora che questa designazione oltre ad essere in armonia col carattere del simbolismo muratorio ha un significato preciso ed intelligibile a differenza di altre designazioni vaghe o prive di senso come quella di «Nostro Signore», di «Padre di tutti gli uomini» ecc. Maggiore interesse offre il requisito di uomo libero fatto al profano per iniziarlo ed al massone per considerarlo fratello. L'Anderson non fa che continuare a chiamare liberi Muratori i FreeMasons, e resta solo da esaminare in che cosa consista questa freedom dei Free masons. Si tratta solo di franchigia economica e sociale che esclude gli schiavi o servi e delle franchigie e dei privilegi di cui godeva la corporazione dei liberi muratori rispetto ai governi degli stati e delle varie regioni in cui essa svolgeva la sua attività? Oppure questo appellativo di liberi muratori va inteso anche in altro senso di non schiavo dei pregiudizii e delle credenze che non era il caso di ostentare? Se cosi fosse sarebbe vano cercarne le prove documentate, e la questione resterebbe indecisa. Pure è possibile dire qualche cosa in proposito grazie ad un documento del 1509 la cui esistenza od importanza sembra non sia stata finora avvertita, (10) O. WIRTH esprime categoricamente questa opinione (Livre du Maître, p. 189).  5  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Si tratta di una lettera scritta il 4 febbraio 1509 ad Enrico Cornelio Agrippa da un suo amico italiano, certo Landolfo, per raccomandargli un iniziando. Scrive Landolfo (11): «E' un tedesco come te, originario di Norimberga, ma abita a Lione. Curioso indagatore degli arcani della natura, ed uomo libero, completamente indipendente del resto, vuole sulla reputazione che tu hai già, esplorare anche lui il tuo abisso... Lancialo dunque per provarlo nello spazio; e portato sulle ali di Mercurio vola dalle regioni dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove; e se questo neofita vuole giurare i nostri statuti, associalo alla nostra confraternita». Si tratta di una associazione segreta ermetica fondata da Agrippa ed è manifesta l'analogia tra questa prova dello spazio da fare affrontare all'iniziando e le terribili prove ed i viaggi simbolici della iniziazione massonica, sebbene qui la prova si effettui sulle ali di Ermete; Ermete psicopompo, il padre dei filosofi secondo la tradizione ermetica, è la guida delle anime nell'al di là classico e nei misteri iniziatici. Anche qui compare la qualifica di uomo libero, sufficiente ad aprire le porte a chi bussa profanamente alla porta del tempio; anche qui compare in sostanza il principio della libertà di coscienza e conseguentemente della tolleranza; le due tradizioni parallele muratoria ed ermetica pongono la stessa unica condizione al profano da iniziare: quella di essere un uomo libero; e ne deriva che presumibilmente essa non si riferiva alle franchigie particolari delle corporazioni di mestiere, che sarebbe stato del resto fuori di luogo pretendere dagli accepted Masons che non erano muratori di mestiere ma liberi muratori. Il carattere fondamentale delle Costituzioni massoniche dell'Anderson sta adunque nel principio della libertà di coscienza e della tolleranza, che rende possibile anche ai non cristiani di appartenere all'Ordine. Nelle Costituzioni dell'Anderson la Massoneria conserva il suo carattere universale, non è subordinata ad alcuna credenza filosofica particolare né ad alcuna setta religiosa, e non manifesta alcuna tendenza a lavori di ordine sociale e politico; può darsi che questo carattere aconfessionaJe e libero inspirasse anche la Massoneria anteriore al 1717 e che l'Anderson non abbia fatto altro che sancirlo nelle Costituzioni. Trapiantandosi in America e nel continente europeo la Massoneria conserva in generale questo suo carattere universale di tolleranza religiosa e filosofica e resta aliena da ogni partecipazione ai movimenti politici e sociali, talora accentuando, come in Germania, il suo interesse per l'ermetismo. Sorgono per altro a partire circa dal 1740 i nuovi riti e gli alti gradi, i quali però hanno cura di mantenere intatti il rito ed i rituali dei primi tre gradi, ossia della vera e propria massoneria detta anche massoneria simbolica od azzurra. I rituali di questi alti gradi sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai Rosacroce, all'ermetismo, ai Templari, allo gnosticismo, ai catari..., vale a dire non hanno un vero e proprio carattere massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono assolutamente superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere superiori dei varii riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla corretta interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente comprensione ed applicazione del rito ossia dell'arte regia. Naturalmente questo non significa che si debbano abolire gli alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere lavori non in contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo. Però dal punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed a camere superiori non li pone in alcun (11) ENRICO CORNELIO AGRIPPA, Epistol. Cfr. anche la monografia di ARTURO REGHINI premessa alla versione italiana della Filosofia Occulta di Agrippa.  6  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  modo al di sopra di quei maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi, sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la lettera delle Costituzioni della Fratellanza. La prima alterazione appare in Francia, simultaneamente alla fioritura degli alti gradi. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell'Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria, che si diffonde largamente e rapidamente; ed accade cosi per la prima volta che l'interesse dell'Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l'influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell'impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt'al più la tradizione massonica francese, ben distinta dalla antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza della Massoneria di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. Comunque anche i fratelli che seguono questa tradizione massonica francese non hanno dimenticato il principio della tolleranza, e nelle loggie massoniche italiane, anche prima della persecuzione fascista, si trovavano fratelli di ogni fede politica e religiosa, compresi i cattolici ed i monarchici. Va anche ricordato che nel periodo di poco precedente lo scoppio della rivoluzione francese non tutti i massoni dimenticarono la vera natura della Massoneria, sebbene disorientati dalla pleiade di riti diversi e contrastanti; e si tenne il Convento dei Filaleti allo scopo di rintracciare quale fosse la vera tradizione massonica, ossia, la vera parola di maestro che, secondo la stessa leggenda di Hiram, era andata perduta. Al Convento dei Filaleti convennero massoni di ogni rito, tutti desiderosi di ristabilire l'unità. Il solo Cagliostro, che aveva fondato il rito della Massoneria Egiziana in soli tre gradi, dedito esclusivamente all'opera della edificazione spirituale, rifiutava di partecipare al Convento dei Filaleti per ragioni che sarebbe lungo esporre. L'influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l'impero, anche in Italia; la presenza anche oggi di alcuni termini tecnici nei «travagli» massonici come il «maglietto» del Venerabile, versione poco felice del maillet ossia del martello, ne fa testimonianza (12)12. La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo. Non si può dire per altro che la massoneria divenne in Italia una massoneria materialista, perché non soltanto fu sempre tollerante di tutte le opinioni, ma venerò in modo speciale la grande anima di Giuseppe Mazzini; ed i grandi massoni italiani come Garibaldi, Bovio, Carducci, Filopanti, Pascoli, Domizio Torrigiani e Giovanni Amendola furono tutti idealisti e spiritualisti. Era riserbata alla teppa fascista la selvaggia furia di devastazione dei (12) Cosi pure pietra polita invece di pietra levigata dal francese pierre polie; lupetto ed anche lupicino che è una versione di louveton, a sua volta trasformazione fonetica e semantica da Lufton, figlio di Gabaon, nome generico del massone secondo i primitivi rituali inglesi e francesi.  7  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nostri templi, delle nostre biblioteche ed il vandalismo che fece a pezzi i ritratti ed i busti dei grandi spiritualisti come Mazzini e Garibaldi che decoravano le nostre sedi. D'altra parte bisogna riconoscere che, se la massoneria anglosassone ha sempre mantenuto il carattere spiritualista e non ha mai pensato a dichiarare la inesistenza del Grande Architetto dell'Universo, essa è stata spesso incline, e lo è ancora, a conferire un colorito cristiano al suo spiritualismo, allontanandosi dallo spirito di assoluta imparzialità ed aconfessionalità delle Costituzioni dell'Anderson. Non si può negare che l'imporre il giuramento sul Vangelo di San Giovanni sia una manifestazione non troppo tollerante rispetto a quei profani ed a quei fratelli che, essendo agnostici, o pagani, od ebrei o liberi pensatori, non sentono particolare simpatia per il Vangelo di San Giovanni e non sanno nulla della tradizione gioannita. L'intolleranza si accentua con l'andazzo di infliggere la lettura ed il commento di versetti del Vangelo durante i lavori di Loggia. Questo mal vezzo, qualora si affermasse, ridurrebbe i lavori di Loggia al livello di un service di una chiesa quacchera o puritana, ad una specie di rosario e vespro fastidioso, inconcludente, e ripugnante alla libera coscienza dei moltissimi fratelli i quali, anche in Inghilterra, ed in America, non solo non vanno alla messa, e non accettano l'infallibilità del Papa, ma non accettano più neppure l'autorità della Bibbia. Vale la pena di provocare il disagio e l'insofferenza tra le colonne senza sensibile compenso? Si crede proprio con simili mezzi di convertire gli altri alla propria credenza, e di arginare la potente ondata dell'agnosticismo inglese ed americano? Queste considerazioni inducono a mantenere alla Massoneria il suo carattere universale al di sopra di ogni credenza religiosa e filosofica e di ogni fede politica. Il che non vuol dire che si debba fare astrazione dalla politica. Occorre infatti difendersi. L'intolleranza non può lasciare prosperare la tolleranza; e la tolleranza tutto può tollerare salvo l'intolleranza dichiaratamente ostile. Appena comparvero le Costituzioni dell'Anderson col loro principio della libertà e della tolleranza la Chiesa cattolica scomunicò la Massoneria rea appunto di tolleranza; e l'accanimento contro la Massoneria non si è mai più smentito. In Italia la persecuzione contro la Massoneria in questo ultimo ventennio è stata iniziata e sostenuta dai gesuiti e dai nazionalisti (13); ed i fascisti per ingraziarsi questi messeri non esitarono a provocare l'avversione del mondo civile contro l'Italia con le loro gesta vandaliche contro la massoneria. I gesuiti hanno perduto questa guerra; ma la peste dell'intolleranza non è finita, anzi si affaccia sotto nuove forme e ne segue la necessità di prevenirla. D'altra parte giunge l'ora, se non erriamo, di spargere la Massoneria sopra tutta la superficie della terra e di stabilire una fratellanza tra gli uomini di tutte le razze, civiltà e religioni; e per assolvere questo compito è necessario che la Massoneria non abbia una fisionomia ed un colorito che appartiene solo alla minoranza dell'umanità a cui le grandi civiltà orientali, tutta la Cina, tutta l'India, il Giappone, la Malesia, il mondo dell'Islam si sono dimostrati refrattarii. La cosa è possibile sin tanto che la Massoneria non si circoscrive in una qualunque credenza e resta fedele al suo patrimonio spirituale che non consiste in una fede codificata, in un credo religioso o filosofico, in un complesso di postulati o pregiudizii ideologici e moralistici, in un bagaglio dottrinale in cui si creda contenuta ed espressa la verità cui convertire i miscredenti. Bisogna pensare che, anche se esiste la vera religione o la vera filosofia, è una illusione il credere di poterla conquistare o comunicare con una conversione o con una confessione od una recitazione di formule determinate, perché ognuno intende le parole di questi credi e formule a modo suo, conforme alla sua cultura ed intelligenza: ed in fondo esse non sono, come diceva Amleto, che words, words, words. Fin tanto che non ci si ragiona sopra, permane l'illusione di comprendere queste parole nello stesso modo; appena si comincia a ragionare, sor(13) Cfr. gli art. di EMILIO BODRERO nell'organo della Compagnia di Gesù, la Civiltà cattolica, ed il giornale Roma Fascista; cfr. et.: Ignis e Rassegna Mass., annata 1925.  8  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  gono le sette e le eresie, ciascuna persuasa di possedere la verità. La sapienza non può essere razionalmente intesa, espressa e comunicata; essa è una visione, una vidya, essenzialmente e necessariamente indeterminata, incerta; e, aprendo gli occhi alla luce con la nascita alla nuova vita, ci si avvia a questa visione. L'arte muratoria od arte regia è l'arte di lavorare la pietra grezza in modo da rendere possibile la trasmutazione umana e la graduale percezione della luce iniziatica. Il che non significa naturalmente che la Massoneria abbia il monopolio dell'arte regia. Durante questi ultimi due secoli la grande maggioranza dei nemici della massoneria ha fatto sistematicamente ed unicamente ricorso soltanto all'ingiuria ed alla calunnia facendo leva sui sentimenti moralistici e patriottici. Si è affermato che i lavori massonici consistono in orgie abbominevoli, svisando a questo scopo i rituali, si sono svelate le cerimonie massoniche ponendole in ridicolo, si è accusato i massoni di tradire la loro patria a causa del carattere internazionale dell'Ordine, si è affermato che la Massoneria non è altro che uno strumento degli Ebrei, sempre mirando ad ingannare ed aizzare i fedeli credenti ed il grosso pubblico contro la «Società Segreta». I massoni naturalmente sapevano bene che non si trattava che di calunnie; e, non potendoli persuadere, si è pensato a sopprimerli od a togliere ad essi la possibilità di adunarsi, di lavorare, di rispondere e di difendersi. Recentemente uno scrittore cattolico (14) ha pubblicato uno studio storico sopra «la Tradizione Segreta» condotto con competenza ed abilità, ed in cui le contumelie e le solite calunnie dirette a fare presa sull'animo dei profani sono state sostituite da una critica insidiosa diretta a fare presa sul lettore colto ed anche sull'animo dei fratelli. Questa critica afferma che nel fondo della tradizione segreta è contenuto il vuoto assoluto (pag. 139) e conclude con l'affermare che «la Scuola Iniziatica o per essa la Tradizione Segreta, non ha insegnato assolutamente nulla all'umanità» (pag. 155). Veramente non si capisce bene come si possa allora anche affermare che questo vuoto assoluto, «questa tradizione segreta coincide (pag. 141), se pure spesso in forma corrotta, con le dottrine gnostiche», ma non pretendiamo troppo. La Massoneria è dunque, secondo l'autore, una sfinge senza segreto perché non insegna alcuna dottrina, ed il lettore è così portato a concludere che essendo priva di contenuto la Massoneria non val niente. In quanto precede noi abbiamo mostrato che la Massoneria non insegua alcuna dottrina e non deve insegnarne; e che questo è un merito e non un demerito della Massoneria. Per concludere poi che, non contenendo una dottrina, la Tradizione segreta contiene il vuoto assoluto bisogna credere che soltanto una dottrina possa occupare il vuoto. Afferma ancora (pag. 153) il Del Castillo che «il sistema iniziatico suppone che l'uomo possa arrivare a capire con lo sforzo del cervello i problemi insoluti del cosmo e dell'al di là»; e che la «Chiesa cattolica (pag. 156) oppone alle vane elucubrazioni dei così detti iniziati la forza intangibile del suo dogma che deve essere unico perché non possono esistere due verità»; e che il sistema iniziatico (pag. 152) è incompatibile can il cristianesimo. A queste e simili affermazioni rispondiamo che ignoriamo la esistenza di un sistema iniziatico, che non conosciamo iniziati che facciano delle supposizioni, e tanto meno che si illudano di potere capire col solo cervello e con elucubrazioni di problemi insoluti: ma non ci è possibile ammettere che la fede in un dogma costituisca una conoscenza perché sapere non è credere. Anzi noi comprendiamo che la verità è necessariamente ineffabile ed indefinibile, e lasciamo ai profani l'ingenua e consolante illusione che sia possibile una qualsiasi formulazione della verità e della conoscenza in credi, formule, dottrine, sistemi e teorie. Anche Gesù, del resto, sapeva che le sue parabole non erano che delle parabole, ma diceva anche ai suoi discepoli che ad essi «era dato intendere il mistero del regno dei cieli». Evidentemente sola fides sufficit ad firmandum cor sincerum, ma non sufficit per intendere i misteri. Lo stesso dicasi naturalmente per il solo raziocinio. E con questo (14) Cfr. RAFFAELE DEL CASTILLO, La tradizione segreta, Milano, Bompiani, 1941.  9  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  non intendiamo menomare il valore della fede e del raziocinio; la sola fede conduce al fanatismo ignorante, il solo raziocinio conduce alla disperazione filosofica; sono un po' come il tabacco ed il caffè: due veleni che si compensano; ma naturalmente non basta fumare la pipa e centellinare il caffè per assurgere alla conoscenza. Alla conoscenza multi vocati sunt, non tutti; e, tra questi molti, pauci electi sunt; secondo la Chiesa cattolica invece basta la fede nel Dogma, e conoscenza e paradiso sono alla portata di tutte le borse a prezzi di vera concorrenza. Riassumendo: Non esiste una dottrina segreta massonica (15); ma esiste un'arte segreta, detta arte reale, od arte regia o semplicemente l'Arte; è l'arte della edificazione spirituale cui corrisponde l'architettura sacra. Gli strumenti muratorii hanno perciò un senso figurato nell'opera della trasmutazione; ed al segreto dell'arte regia corrisponde il segreto architettonico dei costruttori delle grandi cattedrali medioevali. E' naturale che i liberi muratori venerino il Grande Architetto dell'Universo, anche se non si definisce cosa si debba intendere con questa formola. Nell'architettura antica, specialmente in quella sacra, avevano grande importanza le questioni di rapporto e di proporzione; l'architettura classica regolava la proporzione delle varie parti di un edificio, ed in particolare dei templi, basandosi sopra un modulo segreto cui accenna Vitruvio; sopra l'architettura egiziana e specialmente sopra la Piramide di Cheope esiste tutta una letteratura che ne mostra il carattere matematico; ed, anche procedendo con molto scetticismo, è certo ad esempio che tale piramide si trova esattamente alla latitudine di 30° in modo da formare col centro della terra e col polo Nord un triangolo equilatero, è certo che essa è perfettamente orientata e che la faccia rivolta a settentrione è esattamente perpendicolare all'asse di rotazione terrestre, anzi alla posizione di questo asse al tempo della sua costruzione. Ed anche i costruttori medioevali non erano guidati da criterii puramente estetici, e si preoccupavano dell'orientazione della chiesa, del numero delle navate ecc.; e l'arte dei costruttori era posta in connessione con la scienza della geometria. La squadra ed il compasso sono i due simboli fondamentali di mestiere dell'arte muratoria; e la riga ed il compasso sono i due strumenti fondamentali per la geometria elementare. La Bibbia afferma che Iddio ha fatto omnia in numero, pondere et mensura; i pitagorici hanno coniato la parola cosmo per indicare la bellezza del cosmo in cui riconoscevano una unità, un ordine, un'armonia, una proporzione; e tra le quattro scienze liberali del quadrivio pitagorico, cioè l'aritmetica, la geometria, la musica e la sferica, la prima stava alla base di tutte le altre. Dante compara il cielo del Sole all'aritmetica perché «come del lume del Sole tutte le stelle si alluminano, cosi del lume dell'aritmetica tutte le scienze si alluminano, e perché come l'occhio non può mirare il sole così l'occhio dell'intelletto non può mirare il numero che è infinito» (16). Lasciando da parte ogni critica di questo passo resta stabilita la posizione occupata secondo Dante dalla Aritmetica. Tanto la Bibbia quanto l'architettura portavano alla considerazione dei numeri. Oggi, anche rifiutando di riconoscere nel cosmo un'unità, un ordine, un'armonia, una legge ed accettando solo un determinismo limitato dalla legge di probabilità la fisica moderna si riduce sempre alla considerazione di numeri e rapporti numerici; anzi non restano altro che quelli, e tanto Einstein quanto Bertrand Russel hanno constatato e riconosciuto il ritorno della scienza moderna al pitagoreismo. (15) La stessa cosa era già stata detta dal WIRTH nel 1941: «Comme la méthode initiatique se refuse à inculquer qui que ce soit, il n'est guère admissible qu'une doctrine positive ait été enseignée au sein des Mystères» (Le livre du Maître, 119). Il DEL CASTILLO invece sostiene senza alcuna prova che la Massoneria ha preteso insegnare una tale dottrina segreta, constata che di questa dottrina positiva non si trova traccia, ed invece di riconoscere che la sua personale asserzione non ha fondamento, accusa la Massoneria di millantato credito e di incapacità. O Vos qui cum Jesu itis, non ite cum Jesuitis. (16) DANTE, Conv. II, 14.  10  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Non stupisce quindi che i liberi muratori identificassero l'arte architettonica con la scienza della geometria e dessero alla conoscenza dei numeri tale importanza da giustificare la loro pretesa tradizionale di essere i soli ad avere conoscenza dei «numeri sacri». Dobbiamo per altro fare ancora alcune osservazioni. La geometria nella sua parte metrica, ossia nelle misure, richiede la conoscenza dell'aritmetica; inoltre l'accezione della parola geometria era anticamente più generica che ora non sia, e geometria indicava genericamente tutta la matematica; di modo che la identificazione dell'arte reale con la geometria, tradizionale in Massoneria, si riferisce non alla sola geometria intesa nel senso moderno, ma anche alla aritmetica. In secondo luogo dobbiamo osservare che questa relazione fra la geometria e l'arte regia dell'architettura e della edificazione spirituale è la stessa che inspira la massima platonica: «Nessun ignaro della geometria entri sotto il mio tetto». Questa massima è di attribuzione un po’ dubbia perché è riportata solo da un tardo commentatore: ma in opere che indiscutibilmente appartengono a Platone leggiamo essere «la geometria un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno; una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», essere «perfino impossibile arrivare ad una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'astronomia e l'intimo legame di quest'ultima con la musica» (17). Questa concezione ed attitudine di Platone è la medesima che si ritrova nella scuola Italica o pitagorica che esercitò sopra Platone grandissima influenza, di modo che anche volendo sostenere che la Massoneria si sia inspirata a Platone, si è sempre in ultima analisi ricondotti alla geometria ed all'aritmetica dei pitagorici. Il legame tra la Massoneria e l'Ordine pitagorico, anche se non si tratta di ininterrotta derivazione storica, ma soltanto di filiazione spirituale, è certo e manifesto. L'Arciprete Domenico Angherà nella prefazione del 1874 alla ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato, già pubblicati in Napoli nel 1820, afferma categoricamente che l'Ordine massonico è la stessa, stessissima cosa dell'Ordine pitagorico; ma anche senza spingersi tanto oltre l'affinità tra i due ordini è sicura. In particolare l'arte geometrica della Massoneria deriva, direttamente od indirettamente, dalla geometria ed aritmetica pitagoriche; e non più in là, perché i pitagorici furono i creatori di queste scienze liberali, a quanto risulta storicamente e secondo la attestazione di Proclo. Ad eccezione di alcune poche proprietà geometriche attribuite, probabilmente a torto, a Talete, la geometria, dice il Tannery, scaturisce completa dal genio di Pitagora come Minerva balza armata di tutto punto dal cervello di Giove; ed i pitagorici sono stati i primi ad iniziare lo studio dell'aritmetica e dei numeri. Per studiare le proprietà dei numeri sacri ai Liberi Muratori e la loro funzione in Massoneria, la via che si presenta spontaneamente è dunque quella di studiare l'antica aritmetica pitagorica; e di studiarla sia dal punto di vista aritmetico ordinario, sia dal punto di vista dell'aritmetica simbolica od aritmetica formale, come la chiama Pico della Mirandola, corrispondente al compito filosofico e spirituale assegnato da Platone alla geometria. I due sensi si trovano strettamente connessi nello sviluppo dell'aritmetica pitagorica. La comprensione dei numeri pitagorici faciliterà la comprensione dei numeri sacri alla massoneria.  (17) GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 2a ed., Milano, Hoepli 1914, pag. 110.  11  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  CAPITOLO I  La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice dell'eterna natura. Detti aurei.  Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filologico, ci atterremo soltanto a quanto resulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è soltanto nostra opinione o resultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbiamo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora visse nel sesto secolo prima di Cristo, fondò in Calabria una scuola ed un Ordine che Aristotile chiamava scuola italica, ed insegnò tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atene nel V secolo della nostra era, fu Pitagora che per il primo elevò la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo il Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non abbia scritto nulla. Se anche fosse diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostacolato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici mantenevano, sopra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Un fìlologo belga, Armand Delatte, nella sua prima opera: Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, 1915, ha fatto una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed ha messo in chiaro tra le altre cose che i famosi «Detti Aurei» o Versi aurei, sebbene siano una compilazione ad opera di un neo-pitagorico del II o IV secolo della nostra era, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Quest'opera del Delatte sarà la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotile e di Timeo di Tauromenia. Filolao fu, insieme al tarentino Archita, uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, Timeo fu uno storico del pitagoreismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagoreismo e 12  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene Laerzio, che furono dei neopitagorici nei primi secoli della nostra era, e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche Boezio ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre al Delatte ed all'opera un po' vecchia dello Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, 2a ed. 1874, ed al Verbo di Pitagora di Augusto Rostagni, Torino, 1924, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London 1816; 2a ed., Los Angeles, 1934, del dotto grecista inglese Thomas Taylor che fu un neo-platonico ed un neopitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, 1914, 2a ed., di Gino Loria, e dell'opera A History of Greeck Mathematics di T. Heath, 1921. Per la matematica moderna l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indicava l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo metafisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità. In aritmetica, anche pitagorica, vi sono tre operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità; quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che per ottenere il due bisogna ammettere che vi possano essere due unità, ossia avere già il concetto del due, ossia che la monade possa perdere il suo carattere di unicità, che essa possa distinguersi e che vi possa essere una duplice unità od una molteplicità di unità. Filosoficamente si ha la questione del monismo e del dualismo, metafisicamente la questione dell'Essere e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità dell'Unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una alterazione dell'unicità proveniente da una distinzione che la Monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'io ed il non io. Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione, e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi sia questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici dicevano che la diade era generata dall'unità che si allontanava o separava da sé stessa, che si scindeva in due: ed indicavano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: dieresi, tolma. Per la matematica pitagorica l'unità non era un numero, ma era il principio, l' di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa resistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi per addizione il due e tutti i numeri. I pitagorici concepivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da punti variamente disposti. Il punto era definito dai pitagorici l'unità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità era rappresentata dal punto ( = segno) od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od α, che serviva per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere successivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, 13  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cinque è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari (1), ed Aristotile (2) parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro simiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo (epipedo) in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath (3) questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister (4) dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice Virgilio, Deus gaudet. La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polarità, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la trinità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo (5) osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che (1) PLATO, Parmenide, 143 d. (2) ARISTOTILE, Topiche, 2, 137. (3) HEATH, A History of Greek Mathematics, I, 70. (4) E. REIDEMEISTER, Die arithmetic der Griechen, 1939, pag. 21. (5) PROCLO, Comm. alla 20a proposizione di Euclide, e cfr. TAYLOR, The Theoretic Arithmetic of Pythagoreans, 2a ed., Los Angeles 1924, pag. 176.  14  A. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo resultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più, ossia, si ha: 1+1=2>1.1  ;  2+2=4=2.2  ;  3+3=6 Grice: “Some of my Oxonian friends are masonic, and some are Pythagorean!” Lorenzo Fazzini. Laurentis Maria Antonius. Fazzini. Keywords: la matematica di Pitagora, Platone, aritmetica, geometria, definizione di assioma, problema, lemma, numero, demonstrazione, ragione, postulato, numero sacro, reghini – crotona, Taranto, aristosseno, meloponto filolao crotone crotona -- ecc. Grice. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fazzini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689413478/in/photolist-2mLKeCe-2mKBKN7-BK4WFZ-BK3k3B

 

Feliceto search.

 

Grice e Ferdinando – la masculinita, il maschio e la tarantella -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosofo. Grice: “I like Ferdinando; for one he describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with ‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studia grammatica, poetica, greco e latino sotto Riccio, intimo amico di Paolo e Aldo Manuzio. Si trasferì successivamente a Napoli dove studia filosofia. Si laurea in filosofia. Ebbe dieci figli. Tra le saggi principali del Ferdinando grande rilievo assumono i “Teoremi Filosofici”, dedicati alla sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata analisi della storia di Mesagne.  Dal punto di vista culturale, l'opera di riferimento per eccellenza del Ferdinando è fuor di dubbio Centum Historiae, dedicata a Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore fu medico di fiducia, intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li condusse a Roma dove Epifanio conobbe Cinzio Clemente, medico di Paolo V e fu contattato, per la sua fama, da noti scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Marco Aurelio Severino, con cui ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si connette con la vena ulnare.  Profondo conoscitore dei classici e seguace non solo delle teorie di Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da Mercuriale, Eustachio, Falloppia e Fracastoro, attento alle tradizioni della sua terra, propose un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza fu richiesto non solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i concittadini per la sua bontà d'animo, curava anche senza compenso somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentrava sull'importanza delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e riteneva centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serviva non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma preparava anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili di erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua vita si occupò anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico, descritti nei particolari nelle Centum Historiae, e nutre anche uno spiccato interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia “certissima”. Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che mantenne con i medici napoletani, fu uno dei più importanti intermediari fra la cultura medica napoletana e quella di Terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto Ferdinando, si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la “musico-terapia”somministrata al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il malato dopo essere stato morso dovesse espellere il veleno scatenandosi a ritmo di musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale doveva essere scelto in base al colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis redatto, presumibilmente da Guglielmo di Marra da Padova, nel primo anno del pontificato di Urbano V. Il secondo a documentare per esperienza diretta questa connessione fu Ferdinando. Nelle sue Centum Historiae analizza, tra gli altri, il caso di un suo giovane concittadino, tale Pietro Simeone, pizzicato mentre dormiva di notte in un campo. Il medico credette fermamente nella musica come terapia “certissima” criticando chi sosteneva che il tarantismo non fosse necessariamente scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, fu il primo a proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri).  Kircher riferisce nel suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli sospetti su quanto starebbe alla base di questa terapia. Come il veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei Padri ricordati, che son degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito fu tenuto un esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri Padri, e d tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi, allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu tarantolae.” Ernesto De Martino La terra del rimorso,Milano,Est, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da:  Mario Marti e Domenico Urgesi, Epifanio Ferdinando, medico e storico del Seicento. Atti del convegno di studi, Besa Editrice, Nardò, Altre fonti:  Atanasio Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, M. Luisa Portulano Scoditti, A. Elio Distante, Roberto Alfonsetti, Enzo Poci. Edizione Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne, Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, La peste, traduzione italiana del De peste aureus libellus, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio Ferdinando Le centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio FerdinandoDe Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione italiana del De Vita Proroganda seu juventute conservanda..., Napoli, M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante,, Atti del XLI Congresso Nazionale della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice: “Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” --  Epifanio Ferdinando. Ferdinando. Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferdinando” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690423022/in/photolist-2mS22wB-2mRKf98-2mRFDHV-2mRjrN1-2mPMaQM-2mPsU62-2mPpmMv-2mNzeEc-2mN35cA-2mN8Hgb-2mMYDGZ-2mMLXtT-2mLQc9e-2mLGjg5-2mKR9ZM-2mKCdPg-2mKQqs3-2mKLP2r-2mKLYsa-2mKGVU3-2mKMqqn-2mKCQBD-2mKBsEN-2mPBcdN-2mKw3hq-2mKBwcu-2mKxnN1-2mKEJsY-2mKAuZM-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mHGgw3-F7umuM-Gz3rcP-Cntjci-o64NpB-nriWaK-nt38ne-no9vGL

 

Grice e Fergnani – il gesto e la passione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I love Fergnani; especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto Banfi. Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova corrente”.  Fu figura di spicco nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács, Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona); “Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino, “Prassi di Gramsci” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);  L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre, Farina Editore, Milano, “Sartre sadico” (Farina Editore, Milano); “Esistire” (Farina Editore, Milano); Kierkegaard (Farina Editore, Milano); “Il gesto e la passione” Farina Editore, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina Editore, Milano.  “L’Esistenzialismo” Farina Editore, Milano, “Sartre” (Farina Editore, Milano); “Jaspers, Farina Editore, Milano);  F. Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”, Corriere della Sera.  La lezione di Franco Fergnani", in Materiali di Estetica,Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino,  F. Papi.  Fisiognomica interpretazione del carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Franco Battiato, vedi Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica[1] che attraverso la  fisiognomia o fisiognomonia[2] pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Fin dal XVI secoloquesta disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile ma più generico.[3]   Esempi di fisiognomica di criminali, secondo Cesare Lombroso: "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli" Tutto il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale.  Descrizione         Modifica Esistono due principali tipi di fisiognomica:  la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichitàModifica Riferimenti a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene del V secolo a.C. dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte.  I giovani che volevano entrare nella scuola pitagoricadovevano dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei).[4]  Il filosofo Aristotele, nel IV secolo a.C., si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie. Aristotele stesso era d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di Analitici primi(2.27):  «È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze naturali: dico 'naturali' perché se forse, apprendendo la musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di quelle influenze che sono per noi naturali; piuttosto faccio riferimento a passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze.»  (Traduzione A. J. Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il volumetto Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola. È diviso in due parti e quindi probabilmente in origine erano due lavori separati. La prima sezione tratta soprattutto del comportamento umano sorvolando su quello degli animali. La seconda sezione è incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il comportamento.  Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:  Polemo di Laodicea, de Physiognomonia (II secolo a.C.), in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica (IV secolo d.C.), in greco Anonimo latino, de Physiognomonia (IV secolo d.C.) La fisiognomica moderna                                                Modifica  Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: "profonda disperazione"; a destra: "collera mischiata con paura") La fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità caratteriali, era piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che Leonardo ne era appassionato, come pure Michelangelo.  «Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di Michelangelo di scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai "moti" e alle "apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si sarebbe fondato sui rapporti e sulla geometria, e nemmeno sarebbe strato empirico come quello che avrebbe potuto scrivere Leonardo; i termini "moti" ( che fa pensare alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e "apparenze" fanno invece ritenere che Michelangelo avrebbe insistito sugli effettipsicologici e visuali delle funzioni del corpo.»  (James Ackerman, L'architettura di Michelangelo, Torino, 1968, p. 13) Il trattato di Pomponio Gaurico intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze nel 1504, presenta questo tipo di conoscenza nei termini seguenti:  «La fisiognomica è un tipo di osservazione, grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell'animo.[...] Se [gli occhi] saranno piuttosto grandi e con uno sguardo un po' umido, mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose, ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che fosse Alessandro il Macedone. [...] Se vedrai un naso pieno, solido e tozzo, come quello dei leoni e dei molossi, lo considererai segno di forza e arroganza. [...] La fronte quadrata, che ha la lunghezza quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza, animo splendido»  (Estratti citati da Michiaki Koshikawa, Individualità e concetto. Note sulla ritrattistica del Cinquecento in: AA.VV., Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Tokyo-Roma 2001(catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale. 15.09.2001-06.01.2002), Milano,Skira, 2001, p. 41) Gli studi di fisiognomica influenzarono artisti del Cinquecento - come Sofonisba Anguissola (Fanciullo morso da un gambero) e Fede Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) - nell'interpretazione dell'emotività del soggetto ritratto.  Il principale esponente della fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Johann Kaspar Lavater (1741 - 1801) che fu amico, per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu pubblicato per la prima volta in tedesco nel 1772 e divenne subito popolare. Venne poi tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli scritti di Giambattista della Porta (1535 - 1615) e del fisico e filosofo inglese Thomas Browne (1605 - 1682) del quale lesse e apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del viso:  «(...)nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima (...).»  (R.M., parte 2:2) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera Christian Morals (1675circa):  «Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica...»  (C.M., Parte 2, sezione 9) A Thomas Browne è accreditato l'uso della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini illustrativi l'insegnamento della fisiognomica.  Browne possedeva alcuni scritti di Giambattista della Porta tra cui Della celeste fisionomia[5][6] nel quale egli sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia (1586) [7][8][9][10] Porta usò delle xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Thomas Browne ed entrambi erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative o firme delle loro proprietà medicamentose.  La popolarità della fisiognomica, nonostante precursori come Marin Cureau de La Chambre nel XVII secolo, crebbe soprattutto durante il XVIII e XIX secolo. Trovò in particolare nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano Cesare Lombroso, il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e pertanto non educabile con la sola pena detentiva.  La fisiognomica influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri europei tra i quali Honoré de Balzac; nel frattempo la 'Norwich connection' alla fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Amelia Opie e del viaggiatore e linguista George Borrow, inoltre fra molti romanzieri inglesi del XIX secolo si diffuse l'uso di passaggi molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare Charles Dickens, Thomas Hardy e Charlotte Brontë.  Nel XX secolo questa dottrina è stata da più parti tirata in campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza.  La frenologia era pure considerata fisiognomica. Fu creata intorno al 1800 dai fisici tedeschi Franz Joseph Gall e Johann Spurzheim e si diffuse nel corso del XIX secolo in Europa e negli Stati Uniti.  In sostanza la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi alla antropologia criminale di Cesare Lombroso). Essa infatti è proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista Dario David (La vera storia del cranio di Pulcinella: le ragioni di Lombroso e le verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia, tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare comportamento e sembianza.  Benedict LustModifica Per Benedict Lust questa scienza non aveva nulla di pseudo-scientifico; egli aveva osservato, per il rigoroso metodo naturopatico che sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambiava anche in volto. Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventava più "snello": il doppio mento scompariva, tornava a vedersi il collo in quei volti che prima lo avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni casi erano più folti.  Per tutto questo cominciò a sviluppare un sistema di diagnosi "all'inverso", ossia: se le modificazioni, una volta che la gente guariva da un determinato male erano costanti, allora significava anche che, quando e quanto più quelle caratteristiche facciali "sintomatiche" erano presenti in una persona, tanto più la persona era anche affetta da quel determinato "male" specifico di cui le alterazioni nel viso erano soltanto un sintomo.  NoteModifica ^ Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1981, alla voce corrispondente. ^ fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De Agostini. ^ Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" ^ Aulo Gellio, Noctes Atticae, I, 9, 1 ^ ( LA ) Giovanni Battista Della Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella (a cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, vol. 1, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996. ^ Alfonso Paolella, G.B. Della Porta e l'astrologia: la Coelestis Physiognomonia, in M. Montanile (a cura di), Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del teatro e l'opera di G.B. Della Porta", Salerno, 23 maggio 2002, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, 2004, pp. 19-42. ^ Giovanni Battista Della Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia dell'uomo libri sei, in Alfonso Paolella (a cura di), Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2011/2013. ^ Alfonso Paolella, L’autore delle illustrazioni delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche, in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in Giovan Battista Della Porta (1535-1615)", Pisa-Roma, Fabrizio Serra Editore,, 2015, pp. 81-94. ^ ( DE ) Alfonso Paolella, La fisiognomica di G.B. Della Porta e la sua influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Giovan Battista Della Porta nel IV Centenario della morte (1535-1615)", Piano di Sorrento, 27 febbraio 2015,, Roma, ed. Scienze e Lettere,, 2015, pp. 43-62. ^ ( DE ) Alfonso Paolella, Die Physiognomonie von Della Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz 18 (2008), "Zeitschrift der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst. Wege und Motive der Rezeption von Giovan Battista Della Porta in Europa - Akten der 17. Tagung der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie Zeller und Laura Balbiani, 2008, pp. 137-152. Voci correlate                                     Modifica Bruno Lüdke, la più celebre vittima della Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia, applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua. DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su fisiognomica Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su fisiognomica Collegamenti esterni Modifica ( EN ) Fisiognomica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                           Thesaurus BNCF 6948 · LCCN( EN ) sh85101673 · GND ( DE ) 4128352-1 ·BNF ( FR ) cb12159619w (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007546011105171 (topic)   Portale Antropologia   Portale Sociologia Ultima modifica 5 mesi fa di Equoreo PAGINE CORRELATE Frenologia teoria pseudoscientifica  Johann Kaspar Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero  Giovanni Battista Della Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano  Wikipedia Il  Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Modifica Il nudo eroico o nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un Eroe.   L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica (800-480 a.C.) ed in seguito adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.   Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente[2].  Dopo essere scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal corpo umano maschile nudo. Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo questa metafora ha rappresentato la perfetta raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare il più alto status esistenziale[4].  Riapparso con grande vigore soprattutto durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi tra i tanti)[5][6][7][8].   Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale romano.   Statua eroica di un generale romano con la testa di Augusto (I secolo .C.), al museo del Louvre.   Statura romana con la testa di Marco Claudio Marcello(I secolo, da un prototipo greco del V secolo a.C.).   Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore (1802-1806) di Antonio Canova, all'Apsley House a Londra.  StoriaModifica  Leonida alle Termopili (1814) di Jacques-Louis David. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità.  Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese del 240 a.C. La nudità maschile era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di corsa durante la V olimpiade (720 a.C.) il quale a metà percorso si liberò della fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti[5].  La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione, la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi kouroiarcaici[9].  Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo[5].  NoteModifica ^ Trajanic woman as Venus (Capitoline Museums) ( JPG ), su indiana.edu, Indiana University. ^ Hallett, 2005, pag. 10. ^ Jean Sorabella, "The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of Art, 2000. ^ J. Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English and French Sculptural Works, Ph.D. NewYork University, 1974, pagg. 297-310. ^ a b c Nigel Spivey, Greek Sculpture, Cambridge University Press, 2013, pp. 133-148, ISBN 978-0-521-75698-3. ^ R. Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art", in Gender & History, vol. 9, n. 3, 1997, pp. 504-528. ^ Tom Stevenson, "The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in Greece and Rome, XLV, 1998, p. 1. ^ Jane Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in Antiquity, Routledge, 2002, pp. 200-201, ISBN 0-415-13584-2. ^ Larissa Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University Press, 2003   [1975] , pp. 20; 102, ISBN 0-8018-1640-8, SBN IT\ICCU\MIL\0633135. BibliografiaModifica Christopher H. Hallett, The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary 200 B.C.-A.D. 300, Oxford University Press, 2005, ISBN 978-0-19-924049-4. Jesse Casana, The Problem with Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of Archaeology, vol. 111, n. 1, 2007, pp. 35–60, DOI:10.3764/aja.111.1.35, ISSN 0002-9114 (WC · ACNP). Robin Osborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in Gender & History, vol. 9, n. 3, 1997, pp. 504–528, DOI:10.1111/1468-0424.00037, ISSN 0953-5233 (WC · ACNP). Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece & Rome, 2, vol. 45, n. 1, Cambridge University Press, aprile 1998, pp. 45–69, JSTOR 643207. Voci correlateModifica Nudo artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico   Portale Arte: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di InternetArchiveBot PAGINE CORRELATE Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle varie culture verso la nudità  Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh opposed!”  Franco Fergnani. Fergnani. Keywords: il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fergnani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51762395305/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrabino – la terza Roma – la base mitologica di Latino -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo.  Grice: “I like Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian – and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon!”  “Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto.” Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compì il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrisse a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore fu Graf. Verso il terzo anno iniziò a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di Sanctis, sotto il quale si laurea con “Kalypso”. Insegnò a a Torino, Palermo, Napoli, e Padova. Fu rettore dell'Ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la prima moglie Mercedes, Ferrabino concluse il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabilì a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella di Assisi" diventando grande amico di Rossi, fondatore di “Pro Civitate Christiana” e “La Rocca”. Ad Assisi, Ferrabino prese l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la Democrazia Cristiana e rimase al Senato. Divenne presidente della Enciclopedia Italiana, incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico.  Era stato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore delle Accademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il presidente.  Divenne corrispondente dell'Accademia del Lincei e corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica.  Presidente della Società Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Vincenzo Cappelletti, fonda "Il Veltro".  Pubblica sull'Italia romana, l'età dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: “Calisso: la storia di un mito” (Bocca, Torino) – with a  section on the myth among the Latins, and a later section on the treatment by Roman authors, “Arato di Sicione e l'idea federale” (Le Monnier, Firenze); “L'impero ateniese” – note that it’s Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather than Washington empire – “La dissoluzione della libertà nella Grecia antica” (Milani, Padova); “L'Italia romana” (Mondadori, Milano); “Giulio Cesare” (Unione Tipografica, Edizione Torinese); “La vocazione umana”  (Nuova Edizione Ivrea, Ivrea); “L'esperienza Cristiana” (Libreria Draghi, Padova); “Le speranze immortali” (Casa Editrice Società per Azioni, Padova); “Trilogia del Cristo” (Casa editrice Le tre venezie); “Adamo” (Morcelliana, Brescia); “Le vie della storia romana” (Sansoni, Firenze, “Rivelazione e cultura” (La Scuola, Brescia); “Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo” (Edizioni Pro Civitate Christiana, Assisi); “L'essenza del Romanesimo” (Tumminelli, Roma); “L'inno del Simposio di S. Metodio Martire” (G. Giappichelli, Torino); “Storia di Roma” (Tumminelli, Roma); “La filosofia della storia” (G. C. Sansoni); “Trasfigurazioni” (Aldo Martello, Milano); “Pagine italiane,  Il Veltro, Roma); “Misticamente” (Stamperia Valdonega, Verona); “La bonifica benedettina” (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico Illustrato,  Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in  Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider, Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di S. Matteo) II: Il figlio di Dio (nella testimonianza di S. Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di S. Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani.  Roma era il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo [1849], trepido e quasi adorando. Per me, Roma era - ed è tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanità; da Roma escirà quando che sia la trasformazione religiosa che darà, per la terza volta, uni- tà morale all'Europa!. Così, nel 1864, Mazzini ricordava il proprio ingresso nella città poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ciò,ribadival'importanza cheRomaavevanellasuavisionepolitica, secondo la quale l'unità e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Po- polo, centro della nuova religione dell'umanità. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libertà e di repubblica. È indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Giuseppe Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torità moderatrice del pontefice»; inoltre il «primato» italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella Roma «cattolica e poqtificale» che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato così. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Federico Chabod - «Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medie- vale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o, ancor più su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della nazione italiana»2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende- va, in fondo, dalle peculiarità stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla tradizione cul- _.. turale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da Roma. L <<Rompaer me è l'Italia», scrisse Garibaldi nelle sue memorie3. E non diversamente pensava un democratico pur così lontano dal profetismomazzinianocomeCarloCattaneo.AncheCavourebbe a riconoscere quel nesso strettissimo, affermando nel famoso discor-. ì'- sodel25marzo1861che<<Romasoladeveesserelacapitaled'Ita- L. lia»4.Dopo la spedizione tentata da Garibaldi nel 1862, <<Romao Cmorte» divenne la ~arola .d'~rdine de~~e~~~~E~.!:!c~i),I~trog~)Verni che parevano loro dimentichi àel comploo-supremodi riCongIunge- re la città all'Italia. Gli uomini della Destra, in realtà, eranoimpe- gnati ad affrontare le grandi e gravi questioni legate alla costruzione del nuovo Stato e, per la soluzione del problema di Roma, confida- vano soprattutto nel formarsi di condizioni internazionali favorevo- li (ciò che avvenne appunto nel 1870). Anche i moderati tuttavia, benché estranei alla concezione eroicizzante della politica comune a tanta parte della Sinistra, erano partecipi a modo loro del mito di Roma. La presenza nell'Urbe, in quanto centro della cattolicità, di un'idea universale induceva infatti, nei democratici come nei mode- rati, la convinzione che da Roma italiana avrebbe dovuto irradiarsi ~- 2F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, Laterza, 1965, p. 234. J Cito in P. Treves, Videa di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano- Napoli, Ricciardi, 1962, p. 78. 4 C. Benso di Cavour, Discorsi parlamentari, a cura di D. Cantimori, Torino, Einaudi, 1962, p. 224. TIfascino dell'idea di Roma andava ben oltre l'area di influenza del mazzinianesimo. Si irradiava infatti anche negli ambienti neoguelfi,sullasciadelgiobertianoPrimatomoraleeciviledegliIta- liani, del 1843. Certo, quest'opera si collocavaper molti aspetti agli antipodi del disegno mazziniano: contro l'idea di ridurre l'Italif-lad un unico Stato Gioberti proponeva una confederazione «sotloTiìu- '." l G. Mazzini, Note autobiografiche, Milano, Rizzoli, 1986, p. 382. . " 'I I I   ~messa~&!o anch'esso universale: la nuova religione dell'umanità f p r MazzInl,la libertà religiosa (cioè la separazione tra Stato e Chie- sa) per molti esponenti della Destra, oppure il trionfo dd libero pensiero e della scienza sulle rovine dell'«oscurantismo clericale», secondo quanto auspicavano soprattutto gli esponenti della Sini- stra5. I sogni d'una missione che la nuova Roma ayrebb~ ~ovuto an- vunciareàl-morido-stndèvano'piùes'eÌnéntecon1a reaIiJiai uno"Sfa- to'debole e arretrato, e di modesta caratura internazionale. Così il mito mazziniano della terza Roma si dissolse presto, e analoga sorte toccò alle speranze di un rinnovamento religioso che si irradiasse dalla nuova capitale o alla visione di una missione di Roma quale centrouniversalediscienza.Tuttavia,Romaavevarappresentato un «mito animatore» dd Ri~rgimento (secondo una definizitJhe di Gioacchino Volpe)6,era ormai troppo connessa con l'idea italiana, perché i fantasmi romani, tanto lungamente evocati, potessero dav- vero dileguarsi. L'invito, che pure qualcuno formulò, a «dimentica- re il passato» dovevadunque rimanere disatteso, e il richiamo a Roma avrebbe influenzato a lungo il modo in cui gli italiani consideravano se stessi e il proprio paese. i I Ii I I i I l I ! I j j ! ~ j guerriera e con,qui~tatrice,cara soprattutto ai nazionalisti, sensibili .per parte loro anChe al fascino che emanava dalla Roma cristiana, alla.Roma laica e anticlericale cdebrata da democratici e massoni nei' cotilizi dd 20 settembre. Ma proprio questo è una conferma dellapervasivitàdd tema,dellasuaineliminabilitàdaldiscorsopub- blico dell'epoca. Ciò non toglie che nelle evocazionidd mito di Roma (e di molteplici e diversi miti, anzi) ci fosse molto artificio e un sen- tore, spesso, di imparaticcio ginnasiale;questo non dipendeva però - come a molti è sembrato - da una co!maturata propensione degli italiani agli eroismi verbali e alla retorica magniloquente, ben- sì dall~particolare storia dd nostro paeserlSenzagli ideali «romanh> non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; <<ma,probabilmente - osservava Rosario Romeo-, non ci sarebbe stata neppure l'Italia»8. La permanenza e diffusione dei miti romani dipese anche dal- l'insegnamento di una scuola che fu in larga misura di impronta carducciana. Carducci, infatti, ebbe un ruolo essenziale nd diffon- dere gli ideali risorgimentali tra le nuove generazioni, ma anche, per ciò stesso, nd tener deste aspirazioni e mitologie romane che a que- gli ideali erano inscindibilmente connesse. Cdebrò la <,deaRoma» in tanti versi famosi, mandati a memoria da generazioni di italiani; !masoprattutto alimentòilriferimentQaRomacomebasediuncon- fronto tra la viltà dd presente, da un lato, e, dall' altro, l'antica gran- , dezza e l'eroismo «romano» degli uomini dd Risorgimento. In so- , stanza, Carducci tradusse e diffuse in poesia un giudizio formulato da Mazzini. Questi aveva stigmatizzato che l'Italia fosse andata in Roma «codardamente»; e il poeta, da parte sua, cantò l'epopea risibile dell'Italia che sale in Campidoglio tra lo starnazzare delle oche. Mazzini riservò parole di fuoco a un'Italia unita «corrotta in sul nascere e diseredata d'ogni missione», a uno Stato cui mancava «l'ali- to fecondatore di Dio, l'anima della Nazione»9.E Carducci fissò in versi assai noti 1'opposizione tra 1'aspirazioneitaliana a rinnovare la gloriadiRomaelarealtàmeschirtadiunanUOVB!lisanzio.Così,nd mito di Roma rivisitato da Carducci, si materializzavaun demento di fondo della cultura politica dell'Italia unita, una specie - po- tremmo dire - di bovarismo nazionale, c.onsistentenella difficoltà acommisurareimezziaifini,nd rimproverocostantedd sognoalla realtà, nella oscillazione perenne tra sentimenti di superiorità e un senso amaro di inadeguatezza. 8R Romeo, Vitadi Cavour,Bari, Laterza.1984, p. 5l7. 9M~, Note autobiografiche,cit., pp. 89 e 5-6 (da una lettera dell'agostd 1871). . Nell'ultimo tratto dell'Ottocento, cioè nell'epoca dell'impe- J, rialismo e deIcolonialismo, ~Q~~ venne invocata a giustificazione ! di un particolare diritto italiano all'espansione e della necessità che il..n.1JQv~'.Regengouagliassela grandezza dei suoi progenitori roma- ni. Questo, ad esempio, proclamò Crispi, che in gioventù era stato mazziniano. E in effetti di questo spostamento dd mito della terza Roma dalla emancipazione dei popoli alla espansione della propria nazione si trova qualche traccia già nell'ultimo Mazzini, che rilevava nd 1871come,nd <<motoinevitabilechechiamal'Europa aincivili- re le regioni Mricane», Tunisi dovesse spettare per contiguità geo- graficaall'Italia.«Esullecimedell'Adante- proseguiva- svento- lò la bandiera di Roma quando, rovesciata Cartagine, il Mediterra- neo si chiamò Mare nostro. Fummo padroni, fino al V secolo, di tutta quella regione. Oggi i Francesi l'adocchiano e l'avranno tra non molto se noi non l'abbiamo»7. Certamente, nell'Italia liberale i riferimenti a Roma ebbero vari, e spesso opposti significati:si andava dalla cdebrazione dell'Urbe .( I , Su tutto ciò resta fondamentale Chabod, Stona della poli#ca estera italiana, . ciL 7 G. Mazzini, Politica internazionale, in Scritti editi ed inea#hImollt, 1941, voI. XCII, pp. 167-168. 6G.Volpe,ItaliamodernaF,irenze,Sansoni,1973,voI.I,p.26.... .-."', "... Galeati.  Wikipedia Ricerca Terza Roma concetto storico Lingua Segui Modifica Terza Roma o Nuova Roma è un'espressione che ha due accezioni.   Aquila bicipite, stemma imperiale dell'Impero Romano d'Oriente. Si può riferire alla città russa di Mosca, intendendo in questo caso per «prima Roma» l'antica capitaledell'Impero Romano e per «seconda Roma» la città di Costantinopoli, oggi Istanbul, ex-capitale dell'Impero Bizantino o Impero Romano d'Oriente.  Per «Terza Roma» ci si può riferire anche alla terza epoca della città di Roma: quella in cui assolve il ruolo di capitale d'Italia, seguita alle prime due epoche, quella della Roma dei Cesari e quella della Roma dei papi.  Uso del termine per Mosca                     Uso del termine in Italia                                        Modifica L'espressione «Terza Roma» venne usata anche da Giuseppe Mazzini durante il Risorgimento italianoriferendosi al superamento sia della Roma antica sia della «Roma dei papi»: la terza epoca della storia di Roma avrebbe dovuto essere contraddistinta dai nuovi ideali patriottici di libertà e uguaglianza con cui fare da modello all'Italia e all'Europa intera.[1]  L'ideale mazziniano sarà ripreso in epoca fascista e riadattato da diversi esponenti del regime come Enrico Corradini, che interpretarono la Terza Roma come l'avvento di una nuova civiltà.[1][2]  Lo stesso Mussolini, in un discorso pronunciato il 31 dicembre 1925 in Campidoglio, profetizzava una nuova era per Roma che avrebbe visto il territorio dell'Urbe espandersi fino ad approdare a uno sbocco sul mare.[3]  Una lunga citazione del suo discorso venne scolpita su una facciata del Palazzo degli Uffici all'Eur realizzato su progetto dell'architetto Gaetano Minucci:   «La Terza Roma si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno»  La costruzione del quartiere dell'Eur nel 1942 avrebbe appunto rappresentato il primo passo in questa direzione.[4]   Iscrizione sul Palazzo alle Fontane nel quartiere EUR di Roma Note                                     Modifica ^ a b Fusatoshi Fujisawa, La terza Roma. Dal Risorgimento al Fascismo, Tokyo, 2001. ^ Parallelamente in Germania si stava affermando il cosiddetto Terzo Reich. ^ Discorso pronunciato in Campidoglio per l'insediamento del primo Governatore di Roma il 31 dicembre 1925. ^ AA.VV., E42. Utopia e scenario del regime, Venezia, Cataloghi Marsilio, 1987. Voci correlate                                    Modifica Antica Roma Costantinopoli Mosca (Russia) Storia di Roma Collegamenti esterni                          Modifica ( EN ) Terza Roma, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                            GND ( DE ) 4207361-3   Portale Italia   Portale Russia   Portale Storia Ultima modifica 3 giorni fa di LittleWhites PAGINE CORRELATE Costantinopoli capitale dell'Impero romano d'Oriente  Milion Successione dell'Impero romano Wikipedia Il contenuto  Pl€°Ifl      ffRMBIKOjI.   KflLYPSO     % H. ^'     l'.^^>^>M-     Z%!^-'^^J1     'V, j^i;»-'     AL bO FLRRABI MO   Kf\\ypso      PIC^ BIBLIOTtCB     S?254     bi SCIENZE nODLRME  r"i'BOCCB EDIT.     Digitized by the Internet Archive   in 2011 with funding from   University of Toronto     http://www.archive.org/details/kalypsosaggiodunOOferr     KALYPSO     ALDO FERRABINO     KALYPSO     Saggio d'una Storia del Mito      TORINO  FRATELLI BOCCA, EDITORI   MILANO - BOMA  1914     PROPRIETÀ LETTERARIA     yti      779987     Torino — Tipografia Vincenzo Bona (12496).     A MERCEDE PALLI KALYPSO     LIBRO I. — STORIA.   Capitolo I. La storia del mito . . . pag. 3-37  È necessaria e legittima, 3 — Il suo triplice valore, 8   — Caratteri, 18 — Il genio mitopeico, 23 — Ka-  lypso, 36.   Capitolo II. Andromeda pag. 39-107   Prima di Euripide, 39 — Euripide, 58 — Dopo Eu-  ripide, 89.   Capitolo III. La Demetra d'Enna . . pag. 109-157  Il mito siculo, 109 — Il mito greco, 118 — Il mito  siracusano, 127 — Il mito contaminato, 135.   Capitolo IV. L'abigeato di Caco . . pag. 159-206  Presso gli Indiani e i Greci, 159 — Presso i Latini,  170. — I poeti, 183 — Gli storici, 197 — I razio-  nalisti, 201.   Capitolo V. Cirene mitica pag. 207-255   11 sostrato storico, 207 — L' " Eea , di Cirene e d'Ari-  steo, 210 — Cirene in Tessaglia, 218 — Cirene in  Libia, 228 — Euripilo ed Eufemo, 233 — Gli Eufe-  midi e Batto, 248 — Conchiusione, 254.   Capitolo VI. Kalypso pag. 257-318   L'intuizione mitica, 257 — Le manifestazioni mitiche,  267 — L'evoluzione della mitopeja letteraria, 284   — Il flusso e riflusso delle saghe, 301 — La fine, 308.     vili INDICE     LIBRO IL - INDAGINE.   Avvertenza pag. 321   Capitolo I. Andromeda „ 323-369   Il racconto di Ferecide, 323 — Perseo, 326 — Acrisie,  Preto, Polidette, Ditti, 328 — Atena e la Gorgone  Medusa, 338 — Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341 — I  miti etimologici presso Erodoto (VII 61) ed EU ani co  (frr. 159. 160), 356 — I frammenti dell'* Andromeda „  di Euripide, 358 — Euripide nel 412, 368.   Capitolo II. Il culto di Demetra inEnnajart*;. 371-395   La questione , 371 — I caratteri del culto ennense   nell'età storica, 372 — Il primitivo probabile nucleo   siculo, 378 — Le versioni greche del nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — nitto di Kora, 386.   Capitolo III. L'abigeato di Caco . . 2>('£l- 397-420  11 problema, 397 — Il valore del mito indiano, 399  — Vergilio e Ovidio ; Properzio, 401 — Livio e Dio-  nisio, 405 — 1 particolari etiologici del culto, 407  Gli eruditi, 412 — Conchiusione, 420.   Capitolo IV. Cirene mitica pag. 421-448   Bibliografia e metodo, 421 — La ninfa Cirene, 422 —  Apollo Carneo, 427 — Aristeo, 428 — La ricostru-  zione dell'Eea di Cirene, 430 — Euripilo ed Eu-  femo, 434 — Gli Argonauti in Libia, 442 — Calli-  maco e il mito di Cirene, 446 — Esegesi novis-  sima, 448.     LIBRO I   STORIA     A. Ferrabino, Kalypso.     CAPITOLO I.  La Storia del Mito.     I, — È necessaria e legittima.   Non esatta, anzi può dirsi fallace la nozione  del mito che è più diffusa. Andromeda, esposta  su lo scoglio al mostro marino ; la ninfa Cirene,  domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da  Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza di  Ercole piegò annientandolo (1) : tali persone e  vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso  noi nome di Mitologia greca e latina, inducono,  ciascuna, al pensiero un racconto, non pur defi-  nito ne' termini e preciso ne' particolari , ma  costante nel contenuto, si da valere (usando  espressioni proprie a fenomeni differenti) per     (1) Cfr. in questo voi. i cap. II, III, IV, V. E cosi ri-  spettivamente ogni volta chC;, nel testo, si allude a uno  fra questi quattro miti.     I. - LA STORIA DEL MITO     classico o canonico, da apparire quel mito. Né il  prevalente costume , a pari di molti, è senza  motivi : già che si ricollega per un lato ai modi  che, nel concepire ed esporre miti , tennero i  compilatori alessandrini, quando miti non più  s'inventavano, ma si raccoglievano in contesti  dotti, e a scopo di conservazione erudita cia-  scuno si ordinava secondo uno schema princi-  pale, ne' margini sol tanto apposte discrepanze  minori e facili a obliterarsi; si ricollega esso  costume per altro lato al vezzo, — malo quanto  diffuso, suffragato dall'ignoranza, — pel quale  la saga chiude in sé una sostanza di verità, in  ispecie storica; si che, la verità non potendo  esser che singola, unico similmente sarebbe l'in-  treccio della fiaba onde è compresa. Ora, poiché  i criterii de' gramatici alessandrini, vissuti negli  ultimi tre secoli avanti Cristo, in nessun modo  possono essere più i nostri; e né meno è più  nostra, per ciò che non sodisfa la riflessione  né il senso storico, una tanto facile fede nella  veridicità del racconto mitologico ; bisogna riso-  lutamente farsi a considerare qual via possa  divenire la buona non che la nuova.   Sùbito sgombra la mente di assai equivoci e  di troppe astrazioni il porre, con precisione sto-  rica, i materiali grezzi della mitologia. // mito  di Cirene, — dimostrano questi, — non esiste :  meglio, esiste bensì, ma soltanto dopo le odi  pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno  di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscri-  zione di Rodi; dopo ciò, e dopo tutto che è an-  dato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e  che di conseguenza ignoriamo. In altre parole,     E NECESSARIA E LEGITTIMA     l'indagine concreta non conosce se non un com-  plesso di componimenti letterarii, manufatti ar-  tistici, riti cultuali ; e sente entro ciascun compo-  nimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in sé  e per sé, il mito. All'infuori, questo può tuttavia  sussistere; e per vero in due modi. risulta da  quelli, sia per ordinata compilazione, sia per  alterazion fantastica ; ma è allora diverso e  nuovo, un altro mito a pena affine a qualunque  l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii  componimenti manufatti culti e spiega i singoli  stadii e i singoli trapassi; ma in tal caso è di-  venuto, non la forma canonica o classica, bensì  la storia di quel mito. Conchiudendo : l'artista  moderno clie ci ripete una fra le molteplici  fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie  .di vicende, cui sottostò quella fiaba già nel pas-  sato; egli, insomma, elabora una fiaba nuova,  la quale può essere per certe analogie di casi e  identità di nomi avvicinata a talune antiche  meglio che ad altre, ma non diviene per questo  la fiaba di  quei nomi e di quei casi: questa in  qualclie modo ci dà, solo, lo storico , compren-  dendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze  della favola e organandole geneticamente ed  evolutivamente. Chi vuole il mito di Andromeda,  ne legga la storia. Se non che, ond'è nato il concetto di racconti  principi nella mitologia pagana? Da due radici:  un fatto, e una tendenza. — Riandando storie di  miti accade di avvertire, chi anche sia grosso-  lano osservatore, quale e quanta rete di interessi  politici, di orgogli civici, di odii regionali, di  vanti principeschi, di rivalità religiose, ricopra,     I. - LA STORIA DEL MITO     musco boschivo, il crescente tronco della leg-  genda. Indi, la preferenza decisa vien concessa,  in certo luogo e in certo momento, a quella tra le  forme esprimenti la saga, la qual contenga il  particolare simpatico, 1' aneddoto favorevole, o  (che basta) si atteggi nella luce che più appaga.  Un fine pratico, per conseguenza, può canoniz-  zare i miti. altre volte, V ala d' un poeta, la  vigoria d'uno storico. 0, infine, il piti fortuito  caso. — Sempre, tuttavia, a canto di questa pre-  minenza d'una fra le forme mitiche, valse a  traviare il pensiero, l'abito, ch'è talora il vezzo,  dell'astrazione, sovente inopportuna. E perché,  comparati tra loro diversi racconti d'una saga,  parte coincidevano, e pareva il più, parte dif-  ferivano, e sembrava il meno ; si ritenne lecito  prescinder dalle differenze per insistere su le  coincidenze ; e di queste costituire la saga, e  quelle giustaporre in guisa di " varianti „ se-  condarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque  testi di cinque autori intorno alle vicende, po-  niamo, di Cora, legittimavano la creazione ar-  bitraria d'un fittizio mito di Cora. G-rossolano  errore contrassegnato di superficialità. Difatti,  oltre le minori discrepanze notate, pure sotto le  uguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii  testi alcunché, men ponderabile forse, ma al-  trettanto reale: la complessiva intonazione del  racconto. Il paesaggio medesimo, certo; ma in-  combente la luce di tramutati Soli. L'artificio  è cosi palese che stupisce potesse ingannare e  diffondersi. E pure condusse più oltre : a fìngere,  dopo il mito di ciascun personaggio, il mito in  sé, quasi ente separato, capace di influssi attivi     E NECESSARIA E LEGITTIMA     e passivi ; senza che divenisse tosto palese, come  cotesto ente non sussista se non col suo predeces-  sore logico; come quest'ultimo sorga da una  contaminazione di varie forme letterarie arti-  stiche cultuali; come quindi uniche esse forme  costituiscano la realtà da pensarsi e studiarsi.  Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per  asserire (e lo asserimmo dianzi) che conoscerle  significa giustificarne le vicende.   Ossia : per affermare che solo storicamente si  può conoscere il mito. Ma dopo tale asserto, e  dopo scoperti i motivi reconditi dell' equivoco  consueto, rimane ancor dubbio, se o no sia legit-  tima la storia del mito. Difatti chi sa di aver  innanzi espressioni multiformi, cui f uron mezzo  le più disparate materie, dalla parola al colore,  dal bronzo al gesto sacerdotale, può sospettare  a ragione che trasceglier quelle espressioni, con-  netterle in serie, narrarle in istoria debba ac-  cadere per nessi, non intimi, ma estrinseci : per  identità di nomi di figure d' imprese ; mentre  tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, carat-  teri cosi mutati di ambiente, sembrerebbero per-  mettere, o comandare, la distinzion pili recisa.  Sospetto lecito, questo ; ma specioso. — Non im-  porta che certa temperie (dico, ad esempio, l'e-  poca di Augusto, o il magistero di Ovidio) ac-  costi molto fra loro due saghe di soggetto diverso;  là dove lontananza d'anni e di spazii separan  spesso saghe dell'identico soggetto. Ciò vale, o ci  ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di  Ovidio, e del posto che la mitologia prende in  quella o presso questo. Ma è d'altra parte irre-  cusabile che ciascuna espressione di un mito,     I. - LA STORIA DEL MITO     in qualsivoglia materia avvenga, è stretta alle  precedenti da un vincolo più profondo e più in-  timo che r argomento : le conosce, ciò è, e le  rielabora. Disposte quindi in serie cronologica  coteste espressioni, ciascuna è materia greggia  rispetto alle successive, ed è sintesi originale  (anche negativamente originale, si capisce) a  confronto con le anteriori. Ne segue che la storia  ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra :  essa, co' suoi criterii di tempi e di luoghi, con  tutti i sussidii di cui può valersi, riesce a co-  struirne quasi una genealogia ; della quale i rami  e i gradi son segnati da reciproci influssi più o  meno profondi, da modelli più o meno diversi,  sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. — Del  resto, il resultato medesimo o, se piace di più,  il medesimo soggetto di questa, che diciamo,  storia del mito ne legittima, dopo gli argomenti  or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a co-  struire sopra varianti forme favolose un indi-  viduo organico e definito : individuo ch'è, come  mostrammo, la leggenda.     II. — Il suo triplice valore.   Ma quali saran per essere i modi di tale istoria?  Il suo procedimento è chiaro. Raccolte (suppo-  niamo) le espressioni del racconto su Cirene  o su Cora, sia per notizie tramandate sia per  industria di congetture ne è, quasi sempre,  presto determinato l'ordine cronologico, se non  nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti.     IL SUO TRIPLICE VALORE     Solo di poi s'inizia un più arduo lavoro. Il pen-  siero, insomma, prende a conoscere quelle espres-  sioni: di ciascuna distingue prima gli elementi  costitutivi ; ciò sono i particolari della saga, e  quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che  episodi!: in sèguito, ne ravvisa la tempera, il  punto di veduta onde i particolari le scene gli  episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove  consiste o se esista la forza sintetica che i par-  ticolari le scene gli episodii trascelse, aggruppò,  fuse. Triplice processo: valevole come per un  carme, cosi per una pittura e, checché sembri,  per un culto. Giusta poi le risultanze di questa  nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in-  torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi  per sé, secondo nessi ed influssi, sino a costruire  lo schema delle lor geniture. — Allora lo scopo è  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra  specie di conoscenza si avvia: non più dubitosa,  qual si conviene alla ricerca, e faticosa di con-  troversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane  incerto è delimitato ; quel che può essere certo,  è posseduto ; si che le lacune e il ricolmo si di-  stinguono nette. Altrui giudizii su la materia  son superati con l'approvarli o respingerli o mo-  dificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale  lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine,  diviene poi quasi base ; e sovr' esso si erige, pei  suoi muri maestri nei suoi archi di commessione  co' suoi travi intelajati, 1' edificio definitivo. Il  mito ha la propria storia.   Il mito è, da questo momento, vera ricchezza  nello spirito nostro. — Si obietta che è acquisto  mal certo, però che sieno per pensarsi o seri-     10 I. - LA STORIA DEL MITO   versi ancora, nell'avvenire come nel passato, di  quella stessa leggenda storie molto o poco di-  verse con asserzioni contradittorie alle prece-  denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in  parte al difetto delle nostre fonti, mal perve-  nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla  discordia dei pensieri individuali. — Ma né l'una  né l'altra verità scema l'importanza dell'acquisto.  E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra-  mandate o è cosi fatta che impedisca la storia  o pure solo qua e colà la fiacca. Se l'impedisce  (e son taluni casi), il danno è davvero grave.  Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol-  teplici che non perseguiamo qui), la jattura può  variare di entità ma si riduce tutta, in ultimo,  al fenomeno comune della individuale memoria  e, traverso questa, della memoria collettiva; si  riduce, quindi, alla condizione imprescindibile  della nostra conoscenza intorno al passato. In se-  condo luogo, il differire degli storici intorno a una  saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes-  suno parere domma, prova insieme che ciascuna  è acquisizione viva a cui lo spirito muove libero  per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con  agile freschezza e cura non intermessa ; attesta  quindi di ciascuna l'importanza, assidua perchè  dinamica. — Nell'uno e nell'altro luogo, poi:  quello spirito che ha conosciuto la storia d'una  leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera  altrui, ferma con ciò duplice possesso; sia tra-  mutando in organismo il tutto insieme inorga-  nico delle fonti; sia impregnando della propria  essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto  armonia del discorde, e reso personale l'alieno.     IL SUO TRIPLICE VALORE 11   Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi è anche  materiato della più alta virtù di pensiero. Dura  come una fatica ; splende come una vittoria. Che  se di poi mutazioni intervengano e pentimenti,  non se ne scema, ma più tosto se ne innalza,  superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi-  nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non  immutabile, certo personale, in tutta la serie co-  nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon-  tane e disperse.   Il mito è, dunque, da quel punto viva ric-  chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare  tal verità, sottile è però discernere i valori di-  versi della conoscenza in quella guisa procurata.  Ma è necessario, per farla più conscia.   Lo storico si è, durante i successivi momenti  della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa.  Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno?  Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi  di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre-  tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ?  Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al-  l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-  rico e questi con loro, fin quando similmente a  ciascuno la materia si sublimi in arte. — Tuttavia,  in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in-  dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo  vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o  il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che  conoscono, verso la nuova espressione, che igno-  rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in-  telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla  loro espressione quanto dall'altre precedenti, e  quella conosce, e queste conosce del pari. Si che     12 I. - LA STORIA DEL MITO   là dove l'artista si trova di fronte a un che di  imprevisto, in cui l' impreveggibile è determi-  nato dalla potenza della sua energia creativa ;  per contro lo storico si trova sùbito a conoscere,  traverso l'opera compiuta, appunto quella po-  tenza dell'artista e può ponderarla e giudicarla.  L'effetto è che non solo egli si è identificato  con una delle espressioni nelle quali la saga  visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di pos-  sesso si conclude in giudizio. — Di più lo storico  non si considera pago né pur di questo giudizio  che già di per sé lo eleva sopra l'artista in-  tuente : vi avverte un valor m omentaneo e, te-  nendo l'occhio a ben più alto segno, vuole e può  assurgere a quell'intuizione sintetica della saga,  da cui appajono giustificate le intuizioni singole  degli stadii e delle forme come dallo scopo il  mezzo. Tale pregio, che è della storia del mito,  può quindi esser detto pregio intuitivo.   Ce n'è un secondo: scientifico. Non poche di-  scipline difatti van di continuo preparando al  pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera  sua: attinenti ai linguaggi dell' antichità, agli  scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui  sono attendibili, ai culti con le fogge che di-  vennero consuetudinarie, ai popoli con le cre-  denze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le  menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse,  quelle che cotesto discipline ci offrono, né tanto  meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono,  più tosto, formule in cui l'esperienze vannosi  condensando; consigli, che risparmino fatica in-  dividuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze.  Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti     IL SUO TBIPLICE VALORE 18   riferirsi, che è stolto trascurare, né si può senza  fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumu-  late lungo gli anni da tanti sforzi concordi,  convergono nella storia della leggenda; e quanto  più numerose, meglio l'afforzano, rassodandole  l'ossatura, e permettendole o promettendole con-  senso più vasto e interesse più vario. — Fra tutte,  precipue quelle in cui s'è tradotta la coscienza  dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleg-  giare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto.  Cento numi agresti si rinvengono fra cento po-  poli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'E-  quatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti,  le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo  insieme, vario concento sopra un ritmo unico:  che ogni gente reca il suo contributo. E cielo,  monti, acque silvestri marine lacustri, paschi  pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide,  biade che la zolla e il Sole indorano, notti il-  luni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori  delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fen-  diture del suolo : l'immenso respiro pànico, che  penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma  costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre  lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo.  Ond'è che son opere in cui questa varietà spe-  ciosa è ricercata con amore intento, disposta  con cura e scrupolo in chiaro ordine (1). Ivi     (1) Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische For-  schungen (Strasburg 1884); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn  1888); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V  Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau-     14 I. - LA STOBIA DEL MITO   molte leggende sono narrate, molte cerimonie  descritte, quelle che gli uomini dicono e com-  piono da quando sorge il lor Sole a quando tra-  monta, e quelle anche che la notte conosce. Ma  ivi nessuna leggenda vale per sé, nessun rito  pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,  tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individua-  zione, perché si vuole, badando al generale ed  al comune, conseguire identità spirituali contro  distanze di tempi di luoghi e differenze di forme.  Vi si fa propedeutica; non storia. — Cosi in altre  opere, le quali scaltriscono su gì' infingimenti  obliqui di interessate invenzioni che non è lieve  scoprire ; o vero su i traviamenti della intelli-  genza che tenta le cause del fenomeno ignoto,  ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste,  come un nome frainteso generasse talvolta un  popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come  Scaevola connesso con l'aggettivo che significa  " mancino „ determinò il racconto dell'intrepido  Muzio e della destra bruciata. Insegnano che  per dar ragione al nome di una città (Roma?)  s'inventò pari pari un eroe o un nume (Romolo?).  Spiegano che un culto greco fra culti romani  parve agli antichi giustificato col narrare qual-  mente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da  l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare  in classi i fatti; e creano alle classi fin la de-  nominazione discorrendo di " miti etimologici „  per i primi casi ; di " miti etiologici „ per l'ul-     DissiN Adonis und Esmun (Leipzig 1911); E. S. Haktland  The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6).     IL SUO TRIPLICE VALORE 15   timo (1). Tutti bisogna che lo storico sappia, per  sviscerare gli stadii della sua saga, senza equi-  voco grande né troppe dubbiezze. — Di tutti,  quindi, è conscia la storia di una leggenda. La  quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce de-  finita, si da impedir confusioni con altre pur si-  miglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con  le formule della propedeutica confermandole in  presso che ogni sua vicenda. Non che in tal  modo scemi la singolarità sua propria; e allora  perché farne storia? Né manco che non aggiunga  tal volta materia alla propedeutica medesima;  già che questa non è mai conchiusa, e di con-  tinuo si accresce, per l'appunto come la espe-  rienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi  la storia di un mito ha questo pregio scientifico:  mentre è impregnata, come più latamente può,  del sapere collettivo intorno alla propria ma-  teria; mentre è dissimile da quel sapere, ed esiste  per la sua dissimiglianza ; è pronta a contri-  buirvi con tutta sé medesima, per quanto con-  tiene di insolito, e per quanto riafferma del con-  sueto.  Terzo pregio è un altro, fors' anche maggiore.     (1) Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichità (To-  rino 1909) pagg. 319 sgg., ove in polemica è chiarito assai  bene anche con esempii il contenuto di quelle due deno-  minazioni. — Chi poi voglia avere rapidamente un'idea  su la vastità e gl'indirizzi dell'indagine mitologica può  per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente ras-  segna di 0. Gruppeìu " Jahresbericht tìber die Fortschritte  der klassischen Altertumswissenschaft „ Supplementband  CXXXVII (1908).     16 I. - LA STOEIA DEL MITO   Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jias-  sato e del presente. La saga è dell' uomo, nasce  di lui, or come nebbia da piani pigri, or come  da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano  durante un giorno, e le compongono varia bel-  lezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo  delle trasfigurazioni luminose come del soprav-  venir tenebroso, è secreto dello spirito umano.  Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi  piedi sul suolo tenace, e vede intorno a sé la  meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli  astri, purezze nivee e dentate di vette inviola-  bili, scompigli di chiome arboree nello squassar  dei vènti, rigidità delle rupi cui arcana opera  finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli  acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito  indicibile gli urta su la fronte le tempie, illu-  dendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza  ineffabile lo gitta prono nello stupore che pa-  venta ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che  con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli,  la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo  ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto  i muscoli e gli artigli della belva silvana, per  farla sua preda o imitarne il destro miracolo ;  e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improv-  vise forme che la natura plasma tra cielo e terra,  nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque,  ammira il volto del suo nimico o la violenza  della fiera. Appresso, su la prima trama esigua,  quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si  consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'in-  venzione originaria non si perde, ma, serbata  tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte     IL SUO TRIPLICE VALOEE 17   per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer  lento e difficile dei travagli clie martellano Fu-  manità nei secoli e le rodono il cuore invincibile.  Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri,  forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende,  s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,  rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri  dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca  le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia  onde si crea il diafano contesto verbale o si  plasma nella dura materia il moto o si finge l'an-  sito nel colore; e con lei genera creature d'ale  e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli  mostri e deformi. Far quindi la storia del mito  significa spremerne cotesto succo occulto, il quale  si mischia col nostro più profondo pensiero su  la vita e saggia le nostre idee sul bello sul  buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua  visione, e la forza della sua espressione, e il suo  lungo cammino. — Idee che costituiscono d'altro  lato lo scheletro stesso della storia d' un mito.  Del quale il trapasso di forme può venir conce-  pito geneticamente, l'una determinando l'altra ;  o staticamente, i nessi essendo privi di forza  generatrice; o in rapporto all'evolversi comples-  sivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui cia-  scuna dipende da una teoria filosofica. Persino  chi per orror metafisico mai abbia voluto im-  pacciarsi di problemi si fatti, porterà la sua av-  versione nella storia e ve ne lascerà i segni,  non giova dire di quale specie. Onde la cono-  scenza del mito di Caco o di Andromeda, pur  contenendosi nei termini di un limitatissimo fe-  nomeno, pur fermando nel pensiero una por-   A. Ferrabino, Kalypso. 2     18 I. - LA STORIA DEL MITO   zioncella minima del grande moto di cui tutto  il passato è pieno nella memoria degli anni,  tuttavia impegna con sé un'idea di quel moto  e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta.  Filosofìa : senza cui, il breve mito sarebbe assai  poco ; con cui, diviene moltissimo.     in. — Caratteri.   Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pen-  siamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia  gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare  sùbito qual sia la lega comune onde tanto com-  patto è il resultato. Ma lega si rivela l'intel-  letto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle  discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal  pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova  nella vita dellintuizione, quando vengono esposti  all'attrito della realtà testimoniata. — Di più  non può dirsi: che ha da restare intatto il mi-  stero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede  come larghissima parte della intelligenza vada  a imprimere la storia d'una semplice saga; come  quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva.  Né forse è detto ciò senza stupore di molti ;  perché prevale oggi il principio della oggetti-  vità storica, tanto che il riconoscimento del con-  trario nell'opera di chi che sia suona quasi a  rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a  cercarvi le parole della certezza assoluta, allet-  tandoli con un equivoco ch'è quasi una mistifi-  cazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel     CARATTEBI 19     racconto delle vicende storielle per cui un mito  si svolse sono le stimmate d'una personalità; né  solo, ma il valore di quel racconto è in queste  stimmate ; in quanto la personalità, non pure as-  somma, si anche fonde e ritempra, com'è neces-  sario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria  filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che  si riconoscono indispensabili alla costruzione  d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre,  dalla misura di esse cognizioni teoria potenza  e del loro commettersi, dalla misura, in breve,  della personalità medesima, è segnato il pregio  del contesto narrativo.   Dal qual evidentissimo principio si definisce  anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di  chi ha scritto. Non accettazione sùbita ; né re-  verenza ad autorità indiscussa : invece, ragione-  vole assenso, ora parziale ora totale, ora nei par-  ticolari ora nella sintesi. E sempre, al di là degli  uni e dell'altra, valutazione del pensiero che è  solo responsabile e che, scoprendosi con ardi-  tezza, accetta onestamente d'essere imputato.  Compito arduo, adunque, è il leggere non meno  che lo scrivere storie; si che può ben dirsi, che  quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo più,  solo per il lato si adempie che costituisce l'in-  teresse onde mosse la lettura ; e da quel lato  soltanto sogliono originarsi le censure, le più  modeste e le più burbanzose. E a volta a volta la  storia della saga di Cirene deve soddisfare le  pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato,  il gusto del contemplatore. Ora, affinché sia più  lieve a tutti costoro l'opera di critica rielabo-  ratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, al-     20 I. - LA STORIA DEL MITO   meno; non costumava cosi Tucidide, né Ma-  chiavelli ; con pena della moderna indagine)  mostra, in una qualunque parte del suo lavoro,  i mezzi di cui si è valso e le vie che ha seguite;  onde ne è pronto il riscontro (1).   Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto  della soggettività fin qui rilevata. Quando l'ar-  tefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera  propria ; allora, sopra le testimonianze e le for-  mule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan  concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si  cristallizzano in materia nuova su la materia  che vedemmo preesistere allo storico. Accade  perciò, da tal momento, che si possa misurare  quanto ciascuna individuazione sia piena di  realtà, cimentandola con tutti gli elementi, di-  venuti esteriori e concreti, di cui nella intimità  e fluidezza dello spirito creativo essa si era nu-  trita. Il critico, se è (fenomeno raro) compiuto,  vaglia, in qualità di scienziato di filosofo di  individuatore, tutti questi elementi, scissi prima,  organati poi; e valuta il pregio dei singoli e  della mischianza loro. Cosi, quel che fu già ema-  nazione viva d'una vivente persona; imponde-  rabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e  definito, per tanto, '' soggettivo „ : diventa pas-  sibile di metro, di scandaglio e di analisi; defi-  nito, per tanto, " oggettivo „.   Sempre, per opera dello storico la leggenda  assume la finitezza della persona e i caratteri  dell'organismo. Si scevera da l'altre: è quella.     (1) In questo volume ciò è fatto nel libro II: Indagine.     CARATTERI 21     una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio  e un termine, per conseguenza un culmine ; v'è  quindi un nascimento e un corrompimento, fra  cui si tocca la maturità. La storia d'una saga  sarebbe dunque una ^ storia catastrofica ,, e sul  suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar  la creatura morta, ma pretensiosa di balsa-  marla? (1). Si risponde: è catastrofica; già che  si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio  si compone : non è elegiaca ; però che, pur la-  mentando , se crede , la morte avvenuta, ne  indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pen-  siero senza stingerli col sentimento. Ma en-  trambe queste risposte esigono d'esser più am-  piamente delucidate.   Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto  io credo) che non solo è necessaria la storia  del mito per conoscer il mito, ma è in tutto  legittima, perché opera sopra un individuo pre-  ciso il quale ha una reale e non disconoscibile  esistenza. E. già sappiamo del pari che quell'in-  dividuo risulta da una serie di stadii, e ciascun  d'essi non può star solo, ma è in intima atti-  nenza coi precedenti e coi successivi. — Ora pos-  siamo specificare meglio : che ciascuno stadio  rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco  o di molto momento, vi è immancabile l'attività     (1) Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pro-  nuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti  dell'Acc. Pontaniana , XLIII (1913), a pag. 6 sgg. del-  l'estratto]. Egli muove, s' intende, dalla sua identifica-  zione della storia con la filosofia.     22 I. - LA STORIA DEL MITO   d'un artefice che ha segnato di sé medesimo,  con grande o con piccola impronta, la materia  leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta  speciali energie e del mito sviluppa potenze che  o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte.  Per conseguenza, astraendo si possono conside-  rare, in un qual siasi stadio leggendario, tre ele-  menti : la manifestazione, senza  cui non sa-  rebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii  anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di  qui, son possibili varie evenienze: o che a un  certo momento ogni manifestazione cessi, per  qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza  ancora negli spiriti e nel mito; o che la mani-  festazione appaja inadeguata alle precedenti e  per ciò monca e non bastevole ; o che, in fine,  l'energie dell'artefice apportino alla sostanza  della saga violenze che la rinneghino. Nel primo  caso, la catastrofe è sùbita e tronca un rigoglio;  nel secondo è preceduta da uno scadimento, che  la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la  vuole ; i quali due ultimi è evidente che debban  spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, è  sempre. E la storia, in quanto storia, deve nar-  rarla, come narrò il nascimento ; ed essere, ine-  vitabilmente, catastrofica.   Non è, dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza  dubbio, se lo spegnersi d'una luce non signifi-  casse, fra gli uomini che hanno assiduo il fer-  mentar delle forze nello spirito, l'accensione di  un'altra, di più altre, quasi pel ripetersi ardito  di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi  ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v'è  motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come     IL GENIO MITOPEICO 23   meglio, la distruzion del tutto. — Rimane, per  altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del  danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual  egli era stato concepito, quale gli artefici l'ave-  vano formato, ninna potenza terrena può ri-  crearlo indipendentemente: un individuo inso-  stituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo  perdiamo. Molte saghe venner create con bel-  l'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte,  non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni  dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacer-  dotali; non molte, poche divennero nell'epoca  del pili adulto pensiero classico, quando per con-  taminazioni la ricchezza del numero si fu as-  sottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova  morte sminuisce quella dovizia di una unità,  scema questa bellezza di grande efficacia : quel  che sottentra è copia e grazia dello spirito  umano, della mitopeja classica non più... Una  maggior individualità, dunque, è minacciata  dalle morti di questi minori individui mitici.  Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si  squassa.     IV. — Il genio mitopeico.   Quella individualità maggiore è oramai em-  brionalmente posseduta dal nostro pensiero.   Quando siasi letta la saga di Andromeda, e  poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora;  appresso, non si conoscono pure quattro vite di  saghe, come fossero di eroi o di santi o di sta-     24 I. - LA STORIA DEL MITO   tisti; ma è già vivo, se anche non maturo, nel-  l'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente  esperienza, rotti i termini entro cui si è for-  mata, tenta di organarsi in altro stampo, in-  frange l'intuizione del singolo per disporsi, in  che ? come ? Per la risposta, da principio ingan-  nano due parvenze, contradittorie nella forma,  entrambe erronee.   La prima parvenza è brevemente questa. Con  l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio  di quattro miti si possono perseguire due com-  piti differenti. Uno, più modesto, consiste nel  raccogliere tutti i fatti constatati durante lo  studio e nel disporli con altro criterio che il cro-  nologico e genetico : nel guardare, in breve, il  medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da  altro pimto di veduta. H secondo compito, in  vece, costringe a trascendere i limiti segnati  dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le  saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne  sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto  l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa  quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo  pratico ; come quelli che servono a concludere  ordinatamente sotto la specie di leggi (nel se-  condo caso) o di formule (nel primo) esperienze  compiute storicamente sotto la specie delFindi-  viduo. E sono , perché pratici , utilissimi ; né  giova, secondo piace a taluno, predicarli ride-  voli o in altro modo spregiarli. — Non mostrano,  tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il  nostro pensiero, elaborato che abbia un certo  numero di storie su fiabe. Non può esistere un  soggetto vivo cui attribuire quelle formule e     IL GENIO MITOPEICO 25   quelle leggi, si cke gli aderiscano come i carat-  teri all'uomo ; ond'è che ci appajono e le une e  le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbi-  trarie le formule, perché incardinate su criterii che  non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e  irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla  massa dei fatti storici ; e le leggi, perchè teme-  rariamente affermano più del conosciuto, impe-  gnando in sé, insieme con il già intuito, il non  mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realtà  viva onde germinano, incadaveriscono in freddo  schema e, come schema, lasciano straripare oltre  di sé e sfuggire sotto di sé la vita vera delle  quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando  tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi  affatto un intelletto veramente avido di sapere  concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora  insufficienti.   Fallita la prova di questa parvenza, l'altra  vediamo qual sia, e ]Derché non appaghi. Dove fu  avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca  nella nuova opera i miti, soggetti delle singole  storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea  uno difatti, f)ur che si astragga un poco come  suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spi-  rito, cui competano tutti i caratteri dei varii in-  telletti che influirono, di stadio in stadio, su  l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente  appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo  e fede, scettico scherno e dubbio religioso, pre-  occupazione sociale, sensualità voluttuosa e i)re-  giudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni  virtù in una sintesi superiore alle contradizioni  apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse.     26 I. - LA STORIA DEL MITO   esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i  quali si disporrebbero le sue energie e i suoi  attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile  di storia. — Ma l'artificio più palese l'ha origina to.  Difatti, mentre chi narra la storia di un mito  opera (vedemmo) su stadii, che sono di per sé  congiunti, e che senza nesso non sono né pure  compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece  e le energie di quel pseudo spirito vengono solo  per caso delimitati, avvicinati e graduati : già  che unico motivo per cui quel falso ente si af-  ferma con alcune qualità, e non altre, con alcune  vicende, e non altre, è la scelta, precedente-  mente fatta con criteri! estranei, di quattro miti,  e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli  attributi muterebbero numero, specie e succes-  sione. Segue, che è necessario guardarsi dall'in-  sistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si  voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e  svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi.  Vinto l'errore, la salute appare spontanea.  Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero  e non artificiato, intuibile dallo storico e sog-  getto vivo delle nostre esperienze anteriori, li-  mitate per qualità e per quantità. Ora, se è  (come dicemmo) arbitrario determinare un in-  dividuo mitopeico valevole per quattro miti,  perché è introdotto dal caso, ossia dalla nostra  anterior ricerca, il numero di quattro : soppri-  mendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un  reale individuo, allo spirito greco-romano in  quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei  Pagani: dinanzi, ciò è, a un che di esistito ef-  fettivamente, di certamente vivifìcabile, di indù-     IL GENIO MITOPBICO 27   bitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova  a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la  realtà proteiforme ; qui formule e leggi vanno  a confluire nella materia ignea , rimettendo di  lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incan-  descente. — E conquistato una volta questo certo  soggetto, si comprende d'un tratto come tutto  che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe  conosciute vale ed è esatto per il genio mito-  peico, ne è la storia ; è, sol tanto, incompiuto e  insufficiente : perché lembo di un tutto ; lembo  casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza  di questo tutto, ha importanza, dev'essere affer-  mato, e può assumere, esprimendosi, un tono  generale. La medesima sua incompiutezza poi  è solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre  alle quattro fiabe cónte altre assai sarebbero a  disposizione del pensiero che volesse conoscerle  in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico.  Non è, quando si avverta che, i)ur conoscendo  tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe  per noi sempre, dalle fortune del caso e dal de-  corso del tempo, privo di qualche sua saga, e  quindi scemo di talune energie, per guisa che  dovrà in ogni maniera venir intuito traverso  molte si ma non tutte le sue manifestazioni ;  non dissimilmente dall'indole degli uomini che  la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli  istituti che remoti echi ci tramandano irrego-  lari. — Quattro miti son dunque poco i3er pos-  sedere, nei suoi confini e nelle sue virtù, l'animo  leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro inse-  gnamento è certo, se bene incompiuto; insuffi-  ciente, non arbitrario.     28 I. - LA STORIA DETi MITO   Cosi le storie di quattro miti conducono alla  storia della mitopeja. — La quale pertanto non  può consistere nell'insieme inorganico di quelle  quattro singole storie, se si mantenga incom-  piuta, né, se voglia integrarsi, nell'insieme inor-  ganico delle storie su le varie saghe conosciute.  Tale è l'uso dei manuali; ed è uso degno del  nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la  esigenza di quella più larga istoria emergere a  punto dal succedersi (che è stimolo, dunque, non  sodisf acimento) di taluni racconti men larghi.  Come, per analogia, le biografie di cento indi-  vidui non souD la storia della nazione cui ap-  partengono, e che li comprende in sé e in sé li  distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe  non s'individuano che a patto di delimitar  volta per volta il total genio mitopeico in mar-  gini che non sono i suoi proprii. E a quel modo  che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se  non nella umanità ; il Mito non sviluppa tutte  le sue virtù se non se nella mitopeja. E tutte  non si conoscono, che spezzando in un testo più  ampio i termini in cui si conchiusero le cono-  scenze dei singoli. — Evidenza pari ha, o do-  vrebbe avere, un altro vero eh' è parallelo a  questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia  di un mito, nell'atto di mostrare come le mol-  teplici manifestazioni leggendarie potessero ag-  grupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e  le fondamentali vicende che accomunano ta-  lune fra esse ; disegnavasi pure , come possi-  bile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni  molteplici più tosto sotto le rubriche delle di-  verse epoche e dei differenti luoghi, per com-     IL GENIO MITOPEICO 29   porre, con criterio cronologico e geografico, la  storia della mitopeja pagana lungo i secoli e  traverso le regioni del mondo classico. Età per  età si vedrebbero gli spiriti, informati da quella  determinata temperie, intervenire su tutto il pa-  trimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue  predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue  attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale  opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito tem-  porale e regionale dei Gentili, come se sia stata  ristretta in taluni confini di paese o di momento,  è tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?  o pure, anche da essa deriva allo spirito un bi-  sogno più alto? Senza dubbio, un paragone  con l'insieme inorganico delle singole storie di  miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso  difatti v'è organicità : ogni epoca influendo su  la susseguente dopo che la precedente su essa  aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani  riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe  altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a  parte tal rilievo, è certo che il bisogno sussiste  tuttavia. Sopra le differenze più o men no-  tevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due  i casi la costanza con cui talune energie del-  l'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle,  influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor  patrio, il senso naturalistico e l'acume psicolo-  gico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale.  Colpisce che, come più si risalga nei secoli, meno  fra esse intervengono nella mitopeja, fin che  alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che,  come più si discenda nei secoli, non solo si ac-  crescono per numero ma quasi si succedono per     30 I. - LA STORIA DEL MITO   dignità, tramandandosi tal volta nel corso la  fiaccola, umanamente. Si comprende che son le  potenze del genio pagano in officio di mitopeja ;  s'indovina, entro la libertà delle manifestazioni,  cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti no-  minativi, un'armonia ch'è ancora imprecisa ma  merita indagine; e si desidera cercare questa  armonia e quelle potenze.   Concetti empirici, dunque, tali potenze? ar-  bitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi.  Il tono generico è solo esteriore ; nell'intimo, chi  ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indi-  care qualcosa di assai individuo e concreto : al-  tr' e tante energie spirituali che, in certi momenti  della storia, e in determinati punti della terra,  hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora  iridandola di sfumature, ora riardendola fin nel-  l'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e  solo per storia conoscibili. Le carità patrie di  Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dio-  nisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e  d'un latino : fatta breccia nei confini onde sto-  ricamente son racchiusi entro un'opera e un  temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un  l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le  differenze, quelli e queste ordinano in sintesi:  fino a divenire, in diverso contesto storico, la  carità patria, il razionalismo, la religione del  genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi  non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e in-  dividuato a un tempo. Generale, rispetto alle sin-  gole saghe: individuato, rispetto al genio mito-  peico. ,— Di che può aversi riprova. A quel modo  che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, Tinte-     IL GENIO MITOPEICO 31   resse più attento soverchia il cerchio breve del  palco ove poche persone son mosse in non molte  vicende, e tocca, al di là, la forza animatrice di  quel moto ; del pari, per l'interesse più attento,  anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide,  e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, com-  petono fin da principio , dopo che a Vergilio a  Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalità  pagana di cui son pregni, alla vita de' Grreco-  romani nella quale immersi son trascinati su-  bendo e reagendo, come massi che il fiume ha  composti e disgretola poi con la medesima forza.  Si che, a rigor di discorso, già i successivi stadii  d'un mito superano il mito, e si proiettano, in  altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone  non più affinità di nomi e di casi, ma di potenze  spmtuali.   Però a questa disposizione nuova manca tut-  tora l'ordine della successione : che è, anche,  l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non  può valerci più, adesso, il criterio cronologico :  atto bensì a graduare strati di leggende ; inetto  del tutto a decider, con certezza che non sia di  pallida congettura o non nasca da arbitrio di  pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza  delle sue acque nel mito prima che l' analisi  psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al  proposito, ogni saga darebbe una propria ri-  sposta, diversa secondo vicende casuali o neces-  sarie (1). Qualcuna persino mostrerebbe con-  temporanee le manifestazioni in apparenza più     (1) Sul valore di queste es^pressioni cfr. cap. VI Ka-  lypso § IV.     32 I. - LA STORIA DEL MITO   disparate o in sostanza più contradittorie. E, per  tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo  di vedere il genio mitopeico vivere, com'è d'ogni  individuo definito, evolvendo le sue speciali  energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espres-  sioni che ci richiamano senza dubbio alla sua  origine ; altre, che ci riportano quasi con cer-  tezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare  ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, com-  pararle o alle qualità originarie o agl i ultimi  corrompimenti. Ma perché più certe appajono le  prime, a esse la com[)arazione va riferita. E  tanto più si sente, allora, tarda (nell'essenza)  quell'energia che, acquisita allo spirito mito-  peico, più lo distorna dai suoi primi sogni : per  essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo  insieme, a una tappa nuova ; si che il momento  della conquista è ben paragonabile all'oscilla-  zione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.  Una storia compiuta dovrebbe però seguire il  mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il  punto in cui dopo la precedente essa confluisce  nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando  il modo del deformare. Una storia, per contro,  incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i  suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della  sua incompiutezza, col tratteggiare senza dise-  gnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due  vedrebbero , oltre l'assiduo rinnovellarsi delle  forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga  introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara  armonia del complessivo progresso geniale, le  cui pietre miliari hanno nome dalle potenze del-  l'animo e dalle forze del pensiero.     IL GENIO MITOPEICO 33   Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa  armonia, apparirebbe la constatazione che tutte  quasi le saghe, le quali la storia può scegliere  a suo oggetto, fanno testimonianza di sé di  fronte a noi, in lavori di arte letteraria e ma-  nuale o in riti di culto, quando oramai o per  intiero o in buona parte lo spirito onde sono  elaborate ha acquisito le sue virtù : pel che  quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi,  secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco  grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in  somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi  di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un di-  verso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che  non è senza evoluzione ma con evoluzione di-  versa dall'originaria. Condizioni di ambiente  fanno si che in una sola età, l'augustea, la leg-  genda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo  e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di  scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso  Dionisio ; ma, contro questa contemporaneità  cronologica, non esitiamo a proclamare più ve-  tusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo  della complessiva mitopeja. Tal certezza si con-  forta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde  appare VergiKo attingere a più antica sorgente  che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia  anche quando il riscontro non fosse possibile  per qual siasi motivo. Com'è del mito di An-  dromeda, il quale è già scaduto in un tentativo  di travestimento storico allor che Euripide lo  solleva al culmine della sua vita penetrandolo  di passione patria e di pensiero religioso. Crii è  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro   A. Feeeabino, Kalypao. 3     34 I. - LA STORIA DEL MITO   di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in  volta ne fa uso secondo richieggano sorti di-  verse. Spetta all'occliio dello storico separare,  caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio  acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba  sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori  di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo  nel progresso del genio mitopeico.   Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme,  per cui le figure si moltiplicano disponendosi  l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non iden-  tiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'in-  trecciano simiglianti e differenti ; e si dispon-  gono in racconti svariati, che ciascuno possiede,  quasi nome personale, una peculiare orma, né  confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dal-  l'arte, ha destino qualche volta non perituro.  La storia della mitopeja per contro diviene  scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza  creativa, la limitatezza fondamentale della ma-  nifestazione : il sottostrato di potenza definita,  di là dalla superficie delle creazioni che si tra-  mutano lungo serie senza termine e fogge senza  numero. — E né meno qui, in quest'altro ufficio,  essa si converte in scienza astraente e classifi-  cante. Quando vengono disegnate le vie che la  mitopeja trovò per le sue creature, si adoperano  certo concetti empirici e partizioni; quali fra  letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto,  per cui il filosofo userebbe termini ben diversi.  Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie  dei singoli miti, insieme con altri, e non impe-  discono che quelle storie concretino individui  ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro     IL GENIO MITOPBICO 35   presenza non può decidere senz'altro contro  la natura storica di un' opera. Difatti, ancor  questa di cui parliamo lata storia mitopeica  fonde leggi categorie e formule nello scoprire:  in primo luogo, i confini entro cui tutte le ma-  nifestazioni favolose son racchiuse; in secondo  luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte;  onde riesce a precisare una risposta a questo  problema, ch'è denso di realtà storica : con che  mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito  pagano mitopeico si manifesta ? — Il badile ed  il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le  pagine ove Tincruento travaglio campestre e la  sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci  e selvaggi.   Ma poi che questa diversa istoria del genio  mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle  sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi  compiuta, e non ancora conchiusa, riapparirà a  sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando,  senza sconforto, la fine della mitopeja pagana.  — Non senza rimpianto però, ch'è differente cosa.  Non vediamo pili Centauri scender galoppando  dai ventosi antri dei monti : né per noi ogni sera  il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri  marini e piegare tracotanza di violenti. Quella  cecità e questa negazione sono stati il prezzo  con cui pagammo altri spettacoli ed altre cer-  tezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore,  alla nostra avarizia di uomini, a questa cupi-  digia di opulenza spirituale.     36 I. - LA STORIA DEL MITO     V. — Kalypso.   Sin qui tentammo della mitopeja e della sua  storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che  si forma nella pratica degli studii e della vita,  e si rafforza di esigenze, estranee bensì alle  fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un  motivo interviene spesso a ridurre le indagini  e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol  tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei  confini della letteratura. Certo, il genio lette-  rario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere  immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con  l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia  concesso senz'altro esser la letteratura di gran  lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad  ogni diversa forma del significare le saghe (1).  Non cessa però che di queste ridurre la storia  nell'ambito di pur una fra le loro espressioni è  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente  riconoscendola, questa colpa è grave.   Né medicabile. Si può palliarla: come suole  lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla  storia civile e alla letteraria ; e cosi in reci-  proca guisa. In ispecie quando, per le lacune  che sono ampie e non rade nel pur ricco pa-  trimonio trasmessoci dagli antichi, uno o più  stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma  di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o di-     (1) Su ciò V. cap. VI Kalypso § II.     KALTPSO 37   pinti o in altro modo artisticamente lavorati  dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca  deve a forza integrarsi di quella sua parte che  un caso rende ben necessaria e come vitale. Con  simile pensiero è fatto ricorso alle notizie cul-  tuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fe-  deli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e  lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine  non è se non nell'intreccio del tutto ; e i rife-  rimenti, fìngendola, tradiscono il vuoto.   Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con  la incompiutezza cui limitate esperienze entro  esiguo numero di miti costringono il ritratto  del genio pagano facitore di saghe. Permane :  la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si  che non è pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal  volta. Onde avviene che dinanzi la storia insuf-  ficiente cosi della singola favola come della total  mitopeja antica , la nostra insoddisfazione si  cresce del diffìcile sforzo per rimanerne sgom-  bri. Tant'è: nell'isola ove piaceva a Kalypso di  amarlo, con promessa di rendergli " senza vec-  chiezza né morte per sempre „ la vita, Odisseo,  da la rupe a fronte del mare, piangeva la pa-  tria lontana.     CAPITOLO II.  Andromeda d).     I. — Prima di Euripide.   L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Eu-  ripide fece rappresentare in Atene una sua tra-  gedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva  materia un episodio del mito di Perseo. Ma se  l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la so-  stanza a nutrire la sua compagine, nell'opera  la saga viveva una vita altra da l'anteriore:  però che lunga già e complessa ne fosse stata,  innanzi, l'evoluzione.   Antichissimamente, negli anni cui corrispon-  dono, eco affievolita, i più vetusti canti della  epopea e poche mal certe tracce, una assai uber-     ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II  cap. I; di cui si citano i §§ nelle note successive.     40 II. - ANDBOMEDA     tosa terra di Grecia aveva fecondato di sé un  semplice racconto (1).   Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella  pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi,  di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico),  molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non  lontano da morte, egli era tuttora senza prole  maschile, unica essendogli nata una figlia a  nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua  schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi  l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,  non essergli per nascer maschi se non da Danae,  ma dovergli il nipote togliere e trono e vita.  Non fu vano il grave mònito; ed ogni cura fu  posta a che la vergine restasse dal generare,  contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,  riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo  che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle  tener celata, fu in vece scoperta e causò l'irosa  vendetta del re impaurito, il quale decretava  che la giovine e il neonato fossero, — come  Preto per altra parte fu, — cacciati, e derelitti  in balìa della violenta natura e delle intemperie.  Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e per-  vennero in Magnesia: ove per loro fortuna li  accolse un pescatore, Ditti, che li ospitò di poi  nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino  crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra  i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo  di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di  braccia si rivelassero. Allora piacque al caso     (1) Cfr. § II e III.     PRIMA DI EURIPIDE 41   che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima  gara pubblica e che all'agone partecipasse l'a-  dolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio  ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile,  che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva  sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo  lanciato, — opera d'un nume! — contro le de-  boli membra del nonno, che ne fu morto. L'o-  racolo per tal modo compiendosi, il nepote ri-  conosciuto si ebbe il trono e la dignità dell'avo.  Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice  e intiera, su dal suolo mitico d'una tribù aria,  frutto non insolito d'un seme a più altri simi-  gliante: ove la stessa sua trasparenza non ne  scernesse, una ad una, le fibre. C'è, in quel breve  racconto, lo spunto originario della morte inflitta  dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio  progenitore, che il passato ha curvo e fiacco :  dal Sole, — ciò sono, — nascente circonfuso di  purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole  occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo  sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la  notte, nell'ombre, il delitto si è compiuto ; e  l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato  da una Danae (donna di quei Danai che nella  leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi „) e  sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case  sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti „  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo,  cui è il mal grato biancore di ossa a pena  commesse, diedero nel principio veste di muscoli  e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di  bellezza e di rigoglio traevano con sé e richiama-  vano a tanti concreti particolari della realtà : le     42 li. - ANDROMEDA     pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando  oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia  in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima  la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili,  disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito  un brivido tra di paura e di pietà.   Di poi sul racconto naturalistico, come i3Ìù  venne foggiandosi in forme di plastica umana,  s'innestò una di quelle novelle, simili tra loro  come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle  quali il popolo par condensare, con la propria  esperienza, la propria filosofìa della vita, i^erché  vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e le sembianze caratteri-  stiche delle figure che sospinge la sorte comune.  Traverso la fantasia delle masse, come traverso  un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei  pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle  virtù che in genere presso quelli si riscontrano,  si affina in una selezione di cui è vano cercar le  leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio  tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il  pastore, — dico, — o il pescatore soccorrevole e  onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto  ed ospitato, il figlio non suo. Analogo è lo schema  della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e  che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili  virgulti quello e questo ; cosi fatti però che im-  provvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immet-  tano sopra una determinata leggenda : cui recano,  per altro, non esiguo contributo in compiutezza  e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impres-  sero alla fiaba tutta una diversa vivacità roman-  zesca e forza dramatica. Non fu tuttavia so-     PRIMA DI EURIPIDE 43   vrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il  più recente prevalesse sul più antico fino a ri-  durlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto;  onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale  del bujo Polidette, permasero a costituire il  volto significativo del mito durante tutto questo  primo stadio, tessalico, della sua formazione.   Il che fu chiaro in sèguito (1). L'Argo Pelasgico  o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi,  venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli  scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con  altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e  potenza il più antico, ed era situato in un con-  chiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,  nell'oriente della penisola. I due Argo furon  quindi, in realtà, uno: prima il tessalico, poi  il peloponnesiaco; per guisa che a questo si  riportarono via via le leggende che a quello  si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la  nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se  pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di  schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popola-  zione argolica assimilò ben presto la saga tes-  sala con i suoi particolari e le sue figure: persino  l'accenno a la Magnesia, che quanto mai discon-  veniva alle sedi mutate, si serbò in solco pro-  fondo ; persino, e specialmente, la morte di  Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e  di mare separava dal Peloponneso, si mantenne  non alterata. Al conservarsi contribuirono due  motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per     (1) Cfr. § III.     44 II. - ANDROMEDA     mezzo del suo eponimo Magnete, che si fìngeva  padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre  al nome della persona ogni valore di riferimento  al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni atti-  nenza concreta, A Larisa poi durò alquanto un  sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro  perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda  poteva facilmente trascurare.   Ma col proceder degli anni tutto che nel mito  non fosse o compatibile senz'altro con la mutata  sede o ineliminabile per cause intrinseche fini  con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti  figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il  padre di Perseo vennero corretti e adattati: né  è a dirsi qual de' due ritocchi sia il più antico ;  ma si vede bene quale è per essere il più impor-  tante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sosti-  tuito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui  si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo :  già che forse piacque cosi adombrare quel Preto  che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che  aveva, per quanto ci è dato supporre, contenuto  naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della  Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sosti-  tuita l'isola di Serifo ch'è di fronte all'orientai  costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo.  Perché quell'isola fosse la prescelta, s'ignora;  notevole a ogni modo è che per essa un lembo  di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata  fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra  tanto il mito si diffonde: attinge Micene, pe-  netra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica,  che s'inventò come Perseo, ucciso il nonno,  avesse onta di rientrare in Argo e preferisse     PRIMA DI EURIPIDE 45   ceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino  Megapènte figlio di Preto.   Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno  Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in  territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura  una base duplice in cui son contenuti potenzial-  mente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devol-  vono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato  e valore, e paralleli in modo che non è riuscibile  lo stabilire la priorità dell'uno su l'altro.   Era leggenda fra i Joni (1) che la dea Atena,  cui molto culto si tributava e particolar reve-  renza, recasse sopra il suo scudo la testa di un  mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una  delle Gròrgoni dimoranti al limite estremo del-  l'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare  e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo  significava trofeo d'una vittoria conseguita dal-  l'iddia avverso la protervia nefasta di quella  figlia di abissi marini. La leggenda era antica,  traccia della natura xDrima ond'era informata  Atena, divinità della luce solare, nume del tem-  porale, in cui più vivo è il contrasto fra le forze  luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole  per vero un altro attributo si riferiva, tra i  Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa,  lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava  il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei  di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce  agli occhi umani per molte ore vestendosi di     (1) Cfr. § IV.     46 II. - ANDROMEDA     oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali  tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le  quali, se si accoglievano bene nella figura di  Atena, non formavano ancora intorno alla sua  persona una veste cosi aderente, che non fosse  possibile separamela in parte con lievi altera-  zioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la  Gròrgone e la proprietà della cappa invisibile si  riportavano assai meglio al sostrato naturalistico  della Dea che non al suo individuo, alla folgo-  rante luce che non alla sostanza corporea della  effigie umanata. E perché Perseo quando per-  venne in Serifo, e come in Serifo in Atene in  Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo  essere dall'energia naturale (la veemenza del  Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva  pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a  Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero  e l'impresa contro Medusa e il cappuccio ca-  nino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio  se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu  quasi una contaminazione delle due leggende  in una; ma di due leggende non indipendenti  né ciascuna distinta per sé, si di due che si ori-  ginavano da una medesima intuizione delle forze  naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti  simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto  in luoghi distinti doppio nome di Atena e di  Perseo.   Il racconto che ne nacque, come prese a vi-  vere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni  materia vivente in organismo : si accrebbe. La  fantasia che plasma le leggende ha certi suoi  modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va     PBIMA DI EUEIPIDB 47   foggiando analoghe le sue opere : essa imprime  del suo segno terreno il racconto di quegli spet-  tacoli della Natui'a cui aveva già dato volti  e gesti umani : prende una seconda volta pos-  sesso della sua materia. Cosi non concede essa  all'eroe, — e sia pur grande d'assai più che  l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. — facile  e pronto il conquisto; vuole sia arduo: prepa-  rato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talis-  mani senza cui l'opera non può compiersi e per  i quali trovare si richiederanno altre fatiche :  ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a  preparatoria, ch'è mezzo non fine , ma non è  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i per-  sonaggi. — Qui, furono le figure in cui la novella  fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje,  canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un  occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con  un dente. Esse, — si narrò, — sapevano la sede  di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non  era concesso ad uomo trasvolar fino al limite  dell'Oceano presso le Gòrgóni, e dalla bisaccia  (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo  spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si recò  dunque ma non ottenne né quelli né questa se  prima non ebbe con violenza privato le tre vec-  chiarde dell' occhio e del dente , esigendo a  compenso della restituzione i due oggetti cui  mirava.   Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire  lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce.  Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare  diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi;  il quale, avendo allora già assunto rilievo di dio     48 II. - ANDROMEDA     luminoso, era affine a Perseo e dicevole soc-  corritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai  allargata la saga.   A concliiuder la quale non rimaneva oramai  se non motivare l'impresa strana del fanciullo  cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.  Cronologicamente essa non poteva cadere ciie  nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il  ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente  la causa dell'avventura e del pericolo aveva a  connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Po-  lidette. E poiché non certo l'originalità è più  ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui  un comune motivo leggendario, stracco per quel  che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da  non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti  episodici onde abbisognava. Come contro la Chi-  mera fu spinto Bellerofonte da chi ne desiderò  la morte; come Q-iàsone in Colchide venne in-  viato perché perdesse nell'arduo cimento la vita;  cosi Perseo avrebbe assunto il rischio medusèo  per stimolo di Polidette, che innamorato di  Danae bramava toglier di mezzo il giovine di-  fensor della donna.   Oramai il racconto era compiuto : armonico,  organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla  quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da  parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetra-  zione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a tra-  verso strati naturalistici e nove] listici aveva  dato alla fine il suo bel frutto maturo.   Analogo al processo d'evoluzione mitica per  cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era     PBIMA DI EURIPIDE 49   accresciuto d'un episodio e di due campeggianti  figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso  terreno preparò novella sixnigliante (1). Ma, a  un tempo, incomparabilmente più complesso ed  inviluppato: tanto che l'indagine riesce a rico-  struirlo non con la fondata probabilità ch'è con-  cessa all'esame del mito di Medusa, ma con in-  certezze non jDOclie, e con grande cautela. Se  l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i  X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno è  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta  con i mostri tenebrosi ; l'altro è Cassiepèa o, —  come il suo nome significa senza dubbio, — la  " millantatrice „; tipo popolaresco della donna  orgogliosa troppo di sua bellezza che osa com-  petere in gara ineguale con le Dee, e n'è punita  per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque  di essenza diversa, che l'uno è naturalistico,  novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un co-  mune carattere precipuo: l'attitudine, cioè, a  commettersi con più altri elementi, a raccoglierli  intorno a sé, quasi per energia magnetica; cosi  da allacciare in maglia e in rete più trame mi-  tiche distinte. Per essi si formarono due compa-  gini leggendarie che insieme li contenevano e  n'erano quindi accostate fra loro. —   L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in  particolare, un re mitico Càfeo o, in altra forma,  Cèfeo, che sarà x)iù tardi venerato con carattere  e attributi di divinità ctonia in Cafìe, luogo del-  l'Arcadia ; e che veniva creduto signore di po-     (1) Cfr. § V.   A. Ferrabino, Kalypao.     50 n. - ANDROMEDA     poli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra.  Quivi eran, secondo già l'epopea omerica, gli  Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tra-  montante, tòcchi dal bujo per un lato, immersi  nella vampa per l'altro. Cèfeo dunque re degli  Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse  lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle  quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso  cui come a simili mete muovono in awentm'a  i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi  nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo, è a  pena bisogno, — quindi, — di dire. Per scopo fu  scelto non an mostro specifico, quale Medusa,  ma una vagamente indicata belva che sorgesse  da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soc-  correvole, nell'officio di Atena contro la preda  gorgonèa, s'indusse un diffuso tipo di Vergine,  strenua in combattere, ignara di mollezze fe-  minee, il cui maschio nome istesso rendeva ima-  gine di possanza non muliebre si virile: l'An-  dromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla  impresa ignoriamo; ma possiam senza errore  fìngercene uno non dissimile da quel che ap-  prendemmo nell'altro episodio , cosi concorde  con questo per contenuto forma e valore. Si  ottiene un mito modellato sopra i medesimi  schemi su cui è foggiata l'impresa fra i Joni ;  nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma  tutte le tinte sarebber identiche se non fosser  d'alquanto più sbiadite, e tutti i particolari in-  variati se non apparissero scemi al paragone.  Un arricchimento però venne ad esso mito  quando Cassiepèa vi fu introdotta. E consistette  non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione.     PEIMA DI EURIPIDE 51     si più tosto nel trasformarsi profondo del signi-  ficato complessivo che quell'acquisto ebbe a pre-  parare. Due avventure di Perseo contro mostri  delle tenebre non potevano non venir avvicinate  prima, e dissimilate i)oi. Si tramutò Tuna, la  minore e più svigorita. E fu iDer un evolversi,  si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di  Andromeda. La " Maschia v, si andò raggenti-  lendo fin che si transfuse del tutto nel tipo  novellistico della fanciulla che l'eroe libera di  prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco  nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro  il ketos avanzante dal mare, — e un vaso del  secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del  lancio, — constringendole e movendole le membra  l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio  insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, di-  venne indispensabile giustificar la cattività della  fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il  mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo.  n vanto della " millantatrice „, dalle Dee offese  punito nella vita giovine e florida della figlia,  — Andromeda fu tramutata in sua figlia, —  sarebbe appunto stato la causa prima del peri-  colo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo  tutto l'aspetto originario dell'episodio è alterato,  nel profondo. La seconda forma possiede la vita  che non la prima. E individuata come non la  prima.   Da l'una a l'altra segna il passaggio Andro-  meda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo  che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal  mito i personaggi caratteristici, i fondamentali  sono Perseo e Cassiepea. —     52 II. - ANDROMEDA     Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra,  in un'altra leggenda differente di origine. Pro-  tagonista è qui Fineo : divinità del fosco setten-  trione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti  opposti. Benefico e malefico egli può esser difatti :  secondo che dietro lui muova il rigente turbine  del nord a offuscare le chiarità solatie ; o che la  freschezza dei suoi vènti temperi l'afe estive ri-  cacciando a mezzodì gli affocati avversarli che il  Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere  fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli  sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle  Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da  Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fìgli  di Bòrea i quali respinsero le moleste e perse-  guitarono a ritroso fin là dond'erano venute. In  tutto parallelo al formarsi di questo mito delle  Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il for-  marsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro  di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio  deleterio de' suoi vènti meridionali, ma con la  forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per  vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'au-  tunno sopravviene, nella nostra leggenda, a miti-  gare le ardenze della riarsa estate ; si la prima-  vera a dissipar le brume e i geli foschi dello  inverno.   Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico  fu, — sembra, — appunto Perseo, in singoiar  duello. E cotesto embrionale racconto, cercò, e  trovò, un motivo in Cassiepea : ancor una volta  pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar  la sorte inferiore di Fineo, — suo figlio : figlio  per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che     PKIMA DI EURIPIDE 53   si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche  di fornire compiutezza romanzesca alla favola,  quando il significato naturalistico ne andasse  smarrito. C era dunque la materia , idonea a  produrre, ove uno spirito creatore trovasse in sé  il levame opportuno, un mito pur esso drama-  tico né meno denso di bellezza poetica. In vece,  prima ancora che riuscisse a comporsi in opera  ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso  complesso. —   Però che i due intrecci di Andromeda e di Fineo,  ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea appari-  vano non pure nell'identità de' nomi ma e nella  analogia degli uffici, non potevano rimanere  distinti: e tanto meno potevano se, — come non  è provato ma è forse da ritenere, — un mede-  simo suolo li generava. Si com penetrarono di-  fatti fin che divennero una narrazione sola in  cui gli elementi delle due generatrici sussiste-  vano tuttavia presso che integri, là sol tanto  alterati ove fosse parso inevitabile alla logica  della commessura. Rimase il duello fra Perseo  e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda  da Cassiepea: ma, — e fu il segno della con-  nessione fra le 'due saghe indipendenti, — la  causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata  non più nel supposto vanto d'una madre, ma  nella stessa precedente vittoria di Perseo contro  il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,  sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda  avanti la venuta del giovine liberatore: cosi  ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso  poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascol-  tato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato     54 II. - ANDROMEDA     con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa  fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei  due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e An-  dromeda, su rineo r altro) andasse perduto,  tranne il nesso di maternità fra Cassiepea e  Fineo.   Chi confronti ora da un lato l'avventura me-  dusèa di Perseo con l'assistenza di Atena ed  Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos  con il premio della vergine e il contrasto con  Fineo ; e si fermi alla superfìcie variopinta dei  due episodii, senza indagarne il significato re-  condito ; non vi trova pili tracce di quella simi-  gliali za che le saghe della "Maschia,, e della  Gorgone rendeva pallide entrambe ; bensì li av-  verte dramaticamente diversi, materiati entrambi  di moti sentimentali ma or verso la madre Danae  or verso la liberata Andromeda; di cimenti pe-  rigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro  la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato.  La cosi ottenuta diversità formale, permise a  chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo  tutte le vicende di lui, di comporre queste due  in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la  uccisione del nonno Acrisio. — Un'opera siffatta  fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise  tutto il mito, nel suo insieme organico, e di-  venne per tanto la base prima d'ogni ricerca  costruttrice (1). Ne possediamo un sunto per     (1) Cfr. § I.     PRIMA DI EURIPIDE 55   opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)erò, onde è  necessario integrarlo col testo del ben più tardo  Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disa-  dorna. Essa non è più per noi, nella forma con  cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la  lunga gestazione per effetto della sintesi nar-  rativa; ma è, di quel corpo, lo scheletro. Dalla  nascita misteriosa vediamo Perseo compiere ,  dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue av-  venture, la medusèa e l'etiopica, per ritornar-  sene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa  a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi  in Tirinto il suo regno, che Argo gli era di-  venuta infesta. Ma effetto dell'esser stata rac-  colta in sintesi la serie delle gesta eroiche di  Perseo non fu solo di fargli attribuire per  arma contro Fineo il capo della Gorgone o di  condurre sul trono di Argo Andromeda re-  gina; ma fu, più tosto e meglio, di sottraiTe  all' episodio del ketos ogni vita autonoma :  valse esso qual momento d'una complessiva  azione ed ebbe valore di conseguenza da un  lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto,  doveva dal tutto ricever sua norma e sua im-  portanza: fin che al meno non ne fosse mu-  tato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua  romanzesca, — gradita a' novellatori, tanto più  quanto più di fatti si 'arricchiva la trama, di  particolari le vicende, di gesti le figure, — non  si trasformasse in essenza diversa.   Nel molto che andò perduto eran certo forme  varie di cotesta indispensabile trasformazione.  Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli sto-     56 li. - ANDROMEDA     rici del secolo quinto (1). Per essi la favola  di Perseo e Andromeda acquista una impor-  tanza nuova di reliquia fededegna serbata a  traverso gli anni. La cagione è un avvicina-  mento verbale : uno de' consueti di cui si com-  piacque la fantasia degli anticM nel conato  e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra  Perseo e i Persiani. L' analogia non etimolo-  gica ma fonica indusse a ritener quello capo-  stipite di questi: non direttamente però, si bene  per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato  il nome " Perse „ per più di verisimiglianza.  A dar poi un aspetto anche meglio credibile  alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta  ària di cui doveva esser memoria fra i Persiani,  " Artèi „: questo ritenendosi epiteto primitivo ;  quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua  discendenza. Naturalmente si lasciò, a tal fine,  sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli  Etiopi, sudditi di Cefeo nella più antica saga:  però che essi si riconoscessero, in quell'epoca,  or mai identici a reali " Etiopi „, situati al sud  dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Ce-  fèni „ desumendoli, come traspare, dall'ap-  pellativo medesimo del re. E si pensò che a  Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio  di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i  Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ;  e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui  si denominasse Persiano. La garbata ricostru-  zione critica non fini in questo : perché, difatti,     (1) Cfr. § VI.     PRIMA DI EURIPIDE     57     i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi  gli Artei? La risposta si trovò combinando  questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldèi  semiti che avevan sede intorno a Babilonia,  eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto,  presso i Mariandini e i Paflàgoni; e il gruppo  esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli  staccatosi in età antichissime. Poiché inoltre  sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava  abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per  tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni  avevano abbandonato la regione loro, allor  quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso  il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la  trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si di-  parte una schiera di Caldei ad occupare la  terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ;  che si spingono verso gli Allei, li sottomet-  tono e insieme divengono il popolo de' Persiani.   Se non che questa mitopeja di eruditi pur  riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in  singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infon-  dendogli una essenza nuova dissonante dal resto  della fiaba , finiva però in una soppressione  dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Ce-  feni, la lotta col ketos, le nozze con Andro-  meda, il duello con Fineo, sono un niente a  petto della conseguenza precipua su cui ogni  altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le  premesse non hanno più vita artistica; le con-  seguenze, ne hanno una storica. Una pseudo  realtà nasce; ma la bellezza muore.   Per tanto, se le gravi lacune del nostro pa-  trimonio letterario troppo non ci traggono in     58 II. - ANDROMEDA     inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque  dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii»  emergenti a lor volta su da rigide abitudini  mentali e in mezzo a consueti aspetti della  fantasia mitopeica, non solo perde presto la  sua autonomia col commettersi ad altre vicende,  ma indugiò a svincolarsi da F impaccio, e a cir-  coscriversi in forma e colore : a bastanza, perché  il senso critico lo adulterasse e , un poco , lo  vituperasse.     n. — Euripide.   Fu sorte della tragedia dare a esso episodio  di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu  né romanzesco né storico ; ma psicologico. Di  altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euri-  pide possediamo i frammenti bastevoli a rico-  struire il drama, se non ne' suoi particolari di  arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo  nelle sue linee maestre (1).   Era consuetudine ferrea che la tragedia nei  suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale  modo i tragedi pervenissero all' elezione del  tema e alla scelta dell'argomento non è possi-  bile dire, per la oscurità imperscrutabile de' pro-  cessi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia     (1) Cfr. § VII. I frammenti, naturalmente, son citati  e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^  (Lipsia 1889).     EURIPIDE 59   delle notizie tradizionali. Sol tanto si può con  qualche chiarezza intendere come il problema di  arte si presentasse al poeta allor quando si ac-  cinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andro-  meda ; come, in somma, lo spirito di lui pren-  desse possesso, nell'impeto creatore, della materia  leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi,  come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi  distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere  singolare della Gorgone e nel volo miracoloso tra-  verso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per  consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile  nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio  di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nu-  ziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano  la loro unità in un terzo, che è, in somma, del  mito il carattere eroico e la forma romanzesca.  Euripide adunque ebbe , dinanzi al suo pen-  siero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno  suscitava spontaneamente il suo più vivo inte-  resse. Non solo difatti egli staccava nella tra-  gedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua  I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' è di tutta  la dramatica greca, di appassionare non la fan-  tasia bensì il sentimento degli sf)ettatori; e lo  sottoponeva all'esigenza di \àbrare per pregio  e forza intrinseci non per smaglianza esteriore  di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie,  come sono ben lontane da quelle che l'hanno  creato dinanzi la natura e complicato in novella,  cosi son anche più mature dell'altre che ne han  goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario  e l'impossibile. Per certo le più antiche e le  moderne cerca van tutte nella saga una verità ;     60 II. - ANDROMEDA     ma la verità naturalistica e la verità eroica non  appagavano ora quei cittadini di Atene che vi  desideravano una verità psichica. Ora, con si fatto  spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito ro-  manzesco che un tempo riusciva opportuna o  indispensabile commessione fra i due diversi  elementi della fiaba, sopravviveva adesso, in-  sieme col divino, quale materia in apparenza  superflua. In qual maniera difatti allivellare  sopra un piano medesimo una gesta miracolosa,  un affetto terreno, un intervento di Dei? E  ovvio però che il poeta non vide, come qui cri-  ticamente si espone, il suo problema; ma che  lo intui da artista. A punto per questo egli non  ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le  sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio  or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi  in guise diverse.   Poiché ci sono rimaste nella loro integrità  V Elettra ch'è del 413 e V Elena ch'è di quel  medesimo 412 da cui V Andromeda si data, in-  trawediamo a bastanza la vita dello spirito  euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte  tentava il nodo mitico di Perseo (1).   Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra  tragedia è un contrasto di passioni. Elettra ed  Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per     (1) L'analisi, che segue, del pensiero religioso e so-  ciale d'Euripide intorno al 412 è fatta di sul testo (edi-  zione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed  emana da quello. Di più cfr. § Vili.     EURIPIDE 61     vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano  fino a darle la morte la donna da cui nacquero,  ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi  che col sangue di lei scorre nelle lor vene una  indicibile virtù di amore e rispetto : proten-  dono da la scena una dolorante maschera umana ;  fraterna con la grande pallida faccia intenta  dagli scanni del teatro. — E quando Menelao re-  duce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto  recando con sé la riconquistata Elena ; e vi s'im-  batte nell'Elena vera, quella che gli Dei re-  carono celatamente in Egitto, mentre un vuoto  simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla  decennale guerra; e la gioja irrompente per la  ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe  con lo sconforto per i travagli sopportati in  vano e la vita gittata in vano da centina] a di  prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte  le creature terrene, cui piacere e sofferenza giun-  gono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno  nell'altra.— E in queste situazioni palese l'immer-  gersi dell'artista nella sostanza dei personaggi,  nella correntia delle vicende, con un oblio com-  pleto di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un si-  stema filosofico applicato, co' suoi postulati ge-  nerali, ai casi particolari. Qui l'uomo è espresso,  dal profondo, con la freschezza d'una polla cui  s'apra nel terreno la via. Ma di qui non è pos-  sibile indurre riferimenti con l'ambiente storico  del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo  stato psichico di lui in quegli anni; ma solo  intorno al consueto modo della sua forza d'arte.  L'animo di Euripide si rivela più in là. In  quello anzitutto che dalla tradizione egli accettò.     62 II. - ANDROMEDA     Giacché nei miti di Clitemestra uccisa e di  Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non  poteva respingerené poteva non alterare. Tali  l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto  a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'or-  dine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto  Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,  permettendo sperpero immane di energie e va-  lore. Cotali interventi divini eran la premessa  indispensabile dell'azione ; divennero per Euri-  pide radice di nuova tragicità : però che, tanto  più gli parve orribile il delitto di Elettra, in  quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal  Dio sommo, tanto più spaventoso il vacuo scempio  di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto  adunque le parti divine della tragedia si con-  nettono per lui strettamente con il travaglio  umano ; ma costituiscono una forza cieca e  buja contro cui bisogna urtare : simile al peso  corporeo che non s'evita con gli slanci dello  spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime  con i trovati dell'ingegno.   Onde il poeta accettò l'oracolo di Apollo ; ma  chiese ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp ' come potè il Dio saggio ordinar cose  non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,  "Febo Febo... — taccio: certo egli è saggio;  ma vaticinò cose non saggio „ (1) : o sia non ri-  spose. E anche si domandava, e fece suo inter-  prete il Coro, " perché o Dioscuri, essendo Dei  e fratelli di questa ch'è morta Clitemestra, non  distornaste la sciagura dalla casa ? „ ; per farsi     (1) Elett. vv. 1245-6.     EURIPIDE 63     rispondere con una parola ch'è poco o molto,  àvdyxr] " Necessità „ (1). E chiaro : il suo spirito  s' è formato un concetto alto della divinità :  giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non  può concepire derivi il delitto ; né la stoltizia,  né alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene :  e quel concetto urta contro le affermazioni del  mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta;  non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta per-  plesso ; non decide, ma porge intatta la que-  stione al pubblico , dopo averla agitata col  prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di in-  telligenza.   Del iDari, se non forse in guisa più a^Dcrta, si  comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite  ha voluto il ratto della bellissima per opera di  Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di  conseguir il fine, e a Paride concede una par-  venza di quel corpo che nella realtà si cela ap-  presso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa  delle feminette continua ; e mentre la dea amante  vuol Elena sposa di Teoclìmeno, successo a  Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva  e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su  la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che  gli " abitatori delle case olimpie ,,, procedono  secondo purezza di virtù : Elena si mantiene  fedele al marito lontano e sopp orta paziente  l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, con-  fusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teo-  climeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello     (1) Elett. vv. 1298-1301.     64 II. - ANDROMEDA     ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao è onesto,  cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii  sarebbero d'assai più piccini, nell'animo, che i  terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui  il problema si formula ; ma nulla lo risolve ;  nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo.  Osserva il Coro (1) : " Chi è dio, chi non dio, chi  semidio? qual fra i mortali, anche spingendo  molto lontano la sua ricerca, dirà di saperlo?  quale, dopo aver visto l'opere divine or qua  or là balzare con contradittorie e inaspettate  vicende? ,,. Nessuno risponde.   Questo silenzio è una tragedia a sé. Non si  svolge materialmente su la scena, accanto i per-  sonaggi sé moventi, ma è nello spirito del poeta,  ed è a noi non meno fraterna. Ben sua, la se-  conda tragedia, più che la prima. Non di com-  passione, di simpatia geniale verso la sofferenza  d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e  strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La  quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della  sua arte, lungi a ogni filosofìa. Il suo pensiero  di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai  la concezione omerica e infantile degli Dei, non  vi crede ; l'ha sostituita con una più matura.  Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo  mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama.  Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tor-  menta : ripete a chi l'ode la favola bella degli  antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo-     (1) Elena tv. 1136 sgg.     EURIPIDE 65   sofia ; questa e quella compone, senz'accordo  logico, entro il suo affanno.   Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione  postulava nel mito, ed Euripide accetta trava-  gliandosene ; sono neW Elettra e, di più anche  hqW Eìena^ giunte che il poeta solo volle e in  cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ;  intrusioni sgorgate da un animo che, non pure  assorbe in sé per rielaborarla la saga, ma nella  saga si profonda e si abbandona, anche con  quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.   Tale s'originò nel drama di Clitemestra la  figura del contadino, povero e rozzo, ma pur  squisito di sentimenti e schietto di azioni :  VaixovQyóc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta  in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli  se nati da nobile genitore. Egli, come apprese  la condizione della fanciulla che gli veniva de-  stinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a'  suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospi-  tare nell'umile sua capanna la donna e fìngendo,  per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando  aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre  son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi  arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la  Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di  forze sane. Dopo, ogni suo gesto è virile e so-  brio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela  semplice perché diritto : e mentre Elettra ed  Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure,  egli va crescendo in valore fino a superarli nella  sua persona salda e nel suo fermo polso. Né  basta. Il poeta, sottolineando sé stesso, richiama  gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa   A. Feekabino, Kalypso. 5     66 II. - ANDROMEDA     esclamare con maraviglia un poco attonita (1) :  "Ahimé! Non v'ò criterio alcuno a distinguere  la nobiltà : v'è scompiglio nella natura degli  uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di  padre generoso; e rampolli onesti di genitori  perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la  magnanimità in un corpo povero. C'ome orien-  tarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio  questo sarebbe : secondo la povertà ? ma la mi-  seria è una malattia, cattivo maestro è il bi-  sogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM  risguardando a la lancia giudicherebbe qual  sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare inde-  cisi codesti problemi. Costui per esempio grande  non è fra gli Argivi [VadTOVQyóg], non insigne  per rinomata schiatta : è uno dei molti : e pure  si rivela ottimo „. Ottimo si che la sua onesta  figura divien quasi di maniera e par disegnata  per dimostrar una tesi o attingere uno scopo.  Quale tesi o quale scopo si propose Euripide  nel concepirla e nello stagliarla?   Non meno larga che neìV Elettra è nelV Elena  la novità introdotta. E anzitutto nella scelta  medesima della favola : un mito secondario che  risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal  leggenda di Menelao e Paride a Troja, sem-  brava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il  tragico lo preferi per motivi ch'è vano indagare;  che forse si assommano nel desiderio di met-     (1) Elett. vv. 367 sgg.   (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclo-  pàdie , VII (1912) pag. 2833.     67     terne in risalto il singoiar contenuto. La donna  bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sa-  rebbe stata causa unica di ire e guerre per un  decennio, di sventure ed errori per altri dieci  anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli  strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i  poeti misogini ; è di colpo trasformata nella più  pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha  giurato a Menelao di " morire ma non mai vio-  lare il letto „ (1) ; né ha giurato in vano, che di  morire è sul punto, e attiene la parola, ed è  beata di cadere, — dice al marito, — " vicino a  te „ (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo)  il coniugale amore di Menelao ; che le afferma  " Privo di te, io finirò la vita „ (3). Onde sol più  li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da  acquistare gloria „ (4). Ora tanta fedeltà di af-  fetti traverso anni e vicende acquista il suo più  vero significato quando venga contrapposta al-  l'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone,  di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa di-  fatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non  pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe  più, spiritualmente : su la fine difatti di quella  prima viene annunziato e svolto in breve il  tema della seconda (5). E le attinenze diven-  gono palesi quando le due cognate si parago-  nino fra loro e le due sorti. Clitemestra non è  presso Euripide se non la malvagia donna : tale  la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i     (1) Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840.  (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg.     68 II. - ANDROMEDA     vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella  bensì rimproverando ad Agamemnone l'uccisione  di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s'è  savia, tutto consenta al marito „ (1); non è giustoj  per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne  nell'Eliade (2). No, — osserva sdegnata Elettra,  — tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse  decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena  da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio  le bionde trecce della tua chioma „ (4) : e " la  donna che, assente il marito, adorna la sua bel-  lezza, si cancelli come cattiva „ (5). Appropriato  amico di cotesta non buona, figura Egisto, non  prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia  corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle  donne. C'è dunque nelle due tragedie il riscontro  fra due coppie : riscontro a base morale, ma in-  trodotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi  d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perché intro-  dotto? perché l'arbitrio?   Alla domanda che per la seconda volta in  breve esame ci si presenta non si deve rispon-  dere se non dopo aver rilevato un altro parti-  colare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il  simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi du-  rissimi e sacrifìzii immensi, si accende di sdegno  contro gl'indovini che, prendendo parte all'im-  presa, non scorsero la verità, non svelarono il  comune abbaglio, né evitarono vittime inutili.  Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere     (1) Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061.  (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3.     BUBIPIDE 69     degli auguri sono stolte e menzognere!... Cal-  cante non disse né rivelò all'esercito vedendo  gli amici morire per una nuvola ; e né pure  Eleno : e la città fu predata in vano. Dirai forse,  che un Dio non volle. E perché allora ci rivol-  giamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio  invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii :  furono inventati ad allettaménto della vita, ma  nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il  senno e il buon consiglio sono l'augure mi-  gliore „ (1). Per contro è nella tragedia perso-  naggio, non pur dramaticamente notevole, ma  anche moralmente insigne, Teonoe sorella di  Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virtù  di saper tutte quante cose avvengono ; è quindi  invasa da una potenza profetica analoga alla  magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella è  buona, ella è giusta, ella è savia : sa, ove occorra,  tacere al fratello gli avvenimenti più vicini af-  finché trionfi la fede amorosa di Elena e Me-  nelao. Perché aver creato questo contrasto ? Che  non è fittizio né casuale : Euripide parla cosi  per bocca del Nunzio come per bocca de' Dio-  scuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi  il suo più soggettivo pensiero.   In questo suo pensiero sta di fatti la ragione  e dell'esser stato concepito VadxovQyóg, e della  purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme  di vaticinio. Il poeta è percosso da un'unica ansia,  di cui quelle son le forme momentanee ; è morso     (1) Elena vv. 744     70 II. - ANDROMEDA     da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono  gl'indizii occasionali.   Egli appare un moralista. Ecco i personaggi  per cui parteggia con simpatia : una moglie  onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la  figura che crea con compiacenza paterna : un  lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che av-  versa acre e violento : un bellimbusto galante,  una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un  lato coloro che rientrano nel suo concetto del  bene e del giusto ; dall'altro quelli che appar-  tengono al suo concetto del male e dell'iniquo.  Ed è dicevole : nessuno può disconvenire sul  principio che regola la sua morale ; solo la  espressione può venirne discussa.   Ma quando gli si scruta più dentro nell'animo  ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli  vuole a prò dello Stato, che VavtovQyóg egli re-  puta degno e capace di governare la pubblica  cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna  e Menelao gli piace constituita la polis a scopo  di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che  il suo occhio mira più in là d'una teoria morale:  mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre  scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo  in Sicilia : pericolo grave che si tramuterà di K  a poco in disastro immane. I Dioscuri si affret-  tano a conchiuder V Elettra perché debbon " sal-  vare le prore nel mar siciliano „. Il Peloponneso  minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte  non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La  democrazia non dà buoni frutti dopo la morte  di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel  potere con quello degli estremi : ed è tale la     EURIPIDE 71     sfortuna di Atene che gli uni non attingono il  governo se non quando le disfatte han dimo-  strato rinettitudine degli altri, e non son per  per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano  a lor volta. Ogni mutamento è una esperienza;  ed ogni esperienza, fruttifera di tosco (1). Sopra  tutti, male comune nell'inettitudine comune, si  stende la piovra della cupidigia, la sete del gua-  dagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono  massime cui ciascuno informa l'opere se non le  parole : ' beato chi è ricco ', ' la ricchezza è po-  tenza ', ' il ricco è libero, anche se schiavo ; il  povero è servo, anche se cittadino'; 'l'uomo è  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno  in una lotta, ove il pregio morale non conta,  la forza intellettiva non importa più che il tesoro  cumulato ; forse meno.   Aspra e grovigliata situazione adunque ; dif-  ficile a risolversi. Che per risolverla bisognava  superarla ; piegar la realtà possedendola sino al  fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza.  E difatti voci di riforma e tentativi d'un ri-  volgimento costituzionale serpeggiavano e fer-  mentavano all'oscuro : si preparava la rivolu-  zione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta  la materia sociale toccò Euripide ; il suo spi-  rito ne fu macerato e sconvolto : però che contro  l'immediata e ineluttabile realtà dello Stato, ine-  riva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non     (1) Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig  1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne dà qui  è veduto con gli occhi di Euripide.     72 II. - ANDBOMEDA     segui né l'uno né l'altro dei partiti. Fu in vece  con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli  adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Me-  nelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica,  che il suo genio d'artista non poteva né doveva  sodisfare, in esigenza morale: spostando i pro-  blemi dalla sfera pratica a quella etica. E di-  venne malinconico di speranze deluse e rina-  scenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette  nel suo spirito quest'altra: di patriota, di sta-  tista, che è a bastanza acuto per vedere i pro-  blemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia  flebile, nella quale confluiscono, — opportuna-  mente, — tutte quante le quistioni minori della  vita sociale e familiare ; le contese minute su  questa legge o quel decreto : le spine sparse  lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invet-  tiva contro gli auguri, secondaria piaga dello  Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che  repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di  filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino  probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero  dono divino si rivela appunto pel modo del suo  uso e la bontà delle sue conseguenze. " Attuale „  corruccio ancor questo: che favore di auguri  aveva secondato l'infausta spedizione siciliana (1).  Cosi tutta Atene può entrare, ed entra, nel-  l'animo del poeta per tal via: melanconico spi-  raglio alla più intensa vita.   Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la  materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della     (1) Tucidide VII 50; Vili 1.     EUKIPIDE 73   religione e della filosofia ; preoccupato dalle  sorti politiclie e dalle condizioni sociali della  sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto  di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e  con VElena^ V Andromeda.   Il suo spirito si fece largo, sùbito, di fra i par-  ticolari minori e grinciampanti aneddoti della  saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel  pensiero di chi imaginò la lotta di Perseo col  ketos la tragedia era nel combattimento delle  due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto.  Nel pensiero di cìii raccolse, ordinando, tutta la  leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mito-  grafo, la bellezza era constituita dal numero e  dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del  poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore  di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei  due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in  cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro  elemento si dispose intorno a questo : dal quale  ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il  primo flusso del nuovo sangue infuso nella  vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che  non sembri.   Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della  tragedia appariva la fanciulla sospesa a una  rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e  piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi;  non lontano è il mare onde la belva vorace  verrà al selvaggio convito ; sono li presso, in  Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda,  che tentano vani conforti a la tremenda scia-  gm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravve-  nire. E nell'animo degli astanti la deprecazione     74 II. - ANDROMEDA     del male imminente lotta con la tormentosa  ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i  capi come un mostro informe. " sacra notte,  qual lungo cammino con i cavalli percorri, reg-  gendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del  divino etra, traverso il santissimo Olim^DO ! „ (1):  tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore  si ribella contro l'asprezza del fato e la trista  disparità del dolore : " loerché più larga parte  di mali Andromeda s'ebbe^ che misera è presso  alla morte ? „ (2). Il Coro s'impietosisce e tenta  il conforto dividendo il dolore : " perché chi soffre  sente alleviato il suo male, se del pianto fa  parte con altri „ (3). La sofferenza che sta nel  petto, senza sollievo, con la durezza della ma-  teria minerale, e non prorompe se non per voci  d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il  moto compassionevole delle compagne, si di-  scioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la  vicenda : la vanità f eminea e il puntiglio divino  onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla  pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di  forza narrativa, si di spasimo lirico : che si as-  sommano nel presente pianto della figlia pu-  nita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la  scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara  voluttà del dolore stesso onde si soffre, e una  insistenza : non sposa a nozze, — e delle nozze  avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza,  — ma vittima a sacrifizio la fanciulla è recata;  non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi     (1) Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119.     EUBIPIDE 75     e tra il compianto virgineo (1). Ma a rompere  Tuniformità di questo tormento, giunge a tra-  verso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal  rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne  reca in Argo (2). E radioso della sua recente  gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce  prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col   veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo?   Timagine d'una vergine, come scolpita da mano  sapiente tra i rupestri rilievi! „ (4). Si fa poi sol-  lecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu  taci „ — la persuade — " ma il silenzio è inade-  guato interprete del pensiero „ (5). Non senza ran-  cuna son le prime parole di quella : " ma tu chi  sei ? „ ; se non che la forza stessa del dolore la  tradisce e senz'altro, per la veemenza del sof-  frire, non definisce audace colui che persiste nel  voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi  sei, c'hai pietà del mio male ? „ (6). " vergine,  ho pietà di te che veggo sospesa „ (7). Ogni  freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era an-  cora nelle parole della fanciulla si placa. Quel  che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta.     (1) Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des  Arch. Inst. „ XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei  particolari esteriori, è rappresentata sul cratere del Beri.  Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, però,   ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura  a sinistra di Ermes.   (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124.   (4) Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127.  (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente  dato dal Nauck.     7G II. - ANDROMEDA     La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si  susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un  concento unico di vivace simpatia vicendevole.  E alla fine la generosità dell'eroe, la quale si  forma adesso assai più nell'inconscio secreto del  cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli  forti e pronti, erompe in promessa : " vergine!  s'io ti salvi, mi sarai grata?,, (1), Egli si è tradite-  la sua prodezza non vuole compenso per solito ;  la gloria gli è premio valevole. Ma quel che ora  chiede è più che una gloria : è il possesso ma-  gnifico, Andromeda intende ; se non che il suo  animo troppo è ancora tenuto dall'imminenza  mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'il-  ludersi : e lo dice " Non m' esser cagione di  pianto, inducendomi speranze! „. La risposta, che  nasce da l'immensità del suo soffrire, può parer  dura al generoso offertore; l'istinto femineo se  ne avvede e la spinge a soggiungere : non per  colpa di te " ma molto può avvenire contro  l'aspettazione... „ (2), La speranza di campar la  vita non è nata o almeno non è del tutto salda;  è nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome  del suo passato di vittoria, della sua strenua  energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli  moltiplica le forze, riesce finalmente a trasci-  narla con sé nel sogno, a persuaderle certa la  liberazione prossima. E Andromeda allora lascia  ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa  onde è dato al giovane, oltre l'avanzante mostro  oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul     (1) Fr. 129. (2) Fr. 131.     EURIPIDE 77     mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero !  e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia  moglie, sia schiava ! Abbi pietà di me che soffro  tutto; mi sciogli dai vincoli! „ (1). Perseo com-  batterà difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico  mare „. E gli s'affollerà intorno " tutto il popolo  dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando  una tazza d'edera colma di latte, chi succo di  grappoli „. I principi, " in casa, a torno la tavola  del banchetto „. Si vuoterà il xéÀsiog, la coppa  del salvatore (2).   Sùbito profondo si manifesta, in questa ch'è  la fondamental intuizione psicologica della tra-  gedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In  quello Andromeda non è più, nel suo intrinseco  valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo  offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fan-  ciulla è mezzo nelle loro mani ; come è vittima  nelle mani di Cassiepea. L'anima le è sottratta:  meglio, l'anima non le è data. Euripide per  contro ne fa il centro della scena : plasmandola  d'una sostanza indipendente, la costituisce di  sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in  una persona non comparabile con altre, la crea  fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella  gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura  mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di  Eco. Ella contrappone il proprio forsennato de-  siderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol  morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal  mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge,     (1) Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148.     II. - ANDROMEDA     la divinità di lui si menoma e si abbassa di-  nanzi la sventiu'a di lei: ella è chiusa in una  corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi,  tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie  Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia An-  dromeda si piega in lacrime, e il giovane ve-  nuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di  sé, ch'è per affrontare il ketos, tutta la luce.  Ma è parvenza fallace. La vergine lancia al  fervido desiderio del prode il grido della sua  dedizione, — e si afferma per tanto di nuovo,  vivace, nella sua libertà che dalla passione forma  il volere, del volere compone il proprio decreto.  La " Maschia „ che nel primitivo antichissimo  mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro  la belva, era più vigorosa corporalmente; non  era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella  tragedia euripidea, una tanto geniale innova-  zione doveva sembrare anche anarchica urtando  contro le consuetudini legali e morali della vita  ateniese; e per ciò senza dubbio si dovette ve-  lare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E  chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo,  o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna,  e a ricomporre nello schema giuridico la mossa  ardita della figlia. E fine si manifestava forse,  in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora.   L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza  effetti. L'amore della vergine che prima della  lotta trionfale era come offuscato di paura e di  speranza egoistica se ben legittima, dopo si velò  di malinconia contrastando con gli affetti filiali.  " Conducimi con te „ aveva esclamato : dove ?  Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al     EURIPIDE 79     vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva  grave, aspra la lontananza : era svèlta ancora  (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vec-  chiezza di lui. Accanto al padre, la madre : col-  pevole, è vero, del rischio; madre tuttavia. Nel  doloroso contrasto levasi l'appello al dio che  travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere  i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini  e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle  o ajuta benigno gli amanti che penano pene di  cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo,  onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo  stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia  di che ti onorano „ (1). Calda invocazione che tanto  piacque al pubblico perché nella veemenza del-  l'amante incontro al Dio della sua passione tras-  pare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire,  non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a  tollerarlo. Eros soccorrerà nel fatto : l'amore  vince.   Era ancor questa una giunta di Euripide al  mito. Ma secondaria: un che di convenzionale  la gravava ; non improntandola il segno del pen-  siero innovatore, ma parendo scaturir ovvia  dalla situazione medesima. Per ciò lo spirito del-  l'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue  quel dissidio sorto dalla pietà e dall' affetto  e dirizzarlo a scopi diversi, più profondi o più  larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psi-  cologica queir ansia pregna di preoccupazione     (1) Fr. 136, leggendo dvìjzots al v. 5. Cfr. § VII.     80 II. - ANDKOMEDA     politica, quel travaglio complesso di meditazione  sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due  tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera ma-  gnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui  crede di aver esaurito per una via la materia  psichica del dramma, una nuova senza indugio  gli s'apre : cessa di toccare la più schietta ma  generica umanità del suo pubblico, per eccitarne  peculiari moti e destarne i singolari interessi.  Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,  l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro  alla difesa della giovinezza e della passione, da  lui concette e atteggiate sotto la piti seducente  specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il  pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cas-  siepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la  quistione giuridica o sociale o politica di cui è  per far cenno, dalla sola impostatura dei ter-  mini si comprende che Euripide, — anche una  volta, — aspira a risolvere una difficoltà em-  pirica col criterio non dell' utile e del pratico  ma del buono e del bello.   La quistione poi non è sola, si consta più ve-  ramente di due. I genitori della vergine s'ar-  mano oltre che dei proprii diritti sentimentali,  di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento  degli esseri si trasforma in un contratto econo-  mico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto  da la pietà ospitale, ha troppo palesemente la  peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia  del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro  io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche  se schiavo, onorabile è l'uomo ricco ; il libero, bi-  sognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della     EURIPIDE 81     felicità! „ (1). Che importa forza di gioventù,  ardimento di cuore ? clie importa la gloria im-  mortale, per cui " già morto, già sotto la terra, sii  venerato ancora „ ? Nulla : " è vano : fin ch'uno  viva, l'agio gli giova „ (2). Né basta obiettargli,  con l'esempio recente, che si può per ricchezze  fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3).  Risponde, al ricco anche la sventura esser più  lieve che al povero: già che quello non soffre  se non del presente ; questo " ogni giorno spa-  venta il futuro, che non sia dell' attuale il do-  lore avvenire più grande „ (4). Il dissidio fra la  fiducia idealistica e il materialismo gretto si as-  somma in una sentenza : " questa delle ricchezze  è la maggiore : nobili nozze contrarre „ (5). Eu-  ripide ha torto ; la ragion pratica lo deve con-  dannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha  torto tanto più quanto che egli ha lo sguardo non  al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla  plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale  dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal  tragico non vien conseguito, un altro lo è, più  dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare  la piaga, di stimolare i cuori. La memoria è  recente della sconfitta tócca in Sicilia ; è vivo il  lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie  di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono an-  cora in Atene ; ognuno interroga l' imminente  destino; ma le risposte scavano inutili l'aria tor-  bida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando     (1) Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr. § VII.   (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137.   A. Ferbabiko, Kalypso.     82 li. - ANDROMEDA     cader la sua massima morale il suo rigido e  teorico principio, se non insegna una via, dis-  gusta del presente cammino.   Nel male generico poi rocchio di lui scorge,  e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, —  quarant'anni circa prima deìVAndromeda^ — Pe-  ricle aveva proposto e fatto votare un psèfisma,  secondo cui si ritenevano illegittimi (vód'Oi) i  nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino.  E tale legge era durata in vigore di poi fino  ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Ari-  stofane. In verità se si pensa agli scambii con-  tinui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci  s'avvede subito in qual forte numero gli Ate-  niesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e  decaduti a un grado inferiore, solo per aver con-  tratto unioni con donne straniere. Pericle stesso  fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. Né  solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno  urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte  le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se né  pure la cittadinanza dello sposo poteva far ate-  niese, per esempio, una donna nata in città della  Lega marittima, dura e perigliosa barriera si  rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur  del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la  loro fedele assistenza doveva contare specie du-  rante le guerre infelici. Onde il largo spirito  euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse  la società de' suoi tempi, si giovò dell'attributo  etnico che la saga conferiva ad Andromeda per  riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad  Andromeda difatti diceva il padre, — o la madre :  " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi !     EURIPIDE 83     che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, sof-  frono per legge: da questo è necessario che ti  guardi„ (1). L'accortezza artistica di un cosi fatto  mònito è pari alla profondità del problema toc-  cato. Perseo accoglie su di sé le simpatie non  pur dell'autore si del pubblico, per la sua ge-  nerosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio  sia la eventual vittima della dura legge ; che  la ragion giuridica stia con il cattivo genio della  tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio  intiero contro il decreto e gli strappa, non per  raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo.  Aristofane muove a riso se un suo cotale perde  l'eredità a causa del psèfisma periclèo. Eurij^ide  indigna se fìnge Perseo offeso non nell' avere  ma, dopo un estremo rischio, nel giusto com-  penso d' amore. All' architettura passionale la  scenica doveva corrispondere per modo che non  s'adombrasse alcuno né dell'anacronismo né del-  l'irrazionaUtà (2), di cui qualche mediocre spirito  potrebbe menare grande scalpore.   Anacronismo e irrazionalità era difatti mo-  strare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto —  che so ? — di Pericle e Aspasia : l'arte forse non  se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano  essi indizio d'un' alterazione del mito ben più  profonda ed esiziale di quella operata dalla ge-  nialità iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di     (1) Fr. 141. Cfr. § VII.   (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di  G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (To-  rino 1903).     84 II. - ANDBOMEDA     rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti  fra la nostra essenza umana e le favolose vi-  cende. Invece, una volta intrusi fini di ripren-  sione politica e di biasimo sociale sopra la trama  della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita.  Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del  ketos, affronta problemi proprii dello statista, non  prosegue se non l'opera del mitologo che, al me-  desimo proposito, finse l'amore di Andromeda e  il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito  la società, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano  r antropomorfismo contenuto nel primissimo  germe. Si assiste cosi a una penetrazione suc-  cessiva e graduale del fenomeno solare nella  sostanza umana. Ma quanto più l'assorbimento  procede, tanto meno il mito serbasi, qual era,  mito di maraviglia cui si presta la fede non ra-  zionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta  in paradigma d'una teoria logica, in schema di  una tesi politica. In vero, dopo che Perseo è di-  venuto pretesto a un problema giuridico, egli  è per diventare l'esempio aggraziato d'una fra  le possibili soluzioni : segno che già l'intelletto  si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla  vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono  però le sue prime rigogliose radici.   Mentre da questo lato la leggenda si profonda  verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pen-  sieri. Il religioso spirito di Euripide non mancò  di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le  vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.  Quanto e come, è impossibile dire: solo per bar-  lumi s'intravvede alcunché : " Non vedi come  la divinità sconvolge la sorte ? in un giorno ri-     EUKIPIDE 85     volge l'un qua l'altro là Quegli era felice ;   lui, un dio oscurò dell'antico splendore: piega  la vita, piega la fortuna con lo spirar dei  vènti „ (1), " Non v' è mortale che nasca felice,  senza che in molto l'assecondi il Divino „ (2).  E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di  Zeus e seder presso ai falli degli uomini „ (3).  Né manca un moto d'ira contro la divinità che  ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma è  espresso in forma accorta e velata : non avverso  a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ub-  bidito loro. " Spietato è quegli „ — dice ad An-  dromeda il Coro — " che dopo averti generata,  o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade  in favor della patria ! „ (4). Di questi frammenti  il principale, da cui traggono luce gli altri, è  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso  con un suo analogo, rimastoci della Melanippe  incatenata (5). " Pensate voi che le colpe bal-  zino su con le ali presso gli Dei? e che poi  qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavo-  lette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda  giustizia ai mortali? L'intiero cielo non baste-  rebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli  uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esa-  minarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi :  Dike [non è là su: ella] è qui basso, vicino a voi,,.  Dunque Euripide ha un concetto di giustizia     (1) Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel se-  condo, Tòv al V. 1. (2) Fr. 150.   (3) Fr. 151. Leggo àf^aQziag, non TifioìQlag.   (4) Fr. 120. (5j Fr. 506.     86 II. - ANDROMEDA     a cui non vede rispondere né l'opere né i de-  creti divini, a cui gli pare meglio s' addica la  condotta degli uomini. Per lui v' è disaccordo  fra Zeus eDike: questa non può seder presso  quello. Per lui v'è incoerenza fra colpe e pene:  queste mal rispondono a quelle né sempre presso  al " fallo dei mortali „ abita Griustizia. In verità:  un re felice è tramutato in infelicissimo per  l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso  non ha la gioja del premio e deve superare  nuovi contrasti; la figlia è punita per la madre.  E pure tutto ciò vogliono gli Dei dall'alto. Che  cos'è dio? che cosa non dio? che cosa semidio?  La domanda angosciosa, — l'eterna del dubbio  tragico, - — ritorna, e accompagna, in tono mi-  nore, il concerto delle passioni eroiche e dei pro-  blemi sociali.   Ma cotesto non è più mito. E critica del mito :  in quanto esso contiene un ricco elemento reli-  gioso. Critica singolare però : che è insieme atto  di negazione e atto di fede. Euripide accetta la  leggenda, la narra senza alterarne il lineamento  essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli  un legittimo procedere della divinità. E la sua  risposta ha un sottinteso profondo. Egli po-  trebbe difatti negar di credere al racconto per  le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al con-  trario, perché le sente, dopo averle psicologica-  mente vivificate, umane e, come umane, verisi-  mili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo.  E una maniera di sceverar, nella fiaba, la in-  corruttibile verità, — il dolore l'amore la morte,  — dalla verità caduca, onde sorgono gli aspetti  e le forme divine. Se non che essa verità ca-     EURIPIDE 87     duca non è morta, ha vita in assai spiriti an-  cora: quindi la ribellione è difficile, faticosa; lo  svilupparsi da' suoi impacci è un travaglio. E  il tentativo di ripossedere totalmente il mito  fallisce; una rocca resta inespugnata.   Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euri-  pide investito il problema che la leggenda eroica  di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero.  Della leggenda la sostanza umana fu la più  riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito  creatore si profondò con la sua potenza d'in-  tuito da un lato, con le sue preoccupazioni di  politica da l'altro; quella per cui l'animo si com-  piacque della finzione antica, e la godette ri-  creandola. L'elemento divino fu contemplato con  occhi di esitazione, accettato quasi rassegnata-  mente. Al di sopra si conservava intanto la patina  eroica, lo splendore delle avventure, la maestà  delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.;  reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro  orrendo : v'è quanto basta perché chi s' appaga  dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, im-  mensamente lontano. Non si sa se nella tra-  gedia avesse luogo, come nel racconto di Fere-  cide, l'ostilità di Fineo e il duello fra i due rivali:  certo questo fu, se mai, un fatto di più, non un  sentimento nuovo: rientrò insomma nella sfera  estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza  umana, elemento divino, vernice romanzesca non  trovarono la loro sintesi se non nell'unità dello  spirito euripideo : sintesi che non è concordia  logica, né armonia estetica ; si bene vita in an-  goscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicolo-  gico e l'affanno politico e il dubbio religioso     88 li. - ANDKOMEDA     si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,  la sorte di Perseo assommano in un solo vivo  vertice le divergenti passioni dell' intera tra-  gedia. Per comprender questa nella sua forma  poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfìcie  molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del  poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui  potè identificarsi anche il popolo d'Atene: una  sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque  e in cui fu rappresentato il drama. Preoccu-  pato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spet-  tacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli  spettatori come al poeta il fato travaglioso  dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli  Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si  tramutava a poco a poco in un'altra angoscia più  sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato,  da l'alto, le infortunate vicende della grande  Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende  argivo, si è quasi fatto cittadino ateniese dinanzi  gl'inconsci risguardanti, da quando un psèfìsma  di Pericle viene opposto al suo amore; si è quasi  fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da  quando il suo impulso ideale vien premuto dalla  material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude  ha la maschera ambigua dell' avvenire che at-  tende, lontano, la Città confusa. A lui definisce  la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze  con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione  in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tra-  mutati in constellazioni. I problemi umani della  sua vita sono tronchi da un intervento divino :  non resoluti. Onde più tragico ricade sugli ascol-  tanti il timore per le imminenti sorti della     I     DOPO EURIPIDE 89     patria; s'accresce il senso vivace del mistero che  regola le fortune terrene.   Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico  del mito compaginati negli spiriti di Euripide  e del primo suo pubblico, non significa che si  fosser fusi nell'opera d'arte: perché la scissione  può, nello spirito, comporsi per il dolore me-  desimo di cui è causa; ma rende, senza dubbio,  disarmonica la forma estetica che la esi^rime-  Quindi l'unità è momentanea, non stabile. Le  diverse materie della leggenda si serbano dis-  gregate e inorganiche. E, non potendosi nel  tempo, se non per via di critica, riprodurre iden-  tico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'età  che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano  derivate non accolgono simpatie e non trovan  cultori. Ond' è che il drama nella storia della  fiaba rappresentò una pausa senza echi.     III. — Dopo Euripide.   Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un  lento ma spiccato impoverirsi della sua vita.  Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece,  di arricchimento; la tendenza verso una polie-  drica complessità: onde naturalismo e novel-  Hstica s'eran da prima complicati insieme, avevan  avuto giunta dal romanzesco, per attingere il  sommo della pienezza nel dramatico travaglio  del pensiero religioso e politico, il vertice del-  l'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo     90 II. - ANDROMEDA     Euripide, la parabola discende sino ai confini  d'una più consueta mediocrità: si che par nel  principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi  se non il midollo originario della fiaba, ma si  mostra poi ch'esso medesimo è presso che inari-  dito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza  alle fogge giovanili, acerbe più che esigue; si bene  lo spirito che negli inizii verso lei convergeva in-  tiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo al-  largarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si  immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della  leggenda di Andromeda è parallelo al formarsi  del disinteresse mitico; ed è quindi preludio d'un  nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato  a pena uno stampo, prende a foggiarsene e  riempire un altro : maggiore.   Il lamento ch'è solito allo storico del mito si  deve ripetere ancor qui : assai fu perduto che ci  avrebbe di molto giovato nello studio di cosi  fatta decadenza mitica. Non son più che quattro  gli autori (1), in cui ci ritorni il racconto del ketos;  ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa  caratteristica.   Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con  l'altre ancor questa favola, si riconnette a Fe-  recide : muove ciò è, non dalle forme eh' essa  aveva assunte nei più vicini tempi, ma dalla sua  origine. Né vi aggiunge gran cosa ; al più, pio-     ti) Dal numero è escluso Igino Fav. 64, come quello  che contiene varianti di particolari, ma non imprime  d'un propi'io segno la fiaba.     DOPO EURIPIDE 91     coli insignificanti particolari; qua e colà, quasi  in margine, ferma la notizia d' una tradizione  alcun poco diversa dalla ferecidea (1). Chi legga  distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi  abbia intenti d'investigazione erudita : nel che  si appalesa dunque la caratteristica di questo  strato evolutivo. All'autore che la narra la leg-  genda è morta: è cadavere che egli ricompone  fra bende, con qualche cautela, a fin che poco  di quelle membra che furono organismo vada  disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui,  nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo  compilatore ; presso il quale è già armonia di  contesto e compiutezza di termini. V'è, inoltre,  una ragione più alta, intima alla logica dello  sviluppo storico, onde Euripide dev' essere ta-  ciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e  la volgata con tutte le sue piccole e grandi va-  rianti è oltre; più sopra o più sotto, non importa ;  è distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila  a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra  le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche  della mitopeja; già che la distinzione deve va-  lere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo.   Se non che tale aspetto non fu del solo Apol-  lodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del  pari, se pure non nell'atto materiale del suo la-  voro, certo nella sfera fantastica della sua mente,  da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide  erano le fondamentali intuizioni della saga. Ciò     (1) Cfr. § I.     92 II. - ANDROMEDA     sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ;  la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei per-  sonaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due  giovini. Ciascuna di queste intuizioni è ripresa  e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol  tanto entro i loro limiti il poeta si concede di  imitare altre fonti, sia pure Euripide.   Il romanzesco imprenta tutto quanto il com-  patto manipolo degli esametri tra la fine del  quarto e il principio del quinto libro nelle Me-  tamorfosi. Sottinteso costante e necessario è il  miracolo della potenza oltreumana: dal volo  che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virtù del  capo gorgoneo che termina l'episodio. In appa-  renza però Ovidio non se ne compiace con la  maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di com-  primerlo in termini di umanità. E fallacia. Certo,  il ketos avanzante al feroce convito vien pa-  ragonato a nave rapida: onde n'è ridotto il con-  fine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra  con l'empito discendente dell'aquila: non insolito  spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simi-  glianza di cignale fra cani in torma : scena cui  è abitudine nella vita comune. E lo scoppiar  degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria  dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri.  In realtà, queste similitudini umane riescono una  più sicura esaltazione dello stupefacente: — ne-  cessarie perché le intuizioni si concretino, escano  dall'indefinito ferecideo, e conseguano una pla-  sticità chiusa e viva, che non sarebbe senza il  riscontro consueto e terreno : — utili, di più, per  creare, di là del riscontro, il contrasto fra lo  straordinario e il normale. Si compie qui, ac-     DOPO EURIPIDE 93     canto a un magistero d' arte più evoluto che  vede i particolari e li esprime non li accenna,  uno sforzo per accrescere la distanza di cui se-  parasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio.  Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine?  Per la metamorfosi che conchiude, in due ri-  prese, il racconto. In quella il romanzesco si  dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa  che impietra in coralli le verghe del mare e  converte lo stuolo dei congiurati in affoltata  marmorea di statue danno una sanzione estrema  a l'inverosimile che precede. Non in egual modo,  a dir vero ; che ciascuna di quelle trasforma-  zioni ha importanza speciale, né può valere se  non congiunta con la prima o la seconda delle  scene in cui il racconto si divide.   La prima è intorno alla venuta di Perseo, al  duello con la fiera, alla vittoria (1).   Novamente da l'una parte e da l'altra egli si av-  vince con le penne i piedi ; della curva spada sì arma :  e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e  di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte  etiopiche e i campi cefèi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva  ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna  lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantìade vide,  avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non  avesse agitato i capelli né gh occhi stillato un tepido  pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne  avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa     (1) IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus  (Berlino 1914).     94 II. - ANDEOitfEDA     bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria.  Si ferma. "0 tu — dice — degna non di queste ca-  tene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti,  il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e  perché porti legami „. Si tace ella da prima né osa  parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il  volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, — e poteva,  — di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste più  spesso, svela, perché celar non sembrasse delitti suoi  proprii, il nome della terra e di sé, e quanta fosse  stata fiducia della materna bellezza.   Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona :  avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta  sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Do-  loroso il padre, e insieme la madre è presente : miseri  entrambi, più giustamente questa. Non recano ajuto con  sé, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si  serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di la-  crime molti giorni vi potranno restare ; a porger sal-  vezza è breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, — Perseo  nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove fé'  pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone  anguicoma, e per gli spazii etèrei agitando le ali vo-  latore ardito, — sarei qual genero a tutti, per certo, an-  teposto. A tante doti io tento di aggiungere un bene-  fizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore  salvata, sia mia, fo patto ,. Accettano (chi avrebbe per  vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote  il lor regno, i genitori.   Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro  le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale  la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto  dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa  Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando     DOPO EUKIPIDE 95     d'un sùbito il giovane, da i piedi respinta la terra,  alto si leva verso le nubi. Come alla sommità dell'acque  fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista  ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che  nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga  concede, da dietro lo afferra, perché la nefasta bocca non  torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea;  cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della  fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Ina-  chide le nascose il ferro, fin dove è ricurvo (1). Laniata  da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si  asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di  fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno  spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ;  adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei  fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si  termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella  con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti  misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appe-  santiron madide : né Perseo osando più oltre affidarsi  a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo  vertice l'onde supera chete, è coperto da l'onde agitate.  A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i  gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei  fianchi colpiti.   D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le su-  perne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, au-  silio della schiatta e salvator io proclamano, Cassìope e     (1) Per avere una idea precisa della " spada ricurva ,  " falcata „ di Perseo e per comprendere il v. 720  {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon  d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig 1902-9) pag. 2053-4.     96 II. - ANDROMEDA     Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine,  della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta  purifica le vincitrici mani : e perché dura non offenda  l'arena il capo gorgoneo, fé' molle di foglie il terreno,  virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa  di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso  midollo ancor vivo assorbì la forza del mostro, al con-  tatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse  rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il  mu-abile fatto in più verghe e con gaudio lo vedon  ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su  l'acque, ancora ai coralli la stessa natura è rimasta,  che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ciò ch'era  verga nel mare, sopra il mare sasso diventi.   Seguono le scene di festoso tripudio cui s'ab-  bandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti.  E si termina, col libro quarto, il primo episodio,  per sé stante, del mito. Chi lo cerchi più a fondo, deve soffermarsi  sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra  Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sen-  timento attorno cui Ferecide aveva trovato rac-  colta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sor-  dina. Un che d'ignoto par che l'attenui come  d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustifi-  candosi tutto il successivo evento appunto dal  sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa  del padre. Anzi, se l'origine dei coralli è il  vertice avventuroso del racconto, questa scena a  l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o,  meglio, umano. Ora in ciò a punto è la causa  del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo  senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire     DOPO BURIPIDB 97     "iin elemento disgregatore, una disarmonia nel-  l'opera: e la passione tramutò in accordo nu-  ziale. I due protagonisti impiccioliscono visibil-  mente: ella s'induce a rivelare allo straniero il  perché di sua xDOsitura " a fin clie non sembri  celare colpe sue proprie „, — e accusa la madre:  egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre  la belva avanza e il terror tragico martella i  cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene  onorevole genero al re. I più generosi appajono,  poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore  danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista  fu, in questo argomento, volubile ; né gli soccorse  alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui è  capace in altri casi. I soli accenni più appropriati  toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente  Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della  vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza  numerica della forma cela l'esiguità della intui-  zione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma  un poco anche guasto la vita.   Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti  a banchetto nuziale il re e la regina con la  figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E  l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo già fidan-  zato con Andromeda ; il quale non ha avuto il  coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma  tenta ora di riaverla quando il ketos è ben  morto.   Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' im-  prese (1) l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie     (1) Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc.  A. Ferbabino, Kalypso. 7     98 II. - ANDROMEDA     una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti  alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E  i conviti mutati in sìibiti tumulti potresti assomigliare  a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida  rabbia dei vènti.   Primo Fineo tra quelli, temerario autore della con-  tesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,  " Ecco „ dice * ecco, mi avanzo a vendetta della car-  pita sposa. Né a me te le penne, né sottrarrà Giove  in falso oro converso „ (1). A lui clie tentava scagliare,  Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge in-  furiato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ?  con questa mercede compensi la vita di lei ch'è sal-  vata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo  a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il cornìgero  Ammone, ma quella belva del mare che veniva per  farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu,  quand'era a morire. Se non se, crudele, ciò stesso tu  brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non  basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo  soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli  che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ?  Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era  affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual  lo richiese, pel qual non è orba questa vecchiezza, si  porti quanto con opre e parole pattuì ; e comprendi  come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a „.   Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi     (1) È forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus  avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal sof-  fitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae.     DOPO EURIPIDE 99     comincia il combattere. E il racconto si distende  lungo per circa due centinaja di versi : che la  battaglia è seguita ne' suoi particolari con ab-  bondanza di nomi di persone di gesti. Il tu-  multo è grande (1).   " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per  la causa che impugna inerito e fede. Per questi il va-  namente pio suocero, e con la madre la nuova sposa,  son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma  prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti „.  Per poco ancora dura la lotta. " Però quando alla  turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che  mi costringete voi stessi, ausilio richiederò al nemico.  Rivolga il viso chi, propizio, è presente „ : e trasse il  capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti  commuovano! „ esclamò Tèscelo; ma, mentre con la  mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal  gesto rimase statua di marmo ,. All'ultimo è pro-  strato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal  mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci,  Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impie-  trante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego.  Non odio ci spinse a contesa, né brama di regno ; per  la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa  per opre, pel tempo la mia. Non m'è grave di cedere.  Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a  me! tuo il resto ti sia „. A lui, che cosi parlava, né  risguardare ardiva quello cui con la voce pregava,  rispose : " Ciò che, o timidissimo Fineo, concederti  posso, ed al vile è dono ben grande, — lascia il timore.     (1) V 30-235 ; la parafrasi è dei vv. 150 sgg.     lOO II. - ANDROMEDA     — ti concederò: da ferro non sarai violato. Che anzi  vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,  nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la  mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto „.  E lo impietra.   Cosi la vasta e agitata folla che nel principio  commoveva la scena si tramuta in un popolo  rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fis-  sità, un gesto di vita. Ed è qui a punto il car-  dine del secondo episodio mitico: efficace tra-  passo per il quale la compiacenza ferecidea  verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza  dell'azione si sublima in motivo di armoniosa  bellezza. Che è quasi esclusivamente merito di  Ovidio; come di quello che, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochie, sviluppando a sé  tutta la seconda parte della leggenda, la equi-  librò con l'ampUarne, ai due estremi, il combat-  mento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto.  Inserì nella sua materia anche la nobile fede  di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo  a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non  priva di malignità né di un grossolano sale.  Se bene già questa non era una giunta che com-  piesse, si più tosto una intrusione che alterava,  il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche  le vicende della contesa; e tradusse il duello in  una battaglia omerica; — cadendo nella più  stucchevole prolissità. Non fu ricco, ma pleto-  rico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba  sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,  senza garbo né acume, tracce d' umane pas-  sioni. Della cui banale mediocrità s' intende  quindi il motivo : fu necessario all'autore inspes-     DOPO EURIPIDE 101     sirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' im-  menso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui  or là, la perizia tecnica foggia il verso con  eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nel-  l'insieme, sopra un ben intuito fondamental con-  trasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e  rigonfia gli elementi dell'opera.   E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto  nel primo episodio: volubile superficialità psico-  logica accanto a larghezza romanzesca. Ma ana-  logo è nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro  il poeta non ha colto il cuore del mito, né ha,  da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non  avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con  il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea :  pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse  la tentò con approcci successivi, e di ciascuno  rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica,  ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agita-  zione bellicosa; in parte fu possibile imitare  Euripide, Omero in parte. Mai però, in alcun  punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno  amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte  le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che  reagisce pigramente se ben non dorma ancora.  In realtà lo spirito è distolto ; vive altrove.   Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano è  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia  nuova, '' lucianesca „. Ecco il quattordicesimo  dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di  Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  è a pena morto. In non si sa qual recesso del  mare Tritone e le Nereidi cambian fra sé     102 II. - ANDROMEDA     quattro ciance. È un mormorio di donnicciuole  con un rivenditore del mercato. L'uno dà le  notizie ; l'altre gli si fanno attorno, — e ov'è la  bellezza dei volti? — con moti curiosi: ora  questa ora quella alza la voce ; le compagne in  tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare  de' più recenti fatti, e l'amico li ha appresi ori-  gliando. L'eco della terra par muovere da una  lontananza. Ma la terra è presente (1).   Tritone e le Nereidi.   Tbit. — Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste  contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non fé'  danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso già  esso medesimo.   Ner. — Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta  come ésca la vergine, lo assalse ed uccise, attenden-  dolo in agguato con molti guerrieri ?   Trit. — No. Ma voi conoscete, — credo o Ifianassa  — Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul  mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno  e che per compassione di loro voi avete salvato.   Ifian. — So di chi parli: suppongo che ora sia  un giovine e molto prode e bello di aspetto.   Trit. — Egli uccise il ketos.   If. — E perché, o Tritone ? non questo compenso  per vero egli ci doveva.   Trit. — Vi dirò tutto, come avvenne. Egli fu man-  dato contro le Gorgoni per compiere al re quest'im-  presa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia...   If. — Come, o Tritone ? solo ? o conduceva com-  pagni? che altrimenti la via è difficile.     (1) Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner, 1881).     DOPO EURIPIDE 103     Tbit. — Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito  d'ali. Quando dunque fu pervenuto là dove dimora-  vano, esse dormivano, ritengo, ed egli potè tagliare il  capo a Medusa e scapparsene a volo.   If. — Ma come le guardava ? sono difatti inguar-  dabili : o pure chi le guardi, non vedrà altro dopo  di esse.   Trit. — Atena col porgli innanzi lo scudo (queste  cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a  Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Me-  dusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio :  allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre  riguardando nell'imagine, recise con la falce nella  destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destas-  sero volò via.   Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, già  basso su la terra volando scorge Andromeda esposta  sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o dèi !,  sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da  prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la  causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore  (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise  di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso  come per divorar Andromeda ; e il giovine, penden-  dogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo  colpi, con l'altra gli mostrò la Gorgone e lo fece pietra:  la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra,  quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli  della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre  scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole;  e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurrà  in Argo : cosi che in luogo della morte ella trovò un  marito, e non comune.   Ir. — Io già dell'avvenuto non mi sdegno; che     104 li. - ANDBOMBDA     colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre  menava vanto e riteneva d'esser più bella ?   DoB. — Ma in tal modo, come madre, avrebbe  sofferto per la figlia sua.   If. — Non rammentiamo più tali cose, o Doride,  se una donna barbara ciarlò un po' più del giusto.  Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la  figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.   Certo, la terra è presente. E nei gesti che si  sottintendono ; e, più, nei confini mentali degli  interlocutori. L'arte di Luciano li designa con  perizia finissima nelle varie domande chemuovon  a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata  la morte del ketos, suppongono, com'era più  semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  — è il primo ingresso dello stupefacente. Perseo  s'era recato in Libia. E quelle pensano a una  regolare spedizione con compagni, ^' che altri-  menti la via è difficile „. Ragionan bene; ma,  per altro, Perseo volava : — nuova maraviglia.  Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come  la guardava?! „. L'inverosimile è al colmo. Da  quel momento Tritone può continuar ininter-  rotto. E continua; ma svela, in un suo breve  inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle  interrogazioni. Perché Perseo fu " preso da  amore „ per Andromeda? Risponde: " bisognava  salvar la fanciulla „. Tal motivo non vale per  l'animo dell'eroe, che in esso quella non è causa  sufficiente e appropriata ; bensì smaschera l'ar-  tificio del mitologo, e mostra la passione in-  ventata a giustificare la salvezza della vergine.  E una critica genetica, diremmo oggi. Ed è     DOPO EDRIPIDE 105     la stessa che avevan fatta, più coperta, le figlie  di Nereo. Il dono delle ali è rilevato come stro-  mento mitopeico perché Perseo potesse recarsi  in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo ar-  tefìciato ad eliminar in Medusa quella medesima  nefasta efficacia che le si soleva attribuire  Dunque, — è deduzione implicita, — ci fu una  interessata volontà, la qual condusse con varie  furberie il giovine in Libia e contro Medusa e  fra gli Etiopi. Dunque il mito è favola che ima-  ginò taluno. Passo a passo i colpi son recati,  fin che la leggenda non ha più una base di fede,  si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde  si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Ne-  reidi dinanzi all'avventura: però che il pensiero  da cui sono animate è, non cosi ristretto da non  concepir l'insueto, ma largo a bastanza da ne-  garlo. E nell'ultime parole la larghezza si ac-  cresce d'un contenuto morale , estrema vetta di  cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto  colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto  che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ;  né dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza  d'una donna barbara con loro. Son questi, si,  ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la  coscienza etica di Euripide; ma la tragedia  manca, né può sussistere adesso. La fiaba è stata  svèlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde  il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora  il cuore stesso dell'artista.   Come un luogo comune dell'ornamentazione  retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue  Astronomiche^ a proposito delle costellazioni     106 II. - ANDROMEDA     denominate da Perseo e da Andromeda. Ma  senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso  (non importa se anteriore nel tempo) assai men  vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel  quale l'intellettual sorriso della critica è tutta-  via indizio di un sopravvissuto interesse, come  a passato recente e sentito ancora. Manilio per  contro segue l'andazzo letterario, e non illumina  né pure con la luce della sfera più alta le te-  nebre deir ormai superata. La conversione dei  personaggi in astri, che presso Euripide era  giunta a troncare ardui problemi dello spirito,  diviene qui lo spunto, donde il raccónto si di-  parte : le è anzi asservito il racconto medesimo,  il quale nella mente all'astrologo imbelletta la  pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva tro-  vato favor di accoglienza fra i Latini (1). Si  che qui si misura, con precisa esattezza, il re-  gresso dell'efficacia leggendaria.   Né Luciano né Manilio accennano a Fineo.  Se per ciò si connettano con il tragico che, —  forse, — non gli aveva trovato luogo nel drama,  non è a dirsi. La natura del tema, in entrambi,  giustifica il silenzio: che Fineo non divenne  astro né ebbe attinenze col ketos. Per contro è  notevole che non essi, come non Apollodoro né  Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E  per chiaro motivo. Creata quella nel momento  del culminante interesse pel mito, scompare di     (1) Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^  (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37.     DOPO EURIPIDE 107     poi con lo scemarsi della simpatia traverso le  posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della  parabola, che segna lo sviluppo di questa leg-  genda, sta adunque una singolare originalità  ch'è in contrapposto ad un tempo con gli stadii  precedenti e con i successivi. E una singolare  ricchezza psichica, che dell'originalità è la causa  diretta.     CAPITOLO III.  La Demetra d'Enna ^^l     1. — Il mito siculo.   Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che  mille metri sul mare, non lungi a un lago cui  oggi è il nome di Pergusa e di Pergo era nella  antichità, sopra una larga groppa dei monti  Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle au-  rore e dei tramonti settembrini, le pupille be-  vono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi  solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. De-  metra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia     (1) Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II,  di cui nelle note successive si citano i §§.   (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Ca-  strogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig 1912).     Ilo III. - LA DEMETRA d'bNNA   di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli  anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,  cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano  forse dai paesi vicini; tutte fin da Panòrmo da  Drèpano da Catana da Camarina da Siracusa  da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pen-  siero divoto, supplice per la famiglia ed i campi,  timoroso dell'ire e delle vendette divine: però  elle di là la Dea, la quale è nume ad un tempo  del matrimonio e delle spighe, sembrasse ve-  gliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane  in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione  l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta  contro il mal governo di Verre, l'origine anti-  chissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ;  ivi dall'età vetuste le case dei numi ed i riti  sacri. E l'antichità asseriva riconosciuta da ogni  popolo senza contrasto (1). Contrasto certo non  sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense  si guardava, come a reliquia dei tempi, con un  profondo rispetto, che le arcane leggende dei  primordii rendevano più intimo e sentito.   Né la memoria secreta del popolo o il suo  pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi  che, — forse, — la Storia oggi, molti nessi rav-  visando e molte trasformazioni che s'ignoravano  allora, riesce a dare un più saldo fondamento  alla credenza di quei Siciliani, un contenuto  meglio ampio al loro ricordo; se bene diffìcil-  mente serbi la grata bellezza poetica di cui in-  sieme erano pregnanti religione e mito.     (1) CicER. in Verr. IV 106.     IL MITO SICULO 111     È probabile che gli avvenimenti seguissero  cosi (1).   Enna, nella sua forte positura montana, è da  presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici  appartenenti alla tribù dei Siculi ebbero a cercar  rifugio sul finire dell'età micenea, nel sec. IX  avanti l'èra. Le coste, più agevole sede, eran  divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente  di predatori troppo ben armati perché fosse riu-  scibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei vio-  lenti s'era per alcun tempo spostato verso l'in-  terno il processo evolutivo che, non senza influssi  esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'età  eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava  fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ;  tra cui, com'è ovvio, prendeva consistenza anche  il pensiero religioso, con la leggenda divina che  n'è, fra gli Arii, foggia consueta. Per disavven-  tura, dagli scavi archeologici noi siamo assai  meglio informati su gli oggetti delle più ve-  tuste necropoli e su gli stili loro, che non su la  maturità mentale, su gli dèi, su le fiabe, di  questa tribù in quell'epoca. Ci manca, sovra  tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare  una caratteristica dell'intelletto siculo antichis-  simo la quale valga a contraddistinguerne, p. es.,  i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e  nella Grrecia. L'affinità concede bensì volontieri  l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a  linee sommarie e incompiute.   Per ciò la congettura ancor che acuta lascia     (Ij Cfr. §§ 1 e III.     112 III. - LA DEMETRA d'eNNA   intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli del-  l'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger  il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'isti-  tuto familiare, erano stati il tesoro comune che  gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso  le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie  meglio possedute e costituite col cessar del no-  madismo, avevano per sé più e più secoli di  trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro  celata forza e importanza, due poli essenziali  nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto,  da attrarre parecchie fra le medesime divinità  della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divi-  nità delle tenebre e di quella morte, che la mente  bambina dei primitivi, iDer non averne compreso  il profondo valore e la non palese bellezza, cir-  condava di ombra nelle celate viscere della terra  ove scompajono i corpi di uomini'ed animali.   Di questi due poli religiosi seguire a ritroso  la progressiva formazione, conduce a origini tra  sé lontane. Il naturismo che venera l'albero e il  sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;  l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spi-  rito del sasso e la potenza del seme ; il più ma-  turo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di  tutta la terra una divinità sola o di tutte le  biade: ci riassumono, — nei loro gradi più re-  cisi, e nelle loro sfumature assai meno formula-  bili, — la storia sintetica del Nume agreste, il  quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e  disciplina intorno al suo proprio culto. È un'a-  scesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : è  un germogliare della credenza su da quel suolo  cui si richiama. — Altra via tien la famiglia     IL MITO SICULO 113     nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  è morto dopo aver in vita esercitata la suprema  autorità su le mogli e i figli ; ed è morto la-  sciando nella dimora le cose tutte che già furono  segnate del suo possesso e cedendole ai succes-  sori insieme con le vendette da compiere e gli  odii da esaurire; ed è morto spezzando con l'ul-  timo alito la compagine che si raccoglieva in-  torno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo  che li legava per la sua difesa : rappresenta con  la scomparsa un troppo profondo evento, j)erché  l'ombra di lui non debba venir placata dai ne-  poti, e il suo nome di " Padre „ ripetuto. E  quando, anche qui, la intelligenza divien sensi-  bile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si  accostano si penetrano si fondono nella simi-  glianza della lor figura, la divinità del Padre  è prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a in-  fluire su l'altre simili della Madre (ove anche il  matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio  della Figlia; le quali presuppongono però sensi  d'affetto di gran lunga più svilupx3ati e squisiti  tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo  vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa  di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e,  in sintesi, protegge per la sua parte la vita fa-  miliare. Ed è processo comparativamente recente,  se si pensa all'istituto e agli affetti che lo pre-  cedono; ma è comparativamente vetusto se si  pensa alla non piccola serie di alterazioni cui  già è andato soggetto in poemi antichi come gli  omerici.   Ma, se la formazione originaria degli iddii  agresti su dalla natura è diversa da quella dei   A. Febeabino, Kalypso. 8     114 III. - LA DEMETRA d'eNNA   familiari su dalla morte , non mancano , tra le  due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto  de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicende-  volmente, è ben noto. Ma nel caso speciale  anche più efficace influenza vi doveva essere.  Però che la terra sola faccia (se fecondata dal  cielo) prosperare il gregge ed i figli, — la fa-  miglia, in somma. Il campo dell'erba e quel  delle biade son la ricchezza; perché sono il nu-  trimento la salute la vigoria, de' buoi e delle  capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre  vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indo-  rasse al sole la spiga; il Padre morto, perché  protegga i suoi che lo placano e pregano, deve  tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine,  e provveder che carestia non affami gli agri-  coltori. — Antica accanto a questa, ma anche  maggiore, è l'attinenza tra il concepimento e la  nascita dei figli per opera delle madri, e il ger-  mogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a  pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi,  se non i primissimi, uomini apersero gli occhi:  la conservazione e la rinnovazione perenne di  quel mistero ch'è la vita. " Schiatta senza più  seme „ è in Omero la schiatta che muore. Dice,  in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare  di figli il tuo solco „: e intende il talamo ma-  ritale (1). E o può sembrare un antropomorfismo  capovolto : una figurazione dell'uomo a simi-  glianza della terra. Se non che, in realtà, deve  più tosto dirsi una tra le forme dell'antropo-     (1) Biade I 303, Euripide Fenici 18.     IL MITO SICULO 115     morfismo, per cui il fenomeno naturale assume,  nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto  dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto del-  Taria, è padre della pioggia, e i campi hanno  dopo il raccolto un abbandono puerperale. E  tra le forme questa appare certo antichissima:  perché, anche psicologicamente, sembra tosto  suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica  e dalla importanza, tanto della generazione  umana , quanto della produzione terrestre : e  perché è contraddistinta da una elementare  semplicità, che la rende compatibile con uno  stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad  ogni modo, — come principio ad effetto, —  forma anteriore a quella teogonia che figura  gli Dei a sé costituiti, come gli uomini, in fa-  miglie composte da genitori e figli, da parenti  ed affini.   Or come per un lato le divinità dei campi  e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor  nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda  richiamano al pensiero quelli che sotto la terra  regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto  il seme per lunghi mesi; sotto la terra profon-  dano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano  con tanta forza e tenacia che duro è abbattere  una quercia; sotto terra scompaiono tal volta  alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle,  che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dis-  setano del pari la bocca dei bimbi e i grumi  inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono  il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso,  di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda  della spiga, ad esempio, matura e granita, che     116 III. - LA DEMETKA d'eNNA   s'è indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad  essi deve in parte tornare di poi. La Dea che  la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli  Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i  due, diversi.   Quanto però sono facili rapporti fra la zolla  feconda e l'invisibile profondità sotterranea,  tanto, e più, sono palesi tra il campo ed il cielo.  La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno  forza e colore, spirano nella vegetazione la loro  secreta virtù. Dopo che il tralcio ha forato la  crosta del suolo, e s'è vestito di pampini, e s'è  onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli  il verde per le frondi e il rosso per i frutti.  Dopo che la spiga s'è eretta a sommo del culmo  perché l'aria l'impregni, da la calda aria pure  essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si  flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento,  l'assalto cieco della gragnuola convertono in  desolazione la speranza, in strage la messe. Le  potenze della luce e della volta celeste reggono,  per una grande lor parte, benigne o maligne, le  vicende della terra ferace.   A tale stadio di evoluzione religiosa (1) eran  assai probabilmente giunti i Siculi quando in  Enna si elaborò il mito. E tutti i concetti fonda-  mentali, tutti i principali stami di questo inci-  piente tessuto sacro, nel mito appunto conversero.  — Quando delle figurazioni che si accennarono     (1) Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su  Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I  (Torino 1907) capp. Ili e Vili.     IL MITO SICULO 117     è ormai ricca la mente, le fiabe che possono es-  serne conteste sono molteplici, e solo il caso o  la preponderante importanza di taluno tra i fe-  nomeni riesce a far prevalere qualunque l'una  di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe  o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla sic-  cità o squassato dai vènti ; il suo nascer e i  primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta  brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e  l'abbondante capellatura delle arèste ; la semina-  gione e il riposo invernale: posson del pari offrire  contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi  sotto sembianza umana e familiare, si attengono  per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo  e delle tenebre. — Ma principalissimo è senza  dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo,  onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che  il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto  la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad  elaborare. Richiamò i riti degli uomini, tra cui  avevan parte le nozze della figlia tolta alla  madre; le nozze richiamò in una delle forme  consuete, il ratto. Fece salire su la terra la po-  tenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le at-  tribuì. Disse il lamento della Madre biada cui  la biada sua Figlia è rapita, simile al lamento  delle madri umane. Alla scena disegnò lo sfondo  delle selve che circondavano il lago di Pergo,  da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito  il Dio inferno.   A questo poco si limita quel che nella proba-  bilità storica la congettura può affermare della  originaria saga sicula. Però che troppo esigue  tracce ella abbia lasciate di sé, sopraffatta, più     118 III. - LA DEMKTRA d'eNNA   tardi, da nuove vicende, e non fermata, — quel  che più importa, — in canti che il pregio del-  l'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ;  i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse me-  moria traverso gli anni; ma col suggello del  segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti  e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai  riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo :  il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel  del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto  il di più ch'è vano e impossibile supporre. Ma  ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi  è, e resterà, nelle tenebre.     n. — Il mito greco.   E certo tenebre graverebbero del pari sopra  un altro consimile mito e culto in Grecia, ove  l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito  ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapassò la  leggenda furono, secondo è verisimile, a un di  presso quei medesimi che si possono tracciare  in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe  sono strette, come i due popoli, da intima pa-  rentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dis-  simili certo ma certo anche analoghi fra loro.   Se non che quando l'arte, almeno nella più  vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il  mito presso gli Eliòni, questo ha già raggiunto  uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)ro-  babilmente nell'antichissima Enna. Certo nel-  Vlnno omerico a Demetra^ il quale è da attri-     IL MITO GRECO 119     buire, sembra, al secolo VII avanti l'èra (1), la  leggenda si preoccupa, non pur di adombrare  le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe  di giustificar la periodicità costante con cui la  seminagione la vegetazione e il raccolto si al-  ternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il  fenomeno con uno sguardo più ampio, oltre il  singolo momento. La figlia pertanto è tolta  prima, poi ricondotta alla madre; col patto però  cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare  nel grembo della terra, soggiornando con vicenda  alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre.  La ragione del fatto è cercata, com'è ovvio, nel-  l'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio  rapitore il matrimonio : e, più rettamente, nel  simbolo di questo, il gustato frutto del melo-  grano.   Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale matu-  rità mitica, l'Inno a Demetra palesa anche di-  venuta più ricca la leggenda. Un primo a ba-  stanza antico innesto accrescitivo è da scorgersi  nella presenza di Ecate " bendata di luce ,, e  di Elios " chdaro figlio di Iperione ,. ; i quali,  giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade  il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e  affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate,  sia la Luna che risplende su le notti della  terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni  e vede tutto degli uomini: sono probabilmente     (1) T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) pag. 10 sgg.     120 III. - LA DKMETRA d'eNNA   i pili arcaici personaggi entrati su la scena ac-  canto ai protagonisti : però che essi fossero i più  adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre „  su la " Figlia „ perduta, essi che son gli occhi  diurni e notturni del cielo. Né l'originario lor  valore è al tutto obliterato nel carme; se bene  non vi permanga senza alterazione.   Di più, altro segno di compiutosi progresso  mitico, nell'Inno ogni figura è precisa perché  risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede  con sicurezza una teologia e una teogonia. Cia-  scun Dio è figlio di un certo, padre di un altro  e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben  suo. Le due principali Dee del racconto, le di-  vinità agresti, hanno assunto definito aspetto. La  Madre, la Signora delle biade " Demetra „, ha  profondamente evoluto la sua duplice essenza  agricola e familiare : è delirante nel suo dolore  di madre cui l'unica figlia è tolta X3er tradi-  mento ; è d'altra parte padrona della vita degli  uomini, che può prosperar per il dono grami-  minaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in  somma al supremo vertice la sua natura umana  e la sua virtù germinativa. La Figlia, in greco  " Cora „, spazia, vivente d'una vita che par s'a-  limenti da sangue nostro, su tutti i campi ov'è  vegetazione, e le grazie della sua feminea gio-  vinezza cercan a preferenza fiori profumi e  prati. Il suo valore naturalistico dì seme che  i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  è dea, è bella, è ingenua, e le vergini Oceanine  le fanno corteo. — Presso agli agresti, con uguale  individuata determinatezza appajono gli Dei sot-  terranei, addotti da quel vincolo di analogia che     IL MITO GRECO 121     vedemmo pili sopra (1). L'infero Nume rapitore  è " Ade „ o " Aidòneo „ ; signoreggia su la vasta  moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non  gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per  preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo  cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  è un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco,  siede Persèfone, regina fra i trapassati com'egli  re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide  larve. — Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii  supremi, partecipano alle scene del dramma :  Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e  numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per  placarne il dolore, se bene vano le riesca il  viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto,  che induce Ade a cedere la recente conquista.  — Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si  stringono attinenze come sogliono tra gli umani :  Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di  cui è padre, appar fratello di Demetra : Zeus,  risplendente face della terra, è germano di Ade,  come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella  secreta germinazione del grano. Uniche non po-  tevano congiungersi in parentela, perché s'eli-  devano l'una con l'altra, Cora e Persèfone : la  rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poiché  il contrasto non si poteva dalla fantasia supe-  rare in altro modo, il quale non offendesse l'una  delle Dee, le due figure diverse si ridussero a  differenti nomi dalla medesima persona scam-  bievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto     (1) Pag. 115.     122 III. - LA DEMETRA d'eNNA   il tono austero della Regina, di cui tuttavia  mitigava la maschera accigliata. La creatura  leggendaria e religiosa che ne scaturì tenne  delle due onde fu composta, ma risultò armo-  nica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la  Madre, rigidezza e austerità fra i morti i^resso  il marito.   Il poeta adunque ricevette dalla tradizione  una trama di leggenda ben più ricca che la  povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi  più precisi e raccolti in gruppo organico. Vi  apportò in oltre la sua arte che addusse la saga  a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli  difatti non senza raccoglimento religioso né  senza coscienza, al meno complessiva, del suo  significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto  quale una creazione bella dello sph'ito : come il  suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare  il torso nudo di un efebo o le ginocchia del  vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui,  sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla  sua origine; e le mani pajono comporla e pla-  smarla allora per la prima volta in un fervore  pacato di concezione e di espressione. Tutto  si ordina secondo un'architettura severa, dal re-  spiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo  di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei  secoli lontanissimi è, più che in ogni altro  senso, in un tranquillo godimento. Segno non  piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'ef-  ficacia che all'arte compete qual balsamo delle  belle creature mitiche.   Intercalato però nel mito è un lungo racconto,     IL MITO GBECO 123     diverso (1). Demetra, appreso da Elios il nome  del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza  giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra  un sasso, " la pietra del pianto „, assumendo  l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le  figlie del Re del luogo, Còleo, e l'intrattengono  col chiederle e col darle notizie: attratte anzi  dalla simpatia che spira il sembiante venerando,  l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,  accennandole d'un bimbo di recente nato cui  ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la  Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta  al piccolo Demofònte. Al quale anzi l'Iddia vor-  rebbe donare il sacro dono dell'immortalità ;  onde di notte lo pone, con certe sue arti ma-  giche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si  accresce di vigore e acquista la virtù sovrumana.  Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e  scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e  distrugge l'incantesimo. Demofonte non sarà  libero di morte. Ma per compenso la Madre  delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini!  Trittòlemo Eumòlpo Diocle e Polissèno i secreti  del suo culto. — A spiegare, appimto, il culto che  in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a  Demetra è dunque indirizzata tutta questa ampia  parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come  nei particolari costituisce dunque un complesso  etiologico ben distinto dal complesso mitologico.  E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava  quanto a\Tebber potuto maturità di pensiero e     (1) Yv. 91-304.     124 III. - LA DEMETBA d'eNNA   soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo  rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo  fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della  vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno  alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe  potuta complicare di personaggi e di episodii, ri-  vestendo un venerando colore di antichità sacra.  Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie  deirinno attraggono la nostra attenzione (1).  All'uno e all'altre è sostrato un'idea r)rincipale  che importa porre in tutto il suo risalto. Questa:  nel momento in cui Cora è rapita da l'Ade, gli  uomini conoscono già l'uso del grano, come si  semini e come cresca fra le zolle ; quel momento  anzi cagiona un temporaneo danno ai campi :  che " molti nei campi in vano trascinarono i  bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco  orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini  tutta quanta la schiatta per fiera fame periva „ (2).  E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla  Madre la figlia per " due terzi del volgente  anno „ ritorna in terra la gloria del biondo cibo.  Il soggiorno di Demetra in Eleusi è contempo-  raneo al danno, e la sua conseguenza si riduce  intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma,  appare qui a bastanza conservato il contenuto  originario del mito naturalistico: se difatti De-  metra è la biada il cui chicco scompar sotterra  per germinare e risorgere culmo, è giusto che  le biade esistano prima del ratto sotterraneo,  scompaiano poi, riappajano col ritorno della ra-     (1) Cfr. fino a pag. 126 il § IV. (2) Vv. 305-310.     IL MITO GEKCO 125     pita. E la sentenza di Zeus giova a rendere  periodico, ma senza dolore, questo alternarsi  agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di uma-  nità siasi trasfuso nel racconto a velarne il si-  gnificato primitivo, questo permase non corrotto;  si che la leggenda dell'Inno merita il nome di  prisca.   E noi la diremo protoattica, in confronto con  un'altra meno antica (del V secolo) che, per  essere del pari eleusinia, può dirsi neoattica.  Questa seconda concepisce il mondo ignaro di  messe prima che si compisse il ratto, esperto  solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  è causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di  Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la semi-  nagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di  Trittolemo : nome che ricorre già nell'Inno qual  di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una  con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura  per contro che appare adesso la prima volta,  e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria pla-  stica pittorica, col carattere di adolescente gio-  vinezza e con l'officio di maestro nella fatica no-  vissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il  pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la  triade recente spezza lo schema anteriore rico-  stituendone un altro. Nel quale, dunque, non si  oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma  acquista un valore riflesso : perché il rapimento  di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione  umana della sorte graminacea, l'inizio storico,  cronologicamente e geograficamente inteso, del  grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto  non sostituisce soltanto con importanza mag-     126 III. - LA PEMETRA d'eNNA   giore Trittolemo al Demofonte deirinno per la  magia del fuoco ; bensi sopprime anche la ven-  detta di Demetra, che in verità non avrebbe più  modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira,  genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a  quella condizione di misera vita, ch'è acconcia  a uomini privi della vera e primissima fonte  di agio.   Accetta permase questa leggenda. Nel suo  largo diffondersi subì, è vero, non pochimuta-  menti, né tutti soltanto di particolari; giacché,  dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne  costume lecito alterare la saga per adattarla  alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare  di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con  l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di  un Comune per attingere gli estremi del mondo  colto. Unica può starle a paro, per intima vì-  goria di concepimento, e per potenza espansiva,  la favola composta nell'ambito di quel moto  filosofico e religioso onde il pensiero greco, e  specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei  Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di  " Orficismo „. Serbandosi solo le due Dee e  Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo in-  treccio di casi assunse il mito di Cora fra gli  Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci impor-  tano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci  sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna.   Però che tutt'e tre, la proto e neoattica e  l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche  con la siciliana, tenace per antichità, infantile per  incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo  moto di storia.     IL MITO SIRACUSANO 127     in. — Il mito siracusano.   I Siculi, che si erano ritirati su i monti del-  l'interno perché incapaci di resistere ai predoni  dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che  in Enna avevan con più insistenza fissato il lor  mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH se-  colo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare  dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi  di sedi le quali si trasformavano via via, dive-  nendo sempre più salde più ampie più belle, in  città ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII  e nel VI seguenti, trovando sgombro per sé il  terreno, o sgombro facendolo con distruggere  e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a  siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve  a fiore civile intellettuale e artistico grandis-  simo in paragone di quelli, e a distendere sn  tutte le portuose spiagge dell' isola un incan-  cellabile smalto greco (1). Dèi miti templi ceri-  monie della loro mentalità religiosa si radicano  ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor  dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata  vigoria e bellezza.   Certo la lor somma di progresso spirituale e     (1) Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Oc-  cidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I  (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I  (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia  voi. I (Torino 1894).     128 m. - LA DEMBTRA d'eNNA   di culto civico, accopj)iandosi con la congenita  irrequieta genialità e l'inconculcabile aspira-  zione ad accrescere il possesso, doveva spingerli  presto a violare i segreti delle regioni più in-  terne e a portarvi il soffio della propria opera  contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evol-  versi si a sottomettersi. E forse, traverso anche  i commerci di scambio, a Enna ebbero a per-  venire folate di vento greco fin dal secolo VI.  Eorse (1). Ma quante e quali nessuno direbbe ;  perclié non la minima traccia n' è rimasta ; né  fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano  alcun poco.   La palese influenza dei Grreci su Enna co-  mincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa.  Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo  alleato Terone tiranno di Agrigento, sconfìtti ad  Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi  di Amilcare, Enna entrò nella sfera siracusana  e ne fu assorbita. Qual resistenza politica op-  ponesse non importa qui sapere. Senza dubbio  oppose una resistenza ■ riguardo al suo culto e  al suo mito, che non poterono venir eliminati,  ma rispettati dovettero essere. La risultante di  queste due forze (la siracusana che assorbiva e  la ennense che non cedeva) fu una leggenda,  la quale impropriamente si direbbe contaminata,  perché è più tosto un compromesso di politica  religiosa, una formula felice per conciliare le  pretese o, se piace, i diritti dei due centri di-  versi (2).     (1) Cfr. § li. (2) Cfr. § II.     IL MITO SIRACUSANO 129   In Siracusa Grelone fu un institutore e un pro-  pagatore zelante del culto delle greche iddie  Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto  aveva, — come fu visto poc' anzi, — a base il  mito del rapimento. E a quel modo che nel-  r Inno a Demetra la favola naturalistica , non  spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien  ad arte connessa con un preciso e determinato  centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga ten-  denza doveva indurre i Siracusani, per mezzo  dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle  saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii  alle indeterminate frasi del racconto mitico e a  applicare quest'ultimo non senza artifìcio su le  cerimonie sacre vigenti nella loro città. Era un  moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra  Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la  preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce  di fronte a un certo nume. Di qui nascono di-  fatti sovente contese tra regioni ; in particolare  se vi partecipa, com'è per le dee agresti, il vanto  della maggior fecondità d'un suolo a paragone  d'un altro. Né pare che Siracusa derogasse alla  generale tendenza: però che ci sia rimasto in-  dizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la  quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafìo  di Bione (1) ch'è del sec. I a. C. non che in altri  testi il ratto di Cora è localizzato su l'Etna ;  onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito,  come da una delle bocche dell'Erebo e del sot-  terraneo fuoco. Che se accanto a questo parti-     ci) V. 133.   A. Ferrabino, Kalypao.     130 III. - LA DEMETRA d'eNNA   colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infer-  nale si apre la via del ritorno presso lo stagno  di Ciane (1); si ottengono i due estremi punti  topografici di una saga che adatta il vecchio  mito greco agl'interessi di Siracusa: perché Ciane  è una palude nelle vicinanze della città ; e sulla  zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei  Siracusani si è sempre estesa o nel fatto o nel-  l'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico pret-  tamente libero da Enna dimostra qual fosse  l'impulso originario del culto instituito da Ge-  lone ; cosi la penombra in cui permane e la ca-  ducità che lo contraddistingue provano quanto  diffìcile fosse serbar nella leggenda di Demetra  l'indipendenza contro i diritti di prima occu-  pante che competevano alla fiaba dei Siculi.   La quale s'imponeva difatti tanto più quanto  maggiormente s' era, traverso gli anni molti,  radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati  su i monti, e quanto era più stretta, nel nucleo  essenziale per lo meno, la sua simiglianza con  il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo po-  tevasi rivestir di fogge e definire con nomi  greci ; non asportare dal lago : ove del resto la  feracità del luogo e la credenza, anche greca,  che dai laghi o da vicine grotte sorgessero so-  vente i numi sotterranei, ne difendevan la vita.   E difatti il ratto rimase. I Siracusani die-  dero alla divinità delle biade il nome di De-  metra; ne chiamaron la figlia col duplice ter-  mine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello     (1) V. sotto pag. 131.     IL MITO SIRACUSANO 131   di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto  l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben  sapevano, e con quei particolari che eran dive-  nuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai di-  ritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo  libero : la palude siracusana di Ciane fu l'aper-  tura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi  aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A  Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge „  di Cora dall' Èrebo alla terra su bianchi ca-  valli. E noi non sappiamo molto di più; ma  è facile che altri particolari della leggenda si  connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacer-  doti. Suggello poi di questo compromesso reli-  gioso tra Enna e Siracusa è l' elaborazione ca-  ratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto  di Cora. Questa avrebbe avuto compagne du-  rante la raccolta dei fiori (1' " antologia „), oltre  le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee  vergini. Ora Artemide grandemente importava  nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera,  città a Siracusa amica durante le guerre del  V secolo specie contro Atene. Per ciò in uno  dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui  si vede costretta a riconoscere che a Demetra  doveva esser spettata la signoria di Enna, at-  tribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di  Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto  questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna  e, quel che importava, al medesimo livello.   Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esi-  genze dell'antichissima saga ennense e le pretese  della pili recentemente sopraggiunta saga sira-  cusana, i due centri dovettero trovarsi concordi     132 III. - LA DEMETRA d'eNNA   nell'adattare a sé la figura e gli uffici di Trit-  tolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna  Cora è rapita mentre coglie fiori mirabili per  vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende  sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra  e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico  la proteggono; Atena ed Artemide, compagne  alla violata, signoreggiano due città siciliane ;  il suolo è opulento di biade come non altrove :  certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde  il primo seme, e il primo culmo spuntò da zolla  sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente,  diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del  grano. Bisognava dunque, da che respinger Trit-  tolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa  ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza  garbo (1). Si concedette che un eleusinio, Tritto-  lemo, avesse avuto il favore di Demetra e co-  municato alle terre il dono preziosissimo; si con-  cedette che ciò accadesse in occasione del ratto  di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto  il racconto. Ma, — gli si premise, — già dianzi,  avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia  produceva grano, prediletta alle due Dee per la  sua fertilità e scelta a loro dimora. Quindi, —  si conchiuse, — Trittolemo fu primo rispetto  agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una  separazione dunque della Sicilia dal restante  paese, onde il ratto divenne il momento pro-  pizio per diffondere al mondo il privilegio si-  culo. Che era non poco orgoglio.     (1) Cfr. § IV.     IL MITO SIRACUSANO 133   Dopo ciò esistevano in Sicilia oramai tutti  senz'eccezione gli elementi per un ben contesto  tessuto leggendario che un poeta potesse far  suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Sira-  cusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mi-  tico aveva i suoi punti topografici fìssi e armo-  nicamente collegati ; il culto preparava salda e  e vasta base per un'accorta serie di invenzioni  etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole città  s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la  stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche  particolare non privo di attraenza. Né manca-  rono forse i cantori che la materia non inde-  gnamente lusingasse. E pure a noi non rimane  se non il testo, povero non chiaro e senza vi-  goria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo.  Perché tutto vivace si senta il contrasto fra la  potenzialità artistica del mito e la mancata  espressione di esso, eh' è a un tempo mancata  intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca  istorica (1), lasciando il racconto nel suo disor-  dinato svolgimento.   I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro  progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo  nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora;  ... e che le predette Dee in questa isola primamente ap-  parvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del  grano a cagione della feracità del suolo... (2). A riprova     (1) Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in  Phi lologische Untersuchungen , XIII (1892) pag. 103 sgg.   (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim.     134 III. - LA DEMETRA d'eNNA   adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola  e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee  soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero.   Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne'  prati intorno ad Enna. Questo luogo è vicino alla città,  per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno  di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra  che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottun-  dendosi loro la naturai virtù. È il prato predetto  piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati però scosceso  e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel  mezzo dell'isola : per che è detto anche da alcuni l'om-  belico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a  questi, paludi, e un grande speco con apertura sot-  terranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano  che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le  viole e gli altri fiori colà odoranti rimangon fioriti mi-  racolosamente per l'intero anno e rendono lo spetta-  colo pittoresco e gradito.   Favoleggiano ancora che insieme con Cora cre-  scessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che  insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune  il peplo al padre Zeus. Per l'intimità e la conversa-  zione reciproca si compiacquero specialmente di que-  st'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle  parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a  lei la città e il territorio chiamato fino ad oggi Atenèo :  Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per  lei è da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, pa-  rimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i  prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone,  compiuto il ratto, recò Cora sul cocchio presso Sira-  cusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita  nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane...     IL MITO CONTAMINATO 135   Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,  non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei  crateri dell'Etna, si recò in molte parti della terra  abitata e beneficò, donando il frutto del grano, gli uo-  mini i quali meglio l'accolsero. Più benignamente aven-  dola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti  donò il frutto del grano ; pel che questo popolo più  d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifìzii e coi  misteri eleusinii... (1).   Il mito siracusano è qui per intero : ogni linea  ne viene accennata; pietra a pietra, chi nùmeri,  l'edifìcio esiste. Né mancano (che noi trala-  sciammo per brevità) cenni etiologici alle feste  sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il  difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ri-  pete, — ed è spesso, — quel suo " favoleggiano „.  Altri; non egli: eh' è estraneo a quel che rac-  conta. Modello insigne, questo, del come possano  mascelle di erudito maciullare e rugumare il  fiore della saga.     IV. — Il mito contaminato.   Il mito siracusano di Demetra e Cora, imper-  niato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso  dei due centri religiosi, venne accolto nell'am-  biente poetico di Alessandria. E fu questo l'i-     (1) DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione.     136 III. - LA DBMETRA d'eNNA   nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria (1) di  fatti, oltre alla forma siracusana della favola,  erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma  dell' Inno omerico, insieme con la variante di  Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella  diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte  simili, parte dissimili, mossi da origini diverse,  avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi.  E non pur cotesti elementi precipui ; bensì anche  alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fos-  sero riusciti a trascendere i limiti della medio-  crità espressiva e della ristrettezza geografica,  per intrudersi nella letteratura tradizionale. La  mitopeja orfica in ispecie aveva trovato acco-  glienza favorevole nel colto ambiente alessan-  drino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti  e notevoli saghe metamorfiche, che presso i più  antichi non erano se non una forma, fra l'altre,  dell'intuizione naturalistica, e che il gusto po-  steriore, compiacendosene, moltiplicò artefece. La  storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  è la storia della sua seconda immersione nel  flusso del pensiero e dell'arte greca; è la storia  del successivo accogliersi intorno ad esso di  giunte e di innovazioni via via più complesse.   Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere  dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sa-  rebbe stato trasparente: dei maggiori alessan-  drini medesimi. Sola di quelle ci è rimasta traccia     (1) Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es.,  Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133).     IL MITO COìs^TAMINATO 137   e tal volta quasi copia in autori romani. Con  questo valore, ci appare un ampio tratto del  quinto delle Metamorfosi ovidiane (1), in cui  appunto si rivela la contaminazione fra diverse  correnti leggendarie.   Vige l'indirizzo siracusano, — senza dubbio.  Anzi vi si manifesta con talun nuovo partico-  lare ; cosi il poeta sembra seguire più tosto una  tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi  a una variazion fantastica, quando nel luogo  di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca  affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio  del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios  introduce la ninfa del siracusano lago di Are-  tusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti.  Se non che questi elementi siciliani, che al pari  di Enna pajono saldati con il concetto duplice  di una Sicilia esperta del grano prima del ratto  e di una umanità esperta sol dopo (si ricordi  Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema  diverso. Quando Proserpina è rapita, la terra, se  non tutta per buona parte, già ha avuto il dono  del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col  privare gli uomini di aratri di bovi di spighe :  dunque, come nel mito protoattico. Ma, come  nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di  Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i  due miti si conciliano nel pensiero che uguale bi-  sogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta  come quella di cui per la vendetta divina fu  pretermessa la coltura. In tale contaminazione     (1) Vv. 341-661. Cfr. § IV.     138 III. - LA DEMETEA d'eNNA   dei due miti protoattico e neoattico la saga si-  ciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre  la propria terra fra più altre, prima nel godere  le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fer-  tilità singolare e di fedeltà a Demetra.   D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'at-  titudine sua mentale come per la natura del  suo tema, con particolar compiacenza l'impulso  letterario delle metamorfosi. Sembra persino che  ogni vicenda del mito in tanto gì' importi in  quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti  di forme. Ciane, ad esempio, che solo perché  palude era sembrata luogo dicevole alla scom-  parsa di Ade come un lago alla comparsa, offre  spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in  acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone  che gusta la melagrana è sfruttato per immet-  tervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nel-  l'atto, ne riferisce ed è converso in gufo. Sovra  tutto però, l'efficacia della tradizione letteraria  si risente in Ovidio per il tentativo di analisi  psicologica nei personaggi: in Cora special-  mente, per cui egli giunge sino a finezze troppo  cerebrali per esser vere, sino a farla piangere,  non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei  fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto  l' antefatto del mito : il ratto è voluto , non  da un decreto di Zeus, bensì da Afrodite cui è  sdegno che tante dee si sottraggano al suo po-  tere e che libero ne resti il medesimo Ade (la-  tinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando  psicologico diviene il racconto, un particolare  che, allor che esso era naturalistico, valeva con  tutt' altra importanza: la fecondante pioggia.     IL MITO CONTAMINATO 139   Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, in-  serito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite  difatti è l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto  di culto singolare. Cosi perché pili appaja la  giustizia di Griove e ne risalti la umanità del  mito, l'anno è pel doppio soggiorno di Proser-  pina con la madre e col marito diviso a mezzo  non più per terzi. Simile attenzione psicologica  governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di De-  metra a Giove, materiati di accortezza feminea  e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde  poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per  toccare di quelli che a ciascun momento del-  l'animo competono, là dove tecniche mitologiche  più elementari non cercano se non il consueto  e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa,  — e basti per tutti l' esempio solo, — ritrae  prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte  sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e  il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto  omerico che s'addice alla Dea; il gesto si con-  viene alla donna. Siamo allo stremo dell' alle-  goria agreste. E su la soglia dell'umanità (1).   Non lungi a le mura di Enna son le profonde  aeque d'un lago: Pergo, di nome. Più numerosi non  spande canti di cigno Caìstro su l'onde scorrenti. L'acque  corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  è di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami;  purpurei fiori dà l'umida terra. Primavera è perjDetua.   Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or     (1) Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914).     140 III. - LA DEMETKA d'eNNA   gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno  e canestri empie e nella raccolta studia superar le com-  pagne — ad un punto è veduta amata rapita da  Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con  mesta voce madre e compagne chiamava; la madre  più spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste,  da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco  anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni pue-  rili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il  cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i ca-  valli: scuote su colli e criniere le redini tinte di fer-  ruggine persa (1).   È nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'an-  gusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu già — e dal  suo nome lo stagno ha nome — tra le siciliane ninfe  notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse  tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non più lungi  andrete ! „ esclamò " non puoi di Cerere essere il ge-  nero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi.  Che se m'è lecito alle grandi le piccole cose accostare,  me pure Anàpi amava; ma pregata sposa mi addusse  non, come questa, atterrita „. Disse, e con aperte le  braccia si oppose. Non più non più l'ira il Saturnio  frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo  il vibrato scettro regale con forte braccio affondò : la  terra percossa una via pel Tàrtaro aperse ed i preci-  piti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane,  la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua  fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse  tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume già  era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi     (1) Omessi i vv. 405-8.     IL MITO CONTAMINATO 141   l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime  parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome,  le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra  in acque gelide il trapasso è breve: gli omeri poi e  le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui  si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al  vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che  prender si possa (1).   Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse,  lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne  meno la ten'a. Ritornò in Sicilia ; e mentre ogni dove  indaga vagando , a Ciane viene. Tutto le avrebbe  narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non  ajutavan la bocca e la lingua, né con altro poteva  parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre:  di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto  nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come  lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse,  i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e più  volte il petto con le sue mani percosse.   Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre  biasima tutte ed ingrate le chiama né degne del  dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del  danno aveva trovate. Ed ecco colà di sua mano spez-  zava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari  morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori,  ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordinò,  ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilità  del paese è fiaccata: senza far césto muojon le biade,  ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec-     (1) Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamor-  fosi di Ascalabo.     142 III. - LA DEMETBA d'eNNA   cesso, le stelle ed i vènti fan danno, gli sparsi semi  ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a  le piante del grano e non estirpabil gramigna.   Il capo allora da l'elèe onde solleva Alfèjade e  dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:  " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice  di biade, cessa da tue immense fatiche e da la vio-  lenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ;  la rapina tollerò contro sua voglia. Né per la pati'ia sup-  plico : ospite son qui venuta. Pisa è mia patria, l'Elide  diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo  pili grata m'è questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per  penati, questa per sede : e tu clementissima la salva !  Perché mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande  mare all'Ortigia mi rechi, tempo verrà ch'io ti dica, op-  portuno, quando alleviato TatìPanno e migliore il tuo  volto sarà. A me un sotterraneo varco offre il cam-  mino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo  sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre là  sotto nel gurgite Stigio scorreva, là sotto dai nostri  occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero,  né per anco tranquilla nel volto; — ma Regina, ma  nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno  Sposa potente „.   La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed  attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la  grave demenza è rimossa, a l'aure superne col cocchio  ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i ca-  pelli, d'odio riarsa, stié innanzi a Giove. " Per il mio  (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue !  se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre com-  muova; né meno cara — preghiamo — ti sia perché  da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco  rinvenni: — se rinvenire tu chiami il perder più cex-to,     IL MITO CONTAMINATO 143   se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sop-  porto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone  degna non è la tua figlia..., se anche mia figlia non è ,.  E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me  con te è la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi  vogliam dare, non è questa un'offesa : è amore ! Né ci  sarà quel genero a vergogna, sol che tu voglia o  Dea. Se pur altri pregi non sieno , qua! pregio è fra-  tello dirsi di Giove ! Né mancano gli altri ; né fuor  che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai  desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto  restando che con la bocca là giù cibo alcuno non  abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge „.   Avea detto. Ma Cerere è ferma di ricondur la figlia.  Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il di-  giuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal  ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da  la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti (1).   Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale,  il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,  di due regni nume comune, altrettanti mesi è con la  madre, altrettanti è con lo sposo. D'animo si muta  ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso  Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole  che da gravide nubi coperto era già e da le vinte nubi  riappare (2).   A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio ag-  gioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per  l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve     (1) Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e  delle Sirene.   (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa.     144 III. - LA DEMETRA d'eNNA   SUO carro nella città Tritonide, a Trittolemo : e parte  dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai  colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato.   Contaminato ma diversamente, ci appare il  racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti  libro quarto (1). Occasione gli è offerta dai ro-  mani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien  difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo mo-  dello).   La mente che ricorda il racconto delle Meta-  morfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo  carme (2), con la mano del medesimo poeta, il  I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ri-  tegno, quasi una schiva attenzione per evitar  d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invi-  tate da Aretusa; non quella è la lor sede: né  nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno  non è detto. Il mito sorto dal compromesso ta-  cito fra Enna e Siracusa è senza dubbio noto ;  ma non usurpa da signore lo schema greco più  antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affan-  nosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o  Enna „), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mègara  Imera Agrigento Tauromènio Camarina ed altri  luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Li-  libeo, offrono bensì materia alla fantasia del  poeta non ignaro di geografìa siciliana, ma sono  per ciò a punto introdotti dal suo solo arbitrio  nella leggenda, onde costituiscono un elenco di     (1) Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Con-  fronta § IV.   (2) Vv. 419-50.     IL MITO CONTAMINATO 145   nomi regionali, non già altr'e tanti addentellati  mitici. C'è dunque una cauta fedeltà al mito  siracusano : speciosa fedeltà che è per risolversi  sùbito dopo in abbandono.   Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del  vecchio Cèleo fu il campo.   Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate  agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda.  La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ;  e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre „  la fanciulla dice — e commossa è la Diva pel nome  di madre — " che fai in solitarii luoghi senza com-  pagnia ? „ . Si sofferma anche il vecchio, quantunque  il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che  misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava  una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello,  che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e  padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua  sorte di quanto è migliore che la mia sorte!. Disse,  e come di lacrima — che non piangon gli Dei —  cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del  pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e  dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a  te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non  disprezzare il tetto della misera casa „. Cui la Dea  " Conducimi „ dice " come mi potessi costringer, hai  ben saputo ! „ . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien  dietro.   Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio  malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria  di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie  lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che  ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse   A. Ferrabino, Kalypso. 10     146 III. - LA DBMETKA d'eNNA   la lunga fame: — e perché della notte in principio  ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del  cibo l'apparir delle stelle.   Come varcò la soglia, piena di pianto vede ogni  cosa : già speranza alcuna non v'era di salvezza pel  bimbo. Salutata la madre — Metanìra la madre si  chiama — alla sua congiunger degnava la bocca pue-  rile. Fugge il pallore, sùbite forze vengon nel corpo:  tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa è  lieta : la madre il padre — ciò sono — e la figlia :  tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli  stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele  dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo,  a bere con tiepido latte dà i papaveri causa del  sonno.   Della notte era il mezzo, era nel placido sonno  silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la  mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : — scon-  giuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il  corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che  l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la  madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ? ,  e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per  non esser scellerata tal fosti „ dice ; " vani i miei doni  divengon pel timore materno. Questi sarà bensì mor-  tale; ma primo e con aratro e con seme da le colti-  vate terre coglierà premii „.   " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti  sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte „ (1).   Qui non è più il racconto dell'Inno con il     (1) Vv. 507-562.     IL MITO CONTAMINATO 147   mito protoattico ; non è né meno il racconto di  Timeo con il mito siracusano : però che a diffe-  renza profonda dal primo la umanità è presen-  tata ignara di biade e cibata di ghiande prima  del ratto; e a differenza caratteristica dal se-  condo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto  all'altre terre. Qui dunque è il mito neoattico»  di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo  a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tra-  mutato il semplice istitutore di un rituale sacro  nel giovinetto onde per favore della Dea un  inestimabile benefizio si largiva agli umani.  Celeo e Metanira recano identici i loro nomi,  ma intorno ad essi il polito palazzo regale s'è  tramutato in povera capanna: sul desco stanno  cagli; nei cuori è ingenua ignoranza. Cosi per-  tanto la versione siciliana, dianzi cautamente se-  guita, è soppiantata, senz'urti, da una seconda.  Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo  influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori  di Cerere su la persona del rapitore sono due  astri ; identico è il nome dell'uno, il Sole (EHos) ;  analogo l'officio dell'altro. Elice, che è però non  la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore  che mai non tramonta nel mare, e per ciò tutto  vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio  fra Cerere e Griove, questi decide di dividere  l'anno in due parti perché Proserpina rimanga  sei mesi col marito e sei con la madre (1). Ora,  Elice sostituisce Ecate perché preferita nella con-  sueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso     (1) Vv. .575-614.     148 III. - LA DEMETRA d'eNNA   pel mezzo già ritrovammo nel gusto alessandrino  delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce  posson venire considerati anche l'idilliaca scena  in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore de-  licato dall'insieme grazioso ; e il quadro del flo-  rilegio in Enna.   L'arte però converte la triplice mischianza  in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta  che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pasto-  rale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel  termine ove più personaggi agiscono e parlano  con una stringata prontezza che culmina forse  nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il di-  giuno con tre di quei grani che le melagrane ri-  copron con molle corteccia „ (1). Le varie correnti  mitiche son fuse ed è scomparsa ogni traccia di  mosaico mitologico; una inspirazione centrale  muove tutto il carme, lo ricollega con qualche  sparso accenno a questo o a quel particolare del  culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo  solenne del benefìzio divino, scaturito dal dolore  d'una Madre e compiuto nella capanna d'un  misero. La gratitudine verso la Dea si traduce  bensì in sacrifìzii suini e in vestimenta candide,  ma non è di origine religiosa, si più tosto muove  da una intima commozione umana, di simpatia  per la sofferenza eterna, per la semplicità pri-  meva, per la faticosa Terra.   Nei Fasti quindi minor parte è fatta al mito  siracusano; ma per compenso è conseguito più  alto pregio letterario che non nell'altro carme     (1) Vv. 606-7.     IL MITO CONTAMINATO 149   ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti  trasformazioni deforma la sua materia, or ridu-  cendola a magrezza or distraendola a rimoti  oggetti.   Oltre che elementi siculi proto e neoattici,  anche particolari orfici compose insieme con  abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto  di Proserpina volle dedicare, senza per altro  condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i  ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane op-  pressa dal rapitore e tramutata in fonte (1), le  fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti  protoattici dovevano esser copiosi nella parte  del poemetto che non fu scritta e trattava del  soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa  di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine  si assommano nella figura di Trittolemo a cui  par probabile che venisse attribuito il dono delle  biade (2). Su questa trama vennero innestati  parecchi motivi che si dovevano all'orficismo.  Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva  affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti  e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascor-  reva il tempo intenta a tessere un tessuto ove  fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora :  che il ratto accadde si per volontà del Fato  {òaifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di  Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle  {pvvófiaifioì) : o sia Artemide ed Atena. Più tardi  cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non     (1) III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.     150 III. - LA DEMETRA d'eNNA   s'accorse o non volle accorgersi che il concorso  delle due Dee al ratto non era se non un asse-  condar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne  che più nobile officio loro, nel punto in cui Cora,  vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a  violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo :  nelVElena di Euripide difatti (1) elleno gli ap-  pajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto  il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi  fu introdotto quello, che pareva più dicevole,  d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'an-  tico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel  suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase  tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte  altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a  Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su  quella parte la quale nel poemetto sul Ratto  non è svolta sarà qui da tacerne. Oramai difatti  sono stati raccolti tutti i materiali che da tri-  plice fonte il poeta adunò per l'opera sua e che  gli bastarono, con giunte e innovazioni, a nar-  rare del ratto e i precedenti e le primissime  conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito  del poeta investisse quella sostanza leggendaria  e la elaborasse esprimendo.   Il suo racconto si spezza spontaneamente in  due parti: delle quali la prima ha termine col  ratto. Plutone nell'Ade è infelice perché privo  di moglie e ignaro delle dolcezze che la pater-  nità concede. Tanto l'assilla il suo veemente     (1) Vv. 1301 sgg.   (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. § IV.     IL MITO CONTAMINATO 151   desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso  Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e li-  berare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago.  E Zeus, intimorito, cede e promette: solo è in  dubbio intorno alla scelta della sposa, già che  nessuna volentieri accetterebbe marito il tene-  broso Re dei morti. Contemporanea a cotesta  scena però si svolge l'altra in cui Demetra, per  sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli  insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeg-  giano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure  della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ri-  tornano, — come si vede, — sott' altra specie, le  orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene  certa da ogni attentato sotto l'alta protezione  celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi  in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla  fine queste due linee narrative da quando il  Signore degli Dei decide di maritare Cora ap-  punto, profittando della lontananza materna, a  Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afro-  dite, egli fa si che la vergine esca con le com-  pagne e Artemide ed Atena e la stessa dea del-  l'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti  di Enna e che su quelli, balzando improvviso  dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il  sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge.  Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide  tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie.  Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E  presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba,  fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove  l'accolgono, con festa ch'è insueta colà, gl'iddii  torvi e le paurose iddie de' regni flegetontèi.     152 III. - LA DEMETRA D^ENNA   La seconda parte possiede quell'unità di strut-  tura che manca a questa prima. Il centro natu-  rale dell'azione è offerto da Demetra; intorno  a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre  non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un  presentimento vago ma assiduo la turba con  sogni atri che mal si dileguano nel risveglio.  Alla fine, decide di abbandonar le terre di Ci-  bele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.  Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi  le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar  Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta  la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile  della vergine, e lacrimante in profondo dolore  la nutrice Elettra. Chiede con voce ch'è già di  disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto  le è però quasi sùbito superato dallo sdegno  contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che per-  misero il delitto, lo lasciarono impune, non cu-  rando se per tal modo si sovvertissero leggi di  giustizia e principii di morale. Giura che non  cesserà di percorrere, intenta alla ricerca, l'uni-  verso intero fin che non le sia ritrovata la figlia.  E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a  sé, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso  il fiume Aci in bosco sacro a Zeus.   Il resto si desidera. Ne importa gran fatto,  che poco più apprenderemmo nel sèguito. Il  poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi  alla difficoltà insita in ogni forma leggendaria,  ove sempre la materia poetica è molta, ma sorda  ad artefice che non sia di assai fermo polso; e  ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a  rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano     IL MITO CONTAMINATO 153   vi mancò: non esito a dire che vi mancò per  intiero (1). Noi lo giudichiamo qui a fronte della  sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giu-  dizio, che la sua saga è la nostra: abbiam appreso  a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa.  Non c'illude quindi, — e sarebbe facile errore,  — quella, che prima colpisce, bellezza formale  di particolari, eleganza di scene, armonia di  verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come  perfezion delle parti in un tutto su cui si volge  il nostro interesse e l'esame più vero. Né la per-  fezione stessa è anche da concedersi intera :  guasta per certa esuberanza, che assempra il  vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul  collo, spiace dopo le prove d'un'arte più cauta  se bene già troppo a sé indulgente. Ma in ogni  modo, sopra le singole pennellate riuscite e  oltre le mancate, com'è composto il grande  affresco ?   Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti  psichici di cui tutto il racconto è pregno: non  diversamente operando, in ciò, da Ovidio. Le sue  dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi  numi. E suo grande compiacimento si fu narrare  ora il cordoglio della madre, ora lo spavento  della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plu-  tone, là le dolcezze filiali di Cora. Se non che  in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la  accorta profondità dell'investigazione intima; e,     (1) Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato  essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies ,  (London 1901) pag. 130 sgg.     154 m. - LA DEMETRA d'eNNA   inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la  donna o l'uomo, figuravan sempre senza stri-  denza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto  per contro cosi quello come questo pregio man-  cano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grosso-  lano richiamo di motivi abusati, è infuso nel-  l'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le  sfumature di talune emozioni gli sono ignote ;  i suoi personaggi, non pur non condensano la  loro personalità per l'arte di lui, si scemano per  la imperizia fin quel vigore e scancellano quella  determinatezza ch'era lor impressa dalla tradi-  zionale teologia. Una madre, una figlia, un ma-  rito recente, un giudice un po' pauroso e a  bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non im-  portano nomi, non colori, non linee. Basta, che  per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni  della retorica.   Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce  la solennità jeratica dei paesaggi. Lungo periodo  di versi circoscrive la Sicilia con un senso di  sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee  l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splen-  dor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e  un contenuto orgoglio matronali. La Frigia  lontana riceve da Cibele, quasi un recondito  balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra  svelle i due pini a illuminare la notte è un lucus  Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur  varia, è tuttavia sempre ampio alto e severo :  non è in proporzione con la statura degli attori ;  o meglio, non con la loro statura d'uomini, si  con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il  primo contrasto, che par creato a posta dal poeta,     IL MITO CONTAMINATO 155   fra la diminuita materia divina della fiaba e  l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato  trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe  dovuto essere dei Numi.   Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota  che nessuno dei consueti attributi è stato tolto  da Claudiano né a Demetra né a Cora né a  Plutone né ad Atena né ad Artemide né ad  alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei  morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la ver-  gine Figlia ha intero il suo sèguito di bellissime  ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice,  quella lo scudo gorgonèo, questa l'arco e le  frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trai-  nato da draghi e doma leoni. Il meccanismo  oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.  Ond'è che la vita umana e affettiva vi è poi  spirata dentro senza che Fautore mostri di ac-  corgersi del dissidio che ne risulta. Il quale è,  a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirit-  tura il grottesco e tramuta il poema in com-  media. Quando, — gli esempii potrebber essere  moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno  più notevole, — quando Plutone ha rapito Cora  e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i  lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si  commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto  vezzoso è convinto, e sente i palpiti del primo  amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea  tunica, e con pacata voce consola il mesto do-  lore (di lei) „ (1). E, questa, una innovazione di     (1) II 273-276.     156 III. - LA DEMETBA d'eNNA   Claudiano : già che le parole che seguono e che  vantano di Plutone i pregi qual marito e re son  le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e  Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rin-  novazione a punto svela a maraviglia a qual  grado di risibile pervenga il poeta nel colorire  pateticamente quello spauracchio " feroce „ di  Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro  a tutte tremendo.   Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere  artisticamente (non dico logicamente, che sa-  rebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo  divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano  all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra  ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il  tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia  ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e  meschina al pari d'una qualsiasi siracusana.  Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus;  ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tre-  mare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi  i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza né ti-  more cotesti numi ambigui. E l'invettiva che  contr'essi scaglia la Madre nell'ira non è per nulla  sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perché  è vuota cosi di dolore materno come di ribellion  religiosa. Se per poco fosse spinta in là la ten-  denza del poeta, i suoi dèi finirebbero con l'ap-  parirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tra-  cotante pompa esteriore, marionette fìngenti per  gioco di fili occulti e virtù di orpelli gravità  olimpica, in un consesso di stolidi e in una fa-  miglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica  in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus     IL MITO CONTAMINATO 157   con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mo-  strare come, col decretar da Demetra il dono  del seme, la suprema volontà sapesse ritrarre  un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora;  ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano  ha deformato il sommo Iddio.   Conchiudendo , il poeta è giunto proprio al  contrario di quel che era compito dell'arte: ha  dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha  contrapposto, in vece di avvicinare senza con-  trasto. Ora, gli elementi del dissidio erano già  tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan  perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure  non gli avevamo avvertiti: non so che secreta  forza li faceva coerire in unità e bellezza. Se  adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno è  che non pure s'è svigorita l'arte, ma l'orga-  nismo del mito è moribondo, — e si dissolve.   Cosi né pur la contaminazione di motivi,  desunti dalle più diverse fonti, riesce a infon-  dere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste.  Un più profondo guasto la uccide, senza rimedio.  Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo  racconto siculo, che una prima volta aveva sen-  tito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso  greco, e trovò una seconda volta, traverso gli  AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica  da iDrincipio, gravame in sèguito di mal con-  gesti elementi.     CAPITOLO IV.  L'abigeato di Caco (i).     I. — Presso grindiani e i Greci.   Indra e Vritra si combattono.   Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ar-  dore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al  pascolo e lasciava vagare leggère, qua e colà,  nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe fi-  gura di serx^e dalle tre teste, né tentarono in  vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e tras-  sele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne  secrete. I ben colorati animali furono avvolti  dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza  uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dal-  l'antro, ove segregato si stava il bottino, gli     (1) Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II  cap. Ili ; di cui si citano i §§ nelle note successive.     160 IV. - l'abigeato di caco   giunse un profondo e rauco muggito che gli svelò  e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con  la sua possente forza la grotta, di frecce e di  clava colpisce più e più volte il mostro nemico,  l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel  cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin  sopra la terra.   Cosi nel Rigveda indiano (1) si adombra per  noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi  per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che  dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia.   L' odio , che un' anima paganamente infusa  nella natura nutre acre contro il velame dal  quale è tal volta celato il Sole agli sguardi, ha  sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco  la presenza di una forza attiva, e nemica cosi  della luce benefica come della fiamma benefica,  però che si compiaccia, in vece, di tenebrori e  di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla  caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere  umane e le annientano. Il bujo della notte;  l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio  non si spinge, e che, quando spiragli appajono  traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra  tinta del fumo , che gì' incendii sprigionano,  pregno di odori corrotti, su dai possessi degli  uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco,  che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far  di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cu-  muli ; l'abbagliante incandescenza del baleno,  che acceca le pupille: — questi colori queste     (1) Cfr. fino a pag. 163 § E.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 161   forme quest' energie si accostano nel pensiero  primitivo, si compongono variamente e diversi  si foggiano in figurazioni molte, ripetendo però  con ritmo unico il malefìcio costante e il duro  danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  è prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiam-  mata che cuoce l'alimento è una scintilla tolta  dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virtù  di respingere l'oscurità intomo a sé. La fiam-  mata in vece che rade una selva è nemica del  Sole perché nemica dell'uomo: e, poi che teme  la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bam-  bina non sa che la tenebra è un modo della  luce, e che il fuoco è un solo principio, distrugga  o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli  effetti, delle antinomie fallaci nelle cause.   Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del  pensiero. Che è comune, come si sa, agli Arii ;  e comuni, se bene traverso le differenze a volte  non piccole, sono le forme di cui si veste e le  associazioni psichiche di cui si vale : l'antropo-  morfismo, ciò sono, ed i nessi fra la notte e il  sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma ma-  lefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo.  E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale  che sia per esserne il valore più immediato, per-  mane il riposto senso di allegoria naturalistica.  Anzi, in grazia a punto di essa affinità di con-  cetti, poco importa se la fiaba si connetta più  tosto con la freccia del fulmine che squarcia il  perso involucro dei nuvoli, o più tosto col dente  infocato che appare impro\^iso e avido tra le  sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con  altro. Griacché la fantasia primigenia, la quale   A. Ferrabino, Kalypso. 11     162 IV. - l'abigeato di caco   ha narrato sotto la specie dell'uomo una spet-  tacolosa vicenda della natura, deve esser stata  indotta dalle medesime sue associazioni analo-  giclie a ripetere, nelle aridità della concezione,  un solo racconto per fenomeni simili.   Ciò spiega perché, fuor del E-igveda, il mito  ritorni bensì presso assai popoli arii, ma presso  pochi come là simboleggi il temporale. Presso  gli Eranii tramutato si è, pur serbando pa-  recchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a  e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinno-  vato in altra forma, la quale, per il nesso che  nel pensiero già intercede fra tenebra e male,  luce e bene, trasporta il mito a significare il  contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo  Ahriman.   Che se, dopo averle spiegate, non grande  conto è da farsi di queste trasposizioni della  fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto mag-  giore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi  o al persistere di taluni particolari significanti.  In essi è il segno di qilanto si accosti o allon-  tani dalla saga originaria il nuovo racconto :  simili a quei tratti caratteristici che perman-  gono a contraddistinguere il volto di una fa-  miglia nei secoli. E quando del mito si è poi  perduto tutto il senso riposto, restano testimoni  veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e di-  mostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione  innovatrice sul modello più antico. Quando in  vece un significato s'intrude sopra e contro l'o-  riginario e lo modifica o lo soffoca, si perdono  insieme i primitivi particolari episodici, come  un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi.     PRESSO gl'indiani E I GBECI 163   o solo tanti se ne serbano quanti non discon-  vengono al nuovo dominante pensiero. Giacclié  l'energia conservatrice insita in quei partico-  lari è costituita, in somma, da una non più co-  sciente memoria dell'importanza essenziale clie  tutti, in vario modo, avevano, quando ancora  la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa  pertanto, allorclié al ricordo incosciente sot-  tentra nel racconto la coscienza d'un contenuto  e d'un fine diverso.   Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha  assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed  ecco difatti tramutarsi anche la foggia este-  riore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi  perpetrato a danno d'una divinità solare venisse  narrato insieme con la successiva vendetta nelle  saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e  ci sembra inutile pel nostro assunto la conget-  tura. Certo che in secolo a bastanza antico la  metamorfosi del racconto si rivela profondis-  sima. L'omerico i Inno a Ermes è la nostra fonte  in una sua ampia parte(1). Ed è pervaso tutto  dalla minore anima greca: quella che baratta  e commercia; che ruba con astuzia, e nega con  impudenza ; che è scaltra in ben parlare, e av-  volge di parole artificiate, di periodi fluenti,  di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do-     li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati ,, la  cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Con-  fronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886)  181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns  (London 1904) 128 sgg.     164 IV. - l'abigeato di caco   mande coperte, l'infelice derubato ; che giura  invocando i men pericolosi dèi, nella speranza  di averli meglio indulgenti ; che non ignora al-  cuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno  più le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma  ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale  discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per  l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto,  certo che giungono in parte al brocco, e tiene  fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse,  fissi qua e là su oggetti che non guarda; il  Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive in-  tiero, per una fresca vivacità di dipintura, nel  ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima  greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno  s'è congiunta con la brama di gloria, cui il buono  è anche bello, e forza indirizzata al suo fine è  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la mi-  nore anima greca i tramiti non sono affatto  tronchi. Onde una celata coscienza della supe-  riorità di quello spirito che può, se voglia, rin-  chiudere in un labii"into di dubbii e di certezze,  entrambi illusorii, l'intelligenza del suo inter-  locutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso  di compiacimento interno lo illumina : il sorriso  mal palese degli aruspici, secondo Catone; il  sorriso, dagli occhi assai più che dalla bocca,  con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan ac-  cogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichia-  razione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ate-  niesi discorrono troppo bene perché si possa lor  credere „. C è un biasimo tacito del furto ; ma  c'è una lode sobria del ladro abile. E la com-  media nasce. Comico, il racconto eh' era stato     PEBSSO gl'indiani E I GRECI 165   tragico allorquando Vritra cadeva sotto la in-  vitta clava di Indra.   Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie  elude la forza. I protagonisti sono mutati. Ca-  duti taluni particolari, altri s'improvvisano dal  largo patrimonio novellistico. Lo sfondo è di-  verso, perchè alla furberia del mortale compete  scena la terra, come alla violenza del mostruoso  iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra di-  vina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ;  e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.  Apollo è il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella  sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di  inverosimile forza e di mente già dotta nelle  oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle  ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si  svolge la principal scena. Due altre la precedono.   La prima narra il furto. Non è opera di vio-  lenza, ma di scaltrezza. I buoi, — cinquanta, —  pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro  e i cavalli „ il Sole spariva sotto la terra. Ermes,  per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo  sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrec-  ciando per sé accorti e leggeri sandali con vin-  castri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la  refurtiva in una grotta " da la volta elevata „.  Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillène.   E ha luogo la seconda scena (1).   E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in  sul mattino ; né per la lunga via alcuno scontrossi con     (1) Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford 1912).     166 IV. - l'abigeato di caco   lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non la-  travano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus,  obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile  a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto  nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi mo-  vendo : né così fa rumore sul suolo. Subitamente entrò  nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvol-  gendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla  balia i lini scompone coi piedi (1). Ma non sfuggiva  l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole.   " E perchè mai tu, o ben furbo, e donde in ora di  notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te  pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno  legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o  finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro.  Pèrditi, stolto : che per grande sventura ti generava il  Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei „.   Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre,  perché queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo  bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e ti-  mido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte  apprendere voglio, ch'è la più bella (2). Né fra gli Dei  immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci  rimarremo come tu vuoi. Meglio è per sempre fre-  quentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi  che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad  onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come  Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso  per certo tenterò — che posso — dei rapinatori dive-  nire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre     (1) Omesso il v. 153.   (2) Omesso il v. 167 ch'è corrotto.     PRESSO gl'indiani E I GRECI 167   Latòna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio  e anche più : mi reco in Pitóne al saccheggio della  grande sua casa, molto da quella rubando stupendi  tripodi ed oro e lebéti, molto sfavillante ferro, e vesti  di molte. Tu certo vedrai — se ti piaccia „.   n senso d'umanità e la sostanza greca che  sono divenuti il nucleo nuovo del mito appa-  iono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione  alla forma indiana di cui fu veduto. Perché la  difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra  bambine, è un breve mal represso anelito di sim-  patia per il ladro perspicace ed ardimentoso,  simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane  della carne si ax)provi quel che la ragione con-  danna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel  Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole  serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste.  Là, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e  l'ombra della sua caverna, dalla quale il mug-  ghio bovino suscita un' eco di sgomento negli  animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in  favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola  di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore  di quanto ha compiuto, pronto a difender sé e  la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel  futuro. E non v' è dubbio che a Maja piac-  ciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno  rapite! Le due spanne onde il corpicino si mi-  sura sono molto piccola cosa di fronte alle cin-  quanta terga di tori: e nella grazia furbesca del  contrasto, che la onnipotenza divina giustifica  e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra  e del poeta.     168 IV. - l'abigeato di caco   Come lui (1) scorse di Zeus e di Màjade il figlio,  adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la  fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere  molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava  sé stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve  raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno  dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando però.  Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, né gli sfuggì,  la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo  piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande  casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ri-  postigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita am-  brosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte  della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei  beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della  grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti par-  lava ad Ermes illustre.   " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi :  presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra  noi. Ti piglierò ti scaglierò nel fosco Tartaro nella te-  nebra triste irreparabile ; né te la madre né il padre  alla luce potrà ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeg-  giando fra i bimbi „.   Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide,  qual mai aspro discorso parlasti ? e perché ricercando  agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, né  d'altri intesi parole, né mostrare potrei, né vprenderne  premio, né somiglio ad un ladro di buoi, uomo pos-  sente. Non questo è da me, e prima altre cose mi piac-  ciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia  madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni.     (1) Vv. 235 sgg.     PEESSO gl'indiani E I GRECI 169   Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa,  che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe  che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra  mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ;  i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi,  su la testa del padre un grande giuramento farò : né  io — affermo — né io stesso fai causa, né vidi alcun  altro ladro dei vostri buoi — checché i bovi si sieno,  poi che per fama sol tanto ne odo „.   Cosi dunque parlò, e di frequente con le palpebre  ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e là guar-  dando (1). Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo ri-  spose :   " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo  per vero che spesso per invader le ben abitate case  durante la notte, più c'uno stenderai sul suolo, senza  rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle  valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che,  bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in  pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se  non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della  nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immor-  tali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo  dei ladri „.   Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse  Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani  levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo  del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti  tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo  l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur af-  frettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva     (1) Omesso il v. 280.     170 IV. - l'abigeato di oaco   parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:  con questi presagi troverò pure, alla fine, i capi ga-  gliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada „ .   La contesa continua un po', fin che si deci-  dono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio  Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo  solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo  Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato  ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due  Dei di cercare insieme " con animo concorde „  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio.  Ubbidiscono. E la commedia finisce come le com-  medie sogliono terminare: con una buona pace.   Di essa rimangono cardini notevoli l'accor-  tezza del trascinare le mucche all'indietro per  disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'in-  sistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi  ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur ap-  partenendo forse ad antiche trame novellistiche,  sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato  probabilmente a bastanza tardi.     II. — Presso i Latini.   Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e  presso i Latini in ispecie (1).   Né della trasposizione, per cui il mito vien  riportato da un fenomeno all'altro analogo ; né     (1) Cfr., di qui fino a pag. 182, § V e (in parte) § VI.     PRESSO I LATINI 171     dell'intrusione, per la quale un nuovo signifi-  cato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'an-  tico, e rinnova per conseguenza i particolari del  racconto : si deve tener parola a proposito della  saga romana di Caco. Altre vicende essa ha su-  bite allor quando ci appare formata in età di  storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da  prima ben radicata nella memoria delle gene-  razioni, approfondita nel sangue della stirpe ;  che vi si cristallizzò in una foggia, la quale  non aveva più il contenuto cosciente della an-  tica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche  i più minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere  ne diveniva veneranda e intangibile. E però al-  lora che r elaborazione artistica sopravvenne  con voce più sicura e lievito più possente, non  potè distruggere per ricreare ; — dovette co-  stringersi nella materia, né sorda né asx^ra, ma  irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo  tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari,  che furono proprii della saga primordiale aria e  che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddi-  stingue, senza eccezione, la serie intiera delle  vicende che il racconto attraversa di poi, tanto  nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle  interpretazioni dei dotti.   La presentazione dei protagonisti. Però che  forse la differenza più notevole fra il racconto  indiano e il probabile, — d'una probabilità ot-  timamente fondata, — i^rimitivo racconto latino,  consista nei mutati nomi delle iDersone. Né è da  ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un  qual siasi spettacolo naturale si presenta all'oc-     172 IV. - l'abigeato di caco   chio ingenuo : e tanto più quanto meno il pensiero  scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per  riportare ciascun parvente alla sola sostanza.  Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da  prima, assai più che in una personale figura  di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita  ombra divina. Spiccatisi più tardi dal comune  ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica  da un lato trasforma quei nomi per fenomeni  fonetici appresso le differenti razze; dall'altro,  il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno  fa prevalere, addensando di questo il contenuto  e concretando il valore (1). Cosi l'intuizione fon-  damentale della fiamma aveva certo moltissimi  termini che le corrispondevano : ma uno ne trion-  fava là, ed un altro qui. Onde accade che un  solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge  bensì quasi identiche presso gl'Indiani e i La-  tini, — ma non mai con identici nomi.   La presentazione, adunque, dei protagonisti.  Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e sen-  z'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ciò le  loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo  ne siamo all'oscuro, ed è quindi prudenza non  affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo  mito indoeuropeo senza ancora averne dimen-  ticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare  i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano  o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova  in ben diverse condizioni. Non solo il primo è     (1) Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino  1907) 88.     PRESSO I LATINI 173     ben certo, là dove il secondo non è né pur for-  malmente sicuro e varia nei due testi ove ap-  pare sol tanto ; ma quello è analizzabile con un  etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i  Grreci, e questo offre difficoltà molto maggiori.  Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio)  (" brucio, ardo „) e nel prenestino Caeculus, è  probabilissimo e consuona bene alla sua natura  ed ai suoi offìcii. Ma Garano-Recarano è restio  a tentativi cosi fatti ; ed è preferibile compren-  derlo fra gli dèi cui non è di certa analisi il  nome. Inoltre a lui toccò di esser più tardi sop-  piantato da un altro Iddio, ond'è impossibile  definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e  quali al personaggio sieno stati aggiunti dal  secondo attore. Unica certezza, cbe se fu pre-  scelto a significare la forza della natm-a la quale  nel Rigveda esprime Indra, da Indra non dif-  ferì forse troppo. E difatti Caco non differisce  né pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. In-  dubitata è la forma mostruosa ; certo è l'atto del  vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ;  congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un  antro immane è sua dimora, fra le tenebre cupe.  AlFintorno, egli rapisce e distrugge: né forza  gli resiste, né ostacolo lo rattiene. Il terrore lo  circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua  effìgie ripugnante ed immonda però si deve  riferire ad un secondo stadio del suo evolversi  mitico , perché son tracce palesi d'una sua più  vasta comprensione. Egli dovette, ciò è, nell'i-  nizio, valere come non pur malefico si anche  fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti  antitetici erano potenzialmente, più che in lui,     174 IV. - l'abigeato di caco   nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli  ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in  certi specclii dipinti che ne pervennero unica  reliquia. E, sopra tutto, in Roma è attestato il  culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con as-  sidua cura vigilato un sacro focolare, non dissi-  milmente da Vesta. Eorse il termine non signi-  ficava da principio se non il fuoco nell'atto  dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due  contrapposte concezioni della fiamma conflui-  rono in esso, e valsero a derivarne ben due  figure divine. Il terzo stadio in fine della sua  evoluzione Caco toccava quando nei posteriori  tentativi di genealogie divine divenne figlio di  Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo  posto fra i Numi della fiamma.   Dei due protagonisti, il furto e il duello si  svolgeva quasi certamente in modo simile al  racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito  bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la  clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta  della caverna e l'abbattimento del mostro tra  il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito  latino si esauriva, per quanto ci è concesso sa-  pere, dentro questi termini : senza né originalità  sua propria di particolari e di figure né sma-  glianza singolare di colorito formale.   Un primo arricchimento gli derivò dall'avere,  in proceder di tempi, localizzato con più esat-  tezza la fiaba, — topograficamente vaga nelle  origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo  che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il  Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campi-  doglio a nord, e dove erano nell'età storica il Foro     PEESSO I LATINI 175     Boario e il Velabro, trovò la sua fìssa sede la  saga. E fu più vicina alla terra, e più lontana  come dal cielo cosi dal suo proprio senso natura-  listico. Fra i colli romani essa divenne il racconto  di avventure terrene, il ricordo di tempi lonta-  nissimi, di cui testimoni unici restavano i monti  ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda  che la pretende a storia accampando una verità  fallace e diversa dalla sua prima, ben j)ìu ef-  fettiva. Un particolare locale s'insinua : la ca-  verna di Caco è pensata nel monte Aventino. E,  assai più di quanto possiamo scorgere nelle te-  stimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae  Caci e Vatrium Caci danno contributo di pic-  coli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale  si forma pertanto colà in uno stadio, che è il  suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aven-  tino e i due numi Caco e Garano-Recarano co-  stituiscono i iDerni.   Acquistare una sede significa però per un mito,  non pure raggiungere una consistenza e saldezza  maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze  nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son  radicati. E un contagio cui il suolo serve di  conduttore: e che qui fu invero non presto, ma  fu per compenso profondo. Quando il dio greco  Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario  latino e sotto la veste di Ercole venisse defini-  tivamente adottato è e sarà del tutto incerto (1).  Senza dubbio poi alquanto tempo dovette tras-  correre innanzi ch'egli potesse fondersi con gli     (1) Cfr. De Sanctis St. d. R. I 193.     176 IV, - l'abigeato di caco   dèi latini a lui simiglianti o per qual si voglia  modo contigui : prima, dovette divenire familiare,  ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser co-  nosciuto anche nei suoi minori attributi, assi-  milarsi infine air ambiente. Non presto dunque  dall' " Ara massima „ ove nel Foro Boario gli  si faceva sacrifizio, presso al Palatino, soprav-  venne ad assorbire in sé ed annientare la figura  di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade  in cosi profondo oblio clie non se ne serbino  tracce fra gli eruditi dell'età imperiale. Ma come  l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente.  Il dio solare poco noto che era di fronte al dio  solare notissimo, impresso di grecità? A en-  trambi, — sembra, — competevano e le frecce  e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le  lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non  erano se non se i riscontri analoghi del duello  fra Grarano-Recarano e Caco. Ma là dove l'uno  apparteneva a una religione poco evoluta qual  la latina, l'altre recavano con sé grande matu-  rità religiosa. Una poi di cotesto imprese di  Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente „  Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva  il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole  e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza  di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia  nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe  avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare  l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma.  Della positura geografica approfittarono molti  facitori di saghe per le loro combinazioni (1);     (1) Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man-     PBESSO I LATINI 177     per nessuna forse cosi felicemente come per la  latina di Caco. Giacché la vittoria conseguita in  Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la  presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso  della mandra che Caco rapisce.   In progressione, quanto più Ercole prevaleva  su Recarano-Grarano, tanto più s'allargò la leg-  genda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto  romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece  tutto un paragrafo nuovo del racconto, contrad-  distinto per profondi caratteri dal resto. Non più  il mito della natura; ma l'impasto non sempre  coerente di etiologie, con le quali si tenta di  spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un  costume, un gesto, projettando il tutto, senza  prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico.  Del paragrafo che cosi accresce la leggenda,  uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica  origine; rispetto a cui sussistono inserzioni più  tarde.   Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima  erano in età storica, prima che il servizio vi  fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C),  le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che  a questi ultimi sembra che non spettasse come  a quei primi di partecipare al banchetto in cui  dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle  vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la  decima, per consueto, d'un proprio guadagno o     CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna  Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale  Sup. di Pisa , XXIV) pag. 216.   A. Ferrabino, Kalypso. 12     178 IV. - l'abigeato di caco   d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era  lecita cosi a generali come a privati cittadini.  Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo  costituiscono la trama originaria della leggenda  etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito,  subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare,  l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima  del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui  sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei  Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo  questi onde non poteron partecipare al ban-  chetto delle viscere. Ercole decretò allora che  tale nei secoli restasse il costume fra le due  famiglie.   Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne  erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo,  non si pensò che in Roma Ercole è anche dio  della generazione maschile ; ma si disse che le  donne avevano offeso il Nume, in qualche ma-  niera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia  dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi  ov'è riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta  Carmentalis che ne ha il nome è prossima al  Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assi-  stere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta  in ritardo : ancor più che i Pinarii ! Per una reda-  zione forse più antica in vece, donne rinchiuse  presso il Velabro pel culto della Bona Dea avreb-  bero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato  al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua,  per non lasciar violare il sacrario da un uomo :  — onde la vendetta di lui. E anche recente è,  sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara,  esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi     PRESSO I LATINI 179     al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  è secondario, e per ciò non da tutti accolto, il  particolare che essa fosse eretta da Ercole per  ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il  suo padre Giove.   Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii,  i quali si commettono con la figura di Ercole  ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresen-  tano, pur tenendo conto di talune interpola-  zioni più tarde, nel complesso un secondo stadio  del racconto; un terzo venne di poi a sovrap-  porsi. Entrò nel mito la figura di Evandro. Le  cause furono, come per Ercole, due. L'una è  identica per entrambi : la contiguità delle sedi ;  poiché di Evandro era un altare presso la Porta  Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro  Boario. L'altra è analoga, non uguale. Come per  Ercole era valsa la simiglianza di lui con Ga-  rano-Recarano, cosi per Evandro influì la forma  del suo nome. La mente non matura che cerca  di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene  d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'e-  timo d'un termine. Caco ad esempio venne, —  e forse da eruditi greci, — accostato per omo-  fonia all'aggettivo xaTtó^ ^' cattivo ^ ; il quale  parve del resto convenir bene al mostruoso la-  drone. D'altra parte Euander che volto in greco  divenne EdavÓQog, fu inteso " buon uomo „. Indi  fu facile il riscontro tra il " malvagio ,, del-  l'Aventino e il •' buon uomo „ della Porta Tri-  gemina.   Evandro era, — in una leggenda che qui non     180 IV. - l'abigeato di caco   accade di analizzare (1), — un signore di Arcadi  dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino,  accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua  persona pareva dunque acconcia a esser legata  per più attinenze con quella di Ercole e Caco;  e se il racconto lo avesse accolto in età pili  antica senza dubbio troveremmo una volgata  concorde intorno a ciò. L'accoglimento in vece  fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono rac-  conti cbe oscillano, dalla forma in cui egli è  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita  Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la  natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con  Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza  figurar contro di questo e a favore del greco  figlio di Zeus.   In questo medesimo terzo stadio venne a  confluire, confondendovisi, e innestandosi con  Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Car-  menta, di cui era un anticbissimo sacrario presso  la Porta Carmentalis e che già vedevamo usu-  fruita per una etiologia del racconto, fu in altra  guisa sfruttata per accrescere di solennità la  venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tra-  dizioni più propriamente indigene. Ella avrebbe,  cioè, predetto in un suo vaticinio l'avvento del-  l'eroe e la futura divinità di lui. Il fato cosi  rendeva veneranda la gesta; e la favoletta ser-  viva assai bene a vantare per antichissimo fra  tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata,  che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di     (1) L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. I 192.     PKESSO I LATINI 181     Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso  Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che  si trovò la maniera di unire all'altra di Evandro»  questo facendo figlio o amico della profetessa, e  col ricordo del vaticinio giustificando l'acco-  glienza di lui al Tirinzio.   Basti di coteste invenzioni, cosi povere e re-  centi che anche presso i poeti mal si collegano  col restante racconto. E impossibile dire chi per  primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo  leggendario più antico, dai successivi stadi!  delFetà volgenti deformato in parte, in parte  svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male com-  posto un organismo di quel che era opera, non  del tutto compaginata, d' una lenta e libera  evoluzione traverso slanci fantastici ed erudi-  zieni grame. Sol tanto si può congetturare che  Ennio commettesse nel suo poema la materia  come del primo (Caco), cosi anche del secondo  stadio (Ercole), al meno nella sua più vetusta  parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse  adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue pro-  paggini.   La quale ipotesi potrebbe sussistere parallela-  mente ad un' altra che giustifica assai bene ta-  luni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrit-  tori dell'età augustea. E probabile difatti, la  fiaba greca di , Ermes ed Apollo, che l' Inno  omerico divulgava in degna veste d'arte e con  autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso  su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con  fedeltà maggiore, lo stesso unico spunto alle-  gorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di     182 IV. - l'abigeato di caco   Maja fu nella mente di talun culto scrittore, —  come Ennio, — non privo di analogie con l'a-  bigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a  ripetere qualche particolare attinente più tosto  all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accor-  gimento del condurre per la coda all'indietro i  buoi fino all'antro per disperderne le tracce ;  tale anche lo spergiuro del ladro che nega il  furto : — questi difatti ritrovammo nella G-recia  tratti essenziali della saga rielaborata.   Certamente però, quanto al di là di coteste  innovazioni e giunte s'è conservato intatto il  primo profilo del mito, cosi che i particolari  posteriori si sono aggregati ma non sostituiti  ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando  la luce e la prospettiva e se n'è obliterata la  coscienza. Chi ricorda più se la rapina e la  vendetta narrino del temporale che il Sole vince  o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce è  nemica ? Ora, il fenomeno naturale è lontano :  la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leg-  genda, non dentro ; la colorano, non la costi-  tuiscono. Ora, essa è duplice nella sua parvenza.  Narrata con un certo abbandono della fantasia,  con una cura precisa di non omettere le più  vivide tinte, è una fiaba, da ripetersi perché  gradita, da ripetersi con arte per non guastarla,  da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande :  il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno  con il loro tocco più lieve e più esperto. Tra-  mandata in vece con un ritegno sobrio che la  contenga dentro i margini dell'umano e dell'e-  roico, riman sospesa ambigua tra la realtà e il  sogno, che la fiaba muore e non è storia ancora;     I POETI 183   riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non  elimina ogni dubbio e non genera certezza di co-  noscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la  riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti.  Una fiaba, — dunque, — presso e il poeta e lo  storico. Ma una, cui quello è pago di ammirare,  questo è desideroso di credere. Noi non posse-  diamo però né i versi degli artisti più antichi  né le prose dei più antichi annalisti che in  Roma accolsero il mito : solo li conosciamo ri-  prodotti e compiuti nell'opere mature dell'età di  Augusto.     ni. — I Poeti.   Quando, dopo Ennio, l'arte incastonò nel verso  il fulgore della fiaba, già la tecnica aveva po-  lito r esametro e , temprandolo per la forza»  l'aveva reso agile per la grazia delle movenze.  La parola regnava : scelta, limata, contesta, vi-  geva nel tono quanto nel significato; aveva un  senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Espri-  meva, e aggiungeva. E il mito visse nella pa-  rola, che gli divenne fine più che mezzo. Valse  in quella come la congiuntura nella vita: per  gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a  tema di un carme; per i distici che l'infrena-  vano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli  aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distil-  lava. Ond' è che raro il poeta innovò, sempre  quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nel-     184 IV. - l'abigeato di caco   l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle  massa linguistica allo schema rigido e inviola-  bile : mentre la licenza facilitava l'opera, il me-  rito splendeva nel difficile. Il gesto della mano  che elegge e soppesa la parola, simboleggia,  riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di  Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto  non si attennero là dove altro procedere esigesse  il general tema dell'opera loro, — il quarto  libro delle Elegie^ l'ottavo déìTEneide^ il primo  dei Fasti (1).   Properzio occupa rispetto agli altri due un  posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio,  difficile cronologicamente a dimostrarsi, è anche  artisticamente improbabile, cosi che gli sembra  più tosto parallelo. In tal caso, sia che egli at-  tingesse a un modello diverso, sia che con  Ennio non contaminasse altre fonti, sia che in-  fine si ritenesse lecita una libertà maggiore, —  il suo racconto non comprende Evandro, il terzo  stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco  ed Ercole : per noi è quindi, qual che ne sia la  causa, un esempio della forma che avrebbe po-  tuto assumere la fiaba senza il mito etimologico  sul " cattivo „ ladro.   Pel resto, il racconto è in tutto personale. I  vero tema dell'elegia è Ercole Anfitrioniade, in  qualità di Dio venerato nel Foro Boario con  rito greco e senso romano. La sua sola figura  campeggia in due quadri, che uniscono egli e il     (1) Gir § III.     135     momento del tempo e la postura della scena.  Nel primo combatte Caco in una lotta breve-  mente descritta, la quale sembra importare al  poeta più nel suo insieme cbe nei particolari.  Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mi-  stico culto della Bona Dea, l'acqua che gli ne-  gano e ne trae vendetta. Sono dunque le due  sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi  a sé sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con  un moto di violenza, concretate entrambe in  prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino,  e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il  Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco,  e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'an-  tichissimo mito della natura si dispone allo  stesso piano e nella medesima luce del recente  mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di  quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgen-  done una fantasiosa scena cui rende grata e  fresca il murmure d'un fonte.   Quando (1) l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia,  aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pe-  corosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli  stesso posò, là dove il Velàbro con la sua propria cor-  rente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele  il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non  furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno  Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni  emetteva per tre bocche divisi. Egh, perchè non fos-     (1) Properzio Elegie IV 9; edizione J. S. Phillimore^  (Oxford s. a. [1907]).     186 IV. - l'abigeato di caco   sere indizi! certi di palese rapina, per la coda al-  l'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva  al Dio : i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le  tane spietate l'ira abbatté. Dalla Menalia clava le tre  tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla :  " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema  della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte  mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo mug-  gito sacrate : il pascolo vostro sarà nobile Foro di  Eoma „.   Avea detto, e per la sete ond'è secco il palato il volto  è contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la  terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In om-  brosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clau-  sura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a  maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie  purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso  fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde  un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva.   Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su  l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta di-  nanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del  bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospi-  tale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui in-  torno è sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto  nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che  il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Al-  cide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea  clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense  fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo  si diradar le tenebre di Stige? (1). E s'anche celebraste     (1) Omesso il v. [42J.     I POETI 187   sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi  avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il  mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal  libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii  offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida co-  nocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'ir-  suto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla ,.   Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdo-  tessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche :  * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco;  ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per  temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara  che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno  scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone de-  posta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti  donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, ap-  partata dentro limitare secreto „.   Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi  battenti : né l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma  poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un  triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.  " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati ac-  coglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La  massima ara „ egli dice " che dai ritrovati greggi è  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa  nessuna donna mai veneri, perché senza vendetta non  resti la sete d'Ercole escluso „.   Padre santo salve! di cui si compiace oramai  l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al  libro mio.   Cosi il breve carme assempra il magistero  delle pause musicali, cui si affida più espressione  tal volta che al contesto delle note : giacché     188 IV. - l'abigeato di caco   quando il mito vive di forza verbale, la pausa  lo costituisce non meno della parola. Dal com-  plesso della leggenda volgata e nota, che rin-  chiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro  dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi  e le luci, — le ombre e gli sfondi lascia alla me-  moria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ri-  cordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno  ciò che tale ricordo potesse supplire; ma in  parte l'abbiamo supposto, in parte ci verrà  mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per  tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il ca-  rattere profondo: è eulta. Il mito, nella sua  squisitezza formale, è dottrina; e il compiaci-  mento del poeta è di una garbata esumazione  dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito  la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa  non l'idea nazionale anima quei distici, se bene  dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un  senso fine dello stile e un gusto aristocratico  dell'accenno sapiente, della misurata allusione  mitologica.   Nei limiti dell'arte, che non può esser mai  volgare, assai meno aristocratica, ma in com-  penso atta a una più vasta cerchia di lettori, è  la narrazione di Vergilio: perché l'informano  quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor  patrio e la santità della fede. Dentro la cornice  del poema, che esalta la nazione nei suoi prin-  cipi! primi, ed è percorso tutto dal rispetto alla  leggenda, come a quella onde scaturisce l'or-  goglio del nome romano e si giustifica la glo-  riosa istoria dei tempi più vicini; accanto alla     I POETI 189   figura del pio eroe Enea, che opera per volere  di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato de-  gl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinsti-  tuzione del culto erculeo, e celebra età anteriori  alla venuta dei Trojani nel Lazio, non può non  essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e  ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro  ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi  estremi: comincia con le lotte cruente di Enea  contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili  vittorie romane e alla battaglia d'Azio, signi-  ficate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle  prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza  intervallo in un constante sentimento ; e, nella  compagine salda degli esametri, appajono le  divinità di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano.  La leggenda si affonda nella realtà ; la religione  le penetra entrambe ; e il canto muove dalle ra-  dici profonde dei profondi sentimenti del popolo  che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti  alle imprese, al culto i divoti.   Per ciò, e il mito di Caco vien esposto (1) du-  rante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbon-  dante di particolari. Qui è detto quel che Pro-  perzio accenna. Qui Ennio non si lùchiama, ma  si sostituisce. E la primordiale figura della saga,  — Caco, — non è svolta meno della seconda, —  Ercole, — né della terza, — Evandro : — però che  rappresentino, in ordine, la divinità mostruosa  e la divinità bella e un antichissimo assetto poli-  tico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono     (1) Vv. 154-279 ; edizione R. Sabbadini' (Torino 1908).     190 IV. - l'abigeato di caco   cosi collegate che Evandro, il quale dà il segno  dell'epoca, è il narratore, e nel racconto di lui  le due forze divine si combattono. Il combatti-  mento assume, difatti, la parte più notevole  perché il canto intiero suona d'armi e perché  nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti  dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del  tema generale, il mito adombra quei particolari  di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia,  e lumeggia bene ogni forma di violenza; ricon-  ducendoci per obliqua via alla sua probabile  foggia originaria : — breve in ispecie l'accenno  allo spergiuro del ladro, che più si accosta al  furbo diniego di Ermes.   Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar  dell'importanza su questo duello ne accresce le  conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo  storico, le spinge al di là dell'origine di un culto.  Poiché il poeta vuol credere alla leggenda, e la  pareggia alla storia, in Caco con la belva muore  la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non  sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pi-  narii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino.  E il suo cadavere trascinato per i piedi empie  d'un'avida curiosità le menti e non basta ad  appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto;  e i fuochi spenti su le fauci somigliano un  simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con  guerrieri. E su l'Aventino, ove Enea contempla  ancora le tracce del passato, i contemporanei  d'Augusto scorgono marmoree dimore.   Parla Evandro ad Enea (1):     (1) Vv. 190 sgg,     I POETI 191   Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso:  e come lungi son sparsi i macigni, e deserta è la di-  mora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui  fu la spelonca, remota     in suo immenso recesso, che il  semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tócca  dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era  calda la terra ed affissi su la soglia violenta pende-  vano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vul-  cano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca re-  cendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti  il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio.   Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerìone  ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui  vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano  i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco — a ciò  che nullo delitto ed inganno inosato o intentato re-  stasse — dal pascolo quattro di mirabile corpo tori  distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche.  Poi, perchè nessun'orma diretta vi sia, per la coda li  trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii,  e li occulta nell'opaca caverna.   Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco.  Fra tanto, quando già dal pascolo il gregge pasciuto  moveva l'Anfitrionìade, e procacciava il partire, nella  partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion  la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci  una delle giovenche rispose per l'enorme antro mug-  ghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera.   Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile  riarse : con la mano afferra l'armi e la quercia gra-  vata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo  monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco  pauroso e turbato. Fugge senz'altro più veloce del-  l'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le     192 IV. - l'abigeato di caco   ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno,  che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea  fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito  le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incal-  zava il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua  e là movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira  fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte  le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella  valle riposa.   Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una  roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo  sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli.  Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul  fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da  le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sù-  bito la scaglia con impeto onde risuona l'etra gran-  dissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il  fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar  scoperta, e l'ombrosa caverna si mostrò nel profondo,  non diversa che se nel profondo spalancandosi per  forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e di-  schiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto  l'immenso bàratro si scorgesse, e pel penetrato lucore  tremassero i Mani.   Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava  rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra  Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e  con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora  (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno)  da le fauci — mirabile a dirsi — moltissimo fumo  vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi  togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte  aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide  'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco,     I POETI 193   là dove più fitto il fumo volge sua spira e nel  grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre  afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece,  compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si  ingorga di sangue.   Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa :  i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al  cielo, e il deforme cadavere è trascinato pei piedi.  Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tre-  mendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso  di séte, e su le fauci i fuochi spenti.   Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricor-  darono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con  la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Que-  st'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre  verrà detta da noi, e massima sempre sarà.   A Vergilio sembrerebbe di poter fare seguire  senz'altro Ovidio ; che lo imita su questo punto  assai strettamente e ne finge anche il senso  religioso e patrio, non inoioportuni né l'uno né  l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste  sacre e nazionali di Roma (1). In realtà sotto una  superficiale simiglianza si cela ben profonda  differenza. La vita artistica del mito, pregnante  in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza.  Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s'è  esaurita, che non osa violare il modello i^er  rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di  mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto  piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che     (1) I 461-586; edizione H. Petee* (Lipsia 1907).  A. Ferrabino, Kalypso. IS     194 IV. - l'abigeato di caco   " claviger „ è detto con falsa audacia Ercole ;  si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase,  quando è eletta a costituire un verso cosi (1) :   Dira viro facies, vires prò corpore, corpus  Grande ;   sorride bolsa nel bisticcio etimologico (2) " Cacus   non leve malum „. Non è più la finezza pro-   perziana e la ricca concisione : è il lezio ricer-  cato a far un poco attonito chi legga.   Ciò spiega poi anche la freddezza riposta di  tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Car-  mentalia dell'll gennaio, e il legame che alla  cerimonia sacra lo congiunge è rappresentato  dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco '. Car-  menta difatti, e perché madre di Evandro, e  perché profetessa del culto erculeo, giustifica  tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma  il legame è sottile. Carmenta, numen pì-aesens  della poesia, ne è lontana dal verso 541 al 582 ;  e la sua lontananza nell'essenza e nella forma  (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa  nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa  al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se rac-  contato a proposito der sacrifìcio ad Ercole nel  12 agosto.   E parte similmente della sua forza patria la  fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il co-  lore eh' è dato alla figura di Evandro. Questi  non è più, come in Vergilio, il re che, ormai  latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di ce-     li) V. 553. (2) V. 551-2.     195     lebrar un sacro rito romano : è lo straniero, l'Ar-  cade, giunto da poco, nuovo alla terra, foru-  scito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad  apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone  materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza  al tema, si addensa su la figura di Carmenta;  ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato,  stronca il vigore nazionale del mito. Non solo :  che ^ stabant nova tecta „ quando Ercole giunse,  straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia  proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco  " terrore ed infamia della selva aventina „. Cosi  una inezia apparente ha tramutato la situa-  zione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'ar-  tista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei  riguardi di questo mito, reale ed efficace. In  vece egli imitò Vergilio nella superfìcie; e al-  l'artifizio di tale imitazione sospese il suo rac-  conto.   Pur nella facile vena del verso, nella sonorità  scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'e-  leva ad arte (1).   Ecco i bovi d'Eritia conduce colà il clavigero eroe  che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui  ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi  feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il  Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori.  Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie  airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore  ed infamia della selva aventina, danno non lieve a     (1) Vv. 543 sgg.     196 IV. - l'abigeato di caco   stranieri e a vicini. Spietato è del forte l'aspetto, le forze  rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro,  Mulcìbero è padre : per casa, ingente di lunghi recessi  ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le  belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la  terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal  serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :  diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Ac-  colgo il richiamo „ dice e, seguendo la voce, vincitor  per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con  un masso strappato dal monte aveva munito, che  cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie.  Delle spalle questi si serve — anche il cielo v'aveva  posato — e il peso immane smuove crollando. L'ab-  batte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pe-  sante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti  alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi  sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio,  ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vo-  mita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala,  crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna  ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata tri-  nocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro  volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita  il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra.   Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e  chiama Evandro con gli agricoltoii. A sé costituiva  quell'ara che Massima è detta : qui, dove una parte  dell'Urbe ha il nome dal bue. Né tace la madre di  Evandro, che prossimo è il tempo, in cui la terra  abbia a bastanza goduto l'Ercole suo.     GLI STORICI 197     IV. - Gli Storici.   Il gesto più significante clie insieme compiano  Livio e Dionisio (i due storici dell'età di Augusto,  i quali riferirono la leggenda di Caco) è la di-  chiarazione con cui rifiutano di accettare respon-  sabilità per quanto raccontano (1). " Cosi si suol  tramandare „ dice Livio ; e richiama tacitamente  le parole del suo prologo : " né di affermare né  di negare ho in animo „. E Dionisio : " vi sono  intorno al nume d'Eracle racconti più favolosi,   e altri più credibili. Il più favoloso è questo „   E vero che, nel gesto comune, Livio crede più  di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato  l'opinione che il mito abbia un contenuto storico  (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette  prender radice col primo insediarsi laleggenda  sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risol-  vono male, il problema della sua attendibilità.   Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa  del problema, giunsero ad accrescerla. Se aves-  sero riferito il racconto com'è in Vergilio, né  pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo  segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le fa-  vole. In vece essi lo trovano attenuato presso i  più antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella  veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo con-  venirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco  vale a dire,^non vome fiamma né è un mostro. E     (Ij Su Livio e Dionisio cfr. § IV.     198 IV. - l'abigeato di caco   un uomo malvagio (xaxóg), un violento, un ladro :  — uomo. La possibilità terrena informa la fiaba  e non ammette sopra sé che l'eroico, Ercole ;  onde le due forze divine avverse si spogliano  del soprannaturale e il valore del racconto pesa  assai più sul furto che su la vendetta. In questa  difatti troppo palese appare la natura mostruosa  di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela  nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve dà, cosi  in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria  d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe.  Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ;  ma il malvagio lo invoca in vano.   Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce,  i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor  dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incu-  naboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe  di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta  ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge  l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ;  poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie  intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,  il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Car-  menta. E l'aura favolosa si forma, oltre il pre-  ciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi  legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia  si tinge d'una gravità un po' paludata, d'una  serietà riflessiva, le quali non la soffocano af-  fatto, si al contrario l'abbellano di un candore  ingenuo.   Ma solo la stessa arte di Livio può dare quel  senso secreto (1).     (1) I 7. 4 sgg. ; edizione Weissknbohn'^ (Lipsia 1910).     GLI STORICI 199     Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'ucci-  sione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume  Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi  a sé la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco  egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con  un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come  per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'op-  presse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di  violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e vo-  lendo stornar quella preda, perché, se avesse spinto  all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte  medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,  trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi,  quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora  come, desto dal sonno, esaminò con gli occhi il gregge  e s'accorse che una parte ne mancava dal numero,  si diresse alla vicina spelonca, se per caso colà con-  ducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte  al di fuori né altrove dirette, confuso e mal certo  prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo.  Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte mug-  gito, come accade, per desiderio delle restanti, il ri-  sponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole.  Lui che assaltava la spelonca Caco tentò di rattener  con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando   l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei   luoghi (1). Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pa-  stori trepidanti pel forestiero reo di manifesta uc-  sione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,  scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto mag-  giori e più augusti degli umani, gli chiede chi mai     (1) Omesso in parte il § 8.     200 IV. - l'abigeato di caco   si sia. Quando il nome e la paternità e la patria ne  apprese : " nato da Giove, Ercole , disse " salve !  Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti pre-  disse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e  che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale  un giorno il popolo più opulento della terra chiamerà  " massima „ e venererà secondo il tuo rito „. Dando la  destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adem-  piere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora  per la prima volta con una stupenda giovenca della  mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero  e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le  famiglie più insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato.  Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad  essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giun-  gessero per i restanti cibi ma già consumate le in-  teriora. Di qui rimase stabilito, finché la schiatta dei  Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sa-  crifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di  quella cerimonia per molte età, fin quando trasferito a  pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta  la schiatta dei Potizii peri.   Tale, nell'insieme, è Dionisio (1): se se ne  toglie che Caco è per lui non un pastor ma un  predone dei luoglii; che Carmenta è mutata in  Temide (2); che il ladro, interrogato, nega la  sua rapina ; che Ercole, prima che a sé, alza un  altare a Giove Inventore; e pochi altri parti-  colari minori su la cui natura e sul cui valore  non è qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra     (1) I 39-40. (2) Cfr. sopra pag. 181.     I RAZIONALISTI 201     vagliati. Se non che in Dionisio è, di più, una  stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due  capitoli sopra un racconto cui non crede affatto;  scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi  adombrato un simbolo che rivelerà poi, con si-  cumera da erudito certo di sé e del proprio  sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  è nervoso; non sorvola né condensa: insiste e  stanca. Il suo pensiero critico è estraneo: si  afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare  se non alla fine : ^ Intorno ad Ercole questo è  il racconto favoloso che si tramanda „. Alla  fiaba manca l'amore.     V. — I Razionalisti.   Quando alla fiaba manca l'amore, essa non può  che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le  stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante  dell'erudizione romana trovarono il fatto loro»  — come i poeti in Ennio, gli storici negli an-  tichi annalisti, — negli annalisti dell'età dei  Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo (1). Su la  forma precisa del racconto che si trovava presso  l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non  possiamo dubitare su la forma generale. En-  trambi, abbandonandosi alla più rigorosa critica  razionalista, concordano nel ridurre il mito a un  gramo cencio per tramutarlo in realtà; ma si     (1) Cfr. § VI.     202 IV. - l'abigeato di caco   direbbe che il primo abbia l'occhio più tosto  alla redazione poetica della favola siccome ap-  parve poi in Vergilio ed era apparsa prima in  Ennio, il secondo invece si parta più tosto dalla  redazione storica che con riserve riprodurranno  Livio e Dionisio.   Cassio Emina difatti narrava un preteso " rac-  conto veritiero „ ove Caco appariva in qualità di  servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il  buono Evandro signore del cattivo servo. Co-  testa concezione fondamentale ci ritorna in due  testimonianze, ma un po' diversamente: presso  il commentator di Vergilio Servio e il suo inter-  polatore ; e presso uno scritto L'origine del  popolo romano^ opera probabile d'un erudito  del IV secolo che compilava con grami intenti  storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua  fonte; il primo sembra contaminarlo con altre  informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio  adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo,  soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine  malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto  vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome  gli venne dal greco xanóg col ritiro dell'accento^  come fu di 'EMvtj in Hélena. Ercole lo abbatté  ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il rac-  conto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a  uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo, è tra-  visato nella sua essenza. A tale effetto furono  bastevoli tre interventi del razionalismo : l'uno  a spiegar e ridurre la natura mostruosa del  ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a  giustificarne i rapporti con Evandro. — Più in  là si spinge in vece L'origine^ nell' attinger forse     I RAZIONALISTI 203     più compiutamente, certo in modo più esclu-  sivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole è un uomo  forte (il suo vero nome è Recarano), e Caco uno  schiavo ribelle; ma il furto è punito per auto-  rità di Evandro senza duello né lotta. I motivi  razionali di questa notevole soppressione son  due : lo scrittore non aveva spiegato allegorica-  mente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvo-  lare su la circostanza in cui più il fuoco ha  parte ; la qual necessità poi gli servi anche per  metter in rilievo la buona figura di Evandro e  la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allon-  tana dalla fiaba poetica molto più che non  appaja Servio, se bene come questo la tenga  presente.   Come però questa di Cassio Emina doveva  essere, rispetto ad Ennio, una considerevole ri-  duzione del mito fantastico nei termini della  realtà possibile, ma, rispetto al racconto degli  annalisti più antichi, non era se non se un lieve  i tocco; cosi su questo racconto altri critici in-  rtervennero assai più profondamente. Ridurre il  mostro a servo : ecco una trovata buona. Ma  m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti:  ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio  nella storia dei popoli anche la breve favola.  Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo ; e  da un contemporaneo di lui, per qual si voglia  via, la derivò a sé Dionisio per il suo " più cre-  dibile racconto „ (1),     (1) 1 41 ; edizione C. Jacoby (Lipsia 1885).     204 IV. - l'abigeato di caco   Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e  comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse  tutta la terra compresa dall'Oceano ; abbattendo, ove  c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le  repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di  uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di  stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie  repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie ; colle-  gando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi  con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e  diffidenti; eostruendo città ne' luoghi deserti, deviando  fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti  inaccessibili ; e l'altre opere compiendo, per modo che  l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio  di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo né con-  ducendo una mandra di buoi (né di fatti la regione è  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, né per aver  traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore);  ma guidando numeroso esercito per sottomettere e  dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato  l'Iberia: e a colà permanere più a lungo fu costretto  e dall'assenza della flotta — phe avvenne pel soprag-  giunger dell'inverno — e dal non accettare tutti i  popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui.   Quindi è narrata la sottomissione armata dei  Liguri, non che d'altri ; per continuare (1) :   Fra costoro che furono superati in battaglia, si  dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani — un  re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi — avesse     (1) I 42, 2 sgg.     I RAZIONALISTI 205     con Eracle contesa, perché occupando luoghi forti  era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso  Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con ap-  parecchio da ladrone attaccò in sùbita mossa l'eser-  cito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incusto-  dito caricandosene predò. Dopo però, stretto d'assedio  dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu  ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i pre-  sidi! di lui, i territorii all'intorno presero per sé i se-  guaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro....   Quest'ultima asserzione rivela quanta libertà  il razionalista si arrogasse; fino a far giunger  nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro si-  gnore degli Arcadi che la volgata afferma in-  sediato sul Palatino al momento del duello.  Libertà intesa al servizio del vero " secondo i  filosofi e gli storici „, — come s'esprime Servio,  — ossia di quella critica, che conduce a creare,  accanto alla favola più propria una fiaba fittizia e  grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awen-  tm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render  civili i barbari, pacificar i nemici. Né del resto  sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il  " vero „, né cosi miserandi apparirebber i suoi  risultati; se non gl'inquinasse una mal celata  boria, un vanto sicuro di superiorità intellettiva  che è solamente sterile miseria.   Su queste rovine pochi poveri racconti si stre-  mano ancora. Evandro richiama con sé la figura  di Fauno di cui era divenuto un equivalente  sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira  il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca  suggerisce la storiella che la dea abbia otte-     206 IV. - l'abigeato di caco   nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco,  suo fratello.   Poi, è il silenzio.   Singolare sorte della saga, in verità. Ricca  di densa materia; vissuta traverso il succedersi  delle geniture in una propaggine del vigoroso  ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Pala-  tino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II se-  colo a. C. non pur la sua forma poetica e la  sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e  su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per  modo, che sopra il quadruplice schema l'età più  possente del pensiero romano, l'augustea, non  seppe se non disporre adorne trame di ben va-  gliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il  mito ebbe preclusa nel sèguito ogni ulteriore  vita : però che dovesse morire intero con l'estin-  guersi la potenza alla sua bellezza verbale.     CAPITOLO V.  Cirene mitica <i).     I. — Il sostrato storico.   Ricamo magnifico, pel quale dedussero i più  eletti stami poeti, tra quanti furono nell'anti-  chità, grandissimi, il mito greco di Cirene e di  Apollo, l'uno a l'altra amante, ha però nella  storia reale una sua trama di fatti concreti e in  parte sicuri , da cui deriva direttamente o indi-  rettamente tutte le proprie successive forme e  in cui è da ricercare il motivo appunto di questa  evolventesi trasformazione. Se il Peloponneso,  con due suoi luoghi in ispecie, Sparta e il Tè-  naro; se Tera, l'isola che nell'Egeo sta a set-     (1) Per tutto queeto capitolo vedi Vlndagine in libro II  cap. IV. Nelle note successive indicheremo solo i rispet-  tivi paragrafi.     208 V. - CIRENE MITICA   tentrione di Creta ; se la Libia, ferace di gregge  e di frutti, costituiscono alla leggenda lo sfondo  geografico: certo fra questi perni essenziali si  svolgono gli avvenimenti, di cui gli uni trovano  nella fiaba un riflesso e una deformazione im-  mediata, gli altri solo in modo mediato danno  impulso a talune vicende, determinano qualche  figura, causano pochi episodi! (1).   Grià in tempo antichissimo, intorno al secolo  decimo a. C, sciami di coloni s'eran condotti  fuor dal Peloponneso in Tera, costituendo a  quest 'isola un' incancellabile fìsonomia dorica.  Più tardi sol tanto, presso che nel secolo VI,  sembra Sparta abbia inviato colà uomini suoi,  a suggellare della sua particolar impronta il  carattere e la storia di quella breve terra. Ma  fin dallo scorcio dell'età precedente una mano  di cittadini Terei abbandonava con ardire la  spiaggia patria per avventurarsi nel mare, oltre  Creta, fino in Libia. Comunque l'impresa nei  particolari procedesse, quali che fossero le fa-  tiche sostenute e gli ostacoli superati, i coloni  non posero in vano il piede su la terra straniera :  la quale divenne per essi fiorente di fiore civile,  prospera di ricchezza, famosa al mondo; da essi  si ebbe i suoi Re (2). Largo era dunque il volo con-  cesso alla ricordevole fantasia dei discendenti,  perseguendo il tramutar delle sedi dalla penisola     (1) Cfr. § I.   (2) Cfr. Beloch Griechische Geschichte - I 1, 128. 264 ; Bo-  soLT Griechische Geschichte^ I 479 sgg. : Malten Kyrene  C Philologische Untersuchungen , XX 1911) 166 sgg.     IL SOSTBATO STORICO 209   a l'isola, dall'isola al continente. E la lunga  vicenda fu, come nella memoria, cosi nel mito;  ma quale è la realtà in cristallo iridato.   Però che la memoria fosse alterata da quell'am-  pio patrimonio di figure di\dne e leggendarie, il  quale è pregio d'ogni stirpe greca, in diversa  misui^a; e giungendo alla s^Diaggia insueta re-  cassero i Terei, nell'anima, il loro spirituale pos-  sesso di Dei di Ninfe di Dee : Numi abita-  tori del cielo della terra del mare. E allargato,  di li a non molto, già nel principio del secolo VI,  fu ancora l'ambito dei culti e delle figurazioni.  Regnando difatti Batto II della stirpe che prima  aveva ivi instaurato il soglio regale, un notevole  flusso di nuovi coloni pervenne alla Libia, per-  vadendo e mischiando l' antica massa. G-iun-  gevano dal Peloponneso, e tra essi gli Arcadi  distinti per la lor propria dissimiglianza. Griunge-  vano dall'isole egee, e tra essi i Cretesi, precipui  per la loro importante sede (1). Rinnovarono la  stirpe corrompendone l'uniformità; apx)ortarono  un soffio diverso e molteplice ad alimentare di  parole mistiche e di riti i sacri fuochi accesi dai  venuti prima. E furono per le vicende delle fiabe  locali di efficacia non piccola ; grandissima. Non  soltanto perché apportatori di nuovi elementi al  racconto; ma anche perché, numerosi, costitui-  rono a sé un centro secondario di creazione e  diffusione mitica, in antitesi al principale, cui  la casa regnante tribuiva più solenne sanzione e  la priorità donava un più schietto rilievo. Ond'era,     (1) Ebodoto IV 159. 161.   A. Ferrabino, Kalypso. 14     210 V. - CIRENE MITICA   da questi due distinti gruppi del popolo greco  in Libia formato, quasi per intiero, il sostrato  mitico delle leggende cirenaiche.   Tuttavia, né questo, che pur ora è stato detto,  sostrato mitico, né quella, che fu tratteggiata,  realtà storica, sarebbero bastevoli a chiarire,  soli, le mature forme della favola di Cirene e  Apollo ; ove sfuggisse il centro vero, il proprio  crogiuolo, nel quale divenne creazione viva e  vitale, possente d'un suo secreto alito di pura  bellezza, organata in una palese e pur varia  armonia, la massa confusa e diffusa che si spre-  cava candescendo in poveri rigagnoli senz'ordine.  Quel centro, quel crogiuolo fu l'antichissimo san-  tuario di Apollo in Delfi, già noto all'epopea  vetusta ch'è detta di Omero. Ivi la favola libica  si tramutò in mito greco: era d'una stirpe, di-  venne d'un popolo ; era d'una regione, se ne im-  possessò l'arte, universale (1).   E l'arte fu in fine la plasmatrice maggiore di  quel mondo fantastico, cui diede l'espressione  con voci perenni. L'epica esiodea , l'ode pitica  di Pindaro, l'inno di Callimaco, il racconto di  Erodoto, il carme didascalico di Vergilio in-  tonarono per quell'armonia le note.     n. — L' " Bea ., di Cirene e d'Aristeo.   D drappello d'uomini terei che s'insediava primo  sulla proda del mare libico recava con sé, prin-     (1) Cfr. § V e VI 2.     DI CIRENE E d'aBISTEO 211     cipalissimo tra i suoi Iddii, idoleggiato con spe-  ciale e insigne culto, uno il cui doppio nome  serbava ricordo di antica vicenda: Apollo Carneo.  Carneo era stato il Dio dell'età più antiche, ve-  nerato di profondo e rispetto e amore fra i po-  l}oli dori. Sol più tardi il nume di Febo Apol-  line era sorvenuto, in uno slancio di prepotente  predominio, a fondere con sé, come quella che  gii era per qualche carattere e attribuzione si-  migliante ed afiine, la vetusta divinità dorica.  E dalla mischianza, per nulla inconsueta, eran  nati il nome nuovo di termine duplice, e la  figura nuova in cui le linee primordiali soprav-  vivevano accanto alle ultimamente tracciate ;  senza vero dissidio, a causa della sostanziale  contiguità dei concetti, il Febo dei Delfi acco-  standosi al Carneo dei Dori. E ad Apollo Carneo  non fu, nella terra libica, pretermesso il culto.  Anzi, poiché dopo alcun tempo i coloni trova-  rono nella patria nuova un'abbondante fontana  da cui l'acqua scorreva copiosa a fecondare il  suolo riarso, a quel Nume appunto questa sor-  gente ricchezza delle glebe fu piamente dedi-  cata. A torno il " fonte di Apollo „, nel luogo  ove conosciamo la città di Cirene, posò una schiera  di cittadini terei (1).   Fra tanto, rapido era l'accostarsi de' coloni  alla stirpe dei Libi la cui compattezza venivan  variegando in un disegno ellenico: e come alla  stirpe, cosi a' costumi, cosi alla lingua. Appre-  sero, per ciò, che la notevole polla chiamata dal     (1) Cfr. § III.     212 V. - OIKENK MITICA   Carneo aveva pure, nella parlata indigena, un  suo appellativo: era detta '^ Gira „. Onde, presso  a quel più greco, questo ijiù libico nome rimase.  E poiché alla fantasia per abitudine secolare si  popolavan di Driadi gli alberi e di Ninfe le  sorgive, nell'acqua si vide abitatrice una vergine  fanciulla, diva del luogo: " quella di Gira ^  suonò l'espressione; e grecamente " Cirene „  (KvQi^vf], Kvqdva). E fu ella quasi il simbolo,  e certo il segno, del penetrarsi cbe il popolo in-  digeno e il sopraggiunto venivan facendo ; e  tanto più doveva apparir cara ai Dori quanto  più a' luoghi s'avvezzavano e le generazioni si  succedevano. Era destinata a compaginarsi per  impulso crescente con essi ; cosi che nessuno stu-  pisce di vederla scelta a riprodurre, direi eter-  nare, in sé l'opera che quelli spesero per adat-  tare il paese e renderlo quetamente abitabile.  Fu difatti rappresentata qual Dea cacciatrice  (nÓTvia d-i]Q(òv) nell'atto di afferrare crollare  abbattere un leone: sola, E nell'atto fu in  breve ferma per sempre, irrigidendolo come  in uno schema, fissandolo in un gesto tipico.  Rimase (1).   La Signora delle belve e la Ninfa di Gira era,  e per l'uno e per l'altro de' suoi attributi, insen-  sibilmente e inevitabilmente condotta presso  Apollo Carneo : protettore della fonte ov'ella  abitava, e antico Dio del popolo che simboleg-  giava ormai ella. Divennero amanti divini ;  amanti li narrò il sogno nuovo. E cosi il nodo     (1) Cfr. § IL     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aEISTEO 213   primo del tessuto mitico s'era allacciato. In  Libia si compievano le nozze ; e Libia, l'eponima  del paese, la divinità che dava al nome della  regione una grazia feminea, fu difatti la pro-  nuba benigna e ospitale, cortese di favori agli  sposi.   Il pensiero era in un felice momento creativo :  in uno di quei momenti in cui il volo non si  tronca; e non si perde, e né meno si smarrisce,  la spinta prima. In quest'atmosfera innovatrice,  ove pareva urgesse il bisogno di costituire allo  Stato nascente un diverso patrimonio anche di  leggende, fu sùbito còlta l'analogia fra Cirene,  che reprimendo le belve e prodigando l'acque  procacciava agli agricoltori quiete e abbondanza;  Apollo Carneo, la cui natura solare era, in guisa  eminente, beneiica alle zolle ; e Aristeo, un gio-  vinetto iddio, il quale in Libia era giunto non  sappiamo ben d'onde. Egli era il caratteristico  protettore dei campi ove crescon le messi, dei  pascoli ove erran le mandre e le gregge, degli  aratori e dei pastori. Tale si venerava in assai  regioni greche, e fu presto diffuso sopra un'am-  plissima area : fino in Italia, fino in Sicilia, fino  in Sardegna, da un lato; fino in Tracia, da l'altro.  Nell'isole del mar Egeo aveva culto ; culto in Ar-  cadia. che dunque dall'isole si spingesse in  Libia o che da l'Arcadia lo recassero i venuti  all'appello di Batto II ; egli fu là. E, sia per la  natura sua propria assimilantesi, sia per la legge,  onde la fantasia greca è governata, di non lasciar  nume alcuno isolato ; come altrove s'era com-  messo con Dioniso dalle feraci viti o con Ninfe  indigene propizie agli aratri, cosi nell'Africa si     214 V. - CIRENE MITICA     congiunse, e presto, con la coppia amante; av-  vicinandosi forse prima a Febo, a quella guisa  che gli Arcadi lo dicevan non pur Aristeo ma  "Apollo Aristeo,,; o prima a Cirene: ad en-  trambi tuttavia divenendo figlio dopo aver ac-  costato l'uno, necessariamente. Portava egli con  sé tutt'una serie di attributi e di nessi, dei quali  alcuni gli eran più intimi; altri più proprii eran  di paesi lontani, sua antica sede. Congiunto era  con Agrèo, nume cacciatore; con Opàone, cu-  stode di gregge; con Nò mio, pastore; x^ersino  con Zeus padre. Né il dio delle terre coltivate  poteva non esser attinente, nel racconto, a Gea.  la madre TeiTa; e alle Ore, le fanciulle vario-  pinte il cui corso regola la vicenda dei raccolti,  e allieta o attrista i contadini a volta a volta :  attinenze indubbie, e antiche certo, ma costitui-  tesi s'ignora in qual luogo prima. Spiccatamente  però egli era tessalico : in Tessaglia è forse da  vedere fin la sua origine; di Tessaglia a ogni  modo gli venne la sua più speciale sembianza:  dalla pianura fertilissima in Grecia. Onde è pro-  babile che ivi fosse da tempo unito con il " giu-  stissimo tra i Centauri ,,, Chirone: quegli mede-  simo che, secondo l'epopea, ammaestrò nella  salutare arte medica Pèleo, e di questo il figlio  Achille, e Asclepio il sanatore eccellente di fe-  rite (1). Accanto dunque alla coppia d'Apollo e  Cirene, la quale recava mischiati i suoi caratteri  delfici dorici e libici, il dio fanciullo era a pre-  ferenza tessalico (2).     (1) niade A 822 sgg. 832 A 219. (2) Cfr. § IV.     l' " EEA „ DI CIRENE E d'aRISTEO 215   Di questa situazione profittò accortamente chi  ebbe a elaborare il mito in Delfi o nel flusso  letterario originatosi da Delfi. Colà la leggenda  in naturai guisa si riportava a cagione della  figura di Febo; sotto il supremo patronato del  quale la favola ricevette un più ampio svolgi-  mento. Ma per ben comprendere di esso l'origine  e i modi, è necessario badare a quella ch'è dei  rifacimenti leggendarii delfici la più profonda, se  ben forse più riposta, caratteristica. Tendono  tutti bensì, e in primissima linea, a rilevar l'im-  portanza del nume Apolline venerato nel locale  santuario; ma e tendono a intrecciare, sotto di  lui, le fila di più e diversi miti, ancor che sieno  (e meglio se sieno) attinenti a diverse e fin lon-  tane regioni. Un esempio: per più punti simili,  Asclepio di Tessaglia e Apollo di Delfi, dèi sa-  natori entrambi, dovevan facilmente unirsi nel  racconto, e spontaneamente Apollo aveva da  soverchiar Asclepio: orbene, a Delfi se ne trae  lo spunto per trasportar nei piani di Larisa e  di Tricca il dio di Pito. Ardimento anche mag-  giore permetteva la favola africana : il Carneo di  Libia e l'Aristeo di Tessaglia favorivano l'ordi-  tura d'un'ampia tela fra due paesi lontani e ben  separati; la quale filo maestro contenesse Febo  Latoide, identificato già col primo e padre già  del secondo ; e come su punti estremi si fissasse  su la città di Cirene e su le vette del Pelio. E tra  Cirene e il Pelio Febo Latoide fu mosso, tra  la sede dell'amata e la sede del figlio (1).     (1) Cfr. § V.     216 V. - CIRENE MITICA   Cosi fatta opera era compiuta nell' " Eea „ di  Cirene e di Aristeo, appartenente all'epica detta  di Esiodo. Due versi ce ne giunsero, unici: " O  quale in Ftia, donata di bellezza dalle Cariti,  presso l'acque del Pèneo abitava la bella Ci-  rene „. Il resto del carme si ricostruisce per  congettura. — Figlia del tessalo Ipsèo, re dei  Làpiti, e nipote del Penco, fiume locale, Cirene  crebbe vigorosa e animosa, strenua in combat-  tere. Durante la lotta con un leone la sorprese  Apollo e, còlto da amore, si ebbe da Chirone  la profezia delle nozze. La rapi dunque e la recò  sul cocchio aureo in Libia, ove Libia la ninfa  li accolse. Un bimbo nacque: Aristeo. Il j)adre  recò questo presso le Ore e Gea che l'allevarono  e fecero di lui un immortale simile a Zeus, ad  Apollo simile, un Agreo cacciante, un Opaone  custode di gregge, un Nomio pastore. — Tale  lo schema breve della fiaba. Ove si riconosce,  senz'altro, il corteggio dei numi che nel racconto  penetrarono al sèguito del fanciullo tessalo  Aristeo; e sùbito si avverte il colorito libico  riflessovi da Cirene; e né meno s'indugia a inten-  der perché, volendo insieme serbar intatto il  carattere tessalico del giovinetto e non cancellare  l'episodio della sua nascita in Africa, venisse  alla madre attribuita prosapia fra i Làpiti presso  i Centauri. S'otteneva cosi, è vero, di raffigurar  popolosi di leoni queti piani della Tessaglia ; ma  qual poeta ha mai temuto d'essere illogico '?  E fuor di questo, la trama era pregevole per  molta armonia ; e sovra tutto per un'intima leg-  gera grazia di tocco che temperava con l'amore  del dio la salvatichezza della fanciulla; per una     l' " BEA , DI CIRENE E d'aRISTEO 217   accorta sapienza prospettica nel disegnare le  scene su lo sfondo di due feracissime terre, onde  senza contrasto si rilevava, ben stagliato, in  gesto benefico, il giovine Aristeo ; per un intimo  senso sacro in fine diffuso nel carme, traverso  le parole di Chirone dal molto senno e assai  venerando, sino a dargli temperatamente un  tono religioso.   Che stupenda, del resto, fosse la concezione,  dimostrò la sua vita ulteriore presso gl'imitanti  poeti. Fascinati questi, oltre che dall'aura di  sogno emanante fuor della fiaba, anche dalle  lusinghe di cui eran ricche cosi la vecchia culla  dei canti greci, la Tessaglia, come la nuova fio-  rentissima colonia dorica, la Cirenaica. Per l'una  il mito si riallacciava alle tradizioni vetuste, per  l'altra si commetteva alle vicende di uno Stato.  Ma era inevitabile che questi due poli, ben ar-  monizzati (all'inf uori della irrazionalità su i leoni)  dall'Eea, attraessero poi in modo palese cia-  scuno a sé la materia; e la Ninfa tendesse a  divenire di qui quasi totalmente tessala, a ridi-  venire di là quasi esclusivamente libica. Due  filoni se ne originarono, non privi né l'uno né  l'altro, all'origine, di tracce lasciate dall'Eea,  unica fonte primitiva; ma ben divergenti in  processo di tempo : l'uno che con Aristeo tras-  porta sul Penco la stabile sede di Cirene: l'altro  che con Apollo rinforza e rincalza i tratti afri-  cani di lei.     218 V. - CIRENE MITICA     III. — Cirene in Tessaglia.   Su la via per la quale Cirene jDerverrà a sta-  bilirsi in Tessaglia la prima tappa è compiuta  dall'ode pitica nona di Pindaro, nel 474 a C,  in onore del cireneo Telesicrate, vittorioso nella  '^ corsa in armi „.   La patria del vincitore cui il canto è indiriz-  zato dovrebbe far supporre che amplissimamente  sul racconto pindarico si esercitasse l'influenza  libica. Fu, in vece, limitatissima. E ben deve  ridursi a un unico particolare. Ove l'Eea introdu-  ceva Libia accogliente gli amanti, Pindaro che  conosce tanto questo particolare e tanto lo ricorda  da valersene nel suo carme (1), non esita a dise-  gnar in vece, nel principio del carme medesimo,  la figura di Afrodite dal piede d'argento: riu-  scendo a un doppione. Perché ? Ad Afrodite era  dedicato un giardino in Cirene e a lei si ren-  deva culto con qualche importanza ; onde fu che  la notizia regionale s' insinuò non pur a modi-  ficar la trama del racconto esiodeo ma a dupli-  carne un tratto. Accanto a questa ben lieve al-  terazione può esser posta un'altra, meno visibile,  e dovuta a causa diversa. Apollo era con Ermes  strettamente congiunto nel mito (2); v'era tra  essi quasi un vincolo che ove Funo stava l'altro  adducesse. Quest'attinenza fu il motivo per il     (1) Vv. 55-68.   (2) Cfr. in questo volume (libro I) il capo III § L     Hi     CIRENE IN TESSAGLIA 219   quale, in Pindaro, altrimenti da l'Eea, non  Apollo, ma Ermes ebbe a recare il recente nato  Aristeo presso le Ore e Crea: ufficio, a ogni  modo, ben dicevole a lui. Delle quali intrusioni  però assai più notabile è la non compiuta au-  dacia con cui il poeta svolge la profezia di Ghi-  rone. Contro di essa si ribellava la sua coscienza  religiosa e la sua dottrina, ove a ciascun Iddio  eran assegnati attributi fissi e certi da non vio-  larsi da non obliarsi, ed erano al tutto scono-  sciute, riprovevoli, le confusioni le incertezze  dei primi canti divini. Già che, i^er esempio,  Apollo era, nell'essenza, l'onnisciente e profe-  tante Nume, troppo illogica e, diciamo, troppo  antropomorfica risultava la scena in cui al Vate  da un Centauro vengono vaticinate le nozze.  Sùbito lo vede Pindaro ; si ribella, ma a metà 5  protesta, non totalmente. Dimostra l'inconsi-  stenza dell'episodio, poi lo accetta con un sor-  riso ed un sospiro (1).   Fuori però di queste tre deviazioni il suo inno  riproduce l'Eea. Splendidamente per vero (2).   Voglio, con le altocinte Cariti Telesicrate procla-  mando, il Pitionica di bronzeo scudo, fortunato e  prode, celebrare, corona di Cirene agitatrice di cavalli :   Questa un giorno dai ventosi sonori antri del Pelio  il chiomato Latoide rapi ; condusse Egli su l'aureo  cocchio la Vergine selvaggia là, dove d'una terra in  gregge ed in biade ferace l'institui Signora, ad abitar     (1) Cfr. § V.   (2) Edizione di 0. Schrodee- (Lipsia 1914).     220 V. - CIRENE MITICA   la terza amabile fiorente radice del mondo. Accolse  Afrodite dal piede d'argento il Delio ospite, le divine  redini toccando con mano lieve: e per loro sul dolce  letto gi'ato diffuse pudore, in comuni nuziali vincoli  l'Iddio mischiando e la figlia d'Ipsèo ampio possente:   Ipsèo, re allora dei bellicosi Làpiti, da l'Ocèano  seconda genitura eroica ; lui un tempo negl'incliti an-  fratti del Pindo generò, goduto il letto del Pèneo, la  Nàjade Creusa, nata dalla Terra ; egli la figlia di belle  braccia crebbe, Cirene.   La quale, né de' telai amava l'alterna vicenda, né i  gaudii delle danze (1) fra casalinghe amiche ; ma, con  bronzei dardi e con spada lottando, l'ispide belve uc-  cidere. E molta per vero e queta pace ella ai bovi  procacciava del padre, e poco spendeva del sonno che,  dolce compagno di letto, su le ciglia si stende verso  l'aurora.   Sorprese lei un giorno, — sola, — in lotta senz'armi  con vigoroso leone, il lungisaettante Apollo d'ampia  faretra. Sùbito dalle sue stanze chiamò con grida  Chirone: " Lascia il venerando recesso, o Filiride,  lascia ! l'animo d'una donna e la grande possanza stu-  pisci, quale lotta con impavida fronte sostiene, giovi-  netta dal cuore all'impi'esa più alto: di paura non le  treman gli spiriti ! Chi lei fi-a gli uomini generò ? da  quale schiatta rampollata degli ombrosi monti abita  le caverne ? Forza illimitata manifesta in vero... È le-  cito l'inclita mia mano avvicinare a lei, e dal letto  tondere il fiore dolcissimo ? .,   A lui il forte Centauro, con sopracciglio benigno  chiaro ridendo, tosto il suo divisamento rispose : " Se-     (1) Nel V. 19 leggo òeCvcùv per óeljivoìv col Bergk.     CIRENE IX TESSAGLIA 221   crete alla savia persuasione sono le chiavi dei sacri  amori, o Febo ; e cosi fra gli Dei come fra gli uomini  questo del pari è pudore : palesemente il dolce letto  la prima volta salire. Ma ora te, cui non si conviene  menzogna, mite desiderio indusse a parlare queste  finte parole. Tu, onde sia interroghi la schiatta della  fanciulla, o Signore ? tu, che di tutte le cose conosci  il fine e tutte le vie : e quante di primavera germina  foglie la terra ; e quante nel mare e nei fiumi da  l'empito dei flutti e dei vènti sono agitate réne ; e quel  che sarà e donde sarà, ben vedi! — Ma, se anche coi  profeti bisogna gareggiare, dirò : a costei sposo venisti  su questa balza ; e oltre il mare devi portarla, nell'in-  signe giardino di Zeus. Donna di città ivi la porrai  raccogliendo l'isolano popolo sul colle c'ha cintura di  piani. Allora la diva Libia dagli ampi pascoli acco-  glierà l'inclita sposa benignamente nelle case d'oro ;  parte della terra a lei tosto donando, possesso comune,  non spoglia di tutte fruttifere piante né ignara di  belve. Ivi ella un fanciullo genererà, da l'illustre Ermes  di poi ritolto alla cara madre, e recato alla Terra e  alle Ore di ben costrutto trono. Queste su le ginocchia  al piccino di nettare le labbra e d'ambrosia stil-  leranno: lui rendendo immortale, uno Zeus, un pui-o  Apollo, delizia agli uomini diletti, un Opaone cu-  stode di gregge, un Agreo cacciante, Nomio pastore:  altri lui nominando Aristeo „.   Nella pausa che succede a quest'inno, se ne  sente inevitabilmente refficacia anticirenaica. La  più bella e la maggior sua scena si svolge fuor  di Libia, in Tessaglia; i progenitori tessalici  della fanciulla son rammentati; narrate le sue  imprese virginali su le vette ventose del Pelio ;     222 V, - CIRENE MITICA   né il suo figlio pure s'indugia su la sponda afri-  cana. E tuttavia non per questi motivi, di per  sé valevoli, l'ode pindarica scema il signifi-  cato primordiale di Cirene; si perché, continuando  l'impulso dell'Eea, sanziona in lei, più assai che  l'eroina indigena venerata e creata da un popolo  in uno Stato, la comune divinità ellenica sposa  di Apollo e madre di Aristeo, Apollo delfico e  Aristeo tessalico ; e le dà per tanto, come plinto  alla sua statua, l'Eliade; come credenti al suo  culto, gli EUeni.   A testimoniar tuttavia, effìcacenaente, su l'o-  rigine vera della Ninfa restava la sua lotta col  leone: particolare di precipuo sapore africano.  E questo pure andò, in progresso di vicende,  eliminato. Apollonio Rodio ne' suoi Argonauti  nel trattar da erudito la leggenda avverti l'in-  coerenza di quell'episodio che a due veri poeti  era sfuggita ; e lo soppresse senz'altro. Per lui.  Apollo scorge la vergine in Tessaglia intenta a  custodire gregge e di li la rapisce, senza lo spe-  ciale motivo della forza ammiranda di lei, in  Libia. In Libia le ninfe sotterranee (x&óviai  vv/i,g)ai) li accolgono : le quali son, come tutrici,  numi del paese e occupano presso il nuovo poeta  sapiente, cui la sminuita fantasia e l'accresciuta  dottrina tolgono d'intuire la bellezza nella per-  sonificazione d'una terra, il luogo dell'eponima  ninfa Libia. Apollo poi recherà il nato Aristeo  alle Muse, sue allevatrici: ove delle Muse il  concetto è attratto dalla fama del Latoide qual  Musagète. Che più resta della Signora delle  belve e Dea della fontana? L'esiguo accenno  alle nozze compiutesi in Libia e al soggiorno     CIRENE IN TESSAGLIA 223   duraturo della sposa colà. La maggior luce è  gittata su Aristeo, su la sua nascita e le sue  vicende ulteriori: l'africana, nel contesto, è un  momento. Contro questa general tendenza di  Apollonio non starebbe che la soppressione della  profezia del Centauro. Pindaro, discutendola,  l'aveva serbata; egli, più razionale e men rispet-  toso, l'elimina. Ma appunto perché a lui tutta  la leggenda si presenta in un'aura tessala, sente  poi il bisogno di non perdere totalmente questa  figura, cosi dicevole al suo pensiero; e la ram-  menta quindi, in altro luogo, come partecipe  all'educazione del Fanciullo pastore, insieme  con le Muse. Non più grande né più intenso  poteva essere, sembra, l'influsso della patria  acquisita contro la patria e prima e vera (1).   E fu più grande e fu più intenso. Bastò che  un poeta, Vergilio, riprendesse il racconto, im-  perniandolo, ancor più che i suoi predecessori,  su Aristeo. L'inevitabile avvenne. Dinanzi la  memore mente dell'artista (o della sua fonte)  è il noto e diffuso episodio omerico di Achille  invocante nella passion dell'ira e dello sconforto  la madre Tetide su la riva del mare. Quando  dunque egli ha narrato come il Fanciullo perdesse  il prezioso suo alveare, gli piace di figm^arselo nel-  l'atto dell'eroe epico ; e lo conduce verso la madre  Cirene. Di questa l'Eea diceva padre Ipseo e  nonno il fiume Peneo. Con una assai piccola  libertà il j)oeta la dice figlia non di quello ma  di questo ; e ottiene cosi di farla abitare nel pro-     (1) Cfr. § V.     224 V. - CIRENE MITICA   fondo gorgo paterno e di addurre su la sponda  della corrente acqua il Giovinetto afflitto da  eccessivo dolore. Non oblia Apollo, che a lui fa  breve cenno; ma al fantasioso innovatore del  mito tutta la scena si transfigura. Nuovo sfondo  è il talamo recondito di Penco ove le Ninfe  vivono (1).   Aristeo pastore fuggiva la ralle di Tempe penèa,  perdute — si narra — per morbo e per fame le api.  Triste, fé' sosta presso il sacro capo del fiume ; molto  lagnandosi, e così invocando la madre: " Madre Ci-  rene, madre, che il profondo abiti di questo gùrgite,  perché da preclara stirpe di Dei, se (come dici)  Apollo mi è padre, inviso ai fati mi generasti? o  il tuo amore per noi dove hai gittato? perché onori  celesti sperar mi facevi ? Ecco : fin questi onori ter-  reni, che a me alacre con pena procacciava solerte  custodia di biada e bestiame, ho perduti, te avendo  per madre. Or su or su : svelli di tua stessa mano le  beate selve ! apporta il nemico fuoco a le stalle ! di-  struggi le messi! i seminati riardi! e la temprata bi-  penne vibra neUe viti ! se tanto fastidio ti px-ese della  mia fama „.   La madre il lamento senti nel talamo del fiume  profondo. A lei d'intorno lane milèsie le Ninfe fila-  vano, lane di verdastro colore ritinte : Drimo e Santo e  Ligèa e Fillòdoce, sparse le chiome splendide su i  bianchi colh (2); e Cidippe e Lieorìade bionda : ver-  gine l'una, esperta l'altra allora a pena i dolori del     (1) Georgiche IV 317 edizione F. A. Hietzkl (Oxford 1900).   (2) Omesso il v. 338.     CIRENE IN TESSAGLIA 225   parto; e Clio e la sorella Bèroe. oceanine entrambe,  entrambe d'oro, di colorate pelli entrambe fasciate (1) ;  ed in fine, le saette deposte, la veloce Aretusa. Fra le  quali Olimene nan-ava di Vulcano la vana fatica e  l'astuzia di Marte e i dolci furti, e i frequenti anno-  verava dal Caos amori di Dei. Or mentre nel racconto  rapite devolvon dai fusi i molli pennecchi, novamente  il pianto di Aristeo percosse le orecchie materne. Su  i cristallini seggi stupirono tutte. Ma innanzi a l'altre  sorelle Aretusa a guatare dalla suprema onda il biondo  capo levò.   E da lungi: * di tanto gemito non atterrita in  vano, Cirene sorella : egli stesso, la tua massima cura,  Aristeo ! , tristemente lacrima presso l'onda del tuo  padre Penco : e te chiama crudele , . Allor percossa la  mente di nuovo terrore la madre : " Conducilo, or su,  conducilo a noi; è lecito a lui toccare le soglie di-  vine ,. E insieme, al profondo fiume comanda di  lasciar per V ingi'esso del giovine adito largo. Lui  l'onda ricinge, ricurva di montagna in guisa, e nel  vasto seno lo accoglie e sotto il fiume l'invia. Già la  sede della madre ammirando, ne andava egli, e gli  umidi regni, i laghi rinchiusi in spelonche, i risonanti  boschi ; stupefatto da l'ingente moto dell'acque tutti  osservava i fiumi sotto la grande terra fiuenti (2).   Dopo che fu sotto il redine pomicoso tetto del ta-  lamo giunto, e conosciuti lievi ebbe Cirene i pianti  del figlio ; alle mani danno le sorelle a vece limpida  l'acqua ; mantili recano di tonduti velli ; gravan  di cibi le mense ; colmi calici dispongono. Odoran gli     (1) Omesso il v. 343.   (2) Omessi i vv. .367-373.   A. Ferrabino, Kalypso. 15     226 V. - OIBENE MITICA   altari d'arabi incensi. E la madre: " Prendi^ — dice,  — la tazza di meònio bacco. Libiamo a l'Ocèano „. E  insieme, prega ella l'Oceano padre delle cose e le Ninfe  sorelle, che proteggon cento le selve, e i fiumi cento. Tre  volte del liquido nettare cosparse il fuoco ardente ;  tre volte la sottoposta fiamma al sommo del tetto  avvampò.   Mentre duran le cure ninfali, noi indugiamo  a convincerci d'esser tuttora dinanzi a una stessa  Cirene. In realtà, d'identico non rimase che il  nome. L'Eea aveva posti accanto, creando una  scena singolare, la Ninfa vincitrice del leone,  Apollo ammirato, e il Centauro in atto profetico ;  ed era stata, in cosi fare, scaltra ed ingenua.  Pindaro piomba su la scena col suo volo rapido  di aquila: — con Chirone si corruccia e si tra-  stulla ; par clie debba annientarlo con un colpo  d'artiglio della sua fede evoluta; ne cava in vece  un motteggiatore ironico del Dio, e ne fa un epi-  sodio marginale, quasi comico, e un poco inoppor-  tuno : — ma Apollo e Cirene pone l'uno dell'altra  a fronte; e sopr'essi non l'amore, non tanto la  cupidigia, quanto la Necessità, onde debbono  unirsi, onde il Nume s'è recato su quel poggio  montano, e ha da portare la selvaggia nella  terra dei Libi. Anzi, la Legge, che è la prota-  gonista men palese e più reale del duetto, de-  termina essa sola l'episodio centaureo che segue,  e gli dà, essa sola, quel contenuto da cui è sce-  mato e quasi annullato il comico inevitabile.  Sicché la Pitia addensa la materia vasta del-  l'Eea, nel nodo di un momento: ma uno di  quelli che la sorte prepara e rende decisivi nei     CIRENE IN TESSAGLIA 227   secoli. Due Muse austere, di Storia e di Reli-  gione, han toccato le loro ardue corde su l'arpa   •ttemplice.   Vergilio, — e tanto tempo era trascorso! —  fu più indipendente nel trasfonder sé entro il mito.  Si rammentò dell'ombre fresche sotto cupole  silvane ; e gli fu nel cuore la bramosia con cui  aveva assai volte spinto il viso nei misteri li-  quidi dei fiumi e del mare, fin sotto là dove il  Sole non giunge. E negli occhi gli fu l'imagine  che è nell'acque: la vita delle rive, capovolta  sopra uno sfondo d'inconsistenza e di fuggevo-  lezza, — l'uomo nel divino. E l'uomo fu il Ver-  :_ilio georgico. Quindi bellezze carnali soffuse di  grazia e immerse in un pudico garbo di colori  e di movenze; costumi domestici di fusi e di  conocchie, uso agreste di vivande parche e di  sacrifizii larghi ; tranquillità villereccia di rac-  conti, e brio, salace forse, non lubrico, di aneddoti  e facezie. Sovra ogni cosa, poi, — assemprato  dallo stillar non triste delle grotte sotterranee,  dall'umidore non nocivo di margini erbosi, —  sovra ogni cosa, il pianto, un po' futile, di Aristeo,  e le bambinesche imprecazioni, e lo spavento,  non estremo, della madre, e il racconsolo ultimo,  flebile ancor esso. Questo tono, appunto, flebile,  questo sapor non ripugnevole di lacrime, nel  recesso romantico, nega, da solo, l'antico mito  della Cacciatrice, vigorosa senz'arme in contro  alla belva, lo nega nell'origine e nell'intimo, più  che ogni variante di particolari o differenza di  luoghi o contrasto di episodii. C'è aria di Man-  tova; non, come in Cirenaica, calura di ghibli  conscio di ruggiti; non, come presso Pindaro,     k     228 V. - CIRENE MITICA   impetuoso vento del Pelio. Il mito è diverso.  Molle e prolisso nepote di un avo ferrigno e  conciso.   Ma è necessario non dimenticare che di tanto  trapasso, — se il terreno è lo spirito vergiliano,  — la radice è l'aver posto nell'acque, non più  della sorgente Gira, ma del paterno fiume tes-  salo, colei clie i Dori avevan veduta sterminare  le belve, e procacciar pace agli aratori nel franger  glebe. Ed è, questa, — si rammenti anche, —  l'estrema foce della vena mitica clie, dall'Eea,  trovò in Aristeo la sua origine prima e il fti'inio  motivo ; questo è l'ultimo effetto dello spostarsi  la materia mitica dall'un polo, la Libia, all'altro,  la Tessaglia.     IV. — Cirene in Libiu.   Narra in vece Acesandro, — storico cireneo  vissuto nel III o II (ch'è incerto) secolo a. C, —  " come, regnando in Libia un Euripilo, da Apollo  fosse in Libia trasportata Cirene; e come, poiché  un leone infestava il paese, Euripilo offrisse in  premio a chi uccidesse la belva il regno. Cirene  l'abbatté, e ottenne il trono „. E press'a poco  identico è il racconto d'un altro storico, Filarco.  Entrambi adunque lumeggiano a preferenza  l'aspetto libico della Ninfa. E fin l'episodio, —  culminante, — della lotta con il leone avviene  dicevolmente, non in Tessaglia, ma in Africa, a  difesa del paese e per iniziativa di un re indi-  geno, Euripilo.     CIRENE IN LIBIA 229     Né cotesta è accorta correzione di eruditi ra-  zionalisti. Il contesto medesimo ci appare difatti  negli esametri martellati d'un poeta cireneo : di  Callimaco; segno che la fiaba possiede, come  una non dubbia energia vitale, cosi radici assai  vaste e assai profonde nel territorio cirenaico (1).  Di Apollo e Cirene egli abbozza, nel suo Inno  ad Apollo^ rapidamente un quadro che ha per  sottinteso un racconto analogo a quel di Ace-  s andrò.   In verità molto fu lieto Febo, quando i succinti se-  guaci di Bellona tra le bionde figlie di Libia danzarono,  il sacro tempo ad essi venuto delle Cameadi. Non ancor  potevano alla fonte di Gira accostarsi i Dori; ma la  fitta di boscaglie Azili abitavano. Essi riguardò il  Signore, egli stesso, e alla sua sposa additava : sul  colle dei Mirti (2) dove la figlia di Ipseo uccise il leone,  infesto d'Euripilo ai buoi. Di quella più gradita danza  non vide ApoUo mai; né a città alcuna tanto giovò  quanto a Cirene, memore dell'antico ratto.   L'antico ratto è quel medesimo narrato dal-  l'Eea e da Pindaro ; ma il racconto di Callimaco,  come quello di Acesandro, è da l'Eea molto lon-  tano. Siam bene in Libia ; bene è lungi la Tes-  saglia; e il leone rugge da vero su le sabbie  del deserto. Per che modo e traverso che vicenda  si giungesse a cotesta forma della saga, che due     (1) Cfr. § Vili. Il testo di Callimaco è del Wilamo-  wiTz^ (Berlino 1907).   (2) Domina la fontana di Gira.     k     230 V. - CIRENE MITICA   storici e un poeta indigeno ripetono analoga-  mente, è indicato, nel medesimo carme calli-  macheo, dal processo del pensiero artistico.   Un gruppo di giovini si fìnge, nell'inizio, rac-  colto in un recesso ove son palme e allori, —  gli alberi di Febo Apolline; e nelFaria sta,  grave e dolce, il senso sacro del Dio immi-  nente.   Oli quale di Apollo croliossi la fronda d'alloro,  quale tutto il recesso ! Lungi lungi l'impuro ! Già già  a la porta col bello piede Febo percuote. Non vedi?  Stormi dolce lene la Delia palma d'un sùbito ; il cigno  nell'aere soavemente canta. Da soli or disserratevi pa-  letti dell'uscio; da soli, chiavistelli : però clie il Dio non è  juii lontano. Giovini, al canto ed aUa danza or vi ap-  parecchiate! Apollo non a tutti appare; ai generosi,  pure. Chi lui scorge, è grande; chi non lo vede, pie-  colo è quegli. Noi ti vedi'emo o Lungisaettante ; e non  mai saremo esigui.   Nell'èmpito di ardore sacro e, più, poetico che  trascina Callimaco , alquanto si svolge cosi  da prima il fervoroso esordio ; il quale non è  tuttavia vano, ma serve a preparare, animan-  dola della sua vita illuminandola del suo lucore,  la lauda che vi si farà poi del Dio e l'enume-  razione delle bellezze di lui e degli attributi.  Egli è Nomio, nei pascoli. Egli è l'Ecistère, fon-  dator di città. Quadrienne pose le fondamenta  in Ortigia.   E Febo anche la mia città ferace [Cirene] a Batto  indicò : — corvo, — fu guida al popolo che si recava     CIRENE IN LIBIA 231     iu Libia, propizio al colono : e fé' giuramento di mura  donare ai nostri Re. Sempre buon giuratore è Apollo-   La città di Callimaco è dunque fondata, egli  dice, dal Latoide e sotto la protezione di lui re-  stano i Sovrani. Quest'è fra il Dio e Cirene una  attinenza nuova e diversa, clie non avevamo fino  ad ora conosciuta. Apollo non è lo sposo di una  Vergine cacciatrice, ma il fondatore della città  che di quella lia il nome: si che accanto al  nesso pindarico del Nume e della Ninfa amanti,  si dispone quest'altro nesso, diverso. Ed è la  prima novità che ci sorprende.   Una lunga parentesi segue poi in cui si rin-  tracciano le sedi del culto di Apollo Carneo:   Apollo, molti te chiamano Boedromio ; molti  Clario; ovunque a te sono assai nomi. — Io però  Carneo te chiamo : mi è patrio costume cosi. Sparta,  Carneo, fu la tua prima sede : seconda Tera: terza  poi Cirene. Da Sparta te il sesto rampollo di Edipo (1)  condusse a la colonia Tera; da Tera te il sanato Ari-  stotele recò in terra d'Asbisti e splendido ti eresse un  tempio , un'annua cerimonia in città istituendo, in  cui molti fan l'estrema caduta su l'anca per te tori, o  Signore. 'l'j 1^ Carneo molto pregato! i tuoi altari  fiori in primavera recano, quanti variopinti le Ore  adducono mentre lo Zefiro spira rugiade: dolce croco,  l'inverno. Sempre a te è fuoco perenne ; né mai la ce-  nere rode carbone di jeri.     (1) Cfr. Erodoto IV 147 e il sèguito del nostro testo.     232 V. - CIRENE MITICA   Traluce qui nella vicenda del culto al Carneo  la realtà storica dei coloni dori mossi da Sparta  a Tera nel sec. VI e, nel VII, da Tera in Libia :  vanno, e li segue il Dio. Appare qui, di più, quel  " sesto nepote di Edipo „ e quell'Aristotele che  avrebbero, a punto, contribuito ai due trapassi.  Ed è la novità seconda.   Sùbito appresso vengono dal poeta indotte,  figure prime su la scena, Apollo e Cirene sul  colle dei Mirti in atto di contemplar, — vedemmo  dianzi, — i coloni Dori danzanti tra le fanciulle  libiche: sùbito appresso, dunque, al brano in cui  Cirene è asserita colonia di Apollo, e allo squarcio  dove dal Peloponneso a Tera e in Libia vien  perseguito il culto di Carneo e il trapasso dei  Dori. Comprendiamo allora da tale succedersi  dell'imagini, che l'Euripilodi cui la Ninfa avrebbe  quotato il regno deve essere in rapporto mitico  appunto con quei due spunti favolosi poco prima,  più che svolti, accennati: con la fondazione di  Cirene per opera di Apollo; e con le migrazioni  dei coloni dal Peloponneso, traverso Tera, in  Libia. Comprendiamo che al racconto più pret-  tamente libico su la Signora delle belve è pre-  fazione una saga su l'origine di essa colonia  cirenaica, saga in cui è da ricercare la causa di  quello.   Ed è da ricercare, anche, il motivo per che la  coppia di Apollo e Cirene s'aderge qui, su quel  suo colle dei Mirti, con un'energia nuova, che non  è la pindarica e oltrepassa l'Eea. Da prima di  fatti genera maraviglia che in un carme reli-  gioso, qual'è l'Inno in apparenza, si rilevi assai  meno che in un epinicio quel rispetto austero e     EFRIPILO ED EDFEMO 233   insieme divotamente inchinevole il quale costi-  tuisce Tanima della scena pindarica. Eppure  tutto l'Inno parrebbe mosso da quel medesimo  vento che, dal Nume, agita la palma delia e la  fronda peneja. Non è. Un sentimento vivace spira,  bensi; ma è patriottico: è del cittadino verso  chiunque, e sia dio, protegge le mura della sua  Città e il trono dei suoi Re ; non del fedele verso  (luel solo, ed è Dio, da cui è rapito nell'assoluto.  Quindi il breve componimento si spezza in due  parti diverse tenute insieme, male, da un elenco  dei pregi e degli attributi di Apollo. La prima  di quelle parti è mossa da una contenuta esal-  tazione patriottica che si veste, — abito non suo,   — del i^aramento religioso, si schematizza nella  scena rituale: ivi Callimaco non sa trovar che  scarsa armonia di struttura, e abusa di formule  innovate sol con sapienza verbale. La parte se-  conda, in vece, lascia prorompere la stessa esal-  tazione patriottica, ma questa volta verso espres-  sioni sue proprie ed adeguate : ivi è la glorifìca-  zion della patria nel suo bel passato. L'artificio  si discioglie in arte.   Ma il bel passato della patria Cirenaica è la  leggenda. E la leggenda bisogna a noi oramai,   — sospettatala, — rivivere tutta.     Y. — Euripilo ed Eufemo.   Regnava in Cirene una famiglia, la quale,  per ricorrere in essa il nome Batto e per esser  ritenuto un Batto primo re del luogo, era detta     I     234 T. - CIRENE MITICA   dei Battiadi. Di quel primo sovrano si serbava  memoria, e accanto al più vulgato si ricordava  un altro nome: Aristotele. Anzi era sorta in  qualche maniera a questo proposito una leggenda  etimologica: avvicinandosi cioè Batto al greco  verbo ^atTaQi^o) (balbettare) si raccontava d'una  sua balbuzie dalla quale avrebbe avuto il nomi-  gnolo (1). Ma ben più su di lui si spingeva la  genealogia fittizia dei Battiadi ; a simiglianza  difatti d'altre molte case regnanti, sostenevano  essi di scendere da un eroe : un Euf emo, che rite-  nevan figlio di Posidone e di stirpe beotica. Qua-  lunque valore tal j)retesa avesse e comunque si  fosse originata, a ogni modo raggiungeva lo  scopo di collegare i Re con un Dio: scopo, si  sa, non infrequente in fra i Sovrani. E poiché  tra la Libia e la Beozia un nesso era tutt' altro  che palese, fu facile lasciar in breve cadere  nell'ombra il particolare della patria di Eufemo  o, per lo meno, non accentuarlo con insistenza (2).  Ottimo appiglio inoltre era quell'Eufemo, a  fin di compiacere un desiderio che diremo non  illegittimo per regnanti. Bisognava, per rendere  più sacrosanta più fatale la signoria de' Battiadi  in Libia, che qualche avvenimento degli anti-  chissimi tempi, di tempi narrati nelle epoi^ee  dai cantori di eroi, non pur la giustificasse, si  anche la rendesse a dirittura inevitabile. E se  già Eufemo fosse stato su la spiaggia africana,  ben poteva quello essere il punto in cui il Fato     (1) F. Studniczka Kyrene (Leipzig 1890) 96.   (2) Cfr. § VI 2.     EURIl'ILO ED EUFEMO 235   ineluttabile toglieva inizio, e si stringeva il nodo  primordiale delle vicende future. Cosi piacque  loro di imaginar la fiaba.   Sono questi i due dati (l'Eufemo capostipite,  l'Eufemo in Libia) su cui deve aggirarsi tutta  la tradizione della colonia cirenaica. Ed entrambi  seppe assai opportunamente disporre svolgere e  compiere quella fucina medesima che aveva fog-  giato l'Eea di Cirene. E fu con gli stessi modi  e risultati analoghi. Come allora si vide la grezza  materia indigena imprimersi di uno stampo el-  lenico e assimilare in sua roventezza talun'altra  fiaba estranea; cosi si scorge ora il territorio  leggendario dei Greci spigolato a favore e di  Eufemo e dei Battiadi suoi nepoti. E d'Eufemo  questa è l'Eea, la quale risponde, abilmente, a  due domande: — con chi e quando fu in Libia  Eufemo, il figlio di Posidone? — quali vicende  traversarono e quali vie tennero i discendenti  di lui, fino a Batto, per raggiunger la Libia e  compiere il fato?   Alla prima dimanda fu sodisfatto con un  antico spunto mitico, assai propizio. Si raccon-  tava che gli Argonauti compagni di Griàsone  ìran giunti, in certo punto del loro viaggio, al  [lago Tritonio {Ufivri TQiTùìvig), ove sarebbero  ■stati impacciati nel proseguimento. Cotesto lago  'era quello ove venne detersa Atena nascente da  Zeus ed era riconosciuto poi (prima indipendente  da luoghi concreti) nella palude ch'è presso  la piccola Sirte, nell'odierna Tunisia: all'estremo  limite occidentale, verso l'occaso del sole. Quivi  sarebbe apparso loro il dio del luogo Tritone e,  placato col dono d'un tripode, avrebbe ammae-     i     236 V. - CIBENE MITICA   strato gli eroi su la via da tenere fuor dalle  strette. Episodio dunque atto quant'altro mai a  favorir qual si voglia racconto di anticM sog-  giorni greci in Africa. Quando, ad esempio, lo  spartano Dorieo intorno al 515 tentò di coloniz-  zare quei luoghi, la novella fu rinverniciata a  prò di lui cosi: dopo aver ricevuto il dono e  aver ajutato i naviganti, il Dio profetò che il  tripode rinvenuto da un discendente degli Argo-  nauti avrebbe determinato presso il lago la fon-  dazione di cento città greche. Malauguratamente  Dorieo falli nel suo tentativo, non lungi da Tri-  poli, al Cinipe, fiume tra le due Sirti (1): e il  tripode non fu rinvenuto perché le cento città  non crebbero. Ora in modo analogo procedette  TEea in grazia dei Battiadi. Per essa gli Argo-  nauti sarebber pure giunti alla palude Tritònide ;  ma a un'altra del medesimo nome: a un lago  chiamato cosi presso l'odierna Bengasi (si pen-  sino i '' laghi salati „), in temtorio dunque della  Cirenaica. Inoltre colà si presentò loro non Tri-  tone, ma un diverso nume: Euripilo (2). Il quale  è, come la sua denominazione significa, il Dio  della " larga porta ,, infernale ; molto diffuso in  vero tra i Q-reci e localizzato di preferenza, qual  divinità ctonia, presso grotte e antri ove la  volta rocciosa s' inarchi su la buja ombra. Cosi  appunto vicino ai laghi salati s'apre la bocca  orrida del Gioh onde le acque profluiscono fuor  dalle tenebre alla luce : e chi vi si avventuri non  può far all'oscuro lungo viaggio su l'onde, che     (1) Erodoto V 42. IV 178-9. (2) Cfr. § VI 1.     EURIPILO ED EUFEMO 237   ben presto la fiaccola è troppo scialbo chiarore, e  v'è al corpo concreto delFuomo esiguo spazio,  molto alle fantasime deirimaginazione spaurita.  I Dori scorsero i\'i la voragine dell'Ade e sen-  tirono ivi presente il dio Euripilo. Lui dunque  addussero al prossimo lago Tritonio e lui nar-  rarono farsi incontro ai compagni di Griasone  in luogo di Tritone. Con una variazione poi del  motivo originario, egli fu fatto donare una zolla  non ottenere un tripode. Chi la ricevette? Eu-  femo. L'avo dei Battiadi fu imaginato per tanto  Argonauta allo scopo di poterlo far x)aTtecipare  al \'iaggio che doveva sanzionare il dominio dei  suoi favolosi discendenti. Non vano dono in vero,  né inutile a chi Tebbe tra mani I però che fosse  fatidico e necessitasse molte vicende av\'enire.  D'Eufemo i nepoti toccheranno come lui quel  lago, ritorneranno nelle terre di Euripilo (1).   Per quali cammini? Era la dimanda seconda.  — Alla risposta forniva argomento anzi tutto  la realtà della storia: il Peloponneso, l'isola di  Tera, la Libia (le tre tappe storiche de' coloni  Dori di Cirenaica) dovevan essere almeno i tre  punti obbligati e le tre tappe della via compiuta  dai discendenti di Eufemo. Ad esse tre una quarta  ne aggiunse il mito : poiché Eufemo era di-  venuto Argonauta, e già l'epopea omerica co-  nosceva, come sede temporanea di Griasone e dei  compagni di lui, l'isola di Lemno, di fronte a la  costa trojana e all'apertura dell'Ellesponto (Dar-  danelli). Accettate e fissate queste come pietre     (1) Cfr. § YII.     238 V. - CIRENE MITICA   miliari su la strada, ancora bisognava addurre  i motivi per i quali i nati da Eufemo dall'una  all'altra di quelle sedi si trasportassero: e i mo-  tivi dovevano tutti accogliersi e disporsi intorno  alla prima causa e centrale, il dono della zolla  d'Euripilo. — Eufemo dunque dalla Libia, rice-  \aita la piota africana, si recò con i navigatori  iVArgo in Lemno e con essi là procreò, giusta il  mito assai vetusto, da l'isolane donne una schiatta  nuova. — Questa aveva ora da recarsi nel Pelo-  ponneso e da toccar quella Sparta che nel VI se-  colo inviò pure una colonia a Tera; ma perché?  A giustificare si disse che nel Peloponneso era  la patria di Eufemo; e poiché Posidone gli era,  nella leggenda, padre e poiché al capo Tènaro  Posidone aveva, coll'appellativo di Greàoco e con  valore di divinità ctonia, rinomatissimo culto,  ivi fu asserita la propria sede di quello. Ciò  non era senza incoerenze : al contrario, Eufemo  {£v(prifiElv) non aveva fin allora avuto carattere  alcuno di nume sotterraneo, e gli fu tribuito ; era  precipuamente beota, e diventò tenario; non  godeva di venerazione presso il Geaoco, e vi  venne imaginato. Ma l'incoerenza non è, com'è  noto, affatto l'eccezione non pur nell'arte si  anche nel mito. E qui ben trascurabile riusciva : di  fronte al risultato, raggiunto, di spiegare il  viaggio da Lemno al Tenaro come un ritorno  nei luoghi del packe. Ed eccellente riusciva : per  il vantaggio, conseguito, d'innestare nel racconto  le relazioni fra gli Eufèmidi e Sparta, come con  quella ch'era al Tenaro non lungi. — Inverati or  dunque questi primi due scopi, era d'uopo con  pari arte legittimar l'approdo in Tera. E qui lo     EURIPILO EP EUFEMO 239   spunto fu favorito da un aneddoto epico. Odisseo  na\dgante con l'otre di Eolo, ove tutti i maligni  vènti eran raccldusi, fu tradito nel sonno dai  compagni; dai quali sciolto l'otre contro il di-  vieto, la nave rifuggi da la pietrosa Itaca (1).  Similmente l'Eea narrò che su VArgo la gleba  d'Euripilo, ben custodita dai servi, era poi  stata, in un istante di men vigile attenzione,  travolta dall'acqua del mare: sin che, su l'onde  e le correnti, pervenne all'isola di Tera. Per ciò,  non essendo essa da Eufemo stata recata sul  Tenaro nella sua patria, ma dai flutti all'isola,  da l'isola non dal Tenaro partirono i coloni. —  Ma se cosi fatta partenza era voluta dai fati, il  segno ne fu offerto e il momento scelto per  opera di Apollo nel suo santuario delfico. Colà  essendosi Batto recato a cagion della sua mal  sicm^a voce {§aTxaQÌl,o)), n'ebbe 1' ordine espresso  di colonizzar quel tratto della spiaggia africana :  ove sarebbe guarito dell'ingrato difetto. Lode  dunque, ben meritata, al Dio. — Ultima inven-  zione questa che rivela il luogo ove la leggenda  degli Eufemidi si elabora e fa d'improvviso su  tutte le vicende camjjeggiare Febo ; ma che si  riconnette assai bene con la figura del Latoide  in qualità di Ecistere o colonizzatore, siccome  già rinvenimmo in Callimaco. Il calcolo poi  genealogico fissava nella quarta generazione dopo  l'Argonauta l'abbandono del Peloponneso; nella  diciassettesima la spedizione verso la Libia (2).  Con la qual serie di invenzioni episodiche l'Eea     (1) Odissea v. 46. (2) Malte.n 192.     240 V. - CIBENE MITICA   aveva alla fine assolto anche il secondo tra i  suoi due compiti fondamentali.   Essa era dunque intessuta sovi^a un canovaccio  dall'apparenza assai più logica che fantastica ;  ciascuna delle sue trovate secondarie era indi-  rizzata a un ben preciso fine e sodisfaceva a  un bisogno del ragionamento; al ragionamento  ai suoi scopi alle sue esigenze eran subordinati  i particolari, anche minuti, inerenti agli eroi e  alle sedi loro. E tuttavia quell'era opera di ec-  cellenza poetica. Queste, che pajono a noi am-  bizioncelle dinastiche e pretese mediocri ; questi,  che ci sembrano fini pratici non artistici: eran  nella realtà stimoli possenti della fantasia ; la  quale, obliando ben jjresto l'origine delle sue  imagini e il termine, spaziava poi nel suo proprio  regno da inconcussa signora. E la bella favola,  creata, ignorava il compenso del suo mercenario  creatore. L'accortezza medesima con cui vi si  profìtta di analogie nominali per accostare, ad  esempio, Eufemo traverso Posidone al Tenaro;  la prontezza con cui vi si sfruttano i vecchi  motivi dell'epopea e degli Argonauti; j)otrebber  essere mezzucci d'artifizio : ma sono in vece fun-  zioni spontanee della mente ricca di antiche  e recenti novelle, di miti radiosi e tenebrosi. Nel-  l'ardenza del fuoco inventivo, come le impurità  si distruggono, cosi si avvicinano i diversi, si  mischiano i contigui. Ond'è che il dovere dello  storico, intento a ricercar la causa d'ogni linea  nel disegno leggendario, incresce al contempla-  tore della bellezza.   La quale riappare, con tutta la sua unità sin-  tetica, nell'inno smagliante di Pindaro, quarto     I     EURIPILO ED EUFEMO 241   tra le Pitiche, in onore del re cireneo Arcesilao  vincente col cocchio. L'anno 462 a. C.   Oggi bisogna, o Musa, che tu stia presso un valo-  roso amico, Re dell'equestre Cirene, a fine di spirare  col trionfante Arcesilao l'aura degli inni dovuta ai  Latoidi e a Pitone.   In Delfi un giorno, presso le dorate aquile di Zeus,  presente Apollo, la sacerdotessa profetò Batto colo-  nizzatore della ferace Libia: 'avrebbe, la sacra isola  lasciata, costrutto una città di bei cocchi sul risplen-  dente colle e di Medea compiuto, con la settima e  decima generazione, il detto Tereo ; il qual l'animosa  figlia d'Eéta disse da la bocca immortale un di, la re-  gina dei Colehi '.   Disse Medea cosi ai semidivini navigatori del prode  Giasone: " Udite, figli di prodi e uomini e Dei! Af-  fermo che da quest'isola (1) battuta dai flutti, nelle  sedi di Zeus Ammone [Libia] la figlia di Epafo tra-  pianterà una stirpe cara ai mortali. Con i delfini di  brevi pinne scambiate veloci cavalle ; le redini coi  remi; guideranno vorticosi cocchi. Il fatidico segno  è per mutare Tei-a in madre di grandi città; il segno  che su le foci del Tritonio lago, da un Dio a uomo  simile, donante in dono ospitale una zolla, ricevette  Eufemo dalla prora disceso — benigno su lui Cronio  Zeus fé' rimbombar un tuono — quando gli s'imbattè,  mentre l'ancora di bronzee marre, briglia della veloce  Argo, sospendevano alla nave. Dodici giorni già la  portavamo, trave marina, dall'Oceano trattala per i miei     (1) (Tera).   A. Ferrabi^to, Kalypso. 16     242 V. - CIRENE MITICA   consigli, su i deserti dorsi della Terra. Allora soli-  tario un dèmone avanzò, bello assunto l'aspetto di  venerando uomo : con amici detti fece principio, come  ai sopravvenienti ospiti i generosi le mense offron  da prima. Ma la scusa del dolce ritorno ci vietava  l'indugio. Disse Euripilo nomarsi, figlio del Geàoco  immortale Enosigèo : riconobbe la fretta : sùbito allora,  con la destra divelta dal suolo una piota, l' improvvi-  sato dono ospitale volle donare. Non si rifiutò l'eroe,  ma balzato su la riva, a la mano porgendo la mano,  ricevette la fatidica zolla. Veggo che essa, travolta fuor  della nave, galleggia sul mare coi flutti, di sera,  l'umido pelago seguendo : che certo spesso furon  esortati i servi, che allevian le fatiche, di lei custodire ;  ma gli animi loro obliarono. Ed ecco in quest'isola  l'eterno s'è riverso seme della Libia d'ampie contrade  — prima del tempo. Che se in vece gittato l'avesse in  patria, a canto della sotterranea bocca dell'Ade, sul  sacro Tènaro, il sire Eufemo figlio dell'equestre Posidone  che un di Europa nata da Tizio generò presso le  sponde del Cefiso, — nella quarta generazione allora il  sangue di lui avrebbe toccato l'ampio continente con i  Danai, da la vasta Lacedemone partitisi da l'Argivo  golfo e da Micene. Adesso per contro nobili discen-  denti troverà nei letti di straniere donne, i quali, col  favor degli Dei, giunti a quest'isola genereranno un  Eroe signore nei piani di cupa nuvolaglia : a lui nella  molto dorata casa Febo , a lui in epoca futura di-  sceso al tempio Pitico, vaticinando ricorderà di condur  . popolo su navi presso l'opimo santuario niliaco del  figlio di Crono „.   Tali di Medea le schierate parole. S'impaurirono,  immobili silenziosi, gli eroi simili a Dei, gli accorti  detti ascoltando.     EURIPILO ED EUFEMO 243   beato figlio di Polimnesto (1), te giusta il discorso  di Medea elesse l'oracolo dell'Ape delfica — con spon-  taneo accento : la quale te, tre volte salutato, dichiarò  fatidico re di Cirene, te per la imperfetta voce inter-  rogante qual rimedio vi fosse appresso gli Dei!   Il conchiuso ciclo dell'ode si termina col san-  tuario delfico da cui aveva tolto l'inizio : nel  mezzo stanno le vicende di Eufemo e dei ne-  poti. Le quali sono in altro brano anche più  esplicitamente significate, ancor su la trama  dell'Eea: dico nei versi tra il 251 e il 260. " E  su le distese dell'Oceano e nel XJurpureo mare e  tra le mariticide donne di Lemno furono   essi (2) Ivi un giorno o notti fatali il seme   accolsero della raggiante vostra fortuna (o Bat-  tiadi); ivi infatti la stirpe di Eufemo piantata,  per l'avvenir sempre fiori. E mescolatisi di  poi per sedi coi Lacedemoni, abitarono l'an-  tica isola Calliste (Tera): dalla quale a Voi  il Latoide concesse di far prosperare con gli Dei  le i^ianure di Libia e di abitare, con savio con-  siglio regnando, la divina città di Cirene dal-  l'aureo trono „.   Ma questo secondo sviluppo del mito, se è più  minuto, è anche assai inferiore rispetto al primo,  n quale mostra quanto profondamente l'animo  severo e ascetico di Pindaro consentisse e con-  cordasse con il contenuto riposto della leggenda  cirenaica. Le due profezie (l'una, da cui comincia  e che sul finire richiama, della Pizia; Faltra,     (1) (Batto-Aristotele). (2) (Gli Argonauti).     b     244 V. - CIRENE 3IITICA     svolta con ampiezza, di Medea) son come il motto  ripetuto sur un soffitto nel ricorrere dei fregi :  significano con insistenza l'unico essenziale e fon-  damentale concetto del mito, il Fato onde il  regno dei Battiadi è voluto nei tempi. Medea  con il veggente occhio lo prevede. La Pizia con  la bocca immortale lo attua. Gli uomini si sce-  mano a strumenti della sorte; s'accrescono a suoi  eletti. Se non che il Fato è non soltanto il  nucleo del mito, ma l'intima fede di Pindaro, —  che è apx^unto stimolata dalle esteriori circo-  stanze in cui fu composta l'ode. Aveva egli avuto  incarico di indurre il re, Arcesilao di Cirene, col  vantarne la vittoria, a riaccogliere in città il f o-  ruscito Damofilo; ne era nuovo a tali offici non  graziosi e vi si vedeva sovente 'costretto. Di qui  un'amara tristezza: non pure pel rimorso secreto,  e qua e là palese, di piegar la sua Musa a com-  pito venale ; si anche ]3ev un coperto pessimismo  umano, onde crollava con uguale sfiducia il capo  dinanzi al forte che aveva vinto la gara come  dinanzi all'opulento che l'aveva pagato. Per lui  ricchezza e prodezza vengono all'uomo dal de-  stino dagli Dei, e l'uomo non se ne scordi, e  per sé lasci levare in minor tono il vanto, si  massimo per i Numi che l'hanno in protezion  benigna. Il fato dunque ancora. Tal coincidenza  fra la propria fede e il nucleo del mito fu còlta  dal poeta con un balzo magnifico di rapidità  intuitiva: Arcesilao vince a Pito ; da Pito muove  Batto ; ecco il trapasso esterno : un destino  solo fa vittorioso Arcesilao e colonizzatore Batto;  ecco il midollo intimo a questo organismo lirico.  Il resto, lo scopo pratico dell'ode è cosi obliato che     EUEIPILO ED EUFEMO 245   Pindaro deve ritornarci su con uno sforzo alla  fine, quand'è ormai arido e gli si spingon a fior  dell'animo i men nobili desiderii e una certa  compiacenza d'intrigo. Per ora, nell'inizio, tutto  è divino. Ma quella che comincia non è l'epopea  d'un eroe, né l'inno sacro ad un Dio : è l'elegia  d'uno spirito d'uomo.   La strada su cui Pindaro s'è lanciato non è  la " carrozzabile „ (à/ia^izóg) : è nuova , aperta  con un colpo di fantasia geniale. Oggi sarebbe  una scena coreografica ; a quei tempi uno spet-  tacolo dei misteri eleusinii ; sempre , il basso-  rilievo d'uno scultore che faccia i corpi come  le anime, concreti di evanescenza. Nella notte  dei tempi Medea, maga di semplici e vate del  futuro, dice agli eroi irrigiditi d'ansia la sua  profezia. Sono circa cento kola percorsi da un  brivido unico, che culmina alla fine nell'invoca-  zione a Batto, vibrante di fede. Se non che, su  la strada nuova ed insueta non dura l'imagina-  zione: già l'episodio di Euripilo apparso agli  Argonauti s'era innestato con diversissima effi-  cienza nel gran quadro di Medea vaticinante,  come quello che vi recava tempere più pesanti  e meno diafane. Con esso episodio si riconnette  poi, non appena cessato l'anelito dell'incom-  bente fato, l'ami^io racconto su i motivi e sulle  vicende onde mosse e per che riusci la impresa  degli Argonauti: ampio racconto che ha tutto  una nuova serenità omerica, una placidezza di  lunghi favellari, un indugio molle su i modi  delle vesti e i sussurri delle folle, un tono, in  somma, appreso dai rapsodi. Giasone fermo su  la piazza di Fere con le due lance e il doppio     246 V. - CIKENB MITICA   costume, l'abboccamento con Pelia, i banchetti  di cinque notti e cinque giorni, l'accorgimento  obliquo del Re contro il giovine, l'elenco degli  eroi saliti su l'Argo: questa è l'altra strada, la  " carrozzabile „. Pindaro vi entra franco e li-  bero; lo illude la facilità con cui la fantasia  gli crea nuove scene: nelle quali egli dà segni  dell'attitudine sua di statuario creatore della vita  neirimmobilità. Ma a poco a poco la concision  vigorosa scompare; la scena diviene atto, l'atto  dramma; e una imperfetta dramaticità trava-  glia lo spirito del poeta per affermarsi , senza  riuscirvi, o per integrarsi, senza poterlo. Egli si  distrae troppo, una parola lo devia spesso , gli  manca la sicurezza del ritaglio e il coraggio di  sacrificare i trucioli. E continua cosi , a lungo,  faticandosi, irritandosi : l'opera gli riesce un in-  sieme di momenti, scelti senza acume di tra-  gedo, e cuciti con lungaggini di epico. Lascia  un luogo e un gruppo per correre nell'altro  luogo e presso l'altro grupx30 a cercarvi quel  che là non aveva trovato; non si sodisfa; ri-  prende; e cade senza lena alla fine. Allora grida  con sdegno : " è troppo lungo per me seguir  la carrozzabile ! „. E sul suo spirito esausto  hanno presa, soli oramai, gli scopi materiali del  carme. Termina in pesce.   Falliva adunque l'epopea il dramma l'inno  sacro. Eppure Pindaro è tempora che sa gittare  un'ostia armoniosa su l'altare del Dio ; né sempre  sbigottisce di fronte all'eroe ed all'uomo, ma  tal volta li costringe col suo verso in perfetti  camagli. Perché, quindi, gli mancò quell'arte  nella quarta Pitica? La risposta è nella natura     EURIPILO ED EUFEMO 247   stessa del suo errore. Tutta quella ricerca affan-  nosa d'una base ove consistere cli'è il racconto  degli Argonauti è piena di maraviglie oltre  umane e di giustizie divine. Giasone viene a  rivendicare appunto il sacrosanto diritto di se-  dere sul trono tolto ingiustamente agli avi; e  nel paese dei Colclii, come già lungo il viaggio,  le sue gesta sono insolite non di coraggio ma  di miracolo. Il fuoco dei mostri non l'offende,  né i colpi del drago. Par chiaro, pertanto, che  il poeta poteva credersi avvolto sempre da quel-  l'atmosfera di fatalità grandiosa la quale som-  merge in sé il " tereo detto di Medea ,,. Ma  s'ingannò, ed è qui la sua elegia. Toccava il ro-  manzesco della novella, il mirabile della fiaba,  dopo essersi abbandonato, supino il volto, nel-  l'estasi santa. La magia lo deludeva con una  maschera di religione; il cuore non pago pun-  gendolo a irrequetudine. Cosi la sua arte non  propriamente gli mancò , ma più veramente  venne provandosi in vano a molti cimenti sotto  cui è una continua insoddisfazione intima: la  insoddisfazione dello spirito che ha aderito in-  tiero a un impeto di profonda religione e, non  accorgendosi a tempo del transito verso minori  sfere, s'agita come per men perfetti gusti. Ora  quella adesione era stata possibile nel cuore di  un mito: il mito dei Battiadi, in cui pulsa, ori-  gine e scopo della sua stessa vita, il senso so-  lenne d'una prov^ddenza e volontà fatale. Sicché  poche volte una saga ebbe più consono poeta;  pochissime, un tal inno è rimasto documento  lirico della mischianza dell'uno con l'altra e  dell'elegiaca nostalgia che ne consegue.     248 V. - CIRENE MITICA     VI. — Gli Eufemidi e Batto.   Una cosi compiuta intuizion del mito non ha  più Erodoto (1). Il sicuro suo equilibrio lo porta  anzi a svolgere della saga proprio quella parte  che Pindaro meno degnava di cure : dove, di-  fatti, il poeta volge tutto il suo compiacimento  verso Tetà primeve, verso Eufemo e gli Argo-  nauti , Euripilo ed Apollo, — eroi e numi ; lo  storico è pien di zelo per i discendenti di co-  loro, }3er gli Eufemidi, per l'Euf emide preferito  Batto, — non eroi né numi ma uomini. Il primo  era assorto nella premessa della leggenda; il  secondo corre alle conseguenze. Delle conse-  guenze Pindaro stesso aveva bensì fatto cenno,  non più nella Pitia quarta, ma nella quinta (del  medesimo anno); gli accadde però per sbalzi e  tratti non connessi, senza organismo, e senza  profondità di attenzione. Vide Batto porre in  fuga i leoni africani " perché recò loro una  lingua d'oltre mare „ ; vide i Terei guidati da  Aristotele fondar templi e instituir cerimonie:  tutto in pochi kola (2) de' quali la lode di Apollo  è lo scopo vero e precipuo. Ben altro Erodoto :  a lui la fiaba, che non è proprio fiaba, comincia  anzi dagli Eufemidi e da Lemno ; quel che pre-  cede è avvolto in un silenzio il quale può essere  incredulità, è forse sol tanto indifferenza. Cosi  lo storico comincia a narrare. Egli narra con     (1) IV 145-156. Cfr. Malten 95 sgg. (2) 103-137.     GLI EUFEMIDI E BATTO 249   una ingenuità dagli ocelli un poco attoniti e  forse un poco sorridenti ; molto si compiace nei  particolari minuti; molto più pensa di poter la  tradizione degli Eufemidi connettere con altre  indipendenti.   Ecco, a suo dire, da Lemno partono non  solo gli Eufemidi ma i più fra i nepoti degli  Argonauti, di cui quelli sono porzione. Onde gli  accade di giustificar doppiamente il loro sog-  giorno nel Peloponneso: sul Taigeto, non lon-  tano dal Tenaro, perché ivi (si sottintende; egli  non dice) è la sede di Eufemo; a Sparta, perché  i Tindaridi lacedemoni navigavan su VA?-go :  ritornan dunque " nelle sedi dei padri „. A tutti  X)oi dà il nome di Minii. Minii e Ai^gonauti son  difatti concetti affini (su la cui origine non è  qui dicevole indagare) ben presto uniti e tal  volta identificati. — Per spiegar poi la loro par-  tenza da Lemno richiama la leggenda, a bastanza  tarda, dei Pelasgi cacciati dall'Attica nell'isola :  i quali avrebbero sloggiato i Minii. Ma è com-  binazione grama e non primitiva. — In fine,  i Minii, giunti nel Peloponneso per quella causa,  per quale si recarono in Tera? Esisteva, come  un mito cirenaico dei Battiadi, cosi un mito,  ma j)iù tardo, tereo su la colonia spartana giunta  nellisola intorno al VI sec. ; e in esso si parlava  di un " Tera „, palese eponimo dell'isola, che vi  avrebbe condotto taluni Lacedemoni e le avrebbe  dato il suo nome. Di tal mito trae vantaggio lo  storico per far muovere parte de' Minii insieme con  quei Lacedemoni, il cui capo Tera avrebbe  fatto loro la profferta. Uniti navigarono dunque  su tre triacòntori verso l'isola. Ivi, — bisogna sup-     k     250 V. - CIRENE MITIGA   porre, — i Minii si serbaron distinti dagli altri  cittadini, al meno come schiatta; laddove il  trono fu ottenuto, è ovvio, dai discendenti di  quel Tera (l).   [In proceder di tempo] Grinno figlio di Esania e  discendente di cotesto Tera, essendo re dell'isola  di Tera, si recò a Delfi per condurre dalla città un'eca-  tombe. Lo seguiva, insieme con altri cittadini, Batto  figlio di Polimnesto, per stirpe appartenente agli Eu-  femidi dei Minii. A cotesto Grinno re dei Terei clie  lo interrogava intorno ad altre cose, la Pizia rispose  di fondare in Libia una città. Quegli obiettò dicendo :  " Ma io, o Signore, sono già vecchio e pesante nel  moto : tu dunque comanda di far queste cose a qual-  cuno di questi giovini „. A un tempo disse queste  cose e accennò a Batto. Allora tali avvenimenti. Più  tardi, andatisene, trascurarono l'oracolo non sapendo  in qual luogo della terra fosse la Libia né osando  inviare una colonia in un'impresa ignota. — Per  sette anni dopo ciò non pioveva in Tera, durante i  quali le piante tutte dell'isola tranne una s'inaridirono.  Ai Terei allora che l'interrogavano la Pizia rinfacciò  la colonia in Libia. E poiché non avevano altro ri-  medio al male, mandarono in Creta messaggeri per ri-  cercar se qualcuno dei Cretesi o dei meteci fosse per-  venuto in Libia. Vagando per l'isola, costoro giunsero  anche alla città di Itano, nella quale s'imbatterono in  un pescatore di porpora a nome Corobio, che dichia-  rava d'esser arrivato, portandolo i vènti, in Libia e, di  Libia, all'isola Platea. Assoldato costui, lo condussero     (1) Cfr. Erodoto IV 145-149.     i     GLI EUFEMin E BATTO 251   a Tera, e da Tera parti da prima un'avanguardia non  numerosa. Avendoli Corobio guidati a quest'isola di  Platea, vi lasciarono Corobio con cibi per alquanti  mesi e tornarono essi rapidamente ad informare i Terei  intorno all'isola. Ma indugiandosi costoro più del con-  venuto, a Corobio venne meno ogni cosa. In sèguito  una nave Samia, di cui era nocchiero Coleo, diretta in  Egitto, fu portata dinanzi a questa Platea. I Samii  appresero da Coi'obio l'avvenuto e gli lasciarono cibi  per un anno... I Cirenei e i Terei strinsero a partir da  quel fatto grande amicizia coi Samii. — I Terei che  avevan lasciato Corobio nell'isola, giunti a Tera an-  nunziarono d'aver occupata un'isola di fronte alla  Libia. Ai Terei piacque d'inviarvi il fratello sorteggiato  in gara col fratello e uomini da tutti i distretti che  erano sette : a loro preposero condottiero e re Batto.  Cosi inviano due navi pentecòntori a Platea (1).   Questo racconto riesce notevole anche perché  vi è taciuta con arte la balbuzie di Batto senza  che al consulto dell'oracolo si sostituisca altro  preciso motivo; e perché vi appare la volontà  di attribuire, oltre che ai Terei anche ai Cretesi  e ai Samii qualche parte nella colonizzazione  della Libia. Volontà, la quale risponde, eviden-  temente, a una tendenza politica tarda: a giu-  stificar le relazioni e di commercio e d'altro fra  lo Stato cirenaico e le due importanti isole. Ora  a xDunto questo facile rilievo addita il luogo     (1) Cfr. Eeodoto IV 150-153. Il brano che riguarda l'ul-  teriore storia dei Samii è omesso perchè estraneo al  nostro mito. Edizione C. Hude (Oxford 1908).     252 V. - CIRENE MITICA   onde Erodoto trasse tutta la sua fiaba. Egli fu  verso la metà del V secolo in Cirene. Ivi erano,  come si disse (1), due focolari mitici : l'uno dei  primi coloni, l'altro dei secondi venuti sotto il  re Batto II. Tra quelli, che tenevano il governo  e avevan quindi desiderio di giustificar con il  mito non pure il regno dei Battiadi ma anche  la loro politica, raccolse la narrazione tradotta  pur ora.   Tra quegli altri in vece che osteggiavano i Re  e i loro predecessori attinse un'altra fiaba. La  quale non è se non questa medesima ove Ari-  stotele sia divenuto e balbuziente e bastardo, e  i coloni Terei appajano pochi di numero e cac-  ciati dall'isola per opera dei lor proprii concit-  tadini. E poiché Creta, per la sua stessa posi-  tm-a geografica fra Tera e la Libia, non poteva  facilmente esser soppressa nel racconto, ne fu  tratto con accortezza profitto per far aiDparire  anche di impura discendenza il primo colono  Batto. Cosi:   Vi è a Creta una città Gasso nella quale era re  Etearco; che, avendo una figlia orfana, a nome Frò-  nime, sposò un'altra donna. Costei, entrata in casa,  volle anche nel fatto esser matrigna verso Fronime,  procacciandole danni e macchinando ogni male contro  di essa. Alla fine calunniatala d'insana lascivia persuase  il marito che le cose stavano cosi. Questi indotto dalla  moglie concepì un piano infame contro la figlia. Vi era  infatti ad Gasso un commerciante Tereo, Temisone.     (1) V. sopra § l II sostrato storico.     GLI EUFEMIDI E BATTO 253   Costui Etearco invitò a banchetto ospitale e fece giu-  rare che lo avrebbe servito in ciò di cui lo pregasse.  Quando quegli ebbe giurato, gli consegnò la figlia sua  propria e gl'ingiunse di condurla via e d'immergerla  nel mare. Temisone in vece, sdegnato per l'inganno del  giuramento, sciolse i vincoli ospitali e fece cosi: prese  la fanciulla e salpò ; quando poi fu in alto mare,  adempiendo il giuramento di Etearco, la legò con funi  e l'immerse nel mare; ma la ritrasse poi e si recò a  Tera. Colà Polimnesto, insigne cittadino tereo, fece  Fronime sua concubina. Trascorso del tempo, nacque  ad essa un figlio balbo e di sbilenca voce, cui fu  posto il nome di Batto... [A Batto la Pizia interrogata  d'un rimedio per la balbuzie, impose di colonizzar la  Libia, ma solo dopo una lunga serie di sventure e un  secondo comando inviarono i Terei Batto con due  navi pentecòntori]. Navigando verso la Libia costoro  non riuscirono ad altro fare che ritornarsene a Tera.  Ma i Terei cacciarono i reduci e non consentirono che  si avvicinassero alla spiaggia ; ordinarono invece di na-  vigare indietro. Essi, costretti, navigarono indietro, e  occuparono l'isola che giace sopra la Libia, la quale,  — come fu detto, — si chiama Platea (1).   Ma se tal versione della fiaba aveva il preciso  scopo di sminuire i Battiadi, anche l'altra non  serbava più in Erodoto la intima e possente vi-  goria pindarica. C'è una troppo spessa pàtina  di comune e piatta concretezza umana, su questa  leggenda, oramai. Le figure hanno scemato la     (1) Erodoto IV 154-156. Sono omesse le considerazioni  personali di Erodoto sul nome Batto.      254 V. - CIRENE MITICA   loro statura; le voci, abbassato il tono; i gesti,  ristretta l'ampiezza; fin l'oracolo delfico ha  rimesso della sua dignità religiosa, un poco a  pena, e a stento riesce a dargli valore di vene-  rando il sèguito delle sventure che puniscono  la trasgressione del suo ordine. Qui il mito vuol  esser storia con esagerata pretesa : ne ingoffisce  ed ingaglioffa alquanto. E in quell'aspetto della  sua evoluzione che permette la esegesi degli  eruditi o la prepara o quasi l'attende.     VII. — Conchiusione.   Gruardando ora a distanza questa tradizione  dei Battiadi, se ne distinguono ben chiare e  rilevate tre figure essenziali : Apollo Latoide,  di cui con pari insistenza Pindaro ed Erodoto  ripetono l'opera importante nell'impingere i co-  loni; Eufemo, capostipite della casata e com-  pagno di Giasone ; Euripilo infine, nume indigete  d'una grotta libica, simbolo, in sembianza d'uomo  e con valore divino, della pili antica vita afri-  cana anteriore ai Greci, strumento per ciò eletto  dai Fati a preparare dei Greci l'avvento. Ma  Apollo era il Dio medesimo che, nell'Eea di  Aristeo, aveva condotto Cirene dalla Tessaglia  in Libia. Euripilo è il nome stesso che ritorna  in Callimaco come d'un re da cui la Signora  delle belve ha il trono. Si profila dunque ora  compiuta tutta l'ossatura di questa compagine  mitica.   Due Eee stanno a fronte : di Cirene e Aristeo,     COSCHIUSION'E 255     luna; l'altra di Eufemo. Diverso hanno il con-  tenuto e diversa leggenda elaborano: della Ninfa,  la prima; dei Battiadi, la seconda. Ma comuni  sono e il rilievo di Apollo e il suolo libico e la  origine delfica. Simili dunque e differenti. In  forza della lor dissimiglianza restano in più  d'una evoluzione lontane: cosi l'Eea d'Aristeo  tocca, da un lato, il massimo del suo adulterarsi  tessalico ; l'Eea di Eufemo raggiunge, dall'altro,  la maggior sua umana pianezza; senza che si  formino attinenze e stringano nessi. Ma in forza  della loro simiglianza giungono per diversa via,  in uno stadio della lor vicenda, a compene-  trarsi : cosi TEuripilo dell'una Eea s'intrude nel-  l'altra, da Eufemo si trasporta a Cirene; e la  Ninfa della fontana j)assa a proteggere (insieme  con Febo) i coloni dori danzanti tra le fanciulle  libiche, la lottatrice solitaria si circonda d'un  popolo. Unici restano distinti, di qua e di là,  Eufemo ed Aristeo : i due perni delle due  Eee. Nel centro, punto del contatto, il carme  di Callimaco. All'un fianco, di Pindaro la Pitia  nona e Vergili© ; all'altro, Erodoto e la Pitia  quarta.   Lo schema di cotesta evoluzione mitologica  è dunque complesso come un quadro genealo-  gico. E per vero le singole forme della saga  son congiunte da intime attinenze di derivazion  vicendevole ; alle quali tutte predomina il nesso  fra la Cirenaica e Delfi, nesso che di tanto  vasto e lento propagginarsi mitopoetico è, quasi  capostipite, la origine prima.     CAPITOLO VI.  Kalypso.     I. — L'ÌTituizìone mitica.   Il mito è miracolo.   L'occliio vede il chicco di grano scender fra  le zolle, il Sole sparire nel mare, la luce vincer  le tenebre: vede piccole cose ed esigui spetta-  coli che appena lo affaticano lo abbagliano lo  trattengono, e che un nulla basta a significare (1).  Ma se all'occhio dia lo spirito una freschezza  nuova, una maraviglia ingenua, un acume creato  di verginità animatrice, fuor dal mondo reale  il fatto e la cosa escono trasfigurati, esalano  la lor concretezza in trasparenza, sfumano i     (1) In questo capitolo gli esempii addotti son desunti  dai precedenti capp. II-V. Ma ci dispenseremo dalle con-  tinue citazioni. Cfr. anche cap. I § IV e V.   A. Ferrabino, Kalypso. 17     258 VI. - KALYPSO   loro contorni in nuove linee : — si tramutano  in una specie nuova. Il Sole che tramonta nel  mare era il mondo esteriore, vivo della sua vita  secreta. Il vecchio re che il figlio uccide è il  mondo interiore, vivo della vita spirituale. E il  miracolo si è già compiuto: restio ad analisi  nella sua complessa essenza ed inesauribile ric-  chezza: figlio del mistero, perché nato da una  energia la quale tanto meglio si cela, quanto  più si manifesta varia: nato dall'uomo. Il filo-  sofo, riflesso dell'età tarde (1), indaga l'opera  mirabile, ne scevera taluni elementi : il più, il  fondo vero, — il miracolo dello spirito transfi-  gurante, — si perde fra le sue dita incerte. Quindi,  il mito solare è di origine oscura come le vicende,  che narra, dell'Astro. E il mito del seme è miste-  rioso nel suo principio come la fecondazione  della gleba.   Per ciò la saga naturalistica vibra tutta d'un  afflato lirico. E il canto dell'anima umana nel-  l'atto di coglier la vita al di fuori, di possedere  con suggello suo proprio quel che i sensi avver-  tono. Contiene quasi un ebro balzar ferigno dal-  l' interno all' esterno ; e pur racchiude insieme  un' illuminata elaborazione intima, un assorbi-  mento dell'esterno nell'interno. Esulta nello sco-  prir la natura, e le dà un nome e la umanizza.     (1) Cfr. p. e. la teoria dell'illusione presso Steinthal  Einleitung in die Psychologie und Sprachtvissenschaft (1871)  §219 sgg. ; e quella dell' ap per ce z ione (impressione,  associazione, appercezione) presso Wundt Volkerpsycho-  logie II 1 (Leipzig 1905) p. 577 sgg.     l'intuizione mitica 259   per avvicinarla allo spirito. Quando l'aratore ha  segnato diritto il suo solco, obbedendo al secreto  istinto geometrico della stirpe e imponendo alla  Terra indomita il segno dell'Uomo, ha preceduto  con atto analogo colui che armerà di clava, per  assomigliarlo agli umani, il Sole vittorioso contro  il bujo. Onde l'individuo in cui più intenso il  miracolo mitopeico si avvera, esalta in sé tutta  la razza, le dà la sua anima come una divina  coppa cui tutti e attingano e contribuiscano;  è l'eletto a godere il brivido e a lanciare il  prorompente grido della vittoria, conseguita  sopra la sensibile natura dallo spirito scosso fin  nelle radici profonde ; è il mortale che, calcando  la terra, volge in breve giro il suo braccio, in  più ampio, e pur ristretto, orizzonte il suo  sguardo, ma dice in sé stesso di fronte all'Uni-  verso dei suoi sensi " ti capisco „. La malinconia  dello scienziato moderno che sa di non poter  dare alla forza ignota, o mal palese in talune  forme, che un nome, e non crede d'aver capito  l'essenza quando ha vestito d'un aspetto umano  il fenomeno, è lungi di secoli. Quegli che ha  scoperto tra la luce e l'uomo un nesso, tra il  cielo e l'uomo, tra il mare e l'uomo, sente, trion-  fando di felice ignoranza, che ha, allora solo,  veduto la luce il cielo ed il mare.   Ma lo spirito umano, nell'atto di travestir di  sé il mare ed il cielo, di foggiar volti all'ar-  cobaleno e alla fiamma ed alla spiga, e di  scorgere nella vicenda delle stagioni un fatto  come civile, non va però si oltre in questo suo  bello errore, da non serbar, della forza immane  rivelata da quei fenomeni, del mistero per cui     260 VI. - KALTPSO     avvengono e sono ref rattarii all'intervento nostro,  traccia alcuna; né, per serbarla, trova modo più  efficace che trasportare il tutto in una sfera più  che la consueta possente e a cui esso medesimo  soggiace. Cosi il mito naturalistico si svolge su  la scena del divino. E il fenomeno mitologico  s'intreccia e si compone con il fenomeno reli-  gioso, seguendo con questo una simigliante evo-  luzione dal naturismo all'animismo al perso-  nismo, per la quale si complica si allarga si  condensa, e giunge ad acquisire diversa bellezza  perdendo l'originaria trasparenza. Si che nel  principio ogni mito della natura è un racconto  intorno ad un nume; e sia pur rozzo il racconto  e rozzo il nume.   La creazione della saga, adunque, somiglia  per tre aspetti a tre diversi ordini di elaborazion  spirituale : perché infonde la vita a individui che  la fantasia par animare di un soffio e la realtà  foggiar a sua sembianza, è analoga all'opera del-  l'arte ; perché finge i motivi dei fenomeni e quasi  li spiega dinanzi al pensiero non ancora ben  destro, è affine ai procedimenti scientifici che  insegnano le cause dei fatti ; perché, da ultimo,  induce l'animo a reverenza d'un potere più largo  più alto, or solo più forte or anche più buono,  rasenta l'intuito di Dio e il senso religioso. —  Non può, tuttavia, identificarsi con alcuno fra  quei tre ordini disparati. Anche quello con cui  sembra meglio coincidere è per vero disforme :  l'opera dell'arte non è accompagnata dalla co-  scienza di certezza e di apprendimento che è  (vedemmo) insita nella fiaba; non è quindi se-  guita, come la fiaba, da una tradizione di rispetto,     l'intuizione mitica 261   per cui venga riprodotta e amata traverso le  succedentisi geniture. La fede mistica per contro,  quando sente la divinità vivere e spirare, e la  vede risplendere, non si menoma in individua-  zioni personificate e denominate, si più tosto in  formule ove all'Essere è congiunto l'attributo.  Dalla scienza che mira alle leggi generali su  dai fatti specifici, che raggruppa in classi, rior-  dina in ischemi, è necessario dir lontanissima la  saga? la quale dal singolo fenomeno trae la sua  materia, e scorge ogni giorno un diverso Sole  farsi occiduo, ogni stagione un diverso seme  scender fra le zolle ; e soltanto tardi scopre le  ripetizioni delle apparenze e le identità fonda-  mentali; ed è già matura quando narra Cora  ritornar ogni anno, con sorte alterna, alla madre  e al marito. — Anzi, lungo ciascuno di quei tre  ordini lo spirito si evolve in guisa indipendente ;   ^fin che da l'una delle tre mete sopravviene a  deformare o incrinare o addirittura distruggere  il processo mitologico. Quanto l'artista, e specie  il letterario, violi con la sua indomabile licenza  la primordial purezza della favola è in queste  pagine segnato con studio. Né qui si tace come  anche la religione scavi alacre nella polpa stessa  del mito, fin nel ricettacolo della sua virtù ri-  posta, e lo vuoti del succo secrétovi dalle sca-  turigini prime. Ma, violento senza pietà, lo  scienziato non erige ove non abbia prima di-  strutto ; e ogni sua parola che afferma, nega in  pari tempo la saga.   Diverso dall'arte dalla fede dalla scienza, che  cos'è dunque il mito?  Badiamo anzi tutto che in esso il soddisfaci-     262 VI. - KALYPSO     mento pseudo-scientifico non è essenziale quanto  il resto, ma un poco estraneo. Forse, dopo aver  pensato il conflitto fra tenebre e luce sotto la  specie di lotta fra l'uomo forte e bello e l'uomo  torvo e mostruoso, il pensiero, poveramente cri-  tico, si appaga della rappresentazione come di  causa; ed è quella medesima che stimola un  senso rudimentale di questa: o forse, è il con-  trario ; e l'uomo crea la saga i^er apprendere, e  per spiegarsi le forze naturali le plasma umana-  mente e umanamente le fa vivere. Certo, negli  inizii ogni fenomeno pare, trasfigurato, causa di  sé stesso : ma incerto rimane se la ricerca della  causa preceda o segua la trasfigurazione, la de-  termini o ne scaturisca. Oggi nel bimbo si av-  verano entrambi i casi, cbé la fragile mente or  si chiede, dinanzi al sorgere della Luna dal mare,  " perché? „; ora con spontaneo moto traveste in  fogge fantastiche la veduta dei sensi. Comunque,  sia certo l'un modo, o sia sicuro l'altro, il mito  serba il nucleo più vero, là dove è il suo secreto,  intatto dalla pseudo-scienza. Accade un tempo-  rale; e un altro; e un terzo; molti: diversi sx)i-  riti li contemiDlano; tutti (supponiamo) si di-  mandano il motivo dello scompiglio dei bagliori  dei tuoni; ognuno, per contro, crea una favola  differente ; a tutti (supponiamo) la favola creata  è spiegazion del fenomeno apparso. L'identità  dell'impulso iniziale o, se cosi vuol credersi,  dell'effetto ultimo iDermane contradittoria alla  varietà delle creature mitologiche. Queste^, supe-  rando sempre e l'uno e l'altro, s'ergono animate  da una congenita forza eh' è propria, splendenti  d'una bellezza intima ch'è peculiare a loro. Più     l'intuizione mitica 263   tardi si scorgono bensi le simiglianze fra i varii  temporali e si adduce la falsa causa comune; ma  allora la saga non deve nascere, si trasforma  in vece e, accrescendosi di un particolar nuovo  clie la integra, raggiunge una taiDpa del suo  evolversi: dall'esterno dunque si muove questo  ulteriore intervento. Cosi il racconto di Cora  rapita sotterra e riapparsa in terra si compie  poi del giudizio di Zeus e del ritorno periodico ;  ma era. E si compie, fin che al meno l'attitudine  scientifica non si maturi cosi da non poter più  arrotondare la fiaba, ma da doverla oppugnare  e distruggere.   Né anche Tintuizione religiosa però dev'essere  senz'altro inclusa nel fenomeno mitico. E quella,  difatti, estremamente varia e vasta; trascen-  dendo la natura e le sue forze, si nutre anche  d'ogni altra esperienza attinta all'ambito che è  più specialmente umano. I primitivi avvertono  Dio nella famiglia, — e onorano di culto la dea  Madre e il dio Padre ; lo sospettano o persin lo  affermano nell'individuo che più sa e più intende,  onde inchinano il Vate. E pure ammesso che  primieramente la Divinità appaja traverso la  luce del Sole e il risucchio del mare, non si di-  mentichi che, in quei casi, l'uomo primevo si  pone in contatto con la sovrapotente forza della  Natura, in cui è Dio, ma non tutto Dio; che,  ciò è, egli si trova in un primo stadio della sua  evoluzione religiosa, oltre il quale deve progre-  dire ed entro il quale non intuisce, a dir vero,  se non se la sola Natura; che, quindi, il mito  coincide con il senso di Dio, ma con un aspetto  un momento, transitorii e insufficienti, di quel     264 VI. - KALYPSO     senso. E allora è più esatto affermare, la saga  contener l'intuito della possanza naturale rive-  lata nel fenomeno.   Da ultimo, molta luce viene anche dall'ana-  lisi di quelle che dicemmo trasformazioni e in-  dividuazioni artistiche: il vecchio re che cade  dal suo trono e cui succede il figlio; la donna  che le rapiscono la figlia per nozze; il duello  fra Perseo e Fineo. Qui sono i tipi dell'espe-  rienza consueta; qui accennano le figure che  jeri vide il mitopoeta, che vede oggi, e domani  di nuovo; i casi, di cui ha acquistato l'abito  il suo pensiero. Le forme della consuetudine so-  ciale alle quali è avvezzo gli aderiscono alla  fantasia come una veste indistruttibile. E somi-  gliano ai mezzi espressivi della tecnica che ogni  artefice possiede e che sono, nel suo spirito, quasi  le vie ove s'incanala l'intuizione. Lo scultore ha  l'esercizio della creta plasmanda; è sicuro del  proprio pollice ; la mano gli vale una certezza :  si che traverso questo possesso egli vede la statua  e foggia la statua. Il poeta sa giacente nel suo  scrigno celato la materia ambrata del Verbo e  la numerosa del Ritmo: onde ricava stimolo e  mezzo all'imaginare. Il facitor del mito aveva  limiti non varcabili alla sua ricchezza: le parole  eran acconce a dire le vicende sociali e a de-  scriver le forme umane ; la vita arborea non  possedeva moto se non per braccia, e il suo prin-  cipio non era da esprimersi se non con l'imagine  dell'uomo ; sola la umanità si possedeva dall'in-  terno, immersi in lei; la Natura si affrontava  dall'esterno: a questa quella unica poteva per  tanto fornire linee e procacciar significazioni. Il     l'intuiziqne mitica 265   Sole è lontano ; nuoce e giova a noi fuori di noi ;  come narrarlo? E un re. Il seme cresce nella  spiga celato allo sguardo, sta nel pugno ma è  diverso dal pugno, cade nel suolo ma è diverso  dall'occliio che lo vede: come narrarlo? E la  creatura tolta alla madre. In progresso di tempo  l'uomo troverà i termini atti ad esprimere il corso  apparente del Sole e il trapasso del chicco; non  li ha trovati allora. Allora serve per la Natura  l'umano; l'umano è quasi tecnica all'intuizione  naturalistica. — E l'analogia (non identità, si  badi) è i3rofonda; come quella che si regge anche  su l'indissolubile nesso intercedente tanto fra le  diverse intuizioni artistiche e le rispettive tec-  niche, quanto fra il fenomeno naturale e le forme  umane. V'è, tra l'uno e l'altre, vincolo di reci-  procità, si che queste par violino bensi quello,  ma par insieme che il primo esiga senza scampo  il sussidio di tal violazione. Parvenze entrambe  vere, che di tutt'e due il mito è complesso. Ac-  cade quindi che si possa decidere dell'epoca in  cui una saga fu da principio narrata, per ciò  solo, che gli elementi umani e i dati dell'espe-  rienza sociale sono, nel groppo originario, scarsi  o abondevoli. E accadde per converso che taluni  fenomeni non determinassero la loro leggenda,  se non quando li potè assalire e trascolorare una  copia maggiore di consuetudini nostre. Si pensi :   ^erseo contro la belva ed Ercole contro Caco  sono analoghe manifestazioni dell'urto fra luce   tenebra ; ma quella non presuppone che l'uomo,  la selce acuminata, la fiera; quest'altra in vece  3ontiene già l'uso della mandra, la proprietà, e  costume dell'abigeato. Si pensi, anche: le vi-     266 VI. - KALYPSO     cende agresti del seme e della spiga non diven-  gono vicende, o siano trama narrativa, che a  patto di convertirsi in rito nuziale; anteriormente  non esistono, clié non sono intuibili. Come (con-  tinua l'analogia) non esiste per me, ignaro di  plastica, la posa statuaria, che gli occhi vedono  senza il consenso dello spirito seguace. — Ana-  logia, non identità. Che il divario è tosto sen-  sibile, non a pena si rifletta alla rispondenza che  è fra l'arti e le tecniche, in contrapposto alla  ineguaglianza che è fra l'umano e il naturale.  Le tecniche non esistono che per l'arti, ne costi-  tuiscono la preparazione voluta, né servono ad  altro che non sieno l'arti, né hanno radici altrove  che nell'arti. Il loro progredire è verso un affi-  namento che permetta di sottoporre sempre più  e sem^Dre meglio la materia sorda al possesso  artistico. E il loro affinamento esalta sempre più  e sempre meglio le arti; non le nega non le di-  strugge già mai. La storia della mitologia per  contro attesta, nelle sue pagine severe, che, come  sia salita a più grosso valore la somma delle  esperienze umane, di quelle esperienze (ciò sono)  traverso cui il fenomeno della Natura passa tra-  sfigurandosi, incontanente questo legame s'in-  frange, si che a due poli estremi la vita sociale  e gii spettacoli naturali si esprimono con indi-  pendenza. L'accresciutasi esperienza ha tocche  le discrepanze superando le affinità ; e la perizia  esercitatasi martella, per le discrepanze, fogge  diverse da le dicevoli per le affinità. — Si di-  chiara ora pertanto l'oscuro testo. Nel mito è  una visione manchevole del mondo esteriore al-  l'uomo, limitata alle crasse sue simiglianze co^     i     jH     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 267   mondo interiore all'uomo. Nel mito è, per con-  verso, una vision manclievole di questo ultimo  mondo, ignara del suo contrapposto con quel  primo. Quindi fra l'uno e l'altro di essi un rap-  porto sol temporaneo, perclié solo parallelo alla  doppia manchevolezza. Ma perché le due insuf-  iicienti visioni sono le uniche per ora acquisite,  e iDerché la duplice acquisizione è avvenuta sul  fondamento delle crasse analogie, il rapporto  dev'essere ed è, anche, necessario e indispensa-  bile ; ed è, anche, bastevole ai primitivi bisogni.   Dunque conchiudendo si avrà ; ogni mito è un  detei'minato avvenimento naturale intuito come  forza so"VT.'apotente e veduto a traverso l'umano  in una mischianza che li deforma entrambi:   come forza sovrapotente e divina; — indi  il rispetto della tradizione letteraria, l'onore del  culto, e il pregio di motivazione scientifica;   in una mischianza che li deforma entrambi ;  — indi la fine della mitopeja con l'eccesso della de-  formazione e l'imxDOssibilità della mischianza (1).   Vita, per ciò, e morte. Quale la vita, e onde  la morte, sarà detto appresso.     I     II. — Le manifestazioni mitiche.     Scaturita, la mitopeja si moltiplica multifor-  memente e si altera evolvendosi. Ma immutati     (1) Questo nostro risultato storico intorno al mito con-  traddice B. Croce {G. Vico pag. 66) per cui il mito è un  " universale fantastico „.     I     268 VI. - KALYPSO     restano, fra tanto trasfigurarsi di innovazioni e  di creazioni, i modi e i mezzi della manifesta-  zione mitica. La quale quindi è necessario pre-  cisare, innanzi che s'imprenda l'indagine sul  viver e sul morire mitopeico.   Poi che il fenomeno della Natura dovette, per  affiorare su le coscienze, traversar l'umano, pati  d'esser contemplato come l'umano, in tutti i ri-  spetti; ciò è: quale linea, volume, colore, moto  psichico e gesto corporeo ; e fu scolpito nella ma-  teria, dipinto su le tavole, narrato con parole.  Poi che d'altra parte il fenomeno della Natura  rimase luminoso della magnificenza divina, ri-  chiese di penetrare nei culti e nei riti in cui  ai Numi offrono i terreni l'olocausto dei loro  puri e torbidi cuori. Sono dunque due grandi  categorie espressive ; e su i caratteri di ciascuna  in generale non è qui da far cenno, che ne trat-  tano apposite discipline. Qui basta notare come  sieno entrambe primigenie, coeve tutt'e due  agl'incunaboli della saga; la quale quindi le  trovò senz'altro, sbocchi dicevoli alla sua vitalità  impetuosa. Il fuoco sotterraneo, rompendo la  crosta terrestre e scorrendo in lava, ebbe appa-  recchiati i canali al suo corso ardente. Che anzi  non si sarebbe né meno levato in un respiro  immane, ove non si fossero rinvenute le vie atte  al suo sfogo. Or è certo che dopo la nascita fu  dalla mitopeja tentato di continuo l'allargamento  di quei suoi mezzi; riuscendole senza dubbio di  svolgerli e di migliorarli, col secondare l'affinarsi  verbale, scultorio, pittorico, religioso. Ma falli,  se mai avvenne, ogni prova d'acquistare alla saga  quell'espressioni ch'erano potenziali all'ora del     ■ritò     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 269   primo suo crearsi, e attuali divennero solo più  tardi. Il termine filosofico, la jDarola scientifica  (vocaboli astratti) fuggirono la leggenda come  si respingono sostanze non consentanee. E in un  dialogo di Platone la fiaba fu '' racconto,,, anche  se le si immettesse, come allegoria, un'astrazione :  l'astrazione riuscendo espressa, sia pure inade-  guatamente, dalla fiaba; mai questa da quella,  in alcun modo. Un poema sacro o patriottico, i  frontoni d'un tempio, l'umbone d'uno scudo, il  ventre d'un' anfora, il tergo di uno specchio: —  qui la saga si foggia a rivelare or l'una or  l'altra delle sue congenite potenze, senza dis-  sonare. L'arte. E quello, in cui la antichissima  intuizione della Natura esala uno dei suoi pro-  fumi pili reconditi, e non tra i meno intensi :  il culto.   Il mito può esser nel culto.   AUor quando su l'Ara massima si sacrificano  tori ad Ercole, in Roma, si narra la lotta del  dio contro il ladrone Caco. Persino nelle feste  di Carmenta o in quelle di Evandro il richiamo  della saga, se non certo, è possibile ; è in parte  sottinteso nelle menti dei fedeli. In Enna non  si venera Demetra senza ripetere il ratto di  Cora e, molto più, senza affigurarlo concreta-  mente. Nelle feste cirenaiche di Apollo Carneo  le danze trovan riscontro con i leggendarii balli  dei Dori in mezzo alle fanciulle di Libia.   Le forme però di questa interferenza fra culto  e saga sono varie. Nella più tipica, e ad un  tempo più semplice, il gesto del rito ripete la  vicenda mitica. Il cocchio trainato da cavalli     270 TI. - KALTPSO     bianchi, tra il popolo e i sacerdoti adunati (1) a  Siracusa, fìnge l'azione onde Cora fu ri addotta  alla Madre; e pretende di fingerla nel luogo  istesso ove l'anagoge avvenne. Il medesimo è  del ratto. E ad Eleusi si mostrava la " pietra  del pianto „, che aveva parte non piccola nel  culto e su cui Demetra si sarebbe seduta nel  cordoglio prima d'incontrarvi le figlie di Celeo.  Ma nessuno di cotesti esempii è tanto significa-  tivo, quanto il dramma greco nel suo contenuto  mitico. Né pure in Euripide, ove la concezione  è cosi moderna e lo spirito maturo cosi larga-  mente innova, è andato perduto il carattere pe-  culiare della tragedia o s'è cancellato il segno  delle attinenze antiche fra il lavoro letterario e  il culto sacro. Per le quali, in fondo, il dramma  appariva quasi la ripetizione gestita del mito,  il mito riprodotto attorno ad un altare, da per-  sone che ne affiguravano gli eroi, in vicende che  ne rendevano la trama. Appariva, in somma,  una specie di culto in cui il rispetto religioso  era ben presente, ben si sentiva l'ambrosia dei  numi; e tuttavia l'azione e il gesto awiavansi  a prendere il sopravvento. Appariva un culto  modellato sul mito.   Questa però, se è la più tipica interferenza tra  i due fenomeni umani, perché in essa la saga  offre al rituale i modi i tempi e i luoghi, non  è la sola né forse la più consueta. Un'altra è  frequentissima: per cui avviene appunto il con-  trario. Nel culto, molti fra gli atti obbligatorii     (1) Pindaro Olimpica VI 95 e lo scolio.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 271   e tradizionali si riportano, idìiì che ad un deter-  minato racconto leggendario intorno al dio che  si venera, agli attributi di quel dio alle sue  mansioni alle sue ordinarie potenze: le quali si  invocano in circostanze favorevoli, si supplicano  benigne ; o vero si irrogano lontane, si distornano  con offerte e con formule ritenute idonee. Vi  hanno inoltre, pure estranei al mito, atti reli-  giosi sorti in momenti diversi, per caso, per  coincidenze fortuite, per iniziative, anche inten-  zionate, di sacerdoti e di governatori. Si danno  infine templi e altari elevati, fuori di un certo  mito, per un nume cui il mito fu collegato  lDÌd tardi; come l'ara d'Ercole nel Foro Boario  che esistette innanzi all'avvento del Tirinzio  nella saga di Caco. Ora, tal complesso cultuale,  che è solo parallelo o, peggio, solo per incidenza  contiguo al racconto leggendario, non ne dura  a lungo estraneo, ma finisce col penetrarvi e  costituirvi un capitolo interpolato. E questa la  massa delle etiologie, che notammo neìVInìio a  Deìnefra, e che rinvenimmo a proposito dell'abi-  geato del ladrone latino. Sempre, in questi  esempii, il contesto narrativo si amplia a van-  taggio e ad interesse della realtà religiosa : fe-  nomeno che attinse il suo vertice in quei casi,  — ma non ne appajono in questo scritto, — che  tutta quanta la leggenda nasce dal rito.   Ebbene. Nella prima delle due interferenze  notate, troviamo la leggenda esprimersi per  mezzo del culto. Nella seconda, il modo opposto.  Fra le due non difettano attinenze; né è diffi-  cile decidere intorno alla priorità. I miti etiolo-  gici che scaturiscono dall'esercizio religioso sono     272 VI. - KALYPSO   senza dubbio, al pari degli etimologici, alquanto  più tardi degli spontanei miti naturalistici e per  solito, a differenza di questi, tristanzuoli. Anche,  la prima interferenza intacca e interessa intiera  la leggenda: onde il culto di Demetra investe  tutto il mito di Demetra, e il dramma tragico  tutta la saga di Andromeda; laddove la seconda  interferenza presuppone la leggenda, l'adotta,  non l'identifica con sé. Tuttavia, se ben si guardi,  la diversità non è tanto profonda quanto par-  rebbe. In entrambi i casi, difatti, dura un'anti-  tesi irrimediabile tra mito e culto. Del mito  sussiste sempre qualcosa, che non affluisce al  culto, ma lo prepara, lo motiva; permane un  che di non riducibile: fra una scena e l'altra  del rituale, fra un episodio e l'altro del dramma,  qualcosa è sottinteso, alcuni avvenimenti son  accaduti, che si rivelano nelle loro conseguenze,  ma si riferiscono a un diverso contesto: nel-  l'intervallo fra il sacrifizio a Giove Inventore  e quello su l'Ara Massima, si pensa, o si deve  narrare, l'apparir di Evandro con i Potizii e i  Pinarii, e quanto è poscia scritto: nel mezzo  tra la Catagoge e l'Anagoge sta il giudizio di  Zeus insieme con l'altre vicende : prima che  Perseo appaja ad Andromeda avvinta su la rupe  e agli spettatori stupefatti, egli ha compiuto  delle gesta e conquistato il capo della Gorgone ;  il che si deve dire, come in postilla, ma non  appartiene più al dramma sacro, bensi risale al  mito. Del mito, adunque, il culto illumina alcuni  tratti, essenziali se si vuole, esprime taluni punti;  ma si integra poi con interstizii d'ombra o con  premesse a pena accennate o con parentesi sup-     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 273   pletive. Al che corrisponde quel che deve dirsi  sulla impotenza espressiva del mito rispetto al  culto ; la quale è però fatta più tosto di abbon-  danza, ijerché quello per solito trascende questo ;  consta tuttavia anche di debolezza. L'avventura  mitica di Cirene, invero, traduce assai poco del  culto ad Apollo Carneo: e le cerimonie eleusinie  0, in genere, greche in onore di Demetra non  sono a sufficienza chiarite dal solo ratto di Per-  sef one, si debbono venir comentate col sussidio  e d'altri mezzi e degli attributi che alla Dea  spettano in testi estranei a quella saga. Qui,  come altrove, il culto traspare nella leggenda,  ma per uno spiraglio solamente.   Il fenomeno cultuale e il fenomeno mitologico  non sono dunque idonei a esprimersi l'un l'altro.  Ciò può sembrare da prima strano, da poi che  si disse poc'anzi il nesso che li stringe. Strano  invece cessa di essere, quando si ponga mente  (che si disse pure poc'anzi) alla distinta natura  di tutt'e due: l'uno segue, se bene per solito con  lentezza, il maturarsi del pensiero religioso e l'af-  finarsi della sensibilità mistica, cosi che molto  si modifica, e si perfeziona di disinteresse, col-  l'evolversi del concetto di Dio; l'altro per contro  nasce da un'intuizione della natura che deve  permanere durabile, e vive nel suo profondo di  vita indipendente dalla religiosa. Due rami,  dunque, bensì dello stesso tronco; — ma rami  diversi. I quali s'incontrano come si vide ; e non  accidentalmente, giacché non si spiegherebbe la  costanza dell'incontro nei casi diversi ; ma per  due motivi.  1^ Ci è ben noto, per l'anteriore discorso, il carat-     274 VI. - KALTPSO     tere scientifico che assume la saga o già prima  del suo concretarsi o sùbito dopo. Ora, valendo  qual spiegazione del fenomeno essa tradisce  tosto un aspetto di utilità pratica ch'è quanto  mai confacente alle menti primitive (né solo a  quelle). Se il fulmine è la clava immane che  un Dio a volto d'uomo brandisce e agita con  braccio più che d'uomo possente, se ne stornerà  la minaccia e l'esizio con il j)lacare l'ira al  Nume dal cuore d'uomo : venerandolo di offerte,  in culto. E della spiga granita, della messe co-  j)iosa, è più salda la speranza se con gli aratori  l'attende una Dea, madre alla Spiga: e comune  suona il tripudio, come comune il lutto per il  rapimento: a lusinga, i mortali secondan pianto  e gioja dell'Immortale. Qui il sogno si af fioca,  si appanna; o no, ch'è meglio, si sgombra delle  nebbie rosate e si converte nell'egoismo quoti-  diano, ch'è il pane, il benessere, — la vita.   Ma l'altro motivo per cui culto e mito in-  terferiscono sta nella concretezza plastica, che è  di talune cerimonie del culto, e che le assempra  all'opera dello statuario, ossia le avvicina al-  l'arte. Quando di fatti la parola narra Demetra  trasmigrante per le terre con due fiaccole accese  su l'Etna, ha virtù di riprodurre nel suono la  figura dei sacerdoti agitanti le tede nelle ceri-  monie di Eleusi. E quando il ketos apparisse  vorace e si apprestasse alla vettovaglia umana,  riescirebbe a rendere nell'atto la forza conchiusa  del racconto. Il paludamento ed il gesto corri-  spondono all'elezione e alla disposizione verbale.  Ma non vi rispondono a pieno; e costituiscono  anzi forme secondarie dell'esprimersi, come un     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 275   volto contratto nell'angoscia sottintende ma non  significa il dolore medesimo che il poeta piange  nell'elegia; né l'urlo del viandante assalito crea  nella carne vivente la divina maschera di Lao-  coonte.   Per tanto, non pure mito e culto non si so-  vrappongono del tutto; ma, anche là dove pajono  coincidere, il culto risulta una imperfetta espres-  sione del mito. Accanto alla quale perdura sempre,  e per integrarla nella quantità e per elevarla  nella qualità, la forma primaria e più acconcia :  — l'arte. Onde, nel fatto, all'arte aspirano,  quasi a compimento ed abbellimento, le varie  forme del culto, come i minerali alle fogge cri-  stalline. E la statua, il dipinto, il rilievo, insieme  con la ]3oesia, emergono, fiori di alto stelo, su da  quella gramigna ch'è il racconto dei sacerdoti  e il disadorno ricordo delle generazioni.   Tuttavia nell'arte stessa il mito trova diversa  efficienza di espressione. Il vasajo, che nel VI se-  colo affigura la saga di Andromeda su la materia  tornita e preparata alle vernici, si ripete, tra-  verso la serie dei suoi modelli, ad un'antica  forma del racconto caduta già in oblio nella let-  teratura ; ed è , solo , sufficiente per indurci a  costruire quella forma, di cui altre tracce non  sono rimaste. Ma sarebbe anche in questo spe-  cialissimo caso ardimento soverchio asserire in-  dipendente l'opera dei colori di lui. Giacché, in  tanto lo comprendiamo, e in tanto ci serve a  simboleggiare un intero strato mitico, in quanto  la letteratura possiede gli strati posteriori. Ci fa  risalire a una narrazione ; non ce la narra,     i^     276 VI. - KALYPSO   per sé. E del pari un bassorilievo ove Ades e  Persefone seggano sul trono tenendo fra le dita  tre spighe (1), richiama le nostre cognizioni sul  ratto della fanciulla, le conferma; ma non ce le  fornirebbe mai, per sé. Il motivo n'è palese per le  esigenze ineluttabili della scultura e pittura. Non  possono essere indipendenti dal racconto parlato  quelle arti che non debbono né fermare l'istante  né descrivere il moto. Il momento è la loro mi-  sura, ai due estremi della quale sono invarcabili  colonne d'Ercole. L'accenno è il loro mezzo per  rendere una vicenda, per fìngere il moto nella  statica. E né meno costituendo in serie i lor  prodotti riescono a rendersi autonome dalla  forma letteraria; che una Via Crucis raffigu-  rata da un genio non è se non mirabile chiosa  agli Evangeli (2).   Non pure, adunque, il mito è fenomeno, nella sua  espressione, a preferenza artistico; ma anche è  precipuamente letterario. La letteratura sola ha il  vantaggio di esprimerlo intiero, di insegnarcelo  se l'ignoriamo, di non abbisognare né di com-  pimenti né di premesse. Cotesto privilegio però  non s'intende tutto, che prescindendo da alquante  restrizioni. Bisogna, in primo luogo, ricordare  che il patrimonio delle lettere antiche ci giunse i  guasto e lacunoso, per dissipar lo stupore che,  contro la conchiusione recente, nasce dal ricordo     (1) " Annali dell'Istituto „ XIX (1847) tav. P.   (2) Su i rapporti fra arte e letteratura mitopoetica  scrisse belle pagine C. Robert BUd und Lied (= " Phi-  lologische Untersuchungen , V) Berlin 1881.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 277   dell'esame condotto intorno a quattro notevoli  miti. Si comprende difatti allora che, se le epopee  omerica ed esiodea, ad esempio, ci fosser per-  venute nella loro opulenza, il sussidio dell'arte  plastica alla Storia sarebbe ben diverso: non  cosi indispensabile né tanto notevole. La poesia  basterebbe. Bisogna inoltre allargare i termini  onde è concbiuso il concetto di letteratura: non  fermando l'occliio pure alla forma eletta, alla  ninfea emergente sul pelo dell'acque chete; ma  comprendendo nel vocabolo anche le manife-  stazioni più povere e grame, il racconto d'un  antistite, l'osservazione inetta d'un erudito, la  favola ciarlata fra i fedeli. Perché, se si consi-  dera nella sua ampiezza tutta questa saliente  marea, che si diparte da bassissimi fondi ed  espugna ben erte rupi, pervasa da un assiduo  moto di ascesa, insito nell'intimo o sospeso su  le forme come una legge fatale; se si scorge  il fremito creativo trascorrere in corsi e ricorsi  da Pindaro all'atleta, da l'atleta a Vergilio, da  l'umile all'eccelso, toccare le donne di Siracusa  e la mente di Timeo, raggiungere la Biblioteca  di Diodoro e la corte imperiale di Roma, per-  vadere l'abitante dell'Aventino e l'Annalista  dell'età travagliose: — si appalesa a pieno il  dominio, indipendente e incomparabile, che sul  Mito possiede la Parola.   Ed è dominio attivo. Il verbo non s'imprime  su l'intuizione, se non in una sintesi, che è sempre  originale, com'è sempre imprevedibile prima del  suo compiersi, e non del tutto sceverabile dopo.  E un castone che costringe il diamante ora a  smussare una punta ora ad arrotondare uno spi-     I     278     f?olo. Ogni racconto letterario di un mito, scritto  e parlato, ne è una forma nuova che non si può  ridurre, senza violenza o astrazione, a un'altra.  In questo, l'arte figurata e il culto, — a parte  la loro incompiutezza che si vide, — somigliano  alla letteratura; ma, anche in questo, le restano  addietro: perché serbano più tenaci, e l'una e  l'altro, non appena possedutala, una certa forma  e una certa versione d'una saga incidendola  per anni e anni in dati tipi e modi ; laddove la  parola ha una sua duttile mobilità, una sua  invitta energia innovatrice, che si tradiscono  nelle sfumature; fino a che l'imitatore, inconsa-  j)evolmente, travisa il modello, e Ovidio si di-  lunga intorno a Caco dall'Eneide, della quale  vuol ricalcare l'orme. La misura tuttavia d'una  cosi fatta attività di dominio, come distingue  tra loro le forme dell'arte, cosi gradua le specie  letterarie medesime, ed è il criterio del loro  pregio. La goffa nutrice che ripete la saga al  poppante innova bensì, che non s'evita; ma per  vero minimamente, a confronto dello storico e  del poeta: l'angolo del prisma è troppo esiguo,  al paragone, e la luce ne devia cosi poco che  si trascura. La personalità della parola è quella  di chi narra ; non si annienta mai, ma o si strema ;  o si invigorisce : e il mito ne riceve più o meno ]  individuate le sue forme. Onde è lecita per co-  modo di ricerca, se non esattissima in tutto, la  distinzione in due grandi categorie, separate per;  una diversa potenza creativa, dei contesti ver-  bali in cui la fiaba si esprime: nell'una stanno  gli sterili e gl'impotenti, nell'altra i vigorosi:  fecondatori.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 279   Senza traccia, come senza nome e senza gloria,  rimangono, e son massa, quelli: i ripetitori  menni. Non dispregevoli né pur essi, clie sono  la gleba rude, disprezzata ma indispensabile,  senza cui non esiste nulla e da cui tutto si ri-  pete. Sono del resto costoro, nella lor supinità  passiva, cosi tenaci nel rispettare per manco di  fantasia le fogge tradizionali, come utili a va-  gliar le innovazioni, che, diffidando, non accet-  tano se non quando una forza geniale le imponga,  e costanti ad applaudirle poi, assicurandone, col  ripeterle, la esistenza. Somigliano agli spetta-  tori, dinanzi a cui i tragedi vedevano agitarsi  le sorti delle loro creature, e che si serbavan  fedeli alle opere premiate. Per essi avviene la  selezione e si conserva la vita. Cosi che quando  non uno pili ne sopravvive, com'è oggi fra il  popolo nostro per i miti pagani, la favola è ben  morta, s'anche l'arte ne tenti con tocco divino  la resurrezione. Le radici sono inaridite.   Ma non possono d'altra parte raccogliersi in  un solo tutto i fecondatori del mito: che la  energia mitica non è semx)re la bellezza. Tal  volta l'artista dà il suo suono alla favola d'un  creatore ch'è disadorno: esiste il mitologo che  ordisce; esiste il mitopoeta che contesse ad  arazzo. Verità di non poca importanza, come  quella che serve a spiegare, perché il mito duri  e s'evolva anche durante periodi in cui l'arte si  tace, o compia anteriormente all'arte uno svi-  luppo assai grande. Cosi, pur tenendo conto dei  carmi perduti, ritorna nel nostro, pensiero la  trasformazione profonda subita dalla fiaba indo-  europea j)i"esso i Grreci prima di vestirsi nel-     280     Vlnno a Ermes di begli esametri omerici: o  pmi'e il comporsi della saga siracusana di De-  metra avanti a Timeo e agli Alessandrini. Né  senza traccia è rimasta, come senza nome d'in-  dividui, l'opera di cotesti facitori non artisti o,  per dir meglio, scarsamente artisti: dei mitologi.  Ai nomi delle persone, clie mancano e non var-  rebbero, possiamo sostituire quelli dei centri  onde il moto di elaborazione mosse e si propagò:  quali Delfi per la saga cirenaica, lo spazzo del  Foro Boario per il furto di Caco, Argo per le  imprese di Perseo: feraci campi di rigogliosa  messe, tra cui raro langue il ciano e il papa-  vero, e su cui ci vien fatto di gittare obliquo lo  sguardo traverso i voli di Pindaro i colori di Ver-  gilio il racconto di Ferecide. — In generale, per  conseguenza, la mitopoetica vigoreggia come un  progresso rispetto alla mitologia (1). E tale as-  serzione è sempre vera, se intesa a dovere: pe-  rocché il progresso può essere istantaneo e com-  piersi nell'attimo medesimo della innovazione,  ma né pui^e allora manca. Non sappiamo se  l'autor dell'^ea di Eufemo metta in versi il  lavoro mitologico di un predecessore o crei esso  medesimo la saga che contamina le pretese dei  Battiadi con la spedizione degli Argonauti al  lago Tritonio: non sappiamo né sapremo, e la     1     (1) Per chiarezza: mitopeja dico la complessiva ela-  borazione mitica (letteraria, artistica, cultuale). Fra l'ela-  borazioni mitopeiche della letteratura distinguo la mi-  tologica dalla mitopoetica che sola ha pregio  estetico.     LE MANIFESTAZIONI MITICHE 281   verità elude con volti ambigui i nostri occki  incerti. Ma se, come si ritiene meglio probabile,  la contaminazione balza insieme con il ritmo  dallo spirito di lui, è segno che, per fortunata  sorte, il gusto estetico coincidette con la vigoria  generatrice. E il caso è, in Grecia specialmente,  non raro; ed è ben motivato dalle premesse  nostre. Quando, difatti, il mitologo preferecideo  raccolga in un racconto su Perseo il mito tessalo  e il peloponnesiaco, e li fonda con gli elementi  jonici, che si dissero sopra, stringe membra  prima incoerenti in tale organismo d'intuizione  unitaria, che è del tutto normale, se egli stesso  riveli una a pena minore vigoria nell'esprimer  quello col verso; se appaja egli stesso anche  mitopoeta. Sa vedere di più, e sa dire meglio,  che gli altri. Il nesso è cosi ovvio, che sembre-  rebbe quasi insolita la contingenza, in cui al  più dell'intuizione non rispondesse il meglio  dell'espressione. Insolita certo; ma assai meno  che non sembri, a causa dell'indole propria di  ; talune stirpi e della natura speciale di certe in-  [novazioni mitiche. Nel fatto, tra i Romani è  [facilissimo che una fiaba si innovi appresso un  [arido annalista e che quindi scada dal carme  )opolare allo schema di un rozzo diario: tale  [fu, tra l'altro, la sorte della leggenda di Caco  [allorché, forse, un greco v'introdusse, per con-  [•asto etimologico, Evandro la prima volta, pur  [senza avere alcun intento, — si badi, — di ra-  sionalismo. E, ancora tra i Romani, è probabile  3he il capitolo delle etiologie inerenti al culto  [di Ercole si aggiungesse a quella stessa leggenda  in una forma regrediente, che non attingeva     282 VI. - KALYPSO     alcun pregio artistico. Tuttavia lasciando un ne-  cessario margine a simili casi, per solito si varca  d'un salto dalla medesima mente il varco che  intercede, — non ampio e non breve, — fra la  innovazione mitica e la procreazione d'un'opera  d'arte.   Superato tal varco, o per felicità d'ingegno o  per maturità conseguita nel tempo, e attinto il  vertice più bello, si apre una serie nuova d'in-  novazioni mitopoetiche, che son ben diverse dalle  mitologiche. Ma un facile criterio le distingue  senza possibile equivoco. Le une hanno un fine  che è estraneo alle altre ; le une si dipartono da  esigenze che sono estranee alle altre. Lo scrit-  tore, che altera la leggenda nel comporre, ob-  bedisce a uno scopo d'arte, cosciente o non con-  sapevole che l'obbedienza sia: un istinto, o il  suo gusto culto e fine, lo avvertono di dar quel  ritocco, mutar questo colore, adombrare una  figura, correggere la prospettiva ; il pubblico spe-  ciale cui si rivolge gli suggerisce, rimanendogli  dinanzi al pensiero dui'ante il lavoro, di conce-  dersi certi accenni e taluni richiami, di svilup-  pare più ampiamente una parte. Per contro il mi-  tologo, che è tale prima d'essere artista, tende  a una mèta mitica : pensa al patrimonio leggen-  dario, o nel suo insieme o in uno de' suoi vigo-  rosi rami, e a quello procura di recar contributo,  adunando, intorno a un nome di eroe o di nume,  tutte le gesta attribuitegli. Ovvero cerca una  mèta politica o altrimenti pratica : per conciliare  le pretese di due luoghi intorno a una Dea, si  chiamino anche i luoghi Siracusa ed Enna; per  esaltare una dinastia, e sia essa dei Battiadi ; per     LE MAXIFESTAZIOXI MITICHE 283   comprimere mia città avversaria, quale Tera; per  lodar un oracolo, il precipuo fra molti, il Delfico.  In ogni caso, muove da esigenze che non sono  quelle del suo tema letterario, né consistono nel  tono d'un poema su Enea o d'un canto su le  Metamorfosi; ma che sono inerenti a un indi-  rizzo mitologico.   I due ordini d'innovazioni però, pur essendo  tanto ben distinti nel fine e nell'origine, eserci-  tano, l'uno su l'altro, continui influssi. E l'ima-  gine che rende la loro reciproca condizione, è  quella della pila voltaica ove il succedersi alter-  nato dei dischi di rame e di zinco permette lo  scoccare sintetico della scintilla. Ogni mito di-  fatti non potrebbe entrare in quel componimento  letterario ove deve alterarsi, se per effetto della  sua intrinseca evoluzione mitologica non avesse  conseguito già un certo stadio; e per converso,  poi. il colore diversamente sfumato dall'arte  la variata prospettiva sono a punto cause  che permetteranno ad altro mitologo l'aggiun-  gere o il contaminare. Dopo che, nei carmi del  popolo, la leggenda di Caco è andata smarrendo  il suo senso allegorico antichissimo, per assu-  merne, a gradi, uno storico ben diverso: allora  solo, Ercole può sottentrare a Garano-Recarano,  e il gruppo delle etiologie incunearsi nel rac-  conto. E allora solo la fiaba di Perseo e An-  dromeda è matura per una interpretazione psi-  cologica e sociale nella tragedia, quando il  mitologo l'ha dissimilata dalla lotta contro la  Grorgone, cui era identica. Un ardimento giustifica  l'altro; un passo prepara il susseguente: non  importa se i fini del primo non sieno per l'ap-     284 VI. - KALYI'SO   punto quelli del secondo. Anzi, perché, come si  vide, l'innovazione mitologica avviene talvolta  in una con la innovazione mitopoetica, lo storico  resta esitante, in quei casi, prima di decidere da  quale fra esse sia mosso l'impulso, a quale tocchi  la precedenza, non nel tempo, ma nella respon-  sabilità del nuovo stadio raggiunto dalla saga.  Nessuno cosi saprebbe dire, fuor che in conget-  tura mal certa, se un poeta o un mitologo abbia,  per esigenza d'arte e ritocco estetico, o per scoilo  di chiarezza genealogica e armonia anagrafica,  identificato primo Persefone con Cora. I confini  sbiadiscono indecisi, la sintesi creatrice non ri-  trova chiare le sue vere cause. Questi casi am-  moniscono lo storico a cancellare ogni categoria  empirica allor quando si accinge ad esporre  l'evolversi nella letteratura del genio mitopeico  pagano.     IH. — L'evoluzione  della mitopéja letteraria.   Da due radici trae vigore la mitopéja al suo  arricchimento progressivo e al suo lungo variarsi :  dall'elaborare gli elementi spirituali onde consta  negli inizii ; e dall'acquisirne nuovi a sé stessa.  Curiosità scientifica, senso del divino, intuito  dell'uomo e della natura, immanendo nella saga  costituiscono costantemente altr'e tanti tentacoli,  che attirano verso di essa i prodotti del più  maturo pensiero scientifico, spirito religioso, abito  di contemplazione umana e sociale. Ma inoltre     l'evoluzione della mitopeja letteraria 285   nuove energie se le aggiungono; nuove, le quali  son sorte non da uno sviluppo delle primissime  antiche, ma da un superamento deciso di queste.   Siffatta opera duplice e immane di rinnova-  mento si comijie entro certi ampi limiti tem-  porali.   Da principio, ogni fenomeno, ogni aspetto del  medesimo fenomeno, ogni nesso, ogni sfumatura,  sono sufficienti impulsi alla creazione d'un mito:  nuovo, se pur non profondamente diverso dal  complesso dei suoi analoghi. E il fermentante  rigoglio della giovinezza. E la festa dei frutici  che il suolo ferace esprime da sé, per l'esube-  ranza della sua forza, in unico impeto con le  roveri e i pioppi. Si che le figure si moltipKcano  disponendosi l'una a canto dell'altra, affini so-  relle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si  addensano e s'intrecciano, uno appresso all'altro,  simiglianti e differenti, e si dispongono in rac-  conti svariati, che ciascuno i^ossiede, quasi nome  personale, un peculiare suggello. La mitologia  |indiana serba traccia di questo pletorico groviglio  li fiabe, X30C0 dissimili ma non uguali, intrecciate  Era loro per tenui fili. Nella greca la traccia è  linore : perché già in essa sono sopravvissute  [unicamente le forme, in genere, geniali, cui la  [singolarità medesima apprestasse vigoria e resi-  stenza vitale, laddove le più scialbe, e per ciò  stesso meno individuate, vennero assorbite da  pelle cui somigliavano. Tuttavia, anche fra gli  lElleni il durar l'uno accanto all'altro i miti, che  man tutti il medesimo sostrato naturalistico, di  [Eracle nell'Ade, di Eracle contro Gerione, di     286     VI. - KALYPSO     Eracle contro Nèleo, di Perseo contro la Gor-  gone, di Perseo contro il ketos, attesta l'anti-  ch-issima fecondità originaria in favole dissociate  per minime differenze, per esigui e mal certi  confini, e prova anche come la mente creatrice  da sé e dalla propria stirpe sapesse a ciascuna  derivar notevole forza di vita e non scarsa energia  personale.   Di questo periodo di creazione mitica e di  moltiplicazione, le quattro saghe del nostro studio  additano gli ultimi, e non miserevoli, bagliori  tra il VI e V secolo avanti l'èra. In tale età di-  fatti, che l'occhio della storia può riguardar  sicuro traverso poche nebbie^ la letteratura mi-  tica si accresce della fiaba duplice di Cirene e  della siracusana di Demetra. Entrambe sono cosi  vigorose e determinate che non possono in verun  modo confondersi con le lor sorelle. E tuttavia né  Tuna né l'altra sono originali. Non originali anzi  tutto, perché non escono, — se bene adorne poi,  dall'arte, di stupenda efficacia poetica : Pindaro  Ovidio Vergilio le ritrovano in sottili ragne do-  rate su la loro cetra, — non escono da un bisogno  lirico incomprimibile: ma sono posteriori a un  fine pratico, in grazia del quale soltanto sussi-  stono, ma a malgrado del quale splendono di  magnificenza. Per ciò non creano, ma compon-  gono elementi noti, sfruttando intrecci ante-  riori. La saga degli Argonauti era ; conteneva il  lor soggiorno in Libia. I Cirenei se ne valsero,  e dissero di Eufemo e della zolla e d'Euripilo e  dei coloni giunti da Tera sul luogo del dono.  Cosi il ratto di Cora in Enna, la sua catagoge  presso la palude Ciane, non sono se non le sosti-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 287   tuzioni d'un patriottismo locale ai termini ed alle  forme d'un antichissimo racconto greco. Singo-  lari apparizioni mitiche queste, adunque : nelle  quali si unisce un cotale spirito di riflessione,  un quasi gretto senso di praticità, con una indu-  bitabile freschezza creativa, un abbandono lan-  guido di sogno. Questo permise il loro travesti-  mento poetico, e cosi grande permise che i  razionalisti antichi non s'accorsero punto dello  scopo politico e materiale onde le belle fiabe  che gì' irritavano erano mosse; né se ne accor-  sero, prima che sorgesse il metodo critico mo-  derno, gli studiosi nuovi, i quali non esitarono  in vece ad avvertirsene in più disadorni e meno  ricchi racconti. Tuttavia, in quel senso di rifles-  sione pratica è il non dubbio indizio che il pe-  riodo in cui si moltiplicano i miti è per finire.  Esso si estenua, per vero, in bolse invenzioncelle,  in genealogie stremate, in giuochi etimologici  trasj)arentissimi ; singhiozza gli ultimi guizzi  in favolette che pochi eruditi ripetono; riven-  dica (1) il passaggio di Perseo per Micene ove  egli avrebbe perduto il puntale della spada  (ó /ivxt]g) ; attribuisce a Trittolemo discendenza  argiva (2) ; spiega il nome dei Pinarii pel dover  essi astenersi dal banchetto sacrificale {neivciù),  ho fame) (3). Poi muore.   Entro i limiti di tempo cosi largamente se-  gnati, profondo e vasto è il rivolgimento.     (1) Pausania II 16, 3.   (2) Padsania I 14, 2.   (3) Servio Comm. a Verg. Eneide Vili 269.     288 VI. - KALYPSO   In apparenza, tutti coloro che trattarono let-  terariamente le fiabe della nostra ricerca, le  considerarono, non il fine, ma un mezzo o, tal  volta, un artificio pel loro tema. Fine era, di  caso in caso, la celebrazione di una vittoria gin-  nastica, l'ammaestramento georgico, la meta-  morfosi d'una ninfa o d'un uccello, la ricorrenza  d'una festa, il vanto della preistoria romana :  mezzo, sempre, il mito. Persino nel dramma di  Euripide lo scopo vero è altro da quel che la  leggenda, in se, richiederebbe: è scopo comx)a-  tibile con essa, ma ad essa imposto mutandole  il suo contenuto. L'interesse per la saga non è  quello primigenio della intuizion naturalistica  onde nacque: è, nei varii letterati, vario. —  Quest'apparenza è troppo costante, e troppo si  conferma con tutti i testi del nostro studio, per  non dover essere tenuta in somma considera-  zione. Ma ecco che la realtà la contrasta dura-  mente. In tutti i carmi letti , in tutte le prose,  il mito entra non di straforo, si per le spalan-  cate porte: signore, certo del dominio che nel-  l'interno lo attende. Della Pitia IX come della IV  è il perno ; la colonna vertebrale della tragedia ;  la sostanza dell'elegia properziana. Nel libro  d'un poema vasto come l'Eneide è rispettato  anche in certi j)articolari minuti : ospite sacro  che Giove protegge. Dove penetra, penetra tutto.  Non importa che Callimaco sia molto breve nel  cenno alla saga di Cirene : i pochi tòcchi bastano  perché gli elementi essenziali delle due leggende  contaminate appajano totalmente. Fin in Livio.  Fin in Dionisio. — Si contraddicono, dunque, le  cause e i modi onde la letteratura accoglie il     l'evoluzione della mitopeja letteraria 289   mito: controversia intima a Kalypso. Contro-  versia, da cui derivano e gli acquisti letterarii  della saga e le sue letterarie deformazioni; clié,  violata da interessi nuovi, cui già era estranea,  per quanto con tutta la preponderanza della sua  congenita foga imponga le sue forme, è co-  stretta ad accettare, dalla sede che l'ospita,  le luci.   Su la soglia, le si fanno incontro, e prime la  intaccano, la novella e l'etiologia. Ne la novella  il popolo par condensare, con la propria espe-  rienza, la x^ropria filosofìa della vita, perché vi  fìssa gli esempii tipici delle consuete vicende  (per lo più, familiari) e i modelli caratteristici  delle fìgure che muove la sorte comune. Per  essa, traverso la fantasia delle masse, come at-  traverso un vaglio singolare, il complesso (ad  esempio) dei pastori o de' pescatori, e l'insieme  delle vii'tù e dei vizii che in genere presso  quelli si riscontrano, affìnansi in una selezione  di cui è vano cercar le leggi, per comporsi nella  sintesi di un personaggio tradizionale con tra-  dizionali pregi e difetti: il pastore, — dico, —  o il pescatore soccorrevole e onesto che come  suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il  figlio non suo. La novella è dunque, per propria  natura, pregna della medesima umanità che, nel  mito, conforma a sé il fenomeno esteriore ; le  creature difatti dell'una e dell'altro si somigliano  a volte come nate da unico ceppo. E si accor-  dano quindi, sovente e bene, in un medesimo  testo : — tale il ferecideo su Perseo. Un'acqua  affluisce cosi nella saga che del pari riflette, da  le rive imminenti, i cotidiani spettacoli; non,   A. Feekabiso, Kalypso. 19     290 VI, - KALTPSO     però, riverbera simileraente la vampa solare, né  vi si specchia azzurro di cieli e svettar di fronde  durante la divina estate: si che il volume flu-  viale acquista potenza di voce che s'ode da  lungi, vigore di empito che infrange le sponde ;  ma divino di stelle e di selve men vi trova echi  e consensi. E pertanto nella mischianza fra mito  e novella il principio dell'abbassarsi quello verso  pianure terrene e dell'adattarsi a stature umane :  in cui si attenua, senza per altro smarrirsi del  tutto, l'esorbitare originario fuor dai limiti che  più sono nostri. E poiché, d'altra parte, un vago  velame d' irrealtà favolosa soffonde pur la no-  vella, di spiriti non consueti anzi straordinarii ;  accade che essa ajuti a tenere la saga in un'aura  mediana fra il dio e l'uomo; la quale è dell'eroe.  E a questo si deve a punto se di eroi sono  i miti. Quando i lor personaggi non sono  stati dal culto salvi e resi intangibili su l'ara  dell'alta e intiera divinità, allora il nume pro-  tagonista della saga, e il " vecchio vecchio vec-  chio „ che i novellatori esagerando desumono  dalla vita loro visibile, si allivellano sopra il  piano istesso ; fin che anche il piccolo rito locale,  se mai fosse già iniziato da qualcuno, finisce,  non trovando altrove favori, con l'estinguersi o  diventare eroico. Vicino a Larisa di Tessaglia,  era il Sacrario di Acrisio, prisco iddio ; ma, per  ciò che oramai a lui stavano accanto Ditti pe-  scatore e le vecchiarde Graje, il tempio chia-  mavasi, né si ricordava nome diverso, tempio  di eroe [fjQc^ov). La novella trae cosi a sua so-  cietà il mito ; ed entrambi corteggiano il popolo  illudendolo nella speciosa finzione di maraviglie     l'evoluzione della mitopeja lbttbbaria 291   elle sono sol tanto le trite consuetudini di lui,  ma mosse dal soffio d'un più, dall'anelito d'un  meglio : gocciole di piova che rifrangono il Sole.  Nella cortegiania è terza l'invenzione etiolo-  gica, intenta a cercare la causa del fatto umano.  Affine sùbito, con ciò, essa pure alla saga, in  cui è, prima o dopo, inerente il conato verso la  causa del fatto naturale. Caco spiega il fuoco  distruttore; la presenza dei Potizii pronta e il  ritardo dei Pinarii spiega un costume del rito  erculeo nel Foro Boario. Che se i tentativi scien-  tifici appajono per tal guisa paralleli nei due  fenomeni, anche la semplicità dei procedimenti  gli adegua l'un l'altro. Entrambi ripetono per  causa del fatto il fatto medesimo, correggendo  solo uno, o pochi, tra i particolari che lo accom-  pagnano. La fiamma muta contorni divenendo  Caco e serba immutata la sua potenza deleteria.  E l'attinenza fra Potizii e Pinarii si trasporta,  identica, in tempi anteriori di assai, erculei. La  giunta sta nell'episodio umano e abituale : il  costume ladresco di Caco; l'indugio pigro dei  Pinarii. Quindi l'etiologia insinuandosi nella leg-  genda integra per un lato quel suo volto che  par compaginarsi di nostri nervi muscoli sangue;  secónda per l'altro quella sua tendenza che si  origina dalla gloriosa nostra curiosità di tutto. —  Questo tributo però non è solo copia. Rappre-  senta anche una riserva di potenze e di sviluppi,  che si determineranno in varia misura a seconda  dei contatti posteriori, dei luoghi, dei tempi. Un  poeta, un romanzatore, uno storico, e i diversi  individui entro queste diverse categorie, ne trar-  ranno spunto alla lor compiacenza differente. E     292 VI. - KALYP80   questi svolgerà l'etiologia in scena compiuta che  si disponga a fronte del più vero e antico nucleo  mitico. Quegli ne prenderà solo occasione per  ripeter la fiaba, comprimendo pel resto l'etio-  logia in ombra a mala pena schiarita. Properzio,  il primo; l'altro, Ovidio: li scorgemmo in atto  di elaborare diversamente cosi il mito di Caco. —  L'effetto quindi dell'innesto etiologico si misura  insieme con il deformarsi della saga sotto l'in-  flusso dei molteplici interessi cui la fa sottostare  il cuore infaticabile e travaglioso ch'è nostro   Cosi il patriottismo adultera il mito; e per  vero duplicemente. Prima, in forma subdola lo  ritocca o accresce. Poi, gli dà un contenuto sto-  rico che gli era estraneo affatto. Caco è un ladro  mostruoso di tempi antichi ; Euripilo un re di età  lontane : il lor valore d'iddio del fuoco o della  porta infernale è perduto, perché una storia fal-  lace lo usurpa. Ciò mette un mito di sostrato  naturalistico al medesimo livello di uno a sostrato  storico; o fa prevalere questo su quello, ove si  trovino misti. Immutato resta soltanto, insieme  con il complesso dei particolari cristallizzati, il  rapporto tra i protagonisti, però che il favore  patrio si trasporti tutto per l'appunto su l'eroe  che qual Dio aveva, nel primo significato, com-  battuto le tenebre ; e l'odio nazionale si accumuli  su la figura che era stata, nel primo significato,  ostile alla luce. Cosi nell'Eneide. Non muta la leg-  genda, ma solo il suo presupposto. Anzi, sotto  questo aspetto, poche luci di poesia sono tanto  favorevoli al serbarsi integro della saga. La psi-  cologica o la sensuale posson compiacersi del     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 293   mostro come dell'eroe, a causa della plasticità e  della intelligenza clie li accomunano. La patriot-  tica no: deve preferire, deve parteggiare: rida  al mito un sentimento, lo riscalda con un calore  affettivo che, dopo la sua origine, gli eran dive-  nuti ignoti. Né anche il senso religioso è cosi  efficace : Pindaro coglie, nell'amore di Apollo e  Cirene, assai meno di Callimaco quello che n'è  il nucleo effettivo : la simpatia dei coloni per  il Dio e la Cacciatrice ne' quali si rispecchiano,  e la protezione perenne assicurata dalla coppia  divina ai Cirenei. Ond'è che nessun colpo dello  scalpello pindarico è giunto a scolpire la statua  che il patriottismo di Callimaco crea indelebil-  mente : la statua del giovine Iddio che accenna,  sul Colle dei mirti, alla bella sposa le danze,  onde si compiace, dei Doriensi fra le fanciulle  libiche. Il mito palpita invero nel gruppo con  la vita della sua stessa radice. E quando un  brivido di fervorosa simpatia scosse gli spetta-  tori ateniesi nell'atto di scorgere sul capo di  Perseo una sorte agitarsi non dissimile dalla  sorte che in allora il Fato volgeva su la città  marmorea, l'uomo si accrebbe ad eroe, l'eroe a Dio,  — Dio, qual era da prima, splendido al pari del  Sole. Se m.ai per lui si creò di nuovo un anelito  di innamorata estasi simigliante a quello che fu  verso l'Astro la Luce il Calore, e onde il suo  mito s'era originato in una mente ingenua e  profonda; — se mai si creò, fu l'anno 412 sopra  una scena greca, auspice l'amor della Polis.  Diverso anche allora, eppur analogo d'empito e  di vivezza.  Il senso religioso è, — già si vide più volte,     294 VI. - KALYPSO     — intrinseco al mito, che anzi se ne informa.  Esiste fra i due concordia come di gemelli. La  quale si svela però non molto jjrofonda. Le si  oppone anzi tutto l'essere il sacro uno bensì, ma  uno solo, fra i caratteri della saga ; ch'è ben piti  ricca di contenuto e complessa di aspetti: ond'è  elle il carme inspirato alla fede tende inevita-  bilmente a sviluppare un membro della leggenda  a scapito degli altri, tende a farne vibrare una  corda sola. E la contemplazione del mito da un  punto vicinissimo, ma cosi accosto da non per-  mettere più che una visione unilaterale. Tal  incompiutezza è grave; ma v'ha di peggio. Il  mito, dopo che è creato, resta e si cristallizza ;  non è privo di vita, tutt'altro, sotto quella sua  crosta, ma serba un'apparenza di rigidezza e di  immutabilità. Somiglia la formula d'un culto,  che i sacerdoti dicano, negli anni, un dopo  l'altro. Il pensiero e il sentimento religioso in  vece sono di lor natura non statici, ma energici  d'un moto assiduo e incalzante; sono la vita  stessa in una delle sue sublimazioni migliori.  Presto, raggiungono, — se non presso tutti,  presso talune menti alte al meno, presso l'inspi-  rato poeta della fede quasi sempre, — uno stadio  superiore, e forse di gran lunga, a quello onde  il mito si generò. E allora v'è contrasto. V'è  bisogno di eliminar una figura, di scemar la  crudeltà feroce d'un dio, di togliere il carattere  umano al cordoglio d'una dea : si deve informar  il vecchio mito al nuovo pensiero. Per ciò ap-  presso Pindaro Chirone esita e sorride e si at-  teggia a loico furbo, prima di dir la sua pro-  fezia ad Apollo. Altre volte in vece il particolare     l'evoluzione della mitopeja letteraria 295   leggendario rimane, non alterato ; ma il pensiero  critico lo discute e ne dubita: che è in appa-  renza guasto minore, maggiore in realtà. Per  quel modo, difatti, lo spirito cessa di riviver la  leggenda immergendovisi : la projetta lungi e  fuori di sé, se la contrappone: per qualche  istante, e sotto certe forme, le diviene estraneo.  Simile, Euripide dinanzi l'oracolo Ammoneo che  ha indotto Andromeda preda succulenta al ketos.  Tuttavia né prevale il dubbio filosofico né la fede  alla saga: il tradizionalismo mitico e il moder-  nismo religioso scendono a un compromesso: e  possono, fin che sono entrambi avvolti da una  atmosfera unica di j)aganità. Quando vènti nuovi  avran dissipato quell'atmosfera, i Padri della  Chiesa si rideranno dei miti: e vi rinverranno  l'indizio d'una religione povera e bambina.   Come la religione, cosi erano inclusi, fin dalle  origini, nel mito l'elemento sensuale e il psico-  logico. Poi che i fenomeni della natui-a si ve-  stivano di fogge umane, e il tuono e il Sole e il  mare acquistavano volti membra ed atti nostri,  essi divenivan senz'altro passibili di figurazione  sotto l'aspetto dei sensi e d'interpretazione nel  campo della psiche. Analizzare e graduare i sen-  timenti di un Perseo non è se non completar  l'opera di chi lui, uomo, ha veduto nell'Astro.  Perseguir con compiacenza, nelle particolari  movenze di grazia femminea, Cora mentre rac-  coglie i fiori, o descrivere con tocchi accorti le  brune e bionde bellezze delle Ninfe adunate in-  torno a Cirene nelle case cristalline di Penco,  non è che un rinvigorir di sangue, spremuto  dalla profonda voluttà umana, le creature cui     296 VI. - KALYPSO   ha dato un sesso il mito. Se non che, anche per  questa via la fiaba si trasforma: essa diviene  un modo di dire, una frase efficace per signi-  ficar un pensiero o una intuizione, una forma  vuota, per sé, di contenuto che si riempie, ade-  guatamente, a volta a volta. Perseo, — è l'esempio  già scelto, — può vestire di sé e delle proprie  avventure esteriori un ideal personaggio di Eu-  ripide, e potrebbe vestirne più altri, abito di  molti individui. Cora, — è l'esempio già usato,  — si muove con la leggiadria un po' stereotipa  della giovinetta innocente e pudica, che solo fiori  ama e fresche cascatelle e aromi salienti dalla  eulta terra: è scema di sé medesima, un'altra è  penetrata in lei, e l'anima d'una vita che è fit-  tizia, perché non è la prima, antica e vera. Per  ciò Vergilio sceglie, a caso o con arte, le com-  pagne di Cirene da un repertorio di nomi ; — e  non più che nomi, ciascuno dei quali si riduce a  un colore, non svela una persona. Demetra che  piange, e di cui si regola il pianto con magistero  di psicologia poetica, è una madre. Ma ell'era  anche una Dea. E da siffatte menomazioni nasce  il bisogno di sminuire, se non proprio soppri-  mere, Fineo nell'episodio di Andromeda, di creare  fra Andromeda e Perseo una scena novissima,  di plasmar un altro gesto a Cirene: nasce per-  sino la spiacevole inopportunità dell'intervento  di un Nume, in sul finire del dramma, per scio-  gliere, con atto oltreumano, una situazione di-  venuta umana.   Accanto a questa, che la psicologia e il sen-  sualismo gittano sul mito, è singolare la luce  che vi gitta la natura. Su nessuno sfondo, in     l'evoluzione della MITOPEJA LETTERARIA 297   alcun ambiente, gl'iddii e gli eroi, che la natura  personificano e di cui con la loro vicenda ren-  dono il fenomeno, dovrebber trovarsi più agevol-  mente. In pochi in vece si altera e deforma forse  tanto la saga. La Dea delle biade non domina  su la vegetazione lussureggiante, non vi regna,  qual'è, regina: vi s'incornicia, iDersonaggio del  quadro. Vive la sua vita di donna, non sopra,  ma in mezzo alle messi che significa e possiede:  parte d"un tutto che pur dovrebb'essere rajDpre-  sentato in lei. Aristeo, cui perirono l'api e che  si duole nella valle di Tempe, maravigliosa  di rigoglio verzicante, tiene su i pastorelli un  privilegio di nobiltà, che gli vien solo dagli anni  antichissimi in cui gli accadde di vivere; ma è  per altro uno di loro. L'erba gli cede sotto il  passo similemente. La cintura dei monti lo com-  prime. Di qui lo stupore ond'è còlto nell'attra-  versare i regni del nonno, le sedi di cristallo,  gli antri muscosi, cune di fiumi, roridi recessi  ignorati agli uomini. In lui, e nella sua madre  ninfa, non è difatti adunato lo splendore sacro  della natura acquatile e pastorale che af figu-  rano, ma una cosi fatta magnificenza è concre-  tata al di fuori di essi; li allieta in perpetuo  con perpetui doni ; li circonda non li costituisce.  La bellezza e il primato sono altrove che nelle  persone di entrambi : — nella Natura, effettiva  protagonista, cui convergono lo slancio del poeta  innamorato e la sua lode contesta di ritmi. Si  direbbe che il mito ritoma alla sua sorgente; ed  è vero : ma colà la Natura riprende il posto che  i suoi impersonati rappresentanti le avevano oc-  cupato. E una restaurazione.     298 VI. - KALYPSO   Dalla sorgente, in vece, è lontanissima l'eru-  dita sapienza di Properzio. La leggenda diviene,  nelle mani di lui, uno strumento polito da usarsi  con un'arte accorta e a pochi nota: unico esempio,  nel nostro studio, di quanto essa possa, senza  scemo di pregio letterario, stremarsi della sua  vita prima. Nata sopra un pascuo giogo di monte  si ritrova in una sala dal lacunare eburneo. La  qual cosa non toglie che ivi appunto il rispetto  al mito sia cànone più severo : per crescere al  magistero verbale pregio di finezza e di virtuosa  agilità. In vano; che altra vi è l'aria; e son  tramutati i tempi.   Più in là, si ritrova, fra più ampio volume  di carte, in una più chiusa austerità di ambienti,  la Storia.   Qui l'atteggiamento è senza dubbio uniforme.  Erodoto, sotto questo aspetto, non differisce  troppo da Livio, Livio da Diodoro. La lor critica  e il loro metodo sono diversamente insufficienti.  Ma un intuito comune li induce a sopprimere,  nel mito, talune scene e a servirsi a tempo di  certi silenzii, pel fine di non arrecare una sto-  natura sensibilissima nell'insieme dell'edifizio  che erigono. Serse Temistocle Milziade riducono  alle loro dimensioni un Tera; gli Ateniesi, i  Minii ; i Gracchi, Caco. Quando le leggende non  hanno ancora una storia per sé, si adattano in  quel letto di Procuste ch'è la storia civile, la qual  le raccorcia, esuberanti come son sempre.   Sopravvivono esse: attestando la loro incoer-  cibile vitalità. Uomini culti, che posseggono  la lingua, conoscono il passato, partecipan co-     l'evoluzione della mitopeja letteraria 299   scienti al presente del loro paese, pur avveden-  dosi del carattere favoloso di taluni racconti,  pur sentendosene costretti a scemarlo, ritengono  impossibile dar a quelli l'ostracismo totale con  l'espungerli da gli scritti che compongono. Livio  giunge persino a dichiarare in anticipo che non  vuol esser chiamato responsabile di quanto narra  per gli antichissimi tempi; — ma narra tuttavia.  Dionisio sa, o crede sapere (il che è lo stesso),  il vero che si cela sotto il velame; — ma ripro-  duce tuttavia il velame. Del fenomeno una spie-  gazione sola è possibile: il pubblico esige la  parola degli storici su i miti. Ne va dell'orgoglio  patrio, ne va della consuetudine. L'orgoglio : che  non ammette si ignorino le origini prime della  propria stirpe, le vicende antiche della propria  città, i nomi dei prischi abitatori, le gesta, i culti;  che si sente sodisfatto, — assai piti che dal  contenuto stesso della fiaba, — dalla sua forma  di bellezza e di fantasia, dai suoi colori vaghi  meglio della realtà; che ritiene di non poter  conoscere la vita dei padri se non traverso la  tradizione eredata da essi. E la consuetudine:  ch'è la forza grande delle masse; e resiste, sotto  la specie del misoneismo, alla ricerca innovatrice  del dotto; e ricalcitra, sotto la specie dell'orto-  dossia, ai risultati dell'indagine, illuminata da un  nuovo pensiero religioso o filosofico. Tucidide do-  veva saper di spiacere quando negava un nesso  fra Tereo, del mito di Filomela, e Tere degli  Odrisi signore di Tracia (1) ; ma era da lui l'af-     (1) Tucidide II 29, 3.     300 VI. - KALTPSO   frontar i supercilii dei ben pensanti. Solo di  fatti la vigoria d'una tale niente può bilanciare  la resistenza che, per tradizione patriottica, è  insita nella leggenda.   Che se parallelo a tal risultato appare l'effetto  dell'amor nazionale sul mito, i due fenomeni  però sono distinti. Il poeta, che canta la saga  patria, o nella saga introduce opportuni accenni  alle patrie vicende, serra un legame, tratto dal  cuore anelante, fra la sua visione di bellezza e  il cerchio della realtà che l'urge d'ogni lato :  sospira il presente nell'antico, e sotto le luci  dell'antico vede il presente: scorge l'Urbe mae-  stosa degl'Imperatori dietro il velo tenue del  re savio regnante Evandro: imagina la spada  del guerriero cadere, simile alla clava d'Ercole,  contro il male e l'onta e il mostruoso. Allo sto-  rico in vece accade appunto l'opposto: per lui,  il mito emana su su dalla storia, come una causa  su dagli effetti, una premessa su dalle conse-  guenze: j)er lui il mito è una preistoria, una  motivazione. Il nesso genetico di causa ed ef-  fetto, ch'è insito nella storia ancor quando si  manifesta sol grossolanamente in un nesso di  precedenza e susseguenza cronologica, orienta  nel suo indirizzo anche la concezione della saga,  e l'informa di sé. Onde l'analogia, che il poeta  vede tra il contemporaneo e l'antichissimo, è  per lo storico in vece un dipendere causalmente  del contemporaneo dall'antichissimo: sicché la  lotta fra Ercole e Caco serve solca spiegare un  rito di carattere greco, e la leggenda dei Minii  e di Tera e di Batto è una necessaria e suffi-  ciente premessa alla storia cirenaica. Per questo     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 301   valgono : perché giustificano. E il loro valore di  motivi è cosi grande, che si accettano come  ipotesi sostenibili, anche quando è infirmata la  fede su la veridicità del lor contenuto.   Si fatta deformazione del mito, per cui il ca-  rattere etiologico di taluni suoi particolari e,  qualche volta, d'intieri suoi paragrafi intacca il  nucleo stesso, e lo tramuta in causa storica,  segna l'estremo della lontananza evolutiva dalle  origini. La saga aveva avuto negli inizii impor-  tanza per sé : stava oltre gli scopi pratici, riflessi  in parte nel culto, e i bisogni scientifici; supe-  ravali entrambi. Divenuta, nella poesia, quasi  un mezzo d'arte si alterò, serbando tutta volta  officio consono alla sua natura; tanto che, pur  connettendosi con etiologie cultuali, mantenne  su di esse il suo primato di bellezza e di forza,  presso poeti quali Vergilio ed Ovidio. Quando  alla fine si trasforma nella pura e semplice  causa di fatti, allora si astrae dai suoi termini,  cessa dalla sua indipendenza, acquista un che  di cerebrale fra le idee, perde molto d'imaginoso  tra le fantasie.     IV. — Il flusso e riflusso delle saghe.   In seno al possente spirito mitopeico lette-  rario, della cui evoluzione segnammo, con l'ajuto  della nostra recente esperienza, talune tappe ed  erigemmo le precipue pietre miliari, s'opera un  continuo nascere maturarsi ed estinguersi di  saghe : paragonabile all'immane vicenda di morte  e di vita cui sottostanno gl'individui umani nel     302 VI. - KALYPSO     grembo deirUmanità , che s'è originata e deve  a sua volta perire. Tale assiduo flusso e riflusso  è libero ; non perché non lo determinino sempre  forze pullulanti e incroci anti si, del cui intreccio è  schiavo e le cui maglie seconda, composte in arduo  disegno ; ma perché nessun nodo della contessi-  tm'a è prevedibile, prima del suo stringersi, o  analizzabile compiutamente, dopo. Non tutto vi  è del pari degno d'istoria; v'accade regresso  in rapporto al livello mediano della mitopeja, e  anche progresso: entrambi in diverso modo no-  tevoli. Esiste tuttavia una fondamentale sorte,  ch'è comune a quella ricchezza divèrsa.   Il mito, — ciò è, — ha due vite ; o forse vita  duplice. Una è la sua più propria: e consiste  nella capacità di evolversi, di assumer forme  nuove luci nuove sensi nuo^à, di concretarsi in  individui diversi: spirito di molte sostanze. L'altra  è la vita di ciascuna sua forma di ciascun in-  dividuo: della Pitia IV, del canto Vili nel-  l'Eneide, della lirica properziana, del racconto  di Livio. Uno stadio dell'evoluzione non elimina  i precedenti, né li comprende solo in potenza,  ma li lascia sussistere in tutta la loro realtà  concreta ; si allinea con essi. Ciascuna di queste  due vite pare uniformarsi a leggi diverse.   La vita seconda, delle singole individuazioni  mitiche, è retta da una forza d'arte. Dalla quale  s'informa la "lotta per l'esistenza,, dei varii com-  ponimenti e il sopravviver loro. Onde il carme  d'un poeta non affiora alla superficie che per la  strage di numerosi fratelli suoi minori, cui fu  più povero lo spirito vitale. Non pure ; ma anche  tra i superstiti l'arte conferisce più a l'uno che     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 303   all'altro il primato, con decreto che non si di-  scute e che finisce col condur, tal volta, a pre-  valere una redazione e col tramutarla in volgata.  Fece cosi Pindaro per Cirene, Vergilio per Caco,  Ylnno a Deinetra pel ratto di Cora. All'in fuori  d'ogni vero rapporto cronologico, oltre ogni  effettiva consistenza di strati e importanza di  varianti, le narrazioni di pregio artistico infe-  riore si aggruppano intorno a quella cui più  riser le Muse, come forme incompiute d'uno  stesso pensiero. Vive tuttavia ciascuna ancóra :  di bellezza. E da tutte in selva risplende il  mito. Tra questa folla non è morte, fin che sieno  occhi a risguardare ; da questa sgorga anzi pe-  renne la vita, perché ogni forma è capace d'im-  pulsi, e nella diversità degli spiriti sono impon-  derabili gli effetti suoi. I\n. è serbato il seme  dei sopravviventi miti; e la virtù della razza,  che diede la passione onde nacquero ; e la virtù  del suolo del cielo dell'aria dell'acqua del fuoco,  che diede la materia onde si fusero. Di li ritor-  nano al nostro pensiero, affacciandosi in vetta  all'anime come iddìi giovinetti e belli: fantasmi  radiosi ai nexDoti nella veglia nottui-na.   La prima vita in vece non è né cosi varia  né altr'e tanto sgombra da morte. Si sviluppa  secondo una linea chiara. Durante lo svolgersi  della quale però, — ed è sua prima peculiarità,  — permangono al mito, quasi irrimediabili stim-  mate, i segni che furono del suo nascimento :  resistenti oltre ogni deformarsi. La saga di Ci-  rene, che sorse imperniandosi su la Libia e la  Tessagha, ha da queste due regioni diverse e lon-  tane la sua sorte ; e par che fino la più profonda     304 VI. - KALYPSO   violenza recata al suo schema confermi quel  carattere regionale. Similmente, per essersi for-  mato sopra un compromesso e in una contami-  nazione, il racconto siracusano di Cora rapita  si mischia, negli anni, in una sempre più larga  massa di favole. E allo sviluppo di Caco deriva  modo storico e religioso, quando prima s'insedia,  col suo nome, la sua memoria nei pressi del  Palatino. Anzi, il vero inizio di un mito, qual  forma spirituale a sé profilata, si rivela appunto  dall'apparire di quell'impronta che dovrà farlo  per sempre caratteristico. Onde la trama di An-  dromeda non è da vero compiuta, non pure nei  particolari esteriori, ma e nell'essenza più pro-  pria, se non allorché gli spunti novellistici si  immettono nel contesto naturalistico, — a prepa-  rare per l'avvenire la triplice serie di innova-  zioni, psicologiche romanzesche e religiose.   Quasi entro gli argini cosi definiti si muove  la corrente del tempo. E di mano in mano che  la storia della paganità procede, che il pensiero  pagano si trasforma, anche la saga è amata  sotto aspetti differenti. Nel V sec. a. C. De-  metra e Cora son narrate con intenti di gran  lunga dissimili da quelli che, dopo Cristo, inspi-  rano Claudiano e l'età sua. Ogni generazione  distende sul mito una propria vernice : che è un  particolar modo di vederlo. A noi poco è j)er-  venuto di questo stratificarsi perché non ogni  strato ha lasciato la sua traccia letteraria (e  artistica). Ma possiamo imaginarlo riandando,  in sintesi rapida, il processo spirituale del mondo  antico : a ogni tappa corrisponderebbe, se la ri-  costruzione fosse riuscibile nei particolari, una     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 305   foggia mitica, — e sia pure a pena diversamente  .sfumata dell'anteriore, o a pena diversamente  disposta della posteriore. Tra l'una e l'altra di  esse, nesso causativo, porremmo la sintesi crea-  tiva per cui l'intelletto comune, innovandosi, si  è superato.   Il caso opera poi su talune vicende della saga.  Che ad Euripide sia caduto in mente di trattar  l'Andromeda nel 412 o che nel 412 sol tanto  il suo proposito si potesse tradurre in atto ; che  non esistesse un grande poeta quando il mito  di Demetra in Enna fu compiuto: è effetto di  caso, perché a volta a volta risulta dall'interf erire  di due linee causali la cui interferenza non con-  segue da nessuna delle due premesse. Dal caso  pertanto deriva, che non tutti gli strati della  evoluzione mitica hanno " lasciata traccia let-  teraria (e artistica) „; e che qualche strato ci ha  tramandate tracce più profonde e più varie. Del  mito di Cirene un secolo, il quinto, ci mostra  due trame sostanzialmente diverse, la pindarica  e la erodotea; il quarto non ce ne concede al-  cuna. Del mito di Caco l'età di Augusto ci tra-  manda ben cinque quadri con varianti colori e  linee; l'età di Giovenale nessuno. Vergilio ir-  radia del suo patriottismo il racconto, Properzio  della sua raffinatezza, Ovidio della sua sonora  compiacenza verbale, Livio della sua ingenua  critica, Dionisio del suo impotente razionalismo;  ma queste luci tutte scaturiscono dall'opere  complessive nelle quali esso viene inserito e  dagl'ingegni degli autori: onde nulla vietava  che altre ne potesse assumere e che ancor taluna  di queste potesse non aver assunta.   A. Feeeabiko, Kalypso. 20     306 VI. - KALTPSO     Attinenze fra l'evoluzione spirituale comples-  siva stratificantesi sul mito, e le forme casuali  della leggenda, esistono visibilmente. Il modo  con cui i posteri di Ferecide di Vergilio di  Ovidio di Callimaco amarono e ripeterono le  saghe di Perseo di Caco di Cora di Cirene  deriva, come dalla trasformazione compiutasi  nel xDensiero collettivo, cosi anche dalle pecu-  liarità dell'arte con cui quei letterati, dopo che  il caso gl'indusse a eleggere la fiaba all'opera  loro, la impressero di sé medesimi. Ora, tra  quella che dicemmo trasformazione del pensiero  collettivo, e questa che potrem definire energia  plasmatrice di artisti, esistono riferimenti quali  d'una parte al tutto: gli effetti, in vero, chela  letteratura d'una generazione compie su la ge-  nerazione successiva, non sono se non alcuni  degli effetti che tutta la mentalità della prima  compie su lo spirito della seconda. Vale a dire :  il fenomeno mitico-letterario avvenuto per l'in-  terferenza casuale di due linee causali riprende,  fondendo quelle in sé, l'efficacia determinativa.   Indi si spiegan anche, facilmente, le morti  dei singoli miti : quelle pause del loro evolversi  per cui si sospende il ritmo vitale onde parevano  spinti alla trasformazione né si riprende che  tardi, quando oramai è chiusa a sua volta la  mitopeja pagana. — Non è dubbio difatti che una  saga qua! siasi continua, più fioco più intenso,  il suo respiro fin che il genio mitopeico è una  operosa realtà. Ma per l'appunto quel che di-  ciam caso fa si che le manifestazioni letterarie  di ciascun mito si arrestino a un certo punto,  oltre il quale bruiva forse ancora il susurro, non     IL FLUSSO E RIFLUSSO DELLE SAGHE 307   più sonò il canto. Prova tipica, che non ve  n'ha forse più palmare, è la storia del mito di  Caco : languido già in quel torno di tempo che  segna il suo fine, si circonda poi di silenzio se  bene seguano ad Augusto epoche di culto intel-  lettuale di esumazione erudita di compiacenza  artistica in cui l'abigeato violento e fumoso  avi'ebbe potuto, — possibilità vana, — trovar  non manchevoli espressioni. Persino i germi  dissolutori insiti nel testo di Vergilio e, più, di  Ovidio e, peggio, di Dionisio, tolleravano svi-  luppo maggiore, cui certo l'agio non sarebbe  mancato, di cui in vece manca fin l'eco. — Op-  posto ammaestramento porge la fiaba di Cora e  la sua sorte. Un poeta di età protratte, mentre  sotto il cielo d'Omero si levavano vie più fre-  quenti i crociati segni di Cristo, tenta di pos-  sedere, anche una volta, la saga. Fallisce ; ma  il crollo dell'edificio male eretto non travolge  pure la perizia artistica di un uomo, pare in  vece che si ripercuota funereo fra peristilii e  celle dei templi cui men frequente stuolo di  fedeli e men pio animo di sacerdoti rende l'o-  maggio: già che, allora, la mitopeja pagana  sentiva da l'èdèma tronco a' suoi inni il respiro.  Non il caso terminando, quindi, in questo se-  condo esempio, la vita favolosa; ma, rigida causa,  l'orientamento diverso, vòlto a meta ch'è lunge,  del pensiero collettivo e delle passioni. — In  un rosajo si sfanno di molte corolle senza che  scemi il vigore delle radici e l'ascesa della linfa  pei rami: culmina l'estate. Ma come giunga il  settembre, con cieli più chiari e men caldi, gli  ultimi calici si reclinano su foglie vizze su cor-     308 VI. - KALYPSO     tecce aride su stecchi rigidi, e odore di dis-  solvimento è nell'aria : il cespo si addorme nel-  l'imminenti brume.     V. — La fine.   Kalypso lia pure, difatti, la sua morte ; che  non è scomparsa, ma fine di produzione. Ces-  sando d'immortalare afferma la sua mortalità.   L'agonia comincia con un periodo di rior-  dinamento, in cui i miti non si moltiplicano  ma si assommano, e che è già iniziato quando  l'altro, creativo, ancor dura. Lo motivano, del  resto, le stesse qualità psichiche proprie dei  Greci : di ordine di armonia di chiarezza. Qua-  lità che furono per fortuna, nel principio, assi-  stite da una levità di tocco e da un rispetto per  quanto è bello, i quali impedirono che le si tra-  mutassero tosto in ruvida villania distruggitrice  di fiabe. L'esempio più notevole ci fu offerto,  in queste pagine, da chi raccolse in unico con-  testo tutto che si riferiva a Perseo: la novella  della sua nascita, cui è congiunto il fatale as-  sassinio del nonno, la lotta contro la tenebrosa  G-orgone, il duello con la belva del mar etio-  pico. E un'attività solerte e diligente, cui poco  sfugge, e che ogni occasione cerca per compiere,  compaginando rinsaldando, la sua galleria di   dittici trittici Unisce con Cora, pel vincolo   della verginità comune, Artemide e Atena.  Trova posto per Ermes dov'è Apollo. E sovra  tutto venera e tutela sempre i miti che riordina.     309     Li ama. Per ciò non distrugge, e non guasta  né meno. Al contrario, tal volta crea: inven-  tando, per unire due leggende, un passaggio  accorto ; dissimilando due fiabe troppo visibil-  mente sorelle, a fin di poterle narrare Funa ap-  presso l'altra senza ripetizione uggiosa; imagi-  nando una circostanza, per colmare un vuoto ;  innestando un particolare nuovo su altri più  antichi. Caca somiglia troppo a Caco nella forma  verbale perché a cotesti ordinatori di miti non  cada nel pensiero di trovarle un posto nel rac-  conto del furto: ed ecco ch'ella diviene sorella  del ladrone, e spia dell'abigeato. Andromeda è  il troppo trasparente riscontro di Atena a canto  di Perseo nella lotta contro i mostri del bujo,  perché non abbia a essere (e con questa altre  cause v'influiscono per diversa via) trasformata,  e mutata in amante.   Affinché però un cosi fatto procedere si man-  tenga utile, è necessario, da un lato, che le va-  rianti da comporre in ordine intorno a un mito  non sieno strabocchevoli di numero o irriducibili  di forma; è necessario, dall'altro, che l'amoroso  rispetto per le fiabe si mantenga incorrotto. Col  cessar di queste due circostanze l'attività assom-  matrice prende a divenire impotente, perché il  suo compito s'è di troppo accresciuto, e deleteria,  perché i suoi modi si sono inviliti. Per questo  motivo essa si riduce a una compilazione che,  come presso Apollodoro, deve limitarsi a citar  le varianti inconciliabili con la volgata, a ri-  cordar Demofonte per preferirgli Trittolemo,  senza riuscire né ad eliminar quel d'essi che sia  soverchio né a superare il dissidio contaminando     310 VI. - KALYPSO   e creando. Non anche creando : però che la forza  creativa scompaja in una colla simpatia con-  corde per le leggende. Quasi sensibilmente il mito  diviene oggetto di erudizione, opera di dotto lo  scriverne, ufficio di memoria e vanto di facoltà  tenace il serbarne i modi e i nomi di persone  e luoghi.   Ora, quando il mitologo ha esausta la forza  inventrice, e s'è ridotto a catalogar la ricchezza  delle fiabe, la sua attenzione è tutta rivolta alla  forma di esse, ai j)articolari, cioè, il cui va-  riare costituisce fogge nuove della saga, e per-  sino alle sfumature. Ma per ciò appunto la sua  credenza si sposta : non può più, come nel prin-  cipio, poggiare suiresteriore, perché egli non ha  una redazione di ciascun mito cui sola presti  fede, ma di ciascuno ne scorge parecchie : deve  in vece fondarsi sull'interiore nucleo, su la so-  stanza, su quel che, in breve, è comune, oltre  ogni variante. Le vesti si mutano sotto i suoi  occhi: gl'importa il corpo. Ma questo effetto  somiglia quello che segue alla deformazione  storica del mito. Quando difatti l'artista non è  più intento a perseguir, nei carmi, di eleganze  ritmiche ciascuna peculiarità della fiaba, ad  eleggere un suono per ciascun colore; quando  della fiaba interessa il fatto ch'ella contiene,  per la storia, e il fatto poi vale come causa :  allora le vesti adorne e diverse cadono; im-  porta il corpo. — Ed ecco il razionalismo dare,  in entrambi i casi, una veste nuova a quel  corpo, ch'egli crede più consona, sovra tutto più  seria e dignitosa. Il mostruoso aspetto di Caco,  la spelonca, la clava d'Ercole, i bovi al pascolo,     LA FINE 311   il furto e la sua astuzia, la lotta risonante sotto  il cavo etra, il sussultar delle rive all'urto im-  mane : tutto ciò non conta. Conta il duello tra due,  e i due nomi: Ercole e Caco. Su questi la com-  piaciuta furberia del loico intesse un'altra sua  trama, imagina gli eserciti, ne fìssa gl'itine-  rarii con le norme d'età posteriori, concepisce  le tempeste invernali proibenti il tragitto alla  flotta erculea: crea una fiaba nuova su l'antico  scheletro, die resta ed è creduto.   Originatosi, cosi, dalle stanchezze della mi-  topeja, come un sentiero costrutto su scorie, il  mito razionale potrebbe vivere, se la sua nascita  non fosse troppo tarda. La saga di un Ercole  errante per monti e piagge, in imprese di ca-  valleresca generosità, serba in sé, chi ben guardi,  non minore forza di vita che la leggenda del-  l'eroe solare. Quel che le manca è l'aura d'intorno:  per ciò, il suo fiato è breve. La leggenda non  è ancor morta, quando essa saga si forma; e,  rimanendole al fianco, le è assidua pietra di  paragone. Per superarla e sostituirla, la saga  deve difendersi discutendo, far valere palesi le  sue origini logiche non artistiche. Onde il suo  vero e mortale scapito : però che la logica  chiegga, anche fra gli antichi, d'esser discussa;  l'arte, fra gli antichi in ispecie, d'essere imitata.  Quindi è che il razionalismo non genera figli  morti, ma, Saturno diverso, ingracilisce, col  soffocarle di greve afa, le sue creature fin dalla  cuna.   A questa capacità distruttiva, che il raziona-  lismo rivela a suo proprio danno, non corrisponde  una eguale potenza deleteria per le belle favole:     312 VI. - KALTPSO   che diviene esso della fiaba la foggia estrema.  Né pure allora si serba indipendente; vive anzi  come un parassita accanto ai testi dei poeti e  degli storici. In tarde età riflessive il lettor di  Vergilio o quel di Pindaro accetta la loro fan-  tasia mitica, ma dopo esser divenuto conscio del  suo sostrato. Dice: '' due eserciti si son combat-  tuti nel Lazio, condotti da Ercole che vinse e  da Caco che fu battuto ; ma al poeta piace espri-  mere altrimenti il fatto, approfittando della sua  libertà „. pure dice: " Caco era servo di  Evandro e devastava i campi col fuoco; questo  significa il vate con frase adorna „. E, se ha  sensi di gentilezza, s'india nell'espressione libera  e nella frase adorna. Il razionalismo gli ha fatto  da passaporto ; ma l'arte ha conservato il mito.  Ciascuna leggenda avrà molte di queste giu-  stificazioni; qualcuna ne cercherà in vano; tutte  ne sentiranno il bisogno. Cosi l'ultima forma in  cui la saga vive, soccorre, pur nella sua esigua  e stentata energia, le forme più antiche, più  belle e da più possente alito nate. Malefica è  appena quando in una mente rozza, distruggendo  intorno a sé, predomina sola.   Notevole è sempre perché, ultima, contiene i  motivi del morir la mitopeja pagana. La favo-  letta pretensiosa del razionalista è tutta conte-  nuta nell'ambito di una esperienza soda della  pratica umana: prova, l'esercito eracleo presso  Dionisio. Supera quindi essa il mito, che non  possiede altr'e tanta sicurezza di conoscimento  umano; non delle esteriori fogge sociali, ridotte  per quello a poche linee sommarie e a rapporti     LA FINE 313   semplicissimi ; non delle tortuosità e dei meandri  intimi all'anima: giacché nelle prime porta il  razionalismo una imaginativa più nutrita e più  competente, consona ai tempi progrediti e agli  instituti nuovi evoluti; nelle seconde reca una  certa gi'ossezza logica che se è lungi al sottile  acume del psicologo, è sopra, d'assai, all'in-  genua intuizione primitiva. Ma vanitoso di questa  sua prestanza su la leggenda, il razionalista non  s'avvede d' una inferiorità che la compensa :  smarrendosi in lui pur ogni traccia del feno-  meno naturale come potenza che trascende,  come magnificenza ricca di colori di suoni e di  moti, come mistero pregno d' interrogazioni.  Ciascuno di cotesti aspetti ha, quando il razio-  nalismo regna nella mitopeja, trovato ad espri-  mersi nel culto, nell'arte, nella scienza ; può  quindi, e deve, venir separato dalla saga, in cui  né anche l'uno dei tre vien più avvertito, — se  non forse, tal volta, per ipotesi filosofica. Evi-  dentemente, dunque, è venuta meno la condizion  prima ch'era stata già bastevole e necessaria al  nascer dell'attività mitopeica; la condizione per  cui lo spettacolo della Natura, nel punto che lo  spirito umano lo assaliva per esprimerlo in sé,  non disponeva per cotale manifestazione se  non d'una imprecisa conoscenza degli avve-  nimenti umani onde era, nel suo grosso, assomi-  gliato; la condizione senza cui la spontaneità  mitologica si allontana nelle tenebre d'un pre-  tèrito memorando.   Se non che la fine della spontaneità mitolo-  gica, che cosi si spiega, non è la fine dell'inte-  resse spirituale verso il mito, interesse dal quale     314 VI. - KALTPSO     trae inesausta vita, per secoli, la mitopeja. Nel  secolo VI a. C. e nel V vedemmo fioriture mi-  nori di saghe in forza di questo interesse; tanto  forte ancora nelle masse da indurre regnanti e  poeti a foggiare e contaminare fiabe per accre-  scimento di lor potenza e di favore. Più tardi,  se non induce a creazioni novelle con l'imitare  le prische e il ricomporle, spreme però nelle  guise più varie, secondo i gusti più diversi (se-  guimmo nei particolari tal opera), molteplici  aromi dal mito, a inebriarne spiriti lontani; e  ogni aroma si esala in seguito a una alterazione,  e una alterazione ognuno prepara; e dalla vi-  cenda vasta si conferma la forza vitale del  genio mitologico e del mitopoetico. -- Ma lo  storico, che sa l'uomo e le sue potenze nei limiti  oltre che nei modi, da questo adoperarsi dello  spirito pagano intorno alle favole dorate, spiega,  deducendo, dopo la fine della creazione spon-  tanea, il termine della ripetizione devota. Di-  fatti, ogni volta che un nuovo compiacimento  attrae l'antico verso la saga, quando il patriot-  tismo lo lega ad essa, e la sensualità lo diverte  di essa, e la fede se ne turba, e il senso psico-  logico la scava; ogni volta, una virtù di quella  appare splendendo, — e si esaurisce vanendo :  perché, al pari d'ogni passione, patriottismo  fede sensualità, energie indipendenti e non fa-  ticabili, non si arrestano mai su la lor via : ma  da ogni letizia si sdanno per un'altra che sia  nuova, e dopo aver succhiato il sangue migliore  degl'idoli loro li lasciano cader dietro sé, cenci  vuoti di sostanza o lerci di dissolvimento. Grli  approcci si rinnovano su una su vénti saghe ;     LA FINE 315   le energie si succedono, ad una due, a due  dieci; il culmine si attinge in cui il groppo pro-  fondo dell'anima è uncinato dal mito : ma poi  la patria l'amore l'altare cercano ostie diverse,  e canti di altro suono si intonano in loro ser-  vaggio. Nel suo complesso lo spirito dei Gentili  si distrae lentamente dalla mitopeja, le diviene  a poco a poco estraneo e si immerge in altre  creazioni ; s'aprono nuovi stadii spirituali in cui  l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a  foggiarsene e a riempirne un altro : — mag-  giore.   E il disinteresse mitopeico: la seconda morte  che la storia deve registrare nelle sue pagine.  Non è, né pur essa, senza compenso; però che  una resurrezion i)arziale pare la segua. Quando,  e come, e perché, non è qui luogo opportuno  a dirsi: chi narra dell'Umanesimo lo dice; e chi  fa opera d'indagine letteraria nei secoli più re-  centi e nel nostro raccoglie le tracce e cumula  le testimonianze della terza vita. Qui si elegge  la figura, tocca da melancolia, di Maurice de  Guérin, che rivide con questi nostri occhi mor-  tali il Centauro, avendolo i fragori marini e  l'albe di perla e le sere di ciano educato allo  spettacolo insueto. Egli potè dalla imagine fa-  volosa esprimere nuove bellezze poi che, con-  cordando col mito nella sensibilità viva della  natura, vi seppe scernere làtèbre occulte, ove  languiva la mestizia nata dalla coscienza della  propria debolezza in confronto con le cime sfio-  rate a volo dall'anima. E rinnovò, cosi, il gesto  mirabile di Kalypso, ritrovata la spola d'oro.  Ma è miracolo breve, e rado. Un poeta nostro,     316 VI, - KALYPSO   che sé con vigore asseriva pagano, vide Ninfe  e Driadi egli pure ; eran però fuggiasche, e l'a-  nelito del suo cuore si compose prima in sdegno  violento contro la presunta causa della fuga, —  Cristo, — che in ammirazione amorosa verso le  bellezze virginali. A un altro, vivo e fecondo,  Versilia ninfa boschereccia deve dire, sbucando  da l'albero, " Non temere o uomo „; e il rim-  pianto strappa biasimo fiero avverso chi " più  non vede gli antichi numi italici : vivon eglino  pieni di possanza; hanno il fiato dei boschi  entro le nari „. Ma non è giusto il suo rim-  proccio; il cuore non si sfa nel petto " come  frutto putre „. A lui medesimo, che pure vi  portava, nuova, la sua sensualità ferina e tor-  bida e tormentosa, il mito, creatura fraterna  alle stelle ed ai sogni, sembra vanire implaca-  bile, senza che il vanto e le promesse d'un'arte  " magnifica „ e fin troppo cosciente della sua  maraviglia valgano a fermarlo un istante, —  né meno presso le ruine del tempio antico, e  l'alte statue cadute dai fastigi, e le colonne   tronche. '' Si allontana melodiosamente „.   Perché? — Eumene di Cardia, nell'età dei  Diadochi, l'anno avanti Cristo 321, sogna, innanzi  a la battaglia contro Cratere, l'assistenza di  Demetra, avversa ad Atena, e l' imposizione di  una corona spicea. Il di seguente i soldati si  ricingono tutti del segno augurale; e la pro-  messa divina incita i cuori, come il calcagno  i cavalli. Sei secoli dopo, Costantino annunzia  (si narra) la croce apparsagli e l'esortazione fati-  dica in hoc signo vinces ; e lo sprone è uguale.  Eloquenza del fatto minore ! Nei petti si muta la     317     fede; le masse scerpano dagli spiriti creduli le  credenze adusate e (è la forma di scetticismo  lor propria il mutare credenza) altre ne accol-  gono al posto; scompare l'aura benigna in cui  si moltiplicano gli echi della saga; si isterilisce il  terreno fecondante ove ne penetravano le radici.  E accade che il valore religioso della fiaba, il  valore che sembrava, ed era presso molti, scom-  parso e ottenebrato, si riafferma non per rav-  vivarla ma iDer offrire appiglio alla sua distru-  zione. G-li eroi non avevano cessato di essere,  — nel profondo delle coscienze, al meno, —  iddii scaduti; e con gli iddii vengon ripudiati,  di mano in mano che la Divinità si schiarisce  e si eleva agl'intelletti collettivi: Perseo con  Demetra. Il resto opera la scienza. Non la  nostra, che rispettiamo oggi come vera. Ma  tutte, le rispettate durante i secoli come vere e  come sole, sostituiscono nelle menti la loro ve-  rità e il loro equivoco alle interpretazioni fan-  tastiche; e sopprimono quei vincoli fra popolo  e mito pagano, che un appagamento della cu-  riosità pel fenomeno poteva ancor stringere.  L'urlo delle dimonia nel temporale e l'arcoba-  leno di Noè condannano Caco ed Iride, come  Sansone soppianta Perseo. — Si che l'elemento  scientifico, insito nella saga (se non intrinseco  a lei) fin dal suo nascer, contribuisce con il  religioso al suo perire, quando l'una e l'altra  sete umana, di sapere e di credere, abbian tro-  vato altr'acqua al loro bisogno.   Morta la capacità creativa della mitopeja,  stornatosi l'interesse spirituale ad altre mete, in-  dottesi le masse per diversi cammini; non restan     818 VI. - KALYPSO   più, dell'opulenza antica, che i riti agresti simi-  glianti per sostanza o per forme ai pagani, e  l'ammirazione nostra nata da l'erudito ricordo.  Ma i riti agresti accolgono festoso scampanìo  di chiese, e ignorano il nume degli antichi dèi.  E noi siam piccola schiera ; bramosa in vano di  quella fresca e ingenua maraviglia, onde s'ori-  ginò la saga ; volonterosa in vano del passionato  amore, fra cui si svolse ; pallida, dinanzi l'ombre  crepuscolari ove si rifugian labili le figure fa-  volose evocate un istante, pallida di accorata  nostalgia.   Restano anche le storie dei miti e la storia  della mitopeja classica: nudrite, dunque, tutte  di nostalgia.     LIBRO II   INDAGINE     i     Avvertenza.     Ho procurato che la bibliografia speciale dei suc-  cessivi argomenti da me dibattuti nei capitoli di questo  Libro II fosse né ingombra dell'inutile né monca del  pregevole o dell'indispensabile. Diverso criterio mi parve  in vece di tenere per la bibliografia generale su gl'in-  dirizzi varii che intorno al mito si combattono per opera  degli studiosi, su i problemi di metodo e di ermeneu-  tica, su le dottrine che filosofi sociologi psicologi etno-  logi ecc. ecc. sostengono od oppugnano. A raccoglier  difatti quest'altra bibliografia un grosso volume mal ba-  sterebbe; e persino una scelta, oltre ad essere in parte  arbitraria, usurperebbe grandissimo spazio (1). La omisi  dunque presso che intera, salvo pochi accenni sporadici;  né l'includerla sarebbe stato dicevole, per esser questo  Saggio opera, non metodologica né sociologica, ma sto-  rica; tale, ciò è, che la posizione da me assunta di fronte  alle varie correnti e agli opposti principii degli studii  mitologici deve risultare, non da discussioni teoriche e  generali, bensì dal giudizio particolare recato nella in-  dagine e nella storia dei singoli miti.     (1) Un ottimo esempio di ciò che potrebbe farsi è il  recentissimo lavoro di Luigi Salvatorelli Introduzione  bibliografica alla scienza delie religioni (Roma 1914): lavoro  che, per il nesso intercedente fra religione e mito, riesce  utile anche per chi studia in particolare quest'ultimo.     A. Ferrabino, Kalypso. 21     CAPITOLO I.  Andromeda.     I. Il racconto di Ferecide. — Il problema che si pre-  senta primo intorno al mito di Perseo e Andromeda con-  siste nella ricostruzione del racconto presso Ferecide, del  quale ci è bensì pervenuta nell'estratto di uno scoliaste  la narrazione della nascita dell'eroe e del suo soggiorno  in Serifo e dell'impresa contro Medusa ; ci è pervenuta  anche, nella medesima fonte, la parte estrema delle vi-  cende cui Polidette ed Acrisio andarono incontro dopo  il ritomo di Perseo vittorioso ; ma difetta del tutto l'av-  ventura di Andromeda (cfr. Scoi. Apoll. R. IV 1091. 1515 =  Fee. fr. 26 Mùller ì^/fG'. I 75-77). Ma la parte mancante  del mito in Ferecide può venir ricostrutta con sicurezza  bastevole, con l'uso del testo di Apollodoro (II 43-45,  Wagner). Se si riesce difatti a dimostrare che per tutto  il resto della fiaba quel che ci avanza di Ferecide e quel  che racconta Apollodoro son congiunti da strettissima  simiglianza, divien lecito ritenere che il testo della Bi-  blioteca possa supplire senza errore né equivoco la lacuna  ferecidea.     324 I. - ANDROMEDA     Ora, bisogna anzi tutto tener presente che il mito di  Perseo, mentre non ci è giunto nel testo proprio di Fe-  recide, ma solo attraverso al riassunto d'uno scoliaste,  ci resta invece integralmente nella Biblioteca. È quindi  a priori chiaro che in quest'ultima debba essere qualche  particolare pili che in quell'altro. Ma ciò può anche pro-  varsi ne' singoli casi. — In due punti ApoUodoro dà a  lato del suo racconto una variante : 1. oltre ad attribuire  la paternità di Perseo a Giove, riferisce — senza espli-  cita preferenza — che altri l'attribuivano a Prete fll 34);  2. dopo aver raccontato l'uccisione di Medusa per opera  di Perseo, testimonia d'un'altra versione, per cui la Gor-  gone è uccisa da Atena (II 46). Ciò mostra ch'egli aveva  presenti racconti un poco diversi ; ma mostra a un tempo  che sapeva serbarli distinti: onde è legittima l'opinione  che forse non si sarebbe notevolmente scostato da una  fonte importante qual'era Ferecide senza avvertircene  in modo aperto. — Di ben lieve natura difatti son le  varianti che, senza l'avvertenza dello stesso Apollod.,  separano il suo racconto da quello degli scolii citati. Nella  Bihl. è detto che Polidette ottiene da Perseo la promessa  del capo di Medusa come sQavov ... èitl tovg 'Injtoòa-  f^eìag T^g Oivofidov ydfiovg (IT 36) ; nello scolio (IV 1.515)  si parla bensì àQWMQavog non delle nozze : ma par chiaro  che l'omissione è qui dovuta solo al riassumere , tanto  più che in entrambe le fonti Perseo fa spontaneamente  la promessa mentre gli altri promettono cavalli. Poi  in ApoUodoro (II 39) Ermete dà a Perseo una falce  che non gli dà nello scolio (IV 1515) : evidentemente  chi riassunse omise questo particolare ; e difatti la falce  è menzionata nello scolio medesimo quando l'eroe è per  recidere il capo di Medusa. E lo stesso è da dirsi quando  la Bihl. (II 40) reca i nomi di tutt'e tre le Gorgoni, —  Steno, Euriale e Medusa, — là dove lo scolio (IV 1515)     IL KACCONTO DI FEEECIDE 325   dà sol quello di quest'ultima; quando Apollod. (Il 41)  narra di Atena che guida la mano di Perseo e gl'insegna  a guardar Medusa nello scudo per non esserne impie-  trato, mentre lo scoliaste riferisce solo che gli dèi Er-  mete e Atena insegnano all'eroe Ticàg xqÌ] zìjv KecpaÀìjv  àjioTeftEÌv à^teaTQUftfiévov ; quando in Apollod. (Il 42)  dal capo reciso di Medusa nascono Crisaore e Pegaso,  di cui tace il riassunto da Ferecide ; quando la fonte più  estesa fa rifugiare Danae e Ditti in Serifo su l'altare  (II 45), mentre la pili concisa omette a dirittura ogni  accenno al riguardo; quando infine nella Bibl. la gara  in cui Perseo uccide il nonno Acrisio è indetta da Teu-  tamida (II 47) re di Larisa in onore del padre defunto,  e nello scolio in vece si fa cenno solo a un àyoyv vétov  iv Tfl Aagioar] (IV 1091). Unica più profonda discre-  panza è questa : ApoUodoro dice che Perseo gareggiò nel  pentatlo; lo scolio per contro afferma névvad'Àov o^jio)  ^v. Ma qui evidentemente sussistevano tradizioni un poco  diverse : contro la tradizione che ricordava un pentatlo  polemizza lo scoliaste e la sua recisa negazione fa a suf-  ficienza intravvedere una tesi opposta e taciuta: la quale  dev'essere a punto o la ferecidea accolta da ApoUodoro  altra analoga. Non è questo l'unico caso in cui uno  scoliaste introduca tacitamente una correzione nel testo  che riassume e di cui cita l'autore.   Stabilita pertanto la strettissima attinenza fra Fere-  cide e ApoUodoro è da dedurne che in Ferecide fosse  identico (salvo le insignificanti sfumature de' più piccoli  particolari) alla versione apollodorea anche l'episodio di  Andromeda, del quale gli scolii di Apollonio Rodio tac-  ciono. Ed è adunque legittimo valersi di ApoUodoro per  colmare la lacuna nel racconto ferecideo.   Col possesso in tal modo conseguito di una redazione  comparativamente antica del mito di Perseo e, in par-     326 I. - ANDROMEDA     ticolare, dell'episodio di Andromeda, sono segnate le vie  per cui la critica deve procedere nel suo esame : però  che la natura stessa del racconto orienta l'analisi intorno  a Perseo, prima ; ad Acrisio Preto Polidette e Ditti, poi ;  ad Atena e alla Gorgone Medusa, in séguito ; a Cefeo  Fineo Cassiepea, da ultimo.   IL Perseo. — Le imprese di questo eroe sono nu-  merose e varie nell'apparenza, ma un occhio esperto non  esita a ridurle tutte a un medesimo tipo. Uccide l'avo;  decapita Medusa; abbatte il >t^roj; libera Ditti e la  madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie  in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari.  Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole,  suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole com-  peta la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del  Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tene-  brosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che può  esser per criteri soggettivi negato, ma non deve più esser  ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch? I 1,  Absch. VI Mythos und Religion e G. De Sanctis Storia  dei Romani I cap. Vili Religione primitiva dei Romani  e cap. III Gl'Indoeuropei in Italia. Un eroe solare ri-  tiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech.  Mythologie{\).   Né sono sufficienti, anzi non sono valevoli , le argo-  mentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.  III 2, 2025: giacché egli dimentica la differenza profonda     (1) A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria  di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig. „ LXI (1910)  219 : * Perseus ' le destructeur ' n'est sans doute qu'un  vocable qu'on donnait à son arme, la harpé, adorée  comme Vakinekés l'était chez les Scythes „.     PERSEO 327   e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli  spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto.  A questo proposito sarà anzi bene osservare che, per  reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe  videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in  ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nel-  l'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo na-  turalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo  significativo di questo secondo eccesso è l'articolo di  R. Sciava in " Atene e Roma „ XVI (1913) 226 sgg. Assai  equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo  e la mitologia comparata Pisa 1867. Ma è notevole che  quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato  e l'origine della Sfinge (pag. 71); e quel primo, trattando  di Bellerofonte, non spiega la Chimera: entrambi quindi  appajono per ciò stesso attenti a un aspetto del feno-  meno mitologico non a tutti.   È quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel  mito cosi al naturalismo come alla novellistica (1). Il pro-  blema poi intorno alla priorità dell'uno o dell'altra entro  le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in  parte è d'indole generale e vien trattato in questo vo-  lume nel libro I cap. VI. Qui diremo solo, in breve, che  l'intuizione naturalistica suppone una grossolana cono-  scenza della natura e dell'uomo, mentre la novella è già  densa di più larga e più ricca esperienza umana. Co-  munque, procureremo, dopo queste premesse, di sceve-  rare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei  varii nuclei in cui abbiam veduto per sé stesso spez-  zarsi il racconto di Perseo.     (1) È tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. Ré-  viLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. , XllI (1886) 169 sgg.     328 I. - ANDROMEDA     III. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. — Nel rac-  conto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto  dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare  della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Pelopon-  neso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui è connessa  la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov  in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R. IV 1091).  Si son sempre in ciò vedute tracce d'un'influenza tessa-  lica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert o. c. 2023). Ma ben  più sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto,  dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grand-  fragen der Homerkritik^ 223, intorno allo scambio fra  Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleÀaa-  yiKÓv deìVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui  l'Argo pelasgica dei Tessali s'è potuta identificare con  l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono  a questa attribuiti, — è molto probabile che l'Argo di  cui è re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponne-  siaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine  al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e cri-  tici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si può con pro-  babilità scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un  nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono già  constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti.   Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo  alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito , il cui  valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto;  particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della  verità di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza  di Ditti e Polidette da Magnete; di cui dà notizia Apoll.  I 88, in un luogo che non è, come il II 34 sgg., sotto  l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la  nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fra-  tello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34,     ACKISIO, PRETO; POLIDETTE E DITTI 329   che riferisce questa come una tradizione parallela alla  ferecidea, e lo Scoi. A II. S 319, che fa risalir la notizia  a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiara-  mente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due  salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici  della Magnesia: se adunque Acrisie è, in origine, re pe-  lasgico, quella ha da essere la forma primitiva della  fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito  l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare  poi è d'importanza anche maggiore. Per esso noi dob-  biamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus  padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non  possiamo non propendere a riconoscere carattere argo-  lieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella  vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che  fin " Argo „, l'eponimo del luogo, è figlio di lui (Esiodo  fr. 137 RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr. 22,  MùLLER FHG. I 74). La tradizione pertanto che dice di  Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e  quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponne-  siaci son già palesissimi. E poiché col delitto di Preto  si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie  irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche que-  st'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus.  Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. V 236-41 ; i quali  riproducono una tradizione già alterata da elementi  estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per  cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie  addirittura lo superasse). Né contro l'ipotesi che Preto  appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli  il rilievo ch'egli acquistò poi nelle saghe tirinzie : che  potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo tras-  porto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi  la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse     330     ANDROMEDA     anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo ana-  logo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era  poco noto in sul principio e ove potè localizzarsi solo  obliterando il proprio valore. Che però, velatamente, ap-  pare anche nella connessione con i Liei C Luminosi ,)  in cui egli è posto dtiìVIliade Z.   Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono  potrebbero appartenere a uno strato tessalico della  leggenda, non sarebbero di per sé sufficienti a provare  di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non  dessero modo di trarne un racconto organico e coerente,  che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mi-  tici e novellistici analoghi. Ora è notevole in vece che,  tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le in-  serzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama com-  piuta d'un mito: — serbate le due figure di Acrisio e di  Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra è an-  teriore a Zeus peloponnesiaco e ne sarà sostituita; —  serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R. IV 1091)  che diviene anche più dicevole per la vicinanza e le at-  tinenze fra Delfi e la Tessaglia; — serbati Ditti e Po-  lidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente  notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae;   — serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei:   — ne nasce un racconto che è omogeneo e definito, e  si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geo-  grafica uniforme quanto per la sua coerenza interiore.   Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tes-  salico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire  il nome e la figura di Danae : giacché se il secondo caso  fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse  un nome e una figura più antichi. Ora se è certo che  nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae  si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e     ACRISIO, PRETO, POLIDETTE E DITTI 33l   caratteristico ceppo mitico; non è però man certa la  presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R.  I 1212 e Antonino Liberale 32. Va pertanto conchiuso  che Danae può appartenere assai bene allo strato tes-  salico del nostro mito; e che, se non è dicevole ai fini  della ricerca presente il vagliare il problema mitico di  Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi in-  torno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra  ottimamente.   Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratifica-  zioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro  mito ch'è intorno ad Acrisio e alla sua morte. Né è dif-  ficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda  si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus è, come  congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete  tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto  di Zeus, se ne deve dedurre che come l'età tarda del  passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,  cosi la sua comparativa antichità, — giacché anche le  meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abba-  stanza vetuste, — fa risalire non poco nei tempi l'inter-  vento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare  partitamente l'uno e l'altro strato.   Affermata una volta l'esistenza dello strato pelopon-  nesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico  consiste non tanto nel cercar le cause singole dei sin-  goli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Pelopon-  neso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire  passo passo, fin che è possibile, il processo di penetra-  zione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze  si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex. Ili 2,  2018 sgg. ; cui mi richiamerò volta a volta). Ora non v'ha  dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in  Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo     332 I. - ANDROMEDA     non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la  diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si  attengono miticamente. Ed è del pari certo che cotesta  germinazione di miti secondari sul ceppo del principale  dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e  propria della leggenda le peculiarità locali non han po-  tuto trovar posto adatto. Ma ben altro è da dirsi riguardo  a Serifo : per cui è a priori possibile cosi che il culto  abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti  e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo  caso sarebbe però da spiegare perché il culto di Perseo  abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole  vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta  la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai  mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Ar-  golide, come sede del salvator di Perseo. Né l'esame  della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun  che (Febeo, fr. 13 -= Scoi. Apoll. R. IV 1091), come di quella  la quale contiene bensì riferimenti a Danao e all'Argo-  lide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde  Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza  dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Più  tardi la localizzazione dev'esser divenuta più esplicita,  e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto  dicevole, — di cui per altro ignoriamo il nome. E non e  improbabile che questo fosse tale da determinar per ana-  logia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole  che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponne-  siaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta  avesse un motivo unicamente geografico — l'est — ; ma è  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda  all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipo-  tesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale  supponesse un intervento di casualità. Il problema rimane     ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333   dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve  essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perchè  vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poiché  lo stesso è da dire di Zeus che prende il posto di Preto,  bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati  già quando il culto di Perseo prese a difiondersi per  tutto il Peloponneso.   Un momento successivo è occupato dalla saga di Ti-  rinto (Apoll. II 48). Questa saga non si sarebbe dovuta  creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto  importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, co-  stringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra  parte se era plausibile che, — come si disse da quelli,  — dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si ver-  gognasse sls "Aqyos ènaveÀ&Elv, era facile legittimare  la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se  a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che impor-  tato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore  nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto  e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano en-  trambi che i personaggi della saga tessala attecchirono  assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte  l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Mi-  cene p. e. : Pads. II 16, 3), che sfuggono al racconto di  Apollodoro, testimoniando per tal modo la loro recen-  ziorità.   La sanzione definitiva però dell'insediarsi nel Pelopon-  neso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data  dai genealogisti. Combinando Apollodoro (Il 21. 47 sgg.  con Ferec. fr. 13 e 26 -= Scoi. Ap. R. IV 1091) risulta il  seguente schema che può valere come volgata su questo  punto :     334 I. - ANDROMEDA     DANA.0       Linceo ^    Ipermestra    Lacedemone Abante   1 1    1  Euridice    1   ~ ACRISIO    1  Prkto    Zeus    ~ Danae    Megapente      PERSEO '    ^ Andromeda     Posidone ^- Amimone   Nauplio   I   Damaatore     I . I   I Pericastore   1 I   Peristene -^ Androtoe   I   Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette   I III   Anfitrione -^ Alcmene Euristeo Ippotoe  I !   ERACLE Tafio     Poiché è troppo chiaro che di questa genealogia i punti  fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert o. c. 2023 vi ve-  deva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie di-  vinità argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe  dorico più recente Eracle, non senza che nel contrasto  fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversità dei  ceppi. Ma se al Kuhnert si può concedere che tardo sia  l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si può  consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero  il posto che essi occupano nello schema genealogico è  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine  peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sìibito  a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto  era possibile; ma due generazioni dovevano necessaria-  mente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra,  quella delle Danaidi. Più oscura resta la presenza della  terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi  per la congettura. Abante è ritenuto l'eponimo di Abe  in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo  degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II.     ACRISIO, PEETO, POLIDETTE E DITTI 335   B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431  ha un luogo che merita comento : oc oh [rò "AQyog tò  IleÀaaytìiòv] oò itóÀiv [óéxovrai] à^Àà tò zojv QerzaÀ&v  7t€Óiov oSrcog òvoiiuTtyiaig Àeyófievov , &ef.tévov zovvofia  ''Aj^avTog, è^ "Agyovg Ssvq àTioixi^aavTog. Qui è, sùbito  evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  è del pari evidente che un motivo deve aver indotto a  sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introdu-  zione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non può  esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi  nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo  culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza  di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide :   — territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ciò  è probabile, ne deriva che Abante potè essere impor- .  tato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo  pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo,  fra Danao e Danae. — Per Ditti e Polidette non si trat-  tava in vece che di porli nella medesima generazione  di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per  meglio giustificarne l'accoglienza: e a ciò valsero nomi  come quello di Nauplio, — eponimo di Nauplia, — di  Damastore, — padre dell'argivo Tlepolemo in U. 21416,   — di Peristene, — sposo d'una danaide Elettra in Apoll.  II 19.   Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra  Acrisio e Danae innestati fra Danao (già anticamente  peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente pelopon-  nesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie  di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert o. c. 2033)  rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto  eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che  la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II  44 Schone; Cirillo c. lui. X 342; Agost. de Civ. XVIII 13;     336 I. - ANDROMEDA     Scoi. Totr. IL 5" 319. Questa dev'essere la leggenda più an-  tica; l'altra in cui il vinto è Perseo (cfr. Kthnert o. c.  2016-17) dovè nascere allor che Dioniso fu più a fondo  penetrato in Argolide].   Che se però lo strato argohco può esser suddiviso in  parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre  occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve  a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta  prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto no-  vellistici. Certo esso è, originariamente, vivo di sostanza  naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve  valere quale divinità del mare (Beloch Gr. G? I 2, 63)  della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene  forse sia eccessivo precisare di più, in ciascuno di questi  casi è chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe so-  lare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo inne-  gabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare già ricca  di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o,  più latamente, della vergine che contro un esplicito di-  vieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa  insieme con la sua piccola creatura è svolto in larga dif-  fusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo  spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca in-  tuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di  Perseo contro il nonno. — Ugual carattere novellistico  si riscontra poi in Ditti: il cui nome non è se non il  generico appellativo " pescatore , (cosi che è quasi vana  postilla quella di Ferec. fr. 26 òiy.Tvi>) àÀievmv) e la cui  natura è per tanto assimilabile a quella del consueto pa-  store agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo  abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe  bensì pensarsi anche a una divinità pescatrice (cfr. la  cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide  Lahonische Kulte 126 e il Gruppe Gr. Myth. 254). Ma il con-     ACRISIO, PRETO, POLIDETTB E DITTI 337   testo della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre  che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che  cioè l'indubitabile carattere novellistico offuschi un an-  tico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per  quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entrò  e rimase nel mito di Perseo. — Altro è di Polidette :  questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un  attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios  " Jbb. Phil. , CXXIII (1881) 302 ha creduto di identitìcar  con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipo-  tesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due re-  strizioni : anzi tutto non è da credere col Crusius che  Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade-  Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma  tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  è da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui  significato trasparente fa intra vvedere un fondo natura-  listico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della  saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra è la interpretazione  da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo  con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'im-  portanza del mito su questa, la riteneva simbolo del-  l'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes)  libera. Se al contrario è vero che Danae è divinità del  mare o del bujo e Polidette è nume sotterraneo, la spie-  gazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un con-  cetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva  nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, soprav-  venuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un  doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad  uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra)  si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni  mattina il sole emerge. La cattività di Danae presso  Ade-Polidette è dunque giustificata anche dalla affinità  A. Ferrabino, Kalypso. 22     338 I. - ANDROMEDA     sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo  la diversità di Ditti e di Polidette, la tradizione fere-  cidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba  spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica  per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica  rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre,  e dalla paternità dedotto il rapporto fraterno.   Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui  vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui ten-  tammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici,  costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto  e di per sé bastevole, ma offrono per altro lato appiglio  a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine , continuando,  ce ne darà conferma.   IV. Atena e la Gorgone Medusa. — Gli elementi  che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quel-  l'intervallo di azione ch'è compreso fra la sua cacciata  da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi  jonici. La Dea che lo protegge è Atena, la quale ci ri-  porta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta è Ermes, di  cui in Atene è culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel  suo Lex. I 2, 2347 sgg.); il mostro che combatte e vince  è quel medesimo di cui il capo è sullo scudo di Pallade  {Iliade E 740); il luogo onde si muove è Serifo, colonia  di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie  che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo  in Serifo (Paus. II 15, 1, per le monete cfr. Head H. N'^  490), in Atene (Kchnert o. c. 2019-20), in Mileto (Strab.  XVII 801 cfr. Erod. II 15, Edrip. Elena 769, Kuhnert  0. e. 2021): — in Mileto, specialmente, tali da risalire  al VII sec. a. C. Da tutto ciò, poiché anche il mito di  Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori  di questi né favorevoli né contrarli, è lecito dedurre che     ATENA E LA GORGONE MEDUSA 339   quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e  che per conseguenza la sua formazione è posteriore ai  principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un  effetto.   Quanto è probabile questo risultato tanto par certo il  contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano  (presso [Esiodo] Teog. 274 sgg.) néQrjv kÀvtov 'Qxeavoìo  èoxa^tfl TCQÒg vvìCTÓg, tv' 'EajtEQiòsg Àiy^cpcovoi ; sono per-  tanto evidenti mostri delle tenebre e della notte (1) che  dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto  contrasto. Là presso si devono ritrovare gli Etiopi che  abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea  a 22-24) (2). A Nord, ma con egual significato tenebroso,  stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di  Rodi appr. Tzetze Chil. VII 695) (3). Non è dunque dubbio,  anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette  pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e  con quella del kìjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che  quando in territorio jonico il mito di Perseo venne im-  portato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza  noto e chiaro.   E da origine rintracciabile con probabilità derivano  anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che  Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non è  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in     (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes  (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo  stesso tema non merita d'esser citato.   (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. „  VII) 17.   (3) Cfr. Knaack " Hermes , XXV (1890) 457. — Su  gl'Iperborei v. 0. Schròder " Archiv f. Religionswiss. „  VIII (1905) 65 sgg., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.;  Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. ' CXXXVII (1908) 520..     340 I. - ANDROMEDA     particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.  Gesch} I 1, 154) dà risalto a quello spunto, cosi che vi fa  trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose  Gorgoni. Antitesi invero che si serbò sempre, accanto  al mito di Perseo, se Eurip. Jone 991 la ricorda e Apoll.  II 46 è costretto a farne menzione. E, — ultima riprova  di un fatto già a bastanza palese, — anche quando alla  Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a  lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo  (Ferec. fr. 26 e Apoll. II 41). — Se non che il capo di  Medusa è pure su lo scudo di Agamennone in //. A 36.  Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch?  I 1, 162) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Me-  dusa analoga a quella che è fra Atena e la stessa Me-  dusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo  della Gorgone diventò ben presto un costante e diffuso  ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradi-  zione. Dalla medesima Atena è desunta la y.vvi\ ond'è  coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti men-  zionata per lei in //. E 845 ("■^'■^os KvvérJ. — Di natura  diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati  e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono  mostri analoghi alle Gorgoni bensì tipi esagerati della  vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perché  un aspetto mostruoso è in loro innegabile, per ciò bene  [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet. 795; Apoll. II 37;  TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre.  Accadde però che la parentela con le Gorgoni e la pa-  ternità di Forco traviasse i critici; che vollero in gran  numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp  in RoscHER Lex. 1 2, 1729 sgg.). Ma bisognava prima pro-  vare (e la prova manca) che la parentela e la paternità  sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella  fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine)     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 341   trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfittò  per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale  trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni ta-  lismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza  nelle fiabe. — Ufficio analogo (e analoga origine per con-  seguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la  falce di lui. Mentre però le Graje dovevano contrapporsi  a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes do-  veva essergli propizio, come quello che quando si scontrò  con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure  (Beloch Griech. Gesch}l I, 160) (1). Mentre inoltre le Graje  nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novel-  listici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera  della diffusione cui andò soggetto il culto di Perseo.   Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito  di Perseo pare concepito in territorio jonico; è, nel suo  fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi perso-  naggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano  gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari);  e tutto il contesto è per tal modo novellistico che anche  quei personaggi vi intervengono con offici proprii della  novella.   V. Cefeo Fineo e Cassiepea. — Gli elementi onde  è costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono  di natura e origine assai più incerta che quelli raccolti  intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla  prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai     (1) In quanto al valore originario di Ermes lascio qui  intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A.  II pag. 97. — Ricordo anche Roscher Heìines der Wind-  gott (Leipzig 1878) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes  der Mondgott (Leipzig 1908) che determinò una polemica  appunto col Roscher.     342 I. - ANDROMEDA     dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la  diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la  constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), in-  ducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il terri-  torio forse di formazione e probabilmente di diffusione  di quell'episodio mitico. Molto più deve dire un esame  delle figure singole.   La lotta di Perseo contro il v,f}zog è, — bisogna a pena  osservarlo, — parallela per significato all'impresa av-  verso Medusa. Sarebbe quindi già a priori da attender  notizia intomo a un Nume che in quell'avventura com-  piesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi  fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimolo-  gica, da ravvisar in Andromeda , nel cui nome è non  dubbia la radicale di àvfjQ; se a conferma validissima  non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst. „ X 52 ;  KuNHERT 0. e. 2047) in cui Andromeda appare non legata,  vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico  liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a  respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in  mucchio li presso. Ivi ella è senza dubbio queir " aju-  tatrice „ che la congettura avrebbe per sé supposta. Né  la comparativamente tarda età del vaso (VI sec.) deve  stupire: è ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei  vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il  mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che  esso aveva pia anticamente assunta. — Questa ipotesi  però intorno al primitivo racconto sul x^rof, se è tanto  evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser  stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),  pone anche il problema su le cause del passaggio da  quello stadio mitico a quello ch'è in Ferecide. Ora è  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del ìtijTog non  potevano, nella veste più arcaica, venir raccontati l'uno     CBFBO FINEO E CASSIEl'KA     343     appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sùbito,  la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissi-  milarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile  innesto su quella saga naturalistica di uno spunto no-  vellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode  che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). — Se  non che alla medesima forma vetusta e primordiale del-  l'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto  dianzi (v. sopra pag. 339) come le sedi loro nella con-  cezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E  tanto più qui il loro ricordo era importante in quanto,  mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i  luoghi di lor sede, il nrjTog per sé non sarebbe stato in-  dizio locale bastevole.   È cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le  testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali  da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha più  a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll. II 144,  di Paus. Vili 4, 8. 23, 3. 47, 5, di Apoll. R. Argoti. I  161 sgg., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea  in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto,  in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee  Lex. II 1, 1114): fissano in modo esplicito per l'età storica  la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Ar-  cadi (1). In particolare poi Paus. Vili 23, 3 asserisce che  da Cafeo avrebbe preso nome la città arcadica di Cafìe. Il  problema, — che non in questo caso solo si presenta  alla critica, — fra le attinenze reciproche de' due nomi  non può esser risolto fin che manchino notizie sul culto  di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri-     (1) Cfr. W. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens  I (1891) 60. 65 sgg.; che mi sembra però superficiale.     344 I. - ANDROMEDA     vare alla città il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle  attinenze non sono da negare. — E queste notizie sono  non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. 586 sgg.  ove Cefeo è àn:' ^QÀevov \ Avfii^£ re BovQaiotoiv ijyef*ù)v  OTQazov : perché nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei  punti tòcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel  restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor del-  l'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi,  cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto otte-  nendone in premio la perenne salvezza del suo dominio  in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se già Alcmane  fr. 72 Bgk.* {^axé ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] àvda-  où)v) ne aveva sentore : cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef.  Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una più tosto tarda  irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja,  fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto,  sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad.  B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatéQe^ ^aav v' . 11  TiÌMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude,  — senza peraltro addur motivi, — che queste parole de-  rivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una  combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di  Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su  Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di  Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel  su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non è  difficile chiarire la genesi, — posto che equivoco di nome  non siavi, — della notizia serbata in quello scolio. Le  genealogie (1) che esamineremo più tardi (v. sotto) uni-  scono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per     (1) Queste genealogie sono studiate ampiamente, se  non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud. „  XXXIII (1913) 53 sgg.     CBFKO FINEO B CASSIEPEA 345   eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo  dev'essere pertanto giunto in Beozia. — Tra queste no-  tizie, più meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta  alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il cri-  terio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo  arcade è secondo Ellanico (fr. 59 = scoi. Apoll. R. I 162  combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip.  Fenice 150; contro l'opinione del Tumpel a. e. 1109) figlio  di Posidone; e secondo Apoll. Ili 102 fratello di Licurgo  (per contro di Licurgo è figlio presso Apoll. I 67). Questi  dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo  dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo ca-  rattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile  etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia  riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi  gramatici lo si riconnetta con ncjcpóg (confr. x^go^f),  sempre vi traspare la natura d'una divinità ctonica e  tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante  nelle oscure cavità che sono oltre la linea donde sorge  il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la  localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la più an-  tica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo  di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome ri-  velano del pari. — Mentre però il nesso fra Cefeo e gli  Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo an-  tichissimo, non si può dire altrettanto del nesso con An-  dromeda. In vero se questa è sul principio 1' " ajutatrice ,  di Perseo, solo quando, — e fu, come si vide, assai per  tempo (v. sopra), — l'avventura dell'eroe contro il xijvos  fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa lo-  calizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo.   Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano  per tal modo sufficienti a costituire, per sé soli, la trama  di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gas-     346 I. - ANDROMEDA     siepea , per non sembrare un' intrusione superflua deve  venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di  quelle due figure.   Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio  che si tratta del tipo novellistico della " millantatrìce „  (cfr. TùMPEL in Roschek Lex. II 1, 993) che compete in  bellezza con le dee e ne è punita in sé o nella prole. I  luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non  hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  è indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser  stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con  Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come  moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo  fr. 23 Rz. ^), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un  luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B 533.  Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici  e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e  quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geogra-  fici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son con-  seguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel  quando su la fede dei luoghi citati asserì Cassiepea esser  beota [o. e. 988 sgg.). — Ma se la " Millantatrice , è  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con  Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per con-  tiguità di luoghi ma a compimento della trama novelli-  stica che quelli comprendeva. Non è quindi dubbio che  la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel mo-  mento in cui la figura di questa viene appunto novelli-  sticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode  libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diven-  tava necessario giustificare in qualche modo la cattività  della fanciulla; alla quale il vanto della " Millantatrice ,  potè divenire argomento sufficiente (contro Tumpel o. c.  989-90). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame     CBFEO FINEO E CASSIEPEA 347   di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipo-  tesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e  in quella parte del mito ohe più le attiene alcun indizio  d'un'antica e diversa vita mitica.   Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr  VII 2417 sgg. ha messo a sufficenza in luce il sostrato  naturalistico del mito, che è più propriamente suo, delle  Arpie di Elios e de' Boreadi; ciò è la lotta dei caldi  venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole  e di danno, contro i venti del Nord , che insorgono a  respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo  settentrione. In questo sostrato però non si vede elemento  alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel  mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che è fra  la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva  anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. — Ma se  le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza con-  traddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a  l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintrac-  ciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello  l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimo-  nianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex. Ili 2, 2354 sgg.).  Colà egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' po-  poli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei  Fenici (Bkloch Griech. Gesch} I 2, 71) e con Egitto e Libia.  Di qui appare possibile anche l'ipotesi, — contraddicente  quella cui si pervenne pur ora, — che il nesso fra Fineo e  Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico  ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli  Etiopi in senso geografico. — Senza dubbio però le tracce  che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso  Apoll. Ili 97 ove Fineo è figlio dell'arcade Licaone  e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove è rex Ar-  cadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo     348 I. - ANDROMEDA     e determinate da questo. Né giova a sostegno del con-  trario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ;  perché non è giusto che ci uniformiamo al sincretismo  de' mitografi Greci, onde più figure analoghe di numi  erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dob-  biamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, rite-  nere che in luoghi diversi esistessero divinità analoghe  parte simili parte dissimili, senza che la località del-  l'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre.  Restano ancóra da indagare le attinenze tra Fineo e  Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in  tutta la sua complessità. A tale scopo è necessario rico-  struire lo schema genealogico la cui esistenza sia presu-  mibile presso Tepica esiodea. Il Tììmpel (negli articoli  citi (1) del RoscHER Lex. II 1, 986 sgg. e 1107 sgg.) ha con-  siderati divisi e distinti i due frr. di 'EìSiq-do {Rzach^) 31  e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica  di due Cassiepee, secondo questi due schemi :     I (fr. 23) :   Tronie ~ Ermes   I  Arabo   I  Cassiepea     II (fr. 31) :   Agenore  I  Cassiepea ~ Fenice   I  Fineo     Il testo SU cui si fonda è Strab, I 41-2: — che per vero  egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed  Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQÌ òì     (1) Che han per fondamento, insieme con l'altro art.  del Lex. II 1, 293, il voluminoso saggio dello stesso  TùMPEL in " Jahbb. Phil. , Supplbnd. XVI (188?) 129 sgg.  II concetto essenziale di questo saggio (che nella più  antica forma del mito la sede dell'episodio di Andro-  meda fosse Rodi) è stato, mi sembra a ragione, confu-  tato dal KuHNERT 0- e. 1021-2.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 349   TÒùv 'EQ£f*pò}v TtoÀÀà fièv s'iQrizai, 7if&avù)raT0t Sé elaiv  ol voui^ovreg zovg "A^afiag Àéyea&ai. Tuttavia nel verso  omerico   Aid-iOTidg '&' ly,ófA,t]v koI Siòovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84)   non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te :  perché, — dice, — non v'è corruttela di testo; v'è bensì  mutazione di nome dalla più antica all'età posteriore.  Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece év  KaiaXóyqj conosce Arabo:   Kal xoijQ'ì]v 'Aqcì^oio ...KTé [fr. 23].   Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che già ai tempi di  Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse an-  cora ai tempi di Omero (aarà tovg rJQcoag). — Di questo  passo l'interpretazione non può essere, pare, che una :  Esiodo faceva fCassiepea] (1) figlia di Arabo, figlio a sua  volta di Tronie ed Ermes. Il Tììmpel in vece si lascia  fuorviare dalla menzione, che quivi è fatta brevemente,  degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il  nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqu-  fioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde  integra il fr. cosi:   Tronie ^ Ermes   1   Arabo   I  Cassiepea ~- Cefeo  1  Andromeda.   Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi-     li) Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. II 178 e  Anton. Lib. 40.     350 I. - ANDROÌWEDA     tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. — \Ì7tò  yàQ xov elg zìjv ^Qav é/*fiaìvetv toòg 'EQe/*fiovg èzv(ji,oÀo-  yovat, oUvcùg ol tioààoI, ofig fieraÀafióvzeg ol dareQov ènl  TÒ aacpéateQOv TQtùyÀoóviag éndÀeaav ' oìtoi Sé (ol  'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olèTcl&dzegov fié-  Qog Tov 'Agafilov kóÀtiov kskÀ i fiévo i , tò TiQÒg  AlyÙ7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, — continua, — per tal  motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero:  in causa, ciò è, della lor vicinanza con gli Etiopi, citati  nel verso medesimo : to-ùtoìv (twv 'E^efifi&v) eluòg fie-  fivìja&ai TÒv TioifjTÌjv xal TiQÒg vovTOvg à(pl%d-aL Xéyeiv  TÒv MevéXaov, xad' hv tqótiov sÌQrjxai, xal TtQÒg zovg  Ald'loTiag' zfj yÙQ Orjfiatdt nal odzoi TtÀTjaid^ovoi. E pa-  rimenti {ó/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g àTioòrj-  filag (xdQLv) y,al zov èvòó^ov. — Come si vede, gli Etiopi  servono a dare un'idea della positura geografica degli  Erembi {^QÒg) e a fornire un motivo dell'averli Omero  ricordati insieme. Ma si è ben lungi da una qual si voglia  identificazione " Erembi = Etiopi „ ! L'unico dato posi-  tivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava è la  discendenza di Cassiepea da Arabo. — La qual notizia  spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui è a sua volta  integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg  TÌjv Kad"' ^f*àg ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQÌ ztjv 'Av~  ÒQOftéSav èv 'lÓTZì] avfifiy\val (paai ' oi> ór'jnov xar' ay-  voiav Tonimjv aal zovzcùv Àeyofiévcov, àÀÀ^ èv ^v&ov  fiàÀÀov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaióSq) aul  zoìg aÀÀoig à 7tQ0(péQei ó ' AnoXXóòoìQog ... „ Vi erano  adunque alcuni (1) che fondandosi su Esiodo portavano gli     (1) Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust.  Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia  del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa  e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte.     OEFEO FINEO E CASSIBPBA 351   Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi  questo fatto è che in Esiodo era moglie di Fenice  (fr. 31 Rz.^) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  è regina degli Etiopi. Non è quindi in nessun modo  lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse  ad essere moglie di Cefeo : né si vede a che condurrebbe,  COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo  altrimenti chiaro. — Concludendo, da Strabene, ben letto;  può risultar soltanto: 1) che Cassiopea era figlia di Arabo  in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi per-  messo unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente  schema esiodeo :   I-f II (fr. 23 + 31):   Tronie -^ Ermes   I Agenore   Arabo j   I I   Cassiepea -^ Fenice   I  Fineo.   Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito ele-  menti secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi  principali raccolti nei due nessi " Cassiepea-Fineo „ e  "Fenice-Fineo „. Quest'ultimo è senza alcun dubbio da  spiegarsi al modo medesimo del nesso " Arabo-Fenice ,  "Fenice-Egitto, ; come, ciò è, un avvicinamento di numi  eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stra-  nieri. — Ma il primo di quei nessi non può legittimarsi  se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo  e Cassiepea (poiché l'ipotesi d'un legame casuale non  servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E  difatti un'affinità si vede sùbito tra le due figure invise  agli dèi e dagli dèi punite : l'una come " millantatrice „;  l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di più poi per-  mette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione     352 I. - ANDROMEDA     addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo  avrebbe preferito una lunga vita alla vista , offendendo  Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via  a Frisso (ibid.); Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le  Simplégadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il 305  sgg.). Ora è ovvio che il terzo motivo è ricalcato sul se-  condo, e molto tardo ; che il secondo è posteriore alla  localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che  il primo è il piìi antico. Ma del pari è ovvio che di  questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando  il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo andò  inavvertito ; giacché prima era sufBciente a tutto  legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non è  pertanto improbabile che in quell'età comparativamente  non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novelli-  stici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come  piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del ve-  dere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma di-  versa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio (1 ),  Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia  esiodea. In somma, può darsi sia che Cassiepea e Fineo si  connettessero primamente per i motivi or ora supposti,  sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del  quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri.  Riassumendo ora in breve i risultati delle singole in-  dagini, veniamo a importanti ipotesi :   a) Cassiepea (1) offre al mito di " Perseo (ll)-Cefeo (III)-  Andromeda (Etiopi) , uno spunto, ed entra in quella trama  (pag. 346sgg.);   b) Fineo si unisce a Cassiepea (I) per lo spunto no-     (1) L'ipotesi è del mio maestro G. De Sanctis; la re-  sponsabilità dell'argomentazione è mia.     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 353   vellistico che trova in questa la causa della pena di quello ;  o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice),  come rappresentante di genti straniere (pag. 352);   e) Fineo si unisce a Perseo (II) come nume del bujo  ad eroe solare ; o, in linea secondaria, a Cefeo (III) come  rappresentante di genti straniere.   Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sen-  sibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo ;  V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e  specie nel duello tra Perseo e Fineo.   Se non che questa è una matassa confusa di cui bi-  sogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a sé, e  d'importanza minore, è costituito dalle attinenze a sostrato  etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo)  la loro natura evidentemente tarda è tale, che ove ac-  canto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a so-  strato naturalistico o novellistico, a questa è da dar la  preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  è costituito da questo racconto, coerente e conchiuso :  Cassiepea si vanta e la divinità offesa la punisce nel figlio  Fineo (h); questi è condannato a venir superato in duello  da Perseo (e). Un terzo gruppo infine è costituito da  quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso ;  Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne è punita 5  Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  è testimoniato in Ferecide (■= Apollodoro) ; il pili ipote-  tico è il secondo : esso suppone in vero e una variante  su la causa della pena di Fineo (v. sopra), e una va-  riante su questa pena medesima : vale a dire tutto un  mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di  coteste varianti non è affatto improbabile nella ricchezza  di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega  molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di  Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo;  A. Ferrabino, Kalypso. 23     354 I. - ANDBOMEDA     discendenza e duello che si potrebber bensì giustificare  pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro  a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi però  che non ci saprebbero render ragione né della singolarità  per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che  uno spunto mitico può ottimamente congiungere, né  della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il  protagonista dello spunto novellistico. Poiché invece  l'equivoco si può ammettere solo ove sieno confusi ele-  menti tra sé inconciliabili e discrepanti; e la preferenza  casuale si può concedere solo quando la preferenza lo-  gica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi  nostra, — pur non pretendendo di rispondere con esat-  tezza alla verità né di essere perentoria, — spiega al-  meno nel modo che pare pili semplice tutte le testimo-  nianze che sono a noi conosciute. E, — ultimo vantaggio,  non piccolo, — ci fa intendere come il secondo gruppo e il  terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si  fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la  figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea  si vanta (a-b), la figlia di Andromeda ne è punita e Perseo  la libera (b) col tradimento di Fineo che è ucciso da  Perseo (e).   Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar  conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secon-  dari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo  e Perseo. L'Egitto e la Libia son già noti all'epopea  omerica : 11. / 381 Od. d 85 i 295; e sono trasparentissimi  simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.  Ma più oscura è la essenza di Agenore (cfr. Stoll in  RoscHEK Lex I 1, 102-4). Se si prescinde da II. A 467  A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio  del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza  eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi     CEFEO FINEO E CASSIEPEA 355   ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza  attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala  pena si collega per nessi insignificanti e punto caratte-  ristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv. 9, 4) singolare  di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe ricon-  nettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un  Agenore argivo (Pads. II 16, I 14,2; Apoll. II 1, 2; Igino  Fav. 145; Ellan. app. scoi. A II. F 75) o un Agenore avo  di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads. VII 18, 5)   un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Ar-  cadia (Apollod. Ili 92) un Agenore etolico figlio di  Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll.   1 58 cfr. Igino fav. 244), se rendono non dubbia una  larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti  a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a  prender inizio. Poiché non può esser qui da discutere  l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il   peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo  e Fenice per motivi di contiguità geografica con il primo  d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del  nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore  al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto del-  l'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra  fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnico-  geografica, sembra da preferirsi la congettura che in  quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualità di  rappresentante dei popoli che abitavano la Troade ,  grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo  simboleggia : congettura che è confortata dal nesso di  Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice  (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.^ I 774).   L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo  a noi pare, quel che affermammo nell'inizio (pag. 342).     356 I. - ANDROMEDA     11 personaggio fondamentale di questo episodio mitico,  Cefeo, è peloponnesiaco; l'altro personaggio che come  Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si  diiFon,de: dunque il Peloponneso è l'area dove s'informa  il mito, se pure non è quella ove si crea. Fuori da quel-  l'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare.  Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia „ prima,  in seguito vittima del n^rog : personaggi novellistici  della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi  la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle  quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il  risultato rimane , è d'uopo convenirne, opinabile. Tale,  credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perché  ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese,  a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia  perché ci parve tesi, se non di per sé probabile, molto  possibile al meno, e dalla probabilità certo non lontana.   VI. I miti etimologici presso Erodoto (VII 61)  ed Ellanico (frr. 159. 160). — Che il nome di Perseo  sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non  può far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i  particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti  anzi tutto Erodoto VII 61, 2 : — 'EKaÀéovTO óè ndÀai (1)  ÒJiò [*hv 'EÀÀ^viàv Krjip^veg, vtiò fiévroi. aq>é(Ov atx&v  nal Tù)v 7t£(iioìxù)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg ó Aavdt^g  Te Kai A log ànineio na^à K'^ifpéa xòv Bì^àov, nal è'aj^e  aitov Tì]v d-vyatéQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^  oi!vo/A^a ed'ETO TléQarjVj tovtov óè airov y^avaÀsCnei ' èvóy-  ^ave yÙQ ànaig èòv ò Kt]<pEvg egaevog yóvov. "Eni zovvov  oh TÌ^v éTitovvfiirjv ea^ov : con Ellanico fr. 159: — 'Aliala,     (1) Sogg. : " i Persiani     I MITI ETIMOLOGICI PBESSO ERODOTO ED ELLANICO 357   Ile^aixìj %(JiQO; tiv ènóÀiae Heoaei's, ó Ilegaécag koI ^Av-  ÓQOf*édag [= Stef. Biz. 'AQTala). Le due notizie concor-  dano nel rieonnettere il nome Persiani a un Perse {Usq-'  aevg presso Ellanico è svista) e nel ricordar di quel  popolo un nome anteriore " Artei ,. Questa è forma che  ritorna in nomi persiani frequentemente : tali, Artabazo,  Artaferne, ecc. (cfr. E. Meyee G. d. A.^ l 2, 900. 924.  929) : quindi non v'ha alcuna difficoltà critica a spiegar  la presenza di questo nome nel mito. Ma Erodoto ci dà  di pili un nome di " Cefeni , : con cui gli Artei (= Per-  siani) sarebbero stati noti presso i Greci : — in cui però  non è né pur difficile riconoscer l'invenzione erudita év  ax^fiavi fiv&ov. Popolo di Cefeo eran, — come si vide,  — da principio gli Etiopi ; quando però Perseo e Per-  siani furono avvicinati dalla leggenda, si era già troppo  localizzata geograficamente 1' " Etiopia „ a sud dell'Egitto  perché fosse possibile un'equazione fra Etiopi e Persiani.  Bisognava pertanto, a designar i sudditi di Cefeo, usare  un termine diverso : e da Cefeo si derivò * Cefeni „.  Questi, secondo logica, avrebber dovuto equivalere agli  Etiopi „ : e tale concetto ritroviam difatti presso Stef.  Biz. Aifivrj (Aid'iOTiCa = Kri^pTivli]) e '/otti; (cfr. inoltre  FHG. m 25, 4 e GGM. II 375); in realtà però furon  concepiti come diversi, cosi che la saga la quale loca-  lizzava in Etiopia o in Fenicia l'episodio di Andromeda  non parla di Cefeni, mentre l'altra che l'episodio loca-  lizza fra i Persiani non parla di Etiopi. Solo più tardi  (a e. presso Ovidio), perdutasi coscienza del vario con-  tenuto de' due termini, entrambi si usano indifferente-  mente. (Sui Cefeni v. Tùupel in Roschkr Lex. II 1, 1104,  ov'é il materiale, ma non si trova alcun'ipotesi accetta-  bile). Va pertanto ritenuto che Cefeni eran detti i Per-  siani dai mitografi, dopo che Perseo s'era fra essi per  mito etimologico insediato; e che quel nome non ha     358 I. - ANDROMEDA     quindi alcuna analogia con l'altro , di ben diverso va-  lore, Artei (1).   Parallelo al fr. 159 è il 160 di Ellanico : (= Stef. Biz.  XaÀóaìoi) XaÀóaìoi ol n^órsQov Krjcp^veg ... Krjcpéoìg oi-  nért ^òìVTog, (Xigaievadifievoi ex Ba^vÀòjvog, àvéatt^aav én  zrfg xwQag. y,al tìjv *XoyT]v sa^ov. Oiy.éti ^ X^QV Ki^cpìjvit]  TiaÀserai, oòS" àvd-qoìnoi ol èvoiy.ovvTsg Kijq>rjv£g, àÀÀà  XaÀSaloi. — Il soggetto di àvéoTrjaav qual è? Dev'essere  XaÀòaìoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto  (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.^ Ili 2061-62).  L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non  indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro  fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E,  come quei di Babilonia eran di gran lunga più noti, da  questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non  che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino  alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano  da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen  in RoscHER Lex. Ili 2, 2370-1); e da Fineo rappresentati.  Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia)  e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono  conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva sce-  gliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo è fratello di  Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Ce-  feni vennero assunti a nomi pristini della regione e del  popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babi-  lonia, i Caldei.   VII. I frammenti dell' " Andromeda „ di Euri-  pide. — Su i framm. che di questa tragedia euripidea  ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck     (1) Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento  dello Stein come quello del Macan a Erodoto.     I FRAMMENTI DEtL'" ANDROMEDA , DI ECUll'IDE 359   FTG} 392 sgg. furon tentate piti di una volta ricostru-  zioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm. (1829),  Wklckek Die Griechische Tragedie II (1839) 644 sgg.,  Hartcng Eurip. restitutus II (1844) 344 sgg., Wagner  fragni. Eurip. (1846) 646 sgg., Fr. Fedde De Perseo et  Andromeda (diss. 1860) 11 sgg., P. Johne Die Andromeda  des Euripidea in * Elfter Jahresbericht des K. K. Staats-  Obergymnasiums zu Landskron in Bòhmen , (1882-1883),  Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg.,  E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex. Ili 2, 1996 sgg.,  Wecklein in * Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss.  H.-Phil. Kl. „ 4 febbr. 1888 I 87 sgg., Edwin Mùller Die  Andromeda des Euripides in '' Philologus , LXVI (N. F. XX)  1907 pag. 48 sgg. (1).   Di tutte le trattazioni citate scopo è ricostruire la tra-  gedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i  singoli episodi nel loro succedersi, la struttura comples-  siva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei  varii personaggi. Ma appunto perché tale è il loro fine,  né pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice  inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre è pacifico  oramai che Euripide si deve essere pili o men libera-  mente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  è riprodotto in Ferecide e che deve aver più o men pro-  fondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche  le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coin-  cidere quanto più e meglio è possibile i frammenti con  il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei par-  ticolari quella libertà che in generale si concede al poeta     (1) Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. J. H. Hcddilston  Greek Trag. in the tight of vases painting (London 1898)  23. 35; con le antichità sceniche, Engelmann Arch. Stud.  zu den Trag. (Berlin 1900J 63 sgg.     360 I. - ANDROMEDA     tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile  dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual  non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti ap-  punto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a  quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi  medesimi.   Uscire da questi circoli viziosi, — che sono i fonda-  mentali e in cui altri minori si assommano, — non si può,  io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il  raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi  e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tra-  gedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi  suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scer-  nere.   I framm. 150-152-153 debbono venir lasciati in disparte  per l'ambiguità della loro interpretazione: giacché se b  innegabile che in essi è asserita la instabilità delle umane  vicende e l'incostanza della fortuna, non è men vero che  tale asserzione può colorire assai bene , cosi l'angoscia  di Andromeda offerta preda al x^zog , come l'ansia di  Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda  insidia sùbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151  si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto  a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'ó^a^rm; quanto  a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar  la figlia. I framm. 119-122 in vece lasciano trasparire  una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non  tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del  dramma: — debbono pertanto essi pure venire, al nostro  scopo, omessi. E quasi lo stesso è da ripetersi per i fram-  menti 145-148, che tanto svelano in parte l'azione quanto  8on vuoti di contrasto passionale.   n primo gruppo che attira la nostra attenzione è quello  124-132. Perseo giunge volando traverso l'aria a una     I FRAMMENTI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 361   terra di barbari (124); scorge sùbito, su la riva del mare,  TteQÙQQVTOv à(pQ(p &aÀd(jat]g, una vergine, nag^évov eixo)  riva, Andromeda (125). I versi che seguono (126-132) non  possono non appartenere, com'è concorde giudizio, a un  colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro  che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'es-  sere troppo stretta attinenza perché sia possibile pen-  sare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e  Cefeo. Il quale è pertanto da escludere prima del col-  loquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora,  attirano lo sguardo due frammenti specialmente: 129,  132. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual com-  penso egli potrà avere dopo la sua vittoria contro la  belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo An-  dromeda si offre, — ed è questo da ritener il compenso,  — ette riQÓaitoÀov &éÀeig \ elY aÀoy^ov ehe óf^coió'... Da  entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile  dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un  lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di An-  dromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere;  dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di rite-  nersi libera nel disporre della propria persona. Onde,  confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll.  (= Febecide, V. § 1) II 44 (TavTTiV ["AvÓQOftéSav] d'ea-  aduevog ó HeQaevg Kal égaad'elg, àvai^i^asiv vnéa'x^szo  Krjq>st TÒ y.fjTog, el ^ékXei aùì&etaav adtrjv aiz(p ó(óasiv  yvvatxa) appare, in tutta la sua profondità, la discre-  panza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui  il patto si stringe tra i due giovini ; la Ferecidea, per  la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo  grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza  bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non  dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboc-  camento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse     3G2 I. - ANDROMEDA     esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apol-  lodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. Né si obietti  che la tradizione posteriore è concorde nel serbar quel-  l'abboccamento e nel serbarlo com'è presso Ferecide ;  poiché tal fatto deve, di fronte alla logica argomenta-  zione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la  genialità innovatrice di Euripide non esser stata imitata  che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe.  Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo in-  sieme è costituito dai framm. 134. 135. 137. 138. 142.  143. 149. Essi si dividono sùbito in due serie, contrappo-  nendosi l'una all'altra. La prima (134. 137. 138. 143. 149)  è un vanto del valore, degl'ideali, della nobiltà spirituale,  di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio del-  l'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in partico-  lare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKÀeiav  eXa^ov oèn avev noXXòiv nóvcav) e con rigoglio di gio-  vinezza {veózrjg fi' èjiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono  alle ricchezze un nobile amore {yevvalov Xé^og ... éa&ÀòJv  èQù}fiév(ùv) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla  felicità. La seconda serie in vece è tutta una dichiara-  zione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il po-  vero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che  non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco  anche se schiavo è stimato (taì dovÀog S)v yÙQ tC/Mog  tiXovtGìv àvfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso otòhv  ad'évei: onde di tutta la serie può esser conchiusione il  verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vófii^s aavzòv e^vex'  eìtvxeIv. Fra queste due serie può trovar posto anche  il fr. 154 : ove però venga letto non nella forma in cui  lo dà il Nadck 404, che è inintellegibile, ma nell'emen-  dazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 tò ^ijv àcpévza ae  Kazà yijs r£/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvóv y' ' 5vav  yàQ ^fl tig sÌTvx£tv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso as-     I FBAMME^TI DELl' " ANDROMEDA , DI EURIPIDE 363   3omma bene in sé il contrasto delle due serie opposte  che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura  la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ;  e il materialismo gretto che nella vita vuole il godi-  mento e aborre dal morire e non scorge più oltre. —  Ora, se si può questionare, ove si voglia, su l'attribu-  zione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non  può in vece dubitarsi su la realtà del contrasto passio-  nale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve  dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama  del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti  troppo mal sicuri e fors'anche inutili.  Terzo spunto ci è offerto il fr. 141 :   èyò) Ss TiaìSag oiy. écj vó&ovg ÀaiSetv'  Tù)V yvrjaiitìv yÙQ oiòèv òvieg èvòeelg  vófKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQE<hv.   Del quale due interpretazioni sono filologicamente pos-  sibili: 1. * non voglio che tu Andromeda prenda (= sposi)  de' figli illegittimi „ ; 2. " non voglio che tu Andromeda  prenda (= generi) de' figli illegittimi ,. Il Wecklein 92  sembra preferire questa seconda; il Kdhnert 1999 dom-  maticamente e non senza ironia la respinge, e si attiene  alla prima. Anzi tutto però si osservi ch'è fuor di luogo  avvicinare al fr. 141 il verso 11 del V delle Metam. di  Ovidio :   " Nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum  Juppiter eripiet „.   Giacché in questo v'è un'allusione bensì alla paternità  divina di Perseo ; ma non cosi fatta da equivalere a un  biasimo [vód'og), biasimo che nel fr. è, comunque inteso  e a chi che sia riferito, indubbio ed esplicito: v' è più     364 I. - ANDROMEDA     tosto un'offesa al Dio che generò Perseo e che Fineo  sfida ; v'è, in somma, un riconoscimento a bastanza lusin-  ghiero dell'origine nobilissima onde si vanta l'eroe. Se  il ravvicinamento fatto non vale, per decidere tra le due  possibili interpretazioni non restano che due vie: il porre  il fr. nell'insieme del dramma e del mito ; l'inquadrarlo  nelle condizioni sociali di Atene sul finir del V sec. —  Ora il fr. 141 insiste esplicitamente sul vó[A,og in forza del  quale i vó&oi hanno a soffrire : non una consuetudine  simile, bensì una legge. Non solo. Tal legge san-  cisce l'inferiorità dei vód'OL in confronto con i Tialòeg  yvi'jffioi. È applicabile a Perseo questa sanzione ? al figlio  di Zeus che torna a Serifo e poi ad Argo trionfante, per  regnarvi, senza fratelli, rampollo unico di sua stirpe dopo  la cacciata di Preto ? Certo che no. È applicabile in vece  ai figli di Perseo e di Andromeda? Se si ricorda che  una legge di Pericle nel 451 (De Sanctis 'At&lg'^ 470 e  n. 1 cfr. 215 n. 1) pone i figli di una straniera (Andro-  meda è etiopica) nella condizione di vó&oi; se si ram-  menta che tal legge periclea ne amplia una soloniana,  ch'era il riconoscimento giuridico d'una consuetudine di  cui già in I 202 è traccia e che valse anche e sovra  tutto pei re; si deve rispondere che si: che cioè i nati  a Perseo da Andromeda, avrebbero nel diritto ateniese  potuto trovarsi e come uomini e come principi in con-  dizioni inferiori a petto di altri eventuali nalòeg yvfjatoi,.  Né si dubiti che la legge di Pericle non avesse più tutto  il suo vigore nel 412. Tutt'altro : nel 414 Aristofane fa-  ceva rappresentare gli Uccelli ove al v. 1660 si richiama  il decreto di Solone a proposito a punto di Eracle ìóv ye  ^évrjg yvvaiKÓs (1651):   HPA. èyòì vód-og ; tu Àéyeig ; IIEI. ah fiévroi vrj Ala,  &v ye iévrjg ywamóg     I FKAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 365   HPA. Ti S\ ìjv ó TtaiìiQ èfwl óió(p xh yqii^axa,   vód-cp ^ ^ano&vfjayiùìv ; IIEI. ó vóf.iog adròv oìk éà ,  odvog ó Iloasióctìv TtQtÒTog, bg èTiaÌQet, ae vvv,  àvd-é^eiaC aov tùìv Tcar^ipcov ')(^Qì]j.vàxùìv  q)d(jno)v àóeÀcpòg atvòg elvai yviqaiog.  èQòJ Se Sì] Kul TÒv 2óÀù)vóg aoi vófA,ov ' ktÀ.   Non è quindi da dubitarsi che Euripide poteva senza  esser frainteso dagli uditori alludere alla legge ateniese  sui figli di straniera. — D'altra parte non mancano ragioni  per ritenere che a quella legge egli doveva alludere più  tosto che all'altra su i vó&oi nel senso più largo. Questa  di fatti era troppo normale e ovvia e antica perché po-  tesse più meritar l'accenno del poeta turbato da' problemi  sociali; quella per contro era e singolare e nociva agli  interessi di molti e alquanto recente. Qui era il ndd'og;  là no.   Riassumendo, gli unici contrasti di passione che dai  framm. risaltano con certezza sono: 1. l'amore di An-  dromeda e Perseo nella sua prepotente e individualistica  libertà; 2. l'urto fra l'idealismo e la grettezza materia-  listica ; 3. il rincalzo che la quistione giuridica e sociale  dà a quell'urto in favore della grettezza pratica e contro  lo slancio spirituale. — I problemi minori : se Fineo sia  parte, e qual parte, del dramma; come differiscano fra  loro Cefeo e Cassiepea: posson risolversi, ma con con-  getture esti-emamente mal certe.   Una quarta, e ultima^ linea del quadro ci dà [Erato-  stene] nei suoi Catasterismi : il contrasto fra l'affetto figliale  e l'amore in Andromeda (cfr. [Eratost.] Catast. 17 'Av-  dQOfiéSa).   Ora, se si tengon presenti i conflitti cosi delineati,  non potrà cader dubbio sul momento cui compete il  fr. 136, che solo, io credo, merita di venir assegnato al-  l'uno più tosto che all'altro punto della tragedia:     366 I. - ANDROMEDA     ai) 6' (ó d'eiàv TVQavvE yiàv&QÓiTiaiv "K^cog,  ^ fA.ri dldaarKe za xaÀà (paCvead'ai HaÀd,  ■^ TOÌg ègùaiv Eizvji^ùg avvenTtóvei  f^ox'd'ovai fióx&ovg &v ah óijfiiovQyòg et.  Kal vavza f*èv ÒQcJv ri/iiog d'vr^TOÌg (1) ?atj,  [lì] Sqwv ò' vk aizov tov óiSdaxea&ai (piÀelv  àq)aiQs&tjafi ydQttag alg rifiùai ae.   In genere il fr. si attribuisce a Perseo, prima del com-  battimento col K^Tog: cfr. Fedde 31, Johne 12, Wecklein  97, Moller 61 e n. 61. I quali intendono i iA,ó%d-oi di cui  Eros è causa in senso del tutto materiale. In vece, a chi  tenga conto della concezione che Euripide ha dell'amore  (cfr. p. e. W. Nestle Euripides pag. 222) appare molto  più dicevole l'interpretarli in senso psicologico e riferirli  ai contrasti che Perseo e Andromeda incontrano dopo  l'uccisione del nfjiog. — Se non che i critici citati sogliono  addurre per loro argomento Luciano de conscr. kist. 1 e  FiLosTRATo im. I 29. Il primo : tììv tov Uegaétùg ^ijatv èv  fiéQsi (2) SiE^f^eaav nal fisavì] i^v -fj TióÀig ò^qìòv àTidvTWv  aal ÀejiTÒJv xùv é^óoftaiiov èKeivoiv zQayqìóòiv " 2v d' (L  d-eòjv liQavve ■x.àvd'Qbìmùv "EQog , Kal rà àÀXa (AeydÀrj  Tfj qxììvf] àva^owvTtav Kzé. Ora, che si recitasse con tanta  frequenza la ^iiaig invocante Eros in una età ch'era  sotto l'influsso alessandrino non dice nulla quanto al  posto che nella tragedia la ^'^aig occupava; ma, se mai  dice qualcosa , è a favore della nostra tesi : perché le  parole di Luciano, lasciano intravvedere una interpreta-  zione, da parte degli Abderiti, tutta intimamente passio-  nale della preghiera all'Amore. Quanto poi a Filostrato     (1) Il testo ha d'eolg; la corr. è proposta dal Dobbeb.   (2) Sogg. " gli Abderiti ,.     I FRAMMENTI DELL' " ANDROMEDA „ DI EURIPIDE 367   l. c, la sua testimonianza è ben più esplicita: xal yàQ  sdx'iv àvE^dÀeio rtp "Egcaii ó HsQasvg tiqò tov è'Qyov.  Ma deve essere rettamente intesa. Sul cratere di Andro-  meda del Beri. Mus. Inv. 2337 (Bethe in " Jahrb. d.  Arch. Inst. , XI 1896), ch'è della fine del V sec. e di poco  posteriore nW Andromeda, è rappresentata Afrodite nel-  l'atto d'incoronare Perseo. Che significa? Par chiaro che  il pittore ha voluto a quel modo esprimere con la figura  il sentimento ch'era il sostrato della tragedia e la com-  mozione più forte per gli spettatori. Di poi, il rappre-  sentare la Dea dell'amore accanto a Perseo e Andromeda  divenne parte de' motivi tradizionali di decorazione. E  Filostrato, ch'e sotto l'influsso di quelli, fa difatti scio-  glier la fanciulla dai legami ond'è avvinta, appunto da  Eros. A questa medesima corrente tradizionale è dovuta  anche la frase riportata dianzi, e ha lo stesso valore:  ciò e non ne ha nessuno per la ricostruzione della tra-  gedia. Probabilmente qualche scena dipinta raffigurava  Amore o, che fa lo stesso, Afrodite benignamente guar-  data da Perseo : Filostrato ne ripete il motivo e ne dà  la sua libera interpretazione imaginando l'eroe che prega  la Dea prima del duello. — Mentre dunque il testo di  Filostrato non ha nessun valore, molto significativo è il  silenzio di Ovidio. Questi segue {Metani. IV 672 sgg.) assai  da vicino Euripide; si trova in oltre sotto l'influsso dell'a-  lessandrinismo che delle scene e situazioni erotiche molto  si compiace; aveva quindi forti impulsi a ripeter l'in-  vocazione ad Eros. Non la ripete. E ciò si spiega, s'essa  apparteneva al conflitto nato dall'opporsi i genitori al  patto dei giovani, perché questo conflitto Ovidio ha  soppresso, cosi che gli venne anche soppressa la ^'^ais-  Non si spiega, se si fa precedere il fr. 136 al duello,  perché in Ovidio il duello è rimasto ed è ampiamente  svolto. Conchiudendo per tanto, è da tener fermo a quella     ■ Bvolt   i     368 I. - ANDROMEDA     attribuzione di esso framm. che fin dal principio par la  più ovvia, a chi conosca la trama sentimentale della  tragedia.   La quale ci sembra cosi ricostruita in quei limiti che  dagli stessi frammenti vengono imposti.   Vili. Euripide nel 412. — Abbiamo tentato (sopra  p. 60 sgg.) di ricostruire le tendenze più spiccate dello  spirito euripideo nel 412 a. C. valendoci deìVEIettra (413)  e àeWElena (412). Naturalmente talune delle affermazioni  intorno a quel problema valgono, o dovrebbero valere,  per la complessiva persona di Euripide. Ma non credo  opportuno né di riferire una bibliografia compiuta né di  impegnar minuta discussione su i singoli punti. Rinvio  soltanto a: Decharme Euripide et V esprit de son théàtre  (Paris 1893); Verrall Euripides the rationalist (Cambridge  1895); Nestle Euripides der Dìchter der griechischen Aiif-  klàrung (Stuttgart 1901) ; Masqueray Euripide et ses idées  (Paris 1905). Questi libri (1) però, notevoli per ampiezza  di trattazione e larga conoscenza del materiale, hanno  il torto, con gli altri numerosi che vi si trovano citati,  di voler ricostruire un presupposto sistema filosofico di  Euripide ; indi la tendenza a catalogarlo, dividendone lo  spirito sotto varie rubriche. Cosi va perduta la vita di  esso spirito, ch'è la sola realtà. Fini osservazioni sono  in Croiset " Journal des Savants , VII (1909) 197-205 e  246 ; acuti rilievi, come sempre, nel Wilamovp'itz Einlei-  tung usw. ed Hera1cles~. Per le allusioni storiche di Eu-  ripide v. E. Bruhn * Jahrbb. f. class. Phil. „ Supplb. XV  (1887) 314 sgg. e L. Radermacheb " Rh. Mus. , LUI (1898)     (1) Per ragione di tempo, non ho potuto vedere i!  recentissimo voi. di G. Murray Eur. and his age.     BUBIPIDB NEL 412 369   508. Il recente libro di H. Steiger Euripides, seine Dich-  tung und seine Personlichkeit (= " das Erbe der Alten ,  Heft. V, Leipzig 1912) rappresenta senza dubbio un buon  tentativo per delineare l'ardua figura euripidea; ma è,  a mio credere, viziato per un lato da poca profondità,  per l'altro dal parallelo costituito fra Euripide ed Ibsen;  parallelo che è di poco rilievo dove può farsi con cer-  tezza (cbé molti altri se ne potrebbero istituire analo-  gamente); e di nessuna utilità è dove l'autore vuol at-  tribuire a Euripide caratteristiche testimoniate solo per  Ibsen (che in ciò è arbitrio). Pregevolissime sono le poche  pagine di E. Schwartz Charakterkopfe a. d. antiken Lite-  ratuì'^ I (1910) 36-46; le sue intuizioni colpiscono, se-  condo a noi sembra, quasi sempre nel segno ; avrebbero  solo bisogno di uno sviluppo, che sarebbe anche appro-  fondimento, maggiore.     A. Fkrkabiko, Kalypso. 24     CAPITOLO IL  Il culto di Demetra in Erma.     I. — Sul notevolissimo culto siciliano di Demetra e Per-  sefone in Enua si combattono due teorie. L'una è soste-  nuta dal HoLM Storia della Sicilia nell'antichità (traduz. ital.)  I 172 sgg. che ritiene preesistente all'influsso greco il  culto della sola Demetra; e dal Fkebmax History of Si-  cily I 169 sgg. 530, il quale preesistente ritiene anche  Persefone. L'altra teoria è sostenuta sovra tutto da  E. CiACERi Culti e miti nella Storia dell'antica Sicilia  (Catania 1911) 3 sgg. 187 sgg. : questi difatti, pur non  negando la verisimiglianza di un culto siculo alla Dea  alle Dee, afferma di non saperne trovare indizio vera-  mente probante, di esser invece costretto a riconoscere  il carattere del tutto ellenico di esso culto nell'età sto-  rica e nelle nostre testimonianze. L'argomento fondamen-  tale addotto dall'una parte, e combattuto dall'altra, è la  non possibile derivazione del culto ennense da Siracusa  da Megara Iblea; là dove il Ciaceri addita nel fiorire  della potenza Agrigentina 'sotto Falaride e Terone la via  per esso a penetrare e radicarsi nell'interno dell'isola.     372 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   Per lui di fatti da Gela ed Agrigento il mito e il culto  delle Due Dee si sarebbe irradiato, in Enna nel VI sec,  in Siracusa nel V.   Se non che pare che in tal modo il problema sia  posto con poca precisione. Chi difatti nega il culto esser  entrato in Enna per opera di Greci già nei principi! del  V sec, pretende assai più che non sia necessario alla  tesi di un sottostrato cultuale siculo. Chi per contro  traccia possibili vie di penetrazione in epoca compara-  tivamente tarda, dimostra assai meno che non sia ne-  cessario per rifiutare quel sottostrato. Qui pertanto l'e-  same merita di esser ripreso. E poiché le nostre testi-  monianze vertono sopra il culto ennense quand'esso ha  già assunto foggia greca, non resta da prima che esa-  minarne gli elementi e i caratteri interni, per scoprire  s'essi rivelino o neghino la preesistenza d'un culto, del  pari ennense, ma pre-greco. Solo dopo, se la prima ipo-  tesi si avveri, sarà da determinare, dentro limiti ap-  prossimativi, quel vetustissimo sostrato mitico e cultuale.   II. I caratteri del culto ennense nell'età storica.   — Sottoponiamo dunque in primo luogo ad analisi i carat-  teri con cui il culto e il mito ennense si presentano a  noi, traverso le fonti, nell'età storica. Il materiale si  trova raccolto da L. Bloch in Roscher Lex. II 1, 1284 sgg.  e a lui facciamo rinvio.   Scartiamo il giudizio di Zeus che divide l'anno pel  mezzo anziché per terzi come nell'/nno omerico a De-  metra (v.446). Questo particolare, che il Bloch (col. 1319)  dice * siciliano-alessandrino ,, non può riferirsi alle con-  dizioni agricole di Sicilia, in cui anzi il seme (Cora)  men dura sotterra; ma è d'impronta letteraria alessan-  drina, tendendo a rilevare la giustizia del Dio.   Ma quando la tradizione fa rapire Persefone presso     I CARATTEEI DEL CULTO ENNENSE NELl'eTÀ STORICA 373   Enna e solo presso Siracusa, vicino alla fonte Ciane, la  fa scender sotterra (Timeo in Diodobo V 3-4 = Geffcken  Timaios' Geogr. des Westens " Philolog. Unters. , XIII pag.  104-106; cfr. Ovidio Metamorf. V 409 sgg.). è necessario  intender tutto il valore di questo particolare essenziale.  Si sa che Siracusa fu potente centro di diffusione del  culto di Proserpina nell'isola e fuori. Ora l'esempio della  città di Ipponio è utile a dimostrare come si compor-  tasse il mito secondo le esigenze politiche di essa diffu-  sione. A Ipponio era venerata la Dea; in CIL. X 39  8on ricordate statue e arac di lei. D'altra parte Siracusa  vantava antichissimo culto di Demetra. Per conciliare  l'uno con l'altro culto, il mito narrò che ad Ipponio Pro-  serpina si era recata dalla Sicilia per coglier fiori  (Steab. vi 256): conservò tuttavia — quel che importa —  il primato a Siracusa. — Per Enna avviene il contrario:  è (cioè) evidente che il mito siracusano, perché deve ri-  spettare una tradizione autorevole che il ratto pone in  Enna, non osa far rapire presso Siracusa Persefone, ma  deve accontentarsi di farla presso Siracusa discendere  all'inferno.   Al risultato medesimo conduce anche il testo di Timeo  (DioD. V 4 = Geffcken 105) su Atena ed Artemide che  avrebber accompagnata Cora nel raccoglier fiori e con-  seguita rispettivamente la signoria di Imera e dell'isola  Ortigia mentre Demetra conseguiva quella di Enna. La  presenza di Artemide e Atena nell'antologia è motivo  orfico (v. sotto pag. 389). La testimonianza di Diodoro fa  dunque legittimamente supporre che in Siracusa si adat-  tasse alle condizioni politiche e cultuali indigene un parti-  colare non indigeno. Per questo adattamento sembra epoca  assai propizia la seconda metà del V sec, in cui più ef-  fettivamente ebbe valore l'alleanza tra Siracusa ed Imera  contro gli Ateniesi (Beloch Gr. Gesch} Il 1, 322). Checché     374 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   ne sia, resta certo che, rielaborando l'episodio dell'anto-  logia, Siracusa riconosce, non solo il culto di Atena predo-  minante in Imera, non solo dà rilievo al proprio culto di  Artemide (sui quali v. Ciaceri o. c. 156. 165); ma si ac-  concia a sanzionare la supremazia del culto di Demetra  in Enna. E ciò proprio a un dipresso nell'epoca in cui,  secondo p. e. Ciaceri 193, il culto siracusano doveva su-  perar per fasto quello ennense ; prima cioè che per ef-  fetto della politica di Roma " il culto di Enna assumesse  grande importanza , (Ciacebi 191).   Il valore di questi forzati riconoscimenti del culto en-  nense da parte di Siracusa (fin dal V sec, come sembra)  appare a pieno dopo aver esaminato Ovidio Met. V 462 sgg.  Quivi difatti è narrato come Demetra apprendesse  del ratto : prima la rende accorta la Persephones zona  abbandonata su l'acque della palude siracusana Ciane;  poi Aretusa, fonte dell'Ortigia, le racconta d'aver veduto  Cora nell'Ade. In somma. Ciane e Aretusa tengono presso  Ovidio il luogo che neWInno om. a Demetra hanno Ecate  ed Elios. L. Bloch o. c. 1317, 65 sgg. ritiene "priva di  significato „ questa forma del mito ; L. Malten "Hermes,  XLV (1910) 513 sgg. la spiega come un arbitrio del  poeta pel desiderio di narrare le due metamorfosi di Ciane  e di Aretusa. In realtà essa è molto significativa, se si  ricorda che , ai due personaggi dell' Inno omerico, —  i quali non sono evidentemente che il Sole, l'occhio  che tutto vede nel giorno, e la Luna, che vede nella  notte (cfr. Roschee in Roscheb Lex. I 2 spec. 1888), —  la maggior parte delle saghe, eccettuati in parte i  Fasti ovidiani IV 575 sgg. (v. sotto), sostituiscono nell'uf-  ficio d'informatori presso Demetra figure più concrete  e sopra tutto più attinenti ai singoli luoghi. Cosi Ke-  leos in scoi. Aristid. Panai. 1816 (Frommel), scoi.  Aristof. Cavai. 698, Mit. Vat. 2, 96; Trittolemo in     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE NELL'eTÀ STORICA 375   Paus. I 14, 3, Claud. 0. e. Ili 52, Nonno appr. Mignk  Patr. gr. 36 pag. 1019, Tzetze ad Es. Opp. 33; —  cittadini di Ermione, secondo Apoll. I 29, scoi.  Arisi. Cavai. 785, Zenob. Prov. 17; — Kabarnos,  della famiglia sacerdotale dei Kabarnoi (Hestch. s. v.)  presso Stef. Brz. s.v. IldQog, nell'isola di Paro; — Chry-  santhis figlia di Pelasgo in Argo, giusta Paus. I 14, 2 ;  — cittadini di Fé ne o (Arcadia), Coy. Narr. 15 app.  Fozio Bibl. cod. 186. Di fronte a cosi numerose analogie  è difficile sostenere che Aretusa nelle parvenze d'infor-  matrice sia un'invenzione arbitraria di Ovidio e non più  tosto appartenga alla saga siracusana : a quella medesima  che presso la non lontana Ciane fa avvenire la di-  scesa nell'Ade, e che narra il mito di Aretusa ed Alfeo  (su cui V. anche Ciackei o. c. 246). Né fa ostacolo il fatto  che solo le Metamorfosi narrano quel particolare : ciò  significa solamente ch'esso è di pretta natura locale e  che, in parte per tal motivo, in parte pel predominio del-  l'Inno omerico, non fu accolto con favore in altre tradi-  zioni mitiche (1) e nelle elaborazioni letterarie. Se dunque  si ammette che Ovidio ci riproduce, a proposito di Ciane  e Aretusa informatrici, la saga siracusana, appar chiara  l'insistenza con la quale, accettato per forza il ratto  in Enna, si colorisce poi tutto il resto del racconto in  senso siracusano.   Anzi per capire ancor meglio il valore di questa con-  siderazione va rilevato che un tentativo mitico in anti-  tesi ad Enna dovette esserci: giacché pili fonti narrano  il rapimento di Persefone non presso il lago Pergo di  Enna ma presso l'Etna: cfr. VEpitafio di Pione 33     (1) Nella stessa Sicilia vigeva un'altra forma del rac-  conto, per cui Vayys^og era Ecate, se è valida l'ipotesi  del CiACEEi 0. e. 166 sg.     376 li. - IL CULTO DI DÉMETKA IN ENNA   e G. Knaack "Hermes, XL (1905) 338-3 il quale senna-  tamente dimostra che non può né ivi né in altri testi  simili (Igino fav. 146, scoi. Pind. Nem. I 20, Giovanni Lido  de mens. IV 85, Oppiano Hai. Ili 486 sgg., Val. Flacco  Argon. V 343 sgg., Ausonio Epist. IV 49 sgg.) trattarsi di  uno scambio tra AXtvri ed "Evva. Questo mito secondario  che menziona Etna e sopprime Enna è certo posteriore  a quello che ad Enna dà la precipua importanza perché  su quello è foggiato e perché si vale di una imperfetta  omofonia per ribellarsi ad esso più noto e accettato.  E n'è confermata l'ipotesi che Siracusa dovesse in Enna-  riconoscere una incontestabile priorità initica.   Dopo questo esame dei particolari vien fatto di giungere  a un'ovvia conclusione: il mito di Demetra in Enna,  nell'età storica, ci riporta con ciascuno dei suoi ele-  menti essenziali a Siracusa, la quale sembra essere il  centro dell'elaborazione di esso; — elaborazione che in  Enna presuppone però un culto di Dee agresti cosi ra-  dicato, qual che ne sia la forma, da non poter essere né  taciuto né artificiato favorevolmente.   A cotesta conclusione è propizia la testimonianza più  antica che ci sia pervenuta del culto ennense: una  litra d'argento che reca Demetra sul cocchio (Head H.  N.^ 137). Di fatti : se in Siracusa fu elaborata la saga  del ratto di Cora per cui ebbe valore ufficiale l'antico  mito ennense, ciò dovette avvenire dopo la vittoria di  Imera, nel sec. V. Dopo quella vittoria invero Gelone (Diod.  XI 26, 7) innalzò in Siracusa i templi di Demetra e di Cora,  iniziando il formarsi di quella piattaforma leggendaria  donde il culto delle Dee potè diffondersi in ampia area.  Per conseguenza le testimonianze del culto eimense-sira-  Cusano a Cora non debbono essere anteriori al V sec. ;  e in verità la litra, che è la testimonianza più antica,  è dal HoLif Si. d. tnon. 84 n. 116 riferita, per criterii     I CARATTERI DEL CULTO ENNENSE KELL'eTÀ STORICA 377   numismatici, al periodo fra il 461 e il 430 a. C. e dal Hill  Coins 91 al 480-413. Al sec. V pertanto può farsi di-  cevolmente risalire l'origine di tutta la tradizione e mi-  tica e cultuale che allaccia Enna e Siracusa; — e che  ha per indispensabile antecedente una credenza a divi-  nità agresti in Enna, ignota nella forma, ma salda nella  sostanza.   Le nostre testimonianze tutte rendono quindi inutile  l'ipotesi del Ciaceri 189 sgg. che il culto greco della  greca Demetra penetrasse in Enna per opera di Agri-  gento e Gela durante la tirannide di Falaride e Terone.  Se ogni ipotesi vale in quanto tenta spiegare dei fatti,  questa del Ciaceri non par che spieghi nessun fatto. Né  anticipando rispetto a noi, come fa, di un cinquant'anni  l'influsso dei Greci in Enna, riesce a legittimare l'auten-  tenticità del culto ennense dì cui e menzione presso  Cicerone in Veri: IV 106-110 cfr. V 187. Noi difatti di  quella vantata antichità rendiam piena ragione avendo  dimostrato l'esistenza d'un vetustissimo culto e mito  siculo in Enna e dichiarando che, anche dopo l'in-  tervento di Siracusa nel V sec, se ne dove serbar ri-  spettosa memoria. Il Ciaceri, in vece, non giustifica essa  antichità né meno facendola risalire alla fine del VI sec.  con l'influsso di Agrigento; giacché, come si sarebbe di-  menticato che Enna aveva accolto le due Dee dopo  Agrigento? E si badi che di esse in Agrigento parla  Pindaro Pit. XII 1 sgg. (anno 490 a. C. Schhodek^)  e che quindi nella tradizione letteraria non poteva  essersene perduta la traccia. E si badi, anche, che lo  lo stesso Cicerone {in Verr. IV 99 V 187 : cfr. Lattanz.  div. inst. II 4) sa di un signum vetusto di Cerere esi-  stente in Catania. Quindi il vanto di antichità con-  forta la nostra tesi e rivela impotente quella del Ciaceri.  Ancor meno poi questa è sufficiente a spiegar il rispetto     378 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   che Siracusa serbò al culto ennense nel mito. Se di fatti,  — come si afferma, — da Gela si fosse partito, a non  molta distanza di tempo, e il culto siracusano e l'ennense,  è chiaro che molto probabilmente quello non avrebbe  esitato, se bene di poco più tardo, a soppiantar questo,  assai meno favorito da ogni sorta di circostanze geogra-  fiche e politiche.   E tutto ciò scriviamo prescindendo affatto, come si vede,  dal problema su la colonizzazione di Enna; di cui si ap-  prende che è colonia di Siracusa da un luogo di Stefano  Bizantino ( s. v, "Evva) ove è senza dubbio un equivoco  di data e forse uno di fatto ; e si apprende l'alleanza  con Siracusa nella guerra di questa contro Camarina da  un frammento di Filisto (fr. 8 = FHG. I pag. 186) che  è impugnato a ragione dal Pais {St. della Sicilia e Magna  Grecia I 560 sgg.). Sembra in somma che nulla si sappia  di positivo su la città onde Enna fu grecizzata e sul  tempo : certo è arrischiato il Ciaceri (o. c. 159) nel dire  Enna colonia di Siracusa ; ed è nel vero il Freeman  {H. of S. I 542) nell'ammettere la nostra ignoranza. Per  ciò preferimmo studiare il problema della Demetra en-  nense movendo da altre basi e usando dati diversi. Con  i quali, concludendo, possiamo supporre nella metà del  V sec. un forte influsso siracusano in Enna, che mantiene  però inalterato il proprio privilegio mitologico. E non  possiamo né provare altri influssi greci anteriori su Enna  né concedere che il supporli giovi a risolvere la que-  stione.   III. Il primitivo probabile nucleo siculo. — Dal-  l'indagine del precedente § è risultato, ci sembra, in modo  esplicito che quando nel V sec. il mito siracusano si  formò dovette tener conto di un precedente e forse molto  più antico nucleo mitico e cultuale di Enna, la cui forma     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 379   ci è ignota. È risultato inoltre che molto difficilmente  quel nucleo potrebbe esser greco, perché in tal caso la  sua scarsa priorità (di men che cinquant'anni) mal spie-  gherebbe il forzato rispetto di Siracusa.   Ora per altro riguardo i dati delle pili recenti indagini  archeologiche e storiche (cfr. G. De Sanctis Storia dei  Romani I 98 sgg. 312 .sgg.) ci danno un quadro delle  condizioni più vetuste dell'isola assai bene consono a  quei nostri risultati. Ai quali non ripugna davvero la  tesi della italicità dei siculi : giacché presso una stirpe  italica, e perciò molto affine ai greci, è facilissimo esi-  stesse una saga simigliante alla greca di Kora e che  questa saga costituisse il sostrato di quella che Siracusa  foggiò nel sec. V.   Resta solo da determinarne, s'è possibile, la forma veri-  simile.   Il primo criterio ci è dato dall'analizzata saga siracu-  sana. Poiché essa si permette ogni sorta d'invenzioni a  suo favore in tutta la seconda parte del mito, ma ri-  spetta scrupolosamente la localizzazione del ratto in Enna;  conviene ritenere che questo sia il probabile nucleo es-  senziale del culto preesistente.   D'altra parte (è il secondo criterio) l'affinità tra Siculi  (Italici) e Greci deve permettere all'indagatore di cercar  fra questi il piti antico embrione della leggenda e di at-  tribuirlo ipoteticamente e per analogia a quelli. Analogia  che è confortata da piii esempii : sovra tutto da quel  di Caco e da quello di Numa Pico e Fauno (su i quali  V. in questo volume libro I cap. IV e libro II capo III;  cfr. inoltre G. De Sanctis o- c. I 281). Il più antico testo  che racconti in Grecia il ratto di Kora è l'Inno omerico a  Demetra : dal quale parta dunque l'analisi. Ma bisogna  naturalmente prescindere, in esso Inno, da tutti i parti-  colari attinenti ad Eleusi ed al suo culto. E prescindere,     380 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   inoltre, da tutte le altre divinità messe in relazione con  le due dee : Hermes ed Iris, nelle loro funzioni di mes-  saggeri; Helios ed Hecate come luci del mondo; le  Oceanidi quali compagne di Kora; Rea, perché una tra  le pili notevoli figure divine delle campagne feconde,  al par di Gea. — Rimangono dunque 1° ^Aiòitìvevs (= IIo-  ÀvSéKTTjS, IIoÀvóéyfiojv); 2° Ar]/iii^Ti]Q ; B° IIeQaeq>óv£ia;  4° KÓQu.   Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni ele-  menti deìVInno induce una conseguenza : se nel VII sec.  (età probabile della composizione di esso) il mito era  già cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e  localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre  non è probabile che a favor di questo centro appunto  sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto  senso è troppo intimamente connesso con i primordiali  riti delia madre terra; si può senz'altro affermare che  doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una,  certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi  importa che neìV Iliade non appaja (v. le opinioni con-  trastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone  5 sgg. ; Welcker Griech. Gotterl. I 395 II 474 ; Preller  Griech. Mith} 757 ; L. Bloch o. c 1311, 55 sgg. ; L. Malten  " Archiv. ftìr Religionswiss. , XII (1909) 309): soltanto  significa che mancò l'occasione o non fu colta per intro-  durvelo. — Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha  alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di  poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Per-  sefone-Kora „, noìVInno om. citato, all'in fuori di questo:  ella è la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al  re delle tenebre. Demetra per contro vi appare già col  suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = <P 76  e 125) delle biade. Aidoneo in fine si richiama alla  terra per l'unico attributo HÀvrónoiÀos {E 654 A 445     IL PRIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 381   n 625 cfr. Stengel " Archiv. fùr Religionswiss. „ Vili (1905)  203 sgg. ; Maass Orpheus 219 n. 23 e Wilamowitz Reden  und Vortrage^ pag. 71). Dal quale s'è voluto dedurre che  l'epopea conobbe il ratto di Kora : ma si ebbe ragione ad  asserire che la conseguenza troppo supera la premessa  (Prkller Dem. u. Pers. 4 sgg.). Tuttavia non si può né  si deve negare che quell'epiteto si addice assai bene alla  saga di Demetra e Kora. — Riassumendo dunque è le-  cito affermare che nell'epopea (a prescinder d'ogni pos-  sibile ma non pervenuto ampio racconto o aperto rife-  rimento) del ratto appaiono : 1* Ade guidator di cavalli;  2° Demetra dea delle biade ; 3° Persefone regina del-  l'inferno.   Manca sol Kora. Ma Kora non è né può essere se non  la " Figlia , e il suo valore e significato è tutto conte-  nuto nella * Madre „ vale a dire in Demetra. Quindi  anche nel silenzio delle fonti antichissime non è luogo a  dubbio sul suo carattere agreste. Carattere agreste che è  confermato da quello che il mito narra di lei nella sua  forma più compiuta, ossia la vicenda annuale di par-  tenza e di ritomo dalla terra a sotterra. È quindi da  escludere l'ipotesi del Beloch Griech. (?escA.^ I 1, 160 che  vede in Kora una divinità lunare (1); la cui vicenda do-  vrebbe essere, non annuale, ma mensile. Egli non ha  badato (seguendo gli antichi stoici: cfr. Sekv. a Verg.  Georg. I 5, Varr. de l. l. V 68, Plut. de facie in orbe  lunae e. 27 ecc.) che Kora e Persefone si uniscono tardi  (v. sotto) e che pertanto il carattere della seconda non  può essere quel della prima. Mi pare in vece che ben  distingua la natura di Kora in confronto con Demetra il     (1) La stessa opinione difese il Costanzi " Riv. di St.  ant. „ I (1895) 35 sgg.     382 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN EKNA   Fkazek The golden Bough^ parte V, Spirits of the corn and  of the wild voi. I 42; se bene egli sia stato un po'  schematico nella separazione delle due figure e lo tem-  perino opportunamente le osservazioni della J. E. Harrison  Prolegotnena to the study of greek Religione 271 sgg. In  breve Kora è il seme nuovo o la biada nascente in  confronto con la biada matura da cui si stacca e a cui  ritorna.   Un riferimento diverso che ci riconduce pure alle fonti  del mito è quel di Esiodo Op. e Gior. 465, ove Zebs  Xd'óvios e Demetra son pregati insieme dall'agricoltore  al tempo della seminagione. Contro Lehrs Pop. Aufs}  298 lo ScHERER (in Roscher Lex. I 2, 1780) sostiene a  ragione che quel nome designa non Zeus ma Ade, lo  Zevg naxa%&óviog àoìVlliade (I 457. 569). Ed è certo  evidente che nell'avvicinamento di Zeus ctonio con  Demetra, si tratta d'uno dei soliti casi di "divinità agri-  cole messe in relazione coi defunti e con la loro sede  solo perché divinità della terra feconda, (De Sanctis  St. d. R. I 305): analogamente ai latini Tellure Conso  Saturno (ibi). Ed è quindi del pari evidente che quel nesso  ' Ade-Demetra ' non dipende da quello ' Ade-Kora ' ma  gli è parallelo e simigliante. — Non bisogna però con-  fondere quest'attinenza tra Ade e Demetra con le scarse  tracce di una At]fti]Ti]Q ■aaxaxd'óvLa che L. Bloch o. c. 1334-5  raccoglie: queste son posteriori, a quel che pare, alla tra-  dizione del ratto e da essa determinate : dopo cioè che  Persefone regina dei morti è divenuta figlia della  dea delle biade , allora questa assume un carattere  nuovo consono all'officio di quella. Al racconto pure del  ratto si deve e agli attinenti misteri Eleusini se in  in processo di tempo si verrà sempre pili accentuando  il carattere agricolo di Dio fecondo in Ade, fino a tras-  formarlo in Plutone (v. i testi in Scherer o. c. 1786).     Ili PKIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 383   L'esame adunque delle testimonianze che si avvicinano  di pili ai primordii del mito conduce a costituire due  gruppi: composto l'uno da Demetra e Kora; composto  l'altro daPersefone e Ade: trai quali sussiste visibile nel-  l'arte più arcaica (Esiodo) un nesso soltanto, quello tra  Ade e Demetra. La relazione tra Kora e Persefone non  appare pertanto negl'incunaboli della leggenda. Ciò sta  contro l'ipotesi di R. L. Farnell Theeults ofthe greek States  III (Oxford 1907) 120 che suppone un'antica divinità  Persefone-Kora analoga all'Hera-Tratj e fusa poi con De-  metra. Né più felice mi sembra l'altra ipotesi di lui  (pag. 121-2) che Demetra-Kora costituisse una divinità  unica, madre di Persefone, con cui, staccandosi da De-  metra, si sarebbe unito l'epiteto di Kora. Assai più sem-  plice è la teoria comune che la rapita di Ade, Kora, si  fondesse con la moglie di Ade, Persefone (cfr. anche  Carter in Roscher Lex. Ili 2, 3143). A ogni modo, si  tratta di nesso non originario ma tardo. Che non è  quindi metodico supporre per la saga sicula : giacché  questa non deve mai aver superato i primissimi stadii,  tenuto conto dell'indole dei Siculi e dell'assenza d'una  elaborazione letteraria : e difSciimente pertanto può aver  fatto della " rapita „ la regina dei morti.   A completar le caratteristiche di essa saga sicula, al-  cune altre indagini. Demetra QeafAO(pÓQog ed ''EÀev&ta  CEÀevd-ìa, ^EÀev&oj, 'EÀevffivìa) son certamente figura-  zioni molto antiche in Grecia : anzitutto perché il concetto  della terra ferace richiama sùbito presso gli Arii quel  della maternità (cfr. il denso volumetto del Dif.terich  Milite)- Erde^) ; poi perché la enorme diftùsione del culto  tesmoforio ed eleusinio, che non si può spiegar tutta da  un unico centro (L. Bloch o. c. 1337), trova la sua ra-  gione nell'estrema antichità del rito. La quale del resto  era nota già ai Greci stessi : cfr. Erodoto II 171. — Sotto     384 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN ENNA   pertanto l'aspetto cosi di terra che di donna Demetra fe  la " Madre , per eccellenza : checché sia da ritenersi  su la etimologia del. nome (cfr. Maìì^uardt Myth. Forsch.  281 sgg. e Frazer The golden bough^ V part., voi. I pag. 42).  Cosi lumeggiandosi Demetra, assume un valore più  significativo anche Kora, la " Figlia,, giacché entrambe  si presentano sotto l'aspetto di divinità famigliari, ana-  loghe alle " Madri , dei Celti e Siculi (De Sanctis "Boll.  Fil. class.. Vili 1900-1 p. 136) (1) e a Libero e Libera dei  Latini; e rappresentano probabilmente tutt'insieme quella  deificazione dei membri delle famiglie che par consueta  fra gli Indoeuropei (De Sanctis St. d. R. I 278). Cosi si  spiega anche meglio il valor personale di Kora, che come  dea delle biade è assai languida accanto alla madre, ma  come dea filiale riacquista una maggiore consistenza.  E vale in tutto il parallelo con i culti latini, tra i quali  non pur si verifica l'indipendenza di Proserpina e Libera,  unificate sol tardi (cfr. Wissowa Rei. Rom} 310); ma anche  oltre a Libera si venera la Madre Matuta. — In tal caso  si lega strettamente al nucleo primordiale del mito il  particolare del ratto. Si sa difatti che questa è, accanto  alla compera, una delle forme di matrimonio presso gli  Arii, e quindi l'avventura di Kora significherebbe a un  tempo il mistero della vegetazione nel grembo della  terra e la cerimonia nuziale: anzi, questa olirebbe la  forma espressiva a quello. Risultato, questo, che assicu-  rando alla leggenda sicula il rapimento, concorda con  quel che nel principio di questo § notavamo a proposito  del rispetto che al ratto di Enna osserva la saga sira-  cusana. E le due considerazioni si confermano a vicenda.     (1) Cfr. anche G. Gassies ' Rev. d. Étud. anc. , Vili  (1906) 53 sgg.     IL PBIMITIVO PROBABILE NUCLEO SICULO 385   Più in là ci mancano i dati. Basti un'ultima osserva-  zione. Nel mito greco tutta la seconda parte (la mela-  grana e il patto tra Ade e Demetra e Zeus) è intesa a  giustificar la periodicità con cui in ogni inverno il seme  si cela nella terra per lasciar solo nella primavera riap-  parire gli steli del grano. Ora non è punto certo e forse  né meno probabile che anche nella leggenda sicula esi-  stesse una parte a questa simile. Giacché la sua forma-  zione dovrebbe esser non solo molto antica ma assai pili  rudimentale che presso i Greci (a cagione, come dicemmo  dianzi, delle doti intellettuali delle singole stirpi e dell'as-  senza d'una elaborazione letteraria) ; non è permesso per  tanto di pensare, metodicamente, che fosse superato quello  stadio religioso in cui ogni sole nascente è ritenuto di-  verso dal tramontato e non si afferra ancora né continuità  né periodicità di fenomeni (DESA^'CTIs St. d. Rom. I 260-1).  Il superamento è possibile; ma la possibilità non fa  storia.   Concludendo. Per ricostruire la probabile forma dei  primitivo nucleo leggendario dei Siculi in Enna ci siamo  valsi dei soli due mezzi di cui possiamo disporre : la con-  statazione degli elementi che quel nucleo portò con in-  sistenza nella saga siracusana del V sec, e la ricerca  del primitivo nucleo nella leggenda analoga di un popolo  affine, il greco. I risultati sono scarsi, ma non insuffi-  cienti. I Siculi dovettero, sembra, raccontare che una  Dea agreste (delle biade in ispecie) aveva una Figlia  rapita da un Dio sotterraneo dai campi nelle sedi dei  morti. E nel loro racconto si fondeva il fenomeno del  seme che sparisce fra le zolle con il rito consueto del  matrimonio a mezzo del ratto. Di questo, che è poco,  ma è anche molto a confronto con quanto si è osato as-  serire su l'argomento fin qui, ci è forza restare paghi,   A. Ferrabino, Kalypso. 25     386 II. - IL CULTO DI DEMETBA IN ENNA   IV. Le versioni greche del ratto di Kora. — Ofifri-  rebbe materia a larghissimo studio l'indagare tutte le  forme che il ratto di Kora assunse ovunque si sparsero  abitarono Greci; e di ogni forma precisare i motivi.  Qui a noi importa soltanto di fissare quelle versioni del  mito che sulla saga siracusana influirono, cosi contri-  buendo al suo formarsi, come confluendo ad allargarla per  contaminazione ; e fissatele, ci limiteremo, per non uscire  dal nostro tema ristretto in un campo sconfinato, alla  constatazione senza cercare la spiegazione.   L'Inno omerico a Demetra è, come si disse, il testo  più antico in cui il mito di Kora rapita appaja; e come  tale ne costituisce, non già il primo stadio,^ ma la prima  forma capace di influssi e passibile di riferimenti: noi  la chiameremo protoattica per brevità. In essa sono  state distinte due parti, l'una mitologica, l'altra etio-  logica; entrambe furono oggetto di esami attenti: ci  basti il rinvio al cemento di T. W. Allen and E. E. Sikes  The homeric hymns 7 sgg. e al Jevons An introduction to  the history of religion ^ cap. XXIV e Appendice (pp. 358,  377). Solo un punto richiama qui il nostro esame ed  è di facilissimo rilievo : secondo Vlnno gli uomini cono-  scevano già le biade prima del ratto di Cora, tanto che  Demetra del ratto si vendica col privare gli uomini del  seme fecondo. Il rapimento dunque è solo l'occasione in  cui la Dea compie su Demofonte, figlio di Celeo e Me-  tanira re in Eleusi, la magia del foco e insegna i suoi  riti ai principi eleusini fra cui è Trittolemo.   La concezione che predomina nel V secolo è in vece,  com'è noto, ben diversa. Trittolemo, non più principe fra  altri, diviene il giovinetto cui primo la Dea insegna  l'arte del seminare e raccogliere grano (cfr. L. Bloch  in RoscHER Lex. II 1 col. 1317; Malten "Archiv ftìr Re-  ligionswiss. , XII (1909) 441 ; Pringsheim Archdol. Bei-     i     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 387   trdge zur Geschichte cles eleus. Kults 97 n. 3). Ora è anzi  tutto da vedere come questa concezione nuova, — che  contraddice esplicitamente la protoattica in quanto sup-  pone che solo dopo il ratto gli uomini conoscano le biade,  e si può quindi chiamare neoattica, — si comporti con  Demofonte Celeo e Metanira. Una prima risposta ci  dà Apollodoro I 31-32 che conserva Demofonte per la  magia del fuoco, Trittolemo per il dono del seme, e  tutt'e due pone nella famiglia di Celeo e Metanira, so-  vrani in Eleusi, come figlio minore l'uno, primogenito  l'altro. Una seconda risposta ci dà nei Fasti (IV 394-620)  Ovidio : Demofonte non esiste più ; Trittolemo subisce la  magia del fuoco ed è predetto primo aratore ; Celeo e  Metanira gli son genitori, ma non re, si poveri in me-  schina capanna. Di qui due problemi : 1° È anteriore  la versione di Apollodoro o quella di Ovidio ? Notiamo  che Apollodoro è l'unico autore dopo Vlnno da cui Demo-  fonte figlio di Celeo sia ricordato ; notiamo che egli compone  con varii materiali un " testo unico , della leggenda; so-  spetteremo che la sua sia una combinazione di mitologia  erudita fra Vlnno e la saga neoattica di Trittolemo, col  proposito di guastare il meno possibile l'uno e l'altra. In  Ovidio in vece la combinazione appare di mitologia poe-  tica; c'è una sicura mossa fantastica: Trittolemo soprav-  viene, noto nei tempi nuovi, al posto di Demofonte, noto  negli antichi: l'ignoranza del grano e la povertà soprav-  viene, conforme al nuovo concetto, in luogo della cono-  scenza ed opulenza narrate nell' Jm«o. Ora poiché nel V se-  colo e nel santuario eleusinio una innovazione erudita  è meno congetturabile di una fantastica, dobbiam dare  la precedenza cronologica, pur con riserva, alla forma  ovidiana. Ci pare allora che il nome e il concetto di  Trittolemo abbiano acquistato predominio attirando nel-  l'orbita loro Demofonte, che scomparve, Celeo e Meta-     388 II. - IL CULTO DI DEMETBA. IN E»NA   nira, che digradarono a poveri vecchi. — 2° Questa in-  novazione fantastica è d'influsso orfico ? Afferma che si  il Malten loc. cit. 441 sgg. e "Hermes, XLV (1910) 532 :  perché orfico è il personaggio di Dysauìes ch'egli inter-  preta (pag. 431) óvaavÀog " der eine arme Hiirte hat (1) „.  Noi lo neghiamo per due gravi motivi. Anzi tutto, se  dairOrficismo fosse derivato Trittolemo = primo semi-  natore, Dysauìes e Baubo, legati con lui presso gli Orfici  quali genitori, avrebbero scalzato Celeo e Metanira al  pari di Demofonte ; in vece non si capisce come gli  Orfici scegliessero proprio il nome di quel principe, fra  gli altri deir//mo, per innovarlo e per congiungerlo con  nome e personaggi di loro creazione; né come esso solo  acquistasse tanto predominio, mentre Dysauìes, Baubo, e  parecchi motivi orfici, restarono senza eco fuor della  setta. In secondo luogo tutto il brano dei Fasti e estraneo  all'influenza orfica : che il particolare dei majali (v. 464),  non è orfico esclusivamente, come pare al Malten  (pag. 532 n. 2) e già al Forster {R. u. R. pag. 78 sgg.), ma  si riconnette col culto e coi sacrifizii suini, accennati al  V. 414. Dunque in un carme ove dagli Orfici nemmeno  si accetta quella presenza di Atena e Artemide che fin  la saga siracusana aveva fatta sua, la scena centrale  deve essere dimostrata orfica per venir ritenuta tale ;  altrimenti altra spiegazione sarà migliore. Di fatti a noi  par chiaro che lo stesso moto onde Trittolemo = primo se-  minatore fu portato a soppiantare Demofonte e impove-  rire Celeo, recò lui medesimo nel patrimonio orfico e  determinò la nuova paternità di Dysauìes. Onde ci  sembra evidente che la scena eleusinia dei Fasti sia di     (1) Contro l'opinione comune che è in Gruppe Gr. Mi/th.  pag. 57.     LE VEBSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 389   origine neoattica e di quel gusto alessandrino che ai ri-  vela neWEcale callimachea.   Negata agli Orfici la creazione di Trittolemo = semi-  natore, dobbiamo, nei limiti del nostro tema, rettificare  un'opinione imperfetta degli studiosi. Negli Orfici Ar-  gonauti V. 1193 si legge che Cora è^duacpov avvófiatfiot  "ingannarono le sorelle,. Per sorelle s'intendono dal  Forster o. c. 42 Atena Artemide e Afrodite. Il confronto  con EuKiPiDE Elena 1301 sgg. (cfr. il testo del Wilamowitz  in Comm. gramm. IV 27 e " Sitzb. Beri. Akad., 1902,  871) dimostra però che si deve trattare soltanto di Ar-  temide e Atena. Di queste due parla difatti il Malten  " Archi V, cit. pag. 422; ma le presenta nell'aspetto eu-  ripideo (ripetuto in Claudiano) di difenditrici, non in  quello orfico di ingannatrici. Correggendo da un lato il  Forster dall'altro il Malten (1), mi sembra che l'ipotesi  migliore per superare il contrasto fra gli Argonauti e  VElena e spiegare l'aggiunta di Afrodite che si ritrova  in Igino fav. 147 (non che in Claudiano), sia l'ammet-  tere che Afrodite abbia in un secondo strato orfico so-  stituito nell'inganno, per esser a ciò più adatta, Atena e  Artemide, e queste, in qualità di vergini compagne e di  dee armate, sieno passate alla difesa della rapita.   L'aver precisato cosi le varie forme leggendarie, pro-  toattica neoattica (e orfica), ci ajuta a intendere in primo  luogo il testo di Timeo (cfr. Diodoro V 3 e Geffcken  pag. 103 sgg.). Notammo già (sopra pag. 373) l'uso che ivi è  fatto del motivo orfico su Atena e Artemide. Notiamo ora, a  guisa di premessa, che tutto il racconto del mito vi è estre-  mamente sommario. Ma il puoto essenziale vi appare in     (1) Impreciso è anche A. Olivieri ' Arch. st. per la  Sicilia or. , I (1904) 76. 165.     390 li. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   modo non dubbio: vale a dire, secondo Timeo la Sicilia  conobbe tòv tov alrov KaQnóv prima d'ogni altra regione  (pag. 103, 23 6.) ; in Sicilia le due Dee facevano spesso  soggiorno (pag. 104, 17 sgg.); avvenuto poi il ratto,  Demetra fece dono del grano a tutti coloro che durante  la ricerca la accolsero q>iÀavd-Q<j}7t(ag e, fra costoro primi,  agli Ateniesi (pag. 106, 10 sgg.); gli Ateniesi quindi eb-  bero e diffusero la conoscenza del grano primi dopo i  Siciliani (pag. 106, 23), i quali se l'erano avuto dalle  Dee (5tà zì]v Tijg AijfirjtQog koI Kóqtjs TiQÒg aèzovg ol-  KeiÓTi]Ta. Dunque non può rimanere incertezza che Timeo  e la saga siracusana da lui ripetutaci accettavano per  intero la versione neoattica secondo cui l'ateniese (eleu-  sinio) Trittolemo avrebbe appreso primo l'arte del se-  minare e l'avrebbe insegnata agli uomini in luogo del-  l'uso di ghiande ; l'accettavano però con la orgogliosa  premessa che la Sicilia, per la special benevolenza e la  famigliarità delle due Dee, aveva preceduto gli Ateniesi  e l'intero mondo. Ne balza la concezione duplice di una  Sicilia che ha il privilegio del grano, mentre tutti gli  altri lo ignorano , prima del ratto ; e della restante  umanità, che il privilegio si conquista poi col trattar  bene la Madre dolorosa, in occasione del ratto. Cosi i  Siracusani non ebbero bisogno di sostituire Trittolemo  con una figura indigena, — come quei di Sidone con  un Orthopolis figlio del re Plemnaios (cfr. Paus. II 11, 2);  né di farlo entrare in genealogie locali, — come gli  Argivi che gli diedero padre un argivo Trochilos (Paus.  I 14, 2); né di identificarlo con un antico loro iddio,  — come suppone, ma senza convinzione, 0. Rossbach  Castrogiovanni (Leipzig 1912) 23. Essi poterono venerare  Trittolemo (Cicerone in Verr. IV 109. 110) come colui  che per benevolenza della lor Demetra diffuse al mondo  il già loro secreto del seme.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 391   La conoìcenza del racconto di Timeo deve ajutarci a  comprendere il doppio testo di Ovidio in Fasti IV 394-  620 e in Metamorfosi V 341-661. Si è discusso se si tratti  di un'unica fiaba desunta da un'unica fonte e variamente  ripetuta nelle due opere; o se anche la fonte sia di-  stinta per ciascun racconto. Tennero la prima opinione  alquanti critici citati dall'ultimo di questa teoria L. Malten  'Hermes, XLV (1910) 506 sgg. cfr. 511 n. 1. Tennero la  seconda opinione sovra tutti prima il Forster R. m. R. d,  Pers. 72 sgg. poi Ehwald-Korn Metani, vs. 385. Noi cre-  diamo che il Malten, il quale pure ebbe autorevole  assenso dal Wilamowitz (" Sitzungsber. d. Beri. Akad. „  1912, 1 pag. 535 n. 1), sia in errore.   Nelle Metamorfosi le fasi del ratto sono le seguenti :  1° Persefone vien rapita da Plutone presso Enna ov'è il  lago Pergo durante l'antologia (vv. 385 sgg.) ; 2° Cerere  ne fa ricerca per tutte le terre con due pini accesi su  l'Etna (vv. 438 sgg.); 3° veduta presso la fonte Ciane la  zona di Proserpina, se ne sdegna :   ...terras tamen increpat omnes  Ingratasqiie vocat nec friigum munere dignas,  Trinacriam ante alias...   (vv. 474 sgg.) e distrugge gli aratri e impedisce la vege-  tazione del grano ; 4" Demetra, dopo le indicazioni di  Aretusa, il colloquio con Giove, il giudizio di questo,  ristorata del suo dolore corre medium caeli terraeque per  aera e va in Atene, consegna a Trittolemo i semi e partim  iussit spargere rudi humo partimqiie post tempora longa  recultae (vv. 487 sgg. 646 sgg.). Ora, noi vedemmo sopra  (pag. 374) che la sostituzione di Ciane e Aretusa ad Ecate  ed Elios deir7«no omerico sono pretti elementi della saga  siracusana. E con questo risultato concorda, il ratto in     392 II. - IL CULTO DI DEMETEA IN BNNA   Euna. Ma la concezione espressa nei versi 474 e 646  (già citati) non si copre con la siciliana: è più larga.  Terrae omnes conoscono il frugum muniis, e fra esse è si  la Sicilia, ma non sola, se bene più fertile (v. 476).  E Trittolemo insegna a seminare su la terra post tempora  longa recalta, quindi anche su la Sicilia dopo il danno  subito per vendetta della Dea. Ora, donde viene questa  concezione che accoglie e umilia in sé la saga di Ti-  meo ? Ognun vede che essa contiene : 1° del mito pro-  toattico, la conoscenza del grano anteriore al ratto e la  vendetta divina ; 2° del neoattico, Trittolemo = semina-  tore. Ne rappresenta quindi un tentativo di concilia-  zione (1) in cui s'innesta la leggenda siracusana con  qualche mortificazione. Quanto all'intervallo fra la veduta,  della zona e la supplica di Aretusa che il Malten  (pag. 514) calcola a un anno, è chiaro che non è pre-  ciso nella mente del poeta, come appare dalla frase post  tempora longa. Che sia assurdo lascerem dire al Malten,  che trascura la libertà fantastica dei poeti. Né col Malten  (p. 516) diremo adesso che la metamorfosi di Lineo tra-  scinò con sé in fine del racconto anche Trittolemo ;  dacché vedemmo come questo personaggio stia bene in  quel posto in cui i Fasti lo pongono, data la contami-  nazione proto-neoattica. In fine contatti con la poesia  orfica non vi sono : perché è taciuta la presenza di Atena  e Artemide ; perché Trittolemo spargitore del seme non  è orfico (sopra pag. 388); e perché ha ragione il Malten  (pag. 533-4) di riconnettere con la volgata poetica degli  Alessandrini la parte introduttiva su Plutone colpito da     (1) Cosi mi fece notare il mio maestro G. De Sanctis.  Resto incerto se questa conciliazione si trovasse già in  Carcino junior (cfr. Timeo presso Geffcken pag. 107 =  DiOD. V 5).     LE VEKSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 393   amore per volere di Afrodite (1). E di modello alessan-  drino essendo tutte le metamorfosi (2), la nostra conclu-  sione è che la fonte di Ovidio fu un testo alessandrino  ove nella trama proto-neoattica con innesto siciliano fu-  rono interpolate favolose trasformazioni di Ciane Ascalafo  Ascalabo Aretusa e l'altre.   Pei Fasti l'esame è anche più pronto : 1" 11 ratto av-  viene in Enna ; ma ivi non è la sede delle due Dee. Di  fatti Aretusa ve le aveva invitate (v. 423 sgg.) e Cerere  vi era giunta da poco (modo venerai Hennam v. 455)  allorché Proserpina fu presa. Sicché quando il poeta dice  della Sicilia Grata doìnus Cereri; multas ea possidet  tirbes ecc. (v. 421), la frase, come vuole il verbo al pre-  sente, si deve riferire ai tempi di Ovidio (contro il Malten  p. 507). E quando Prosei'pina è introdotta vagante per  sua prata (v. 426), si deve intendere " i prati di cui è  dea„, che tutta la vegetazione è in lei compresa nel  tardo concetto poetico (contro il Malten p. 508 n. 1). —  2° Dopo il ratto, Cerere, cominciando dalla Sicilia, vaga  per tutte le terre e pel cielo in affannosa ricerca; della  quale una prima tappa è il soggiorno in Eleusi presso  Celeo e Metanira, al cui figlio Trittolemo essa predice  pi'imus arabit — et seret et eulta praernia tollet humo  (559-60), togliendo cosi la famigliola e gli uomini tutti  dalle condizioni di vita primordiale in che nutrendosi  di bacche duravano (cfr. il proemio vv. 401-2 Ceres,  homine ad meliora alimenta vocato, — mutavit glandes uti-     (1) Nel verso 533 Dixerat, at Cereri certum est educere  natam il Malten fp. 573) vuol vedere un riferimento al-  l'orfica discesa di Demetra sotterra. Non mi par che  basti.   (2) Non ho potuto prender conoscenza di G. Bubbe De  metamorphosibus Graecorum capita selecta " Diss. Phil.  Hai. , XXIV 1 (1912).     394 II. - IL CULTO DI DEMETRA IN ENNA   Uore cibo). — 3° Seconda tappa della ricerca è costituita  dalle informazioni che nel cielo danno sul ratto alla Dea,  Helice ed il Sole (w. 575 sgg.)- — 4» Da ultimo accade  il colloquio con Giove e il verdetto finale (vv. 585 sgg.).  Ermes è il messaggero fra Giove e Proserpina (vv. 605 sgg.).  Cerere si cinge d'una corona di spighe, segno di pace che  ricorda la promessa fatta a Trittolemo ; e larga messe  proventi (non rediit) cessatis in arvis (v. 617), ossia nei  campi " incoltivati „ {cesso = non exerceo). L'interpreta-  zione comune ("nei campi trascurati ,) non può reggersi  confrontando i vv. 559-60 già citati (1). — Ora, dallo schema  cosi tracciato ne' suoi punti cardinali non è difficile trarre  le conclusioni : il concetto fondamentale di una umanità  che prima del ratto si nutre di bacche ed è povera, e dopo  il ratto apprende da Trittolemo la cultura del grano e  si fa prospera, è neoattico ; il luogo del ratto (con cui si  connette l'elenco dei luoghi ove prima avvenne la ricerca)  è desunto dal mito siracusano; la coppia Helice-Sole è  una variante alessandrina della coppia Ecate-Elios del-  Vlnno omerico (cfr. Malten p. 520); l'ordine cronologico  degli episodii non è quello dell'Inno, che la tappa in  Eleusi e le informazioni degli astri sono invertite rispetto  ad esso. Di più: quest'ultima inversione obbedisce all'in-  tento artistico di non rappresentar Cerere nell'indugio  di Eleusi quando, già conoscendo il nome del rapitore,  può sperare di riaverne la figlia ; e la sostituzione di  Helice ad Ecate ha per fine una maggiore perspicuità  in rapporto con la più volgata nozion mitologica; e di  gusto alessandrino è la divisione dell'anno per metà     (1) può reggersi ammettendo un' incongruenza irra-  zionale fra i due luoghi; la quale non sarebbe strana  nel poeta.     LE VERSIONI GRECHE DEL RATTO DI KORA 395   (sopra pag. 372); e col gusto medesimo concorda l'accet-  tazione del concetto neoattico. Adunque possiamo dire  che il racconto dei Fasti è un'alessandrina combinazione  sagace del fondamentale mito neoattico con pochissimi  tratti siciliani e con spunti di recente mitologia.  Siamo pertanto molto lontani dalla trama riprodotta  nelle Metamorfosi e definita sopra (pag. 393): là si ri-  cercava di salvare il concetto dell'/nno contaminandolo  con la saga neoattica; qui deWInno e corretto fin l'unico  particolare non respinto, e predomina una idea aWTnno  contradittoria. Sicché ha torto il Malten di supporre ai  due componimenti unica fonte.   Diversi essi appajono anche negl'intenti. L'uno ha scopi  di compiacimento fra letterario e favoloso con le sue  metamorfosi numerose; l'altro ha scopo etiologico. Tale  constatazione può giovare alla ricerca dei due modelli  alessandrini seguiti da Ovidio; ma noi non ci permette-  remo di esaminare a fondo questo punto, ritenendolo di  spettanza degli storici della letteratura (1), e del tutto  secondario per gli storici del mito. A noi basta l'aver  determinato quelle forme fondamentali del mito di Cora  che, costituitesi in Grecia, intervennero poi sul mito si-  racusano, variamente intrecciandosi in complessi disegni.     (1) Cfr. Cessi ' Arch. stor. per la Sicilia or. , IX (1911)  87 sgg.     CAPITOLO III.  L'abigeato di Caco.     I, Il problema. — Intorno al mito che narra il furto  di Caco ad Ercole e la vendetta di questo, assai pili che  singole ipotesi si combattono opposte teorie. Per l'ima  fra esse, — della quale basti citare rappresentanti il  Peter in Roscher Lexicon I 2, 2270 sgg. e il Binder  Die Plebs 108 sgg. fra i Tedeschi, e fra gl'Italiani il  De Sanctis Storia d. Rom. I 193, — il nucleo primordiale  del mito è italico, intrecciato su i due nomi di Caco e  di Garano (-Recarano), e travestito sol più tardi con le  sembianze di ' Eracle-Ercole ' ; il contenuto di esso è na-  turalistico e consiste nella lotta fra il dio solare e il dio  sotterraneo del fuoco; vive nelle tradizioni mitico-poe-  tiche del popolo che lo perpetua, fino a che gli artisti  lo foggiano secondo la tradizione letteraria e gli sto-  rici lo umanizzano e variamente razionalizzano. — Per  l'altra teoria in vece, — che sostengono fra noi il Pais  Storia critica di Roma I 199 sgg. e all'estero il v. Wi-  LAMowiTZ Euripidea Herakles^ I 25, 1, il Wissowa in  PAtTLy-WissowA Real-Encykl.^ III 1165 sgg. ^non che, ora,  Rei. u. Kult. d. Romer- 282) e J. G. Winter The myth     398 lu - l'abigeato di caco   of Hercules at Rome in " University of Michigan Studies,  Umanistic Series „ voi. IV Roman History and My-  thology edit. by H. A. Sanders (New York 1910), — il  mito è opera dell'influsso letterario greco, pur conceden-  dosi in esso una parte all'elemento indigeno (latino o  italico): sia col riconoscere in Caco un " figlio di Vul-  cano , (Pais) " forse , un'antica divinità del fuoco  (Winter); sia col limitarsi ad ammettere che il nome di  lui è ben radicato nel suolo di Roma e d'Italia. — Il  problema era in questi termini quando fu ripreso recen-  temente da Friedrich Mììnzee Cacus der Rinderdieb (Basel  1911) (1). Questi facendo suoi i risultati del Wilamo-  witz e del Wissowa dichiarava dover "...nicht die Ge-  winnung neuer Resultate das Hauptziel sein ; sondern es  sollen nur die alterprobten Mittel philologischer Methode  — Interpretation, Analyse, Vergleichung — mit moglich-  ster Griindlichkeit, Sorgfalt und Umsicht angewendet  werden , (p. 6). Difatti, dopo una indagine la quale  " vielleicht bisweilen allzu peinlich und kleinlich er-  schienen sein solite , (p. 68), giunge a sostener questa  tesi : Il racconto è forse da far risalire fino ai principii  della letteratura latina (p. 108). I più antichi annalisti  lo concretarono nella forma che ci appare in Livio I 7,  3 sgg.; due generazioni appresso, gli annalisti dell'età  graccana (Cassio Emina, Cn. Gelilo) avevan già raziona-  lizzato la fiaba e vi avevan imaginato un riposto nucleo  di reale istoria; solo la * Romantik „ dell'età augustea     (1) Nello stesso anno 0. Gruppe svolse in breve nella  " Beri. Phil. Woch. „ (XXXI 1911, p. 998 sgg.) una sua  ingegnosissima ma, a nostro avviso, non convincente  teoria sul mito di Caco. Egli si fonda su i testi di Festo,  Diodoro e Cn. Gellio che noi sotto (p. 409. 418) interpre-  tiamo con tutt'altro valore.     IL VALOKE DEL MITO INDIANO 399   riprese la forma originaria : " Livius, indem er die Sage  einfach als Sage erzàhlte und sich im Hinblick auf seinen  allgemeinen Vorbehalt der Kritik des einzelnen enthielt,  Vergi], indem er die schlichte Sage in das glanzende  Kleid der Poesie hullte „ (p. 111-112). Il nome Caco era  diffuso in antiche tradizioni italiche (p. 113); egli era  da prima concepito come semplice uomo, pastore o la-  drone, e da Vergilio solo fu mutato in un mostro tra di-  vino e bestiale (p. 75, 79, 81). 'Eracle-Ercole' era già  nella primitiva forma della narrazione e il nome di Ga-  rano (Recarano) è il prodotto di una rielaborazione eve-  meristica della versione volgata del racconto (p. 95).   A chi pertanto voglia novamente studiare il mito di  Caco corre obbligo di tener conto in particolar modo di  questa che, per esser l'ultima ricerca e per presentarsi  con speciali pretese di saldezza logica e precisione me-  todica, sembra aver eliminato ogni obiezione e distrutto  la teoria del Peter e del De Sanctis. Quanto tal sem-  bianza sia falsa è per apparire.   IL II valore del mito indiano. — Nella mitologia  indiana del Rigveda il Rosen (a Rigveda I 6, 5 p, xxi)  ravvisò primo un racconto che si potrebbe dire senza  esagerazione identico a quello latino di Caco : la lotta  di Indra con Vritra. I particolari più minuti coincidono  dall'una all'altra fiaba: cosi la clava di Ercole e di Indra,  il muggir dei buoi di entrambi, la caverna rocciosa, ecc.  (cfr. Peter o. c. 2279, 25 sgg.). — E ne furono tratte da  più studiosi le conseguenze ovvie: p. e. da Bréal Her-  cule et Cactts, Elude de Myihologie comparée (Paris 1863),  da Fé. Spiegel in " Zeitschr. f. vgl. Spr.-F. , XIII (1864)  386 sgg. — n MuNZER in vece ha creduto di poter tra-  scurare al tutto questa significativa coincidenza tra il  racconto indiano e il latino, appellandosi ai * nvich-     400 III. - l'abigeato di caco   ternen „ giudizii del Wilamowitz e del Wissowa (p. 6 e  n. 8). Commise cosi, secondo a noi pare, (simile in questo  al WiNTER 0. e.) l'errore fondamentale di tutta la sua  ricerca, perché gli sfuggi l'importanza che la suddetta  coincidenza può e deve avere non solo come argomento,  ma come prova " cruciale „ fra due possibilità logiche.  Di fatti, accertato che, in forma quanto più è possi-  bile simigliante, presso i Latini ritorna un mito indiano,  ne consegue da prima che il valore allegorico di questo,  il quale non è dubbio (Bréal o. c. 93 sgg.), dev'essere a  un di presso identico al significato di quello romano :  la lotta cioè fra luce e tenebra, fra la potenza benefica  del sole e quella malefica dell'ombra e del fuoco. —  Inoltre, se la forma latina è, fra le molte che il mito  assunse presso i popoli indo-germani, la piii simigliante  al racconto del Rigveda (Kuhn " Zeitschr. f. deutsch. Al-  terth. , VI (1848) 117 sgg. 128 spec), par metodico con-  chiudere che la fiaba di Caco germoglia in suolo italico  dalle radici arie, — e non è in vece l'imitazione delle  fiabe vigenti presso i popoli affini, quali p. e. i Greci.  Giacche è ozioso e assurdo supporre che imitando un  modello già lontanatosi dal tipo indiano si giungesse a  riprodur questo appunto più fedelmente. In particolare,  prescindendo dalle saghe degli Brani (Ormuzd e Ahriman;  Tistrya e Apaosha) e dei Germani (Siegfried e Fàfnir, ecc.),  — su cui si veggano Bréal o. c. 124 sgg. e 139, Spiegel  0. e. 387 sgg., — i miti greci di Apollo in lotta col Pi-  tone, di Zeus con Tifeo, di Ercole con Gerione, e anche  il racconto dell'abigeato di Ermes in danno di Apollo,  pur ripetendo tutti e tutti travestendo un unico concetto  naturalistico e le sue sfumature e analogie, sono ben  lungi dal riprodurre tanto quanto il mito latino la forma  del Rigveda. Basti a convincersene l'aver letto per Ge-  rione Apollod. II 108, per Ermes l'omerico Inno a Ermes     VEBGILIO E OVIDIO; PROPERZIO 401   68-404, per Tifeo [Esiodo] Teog. 820 e romenco Inno ad  Apollo.   Da ultimo la constatata simiglianza iatima tra l'epi-  sodio di Caco e quel di Vritra serve, nell'indagine, a de-  cidere quale fra le discrepanti redazioni del racconto  latino più si accosti al nucleo italico primordiale, quali  elementi sieno gli originarli rispetto ai posteriori o evo-  lutisi corrottisi: però che sia evidentissimo, tanto mag-  giormente esser antico un particolare e vetusta una fi-  gura quanto meglio collimi con le forme e le linee del  racconto indiano.   Questo non avverti il Mùnzer (e né il Winter), e si  precluse la via a giudicar con metodica * Nùchternheit „  i testi cosi dei poeti come degli storici e degli eruditi  latini.   III. Vergilio e Ovidio; Properzio (1). — Il risultato  della ricerca che il Munzer conduce nel suo I cap. (se  si omettono, com'è bene, le singole osservazioni le quali  non sempre tengono il dovuto conto delle esigenze poe-  tiche e delle poetiche irrazionalità) è che fra il racconto  del furto e la vendetta di Ercole corre nel material nu-  mero dei versi la proporzione di 1:3 presso Vergilio,  1:2 presso Ovidio, 2:1 presso Properzio. "Die Folge-  rung scheint unabweisbar , che appunto nella vendetta  di Ercole Vergilio dev' essersi allontanato dalla tra-  dizione precedente per concedere alla propria fantasia  volo pili libero e più ampia indipendenza (p. 25).   Dopo aver fatte alquante riserve su cotesto metodo di  contar i versi d'un carme per determinarne gli strati  mitici, i dati sembran da disporre in ben altro modo,  ch'è, solo, logico. Poiché in Vergilio e in Ovidio (il quale     (1) Cfr. Eneide Vili 185; Fasti I 543 sgg.; Elegie IV 9.  A. Feebabino, Kalypso. 26     402 111. - l'abigeato di caco   da quello dipende, come risulta evidente dalla semplice  lettura e fin troppo è dimostrato dall'analisi del Munzer)  è dato più grande sviluppo alla lotta fra Ercole e Caco  olle al furto dei buoi, due possibilità logiche son da tener  in pari conto. che lo spirito inventivo di Vergilio ivi  si esercitasse piti liberamente e più profondamente in-  novasse. che invece quello fosse anche nella sua fonte  leggendaria l'episodio meglio notevole e significativo del  racconto, e che nel dargli i colori della sua tavolozza il  poeta assecondasse il modello. Tra queste due possibili  ipotesi è d'uopo scegliere; ma scegliere con argomenti.  E non si vede per contro qual motivo induca il Munzer  a preferir senz'altro la prima e a proclamarla " unab-  vreisbar ,. — Ecco in vece che il mito del Rigveda in-  terviene qual pietra di paragone. In esso la vendetta di  Indra contro Vritra è ampiamente narrata con presso  che tutti i particolari noti da Vergilio ed Ovidio e co-  stituisce, non meno che in questi poeti, un'essenzial  parte della fiaba. Per esso dunque la seconda ipotesi è  da sceglier non la prima, ed è da ritenere che il rac-  conto della lotta fra il dio solare e quel del fuoco te-  nebroso costituisse non pur una rilevante porzione della  leggenda preesistente a Vergilio, ma a dirittura il nucleo  della vetustissima saga italica.   Nella descrizione della grotta di Caco Vergilio è pe-  dissequamente imitato da Ovidio : cfr. En. Vili 190-197,  Fasti I 555-58. Ma perchè V. usa per la spelonca la  frase " solis inaccessum radiis „ là dove 0. preferisce  " vix ipsis invenienda feris „ a esprimere un concetto  affine, il Munzer insiste a lungo (p. 30-36) su la difi'e-  renza. Non ci fermeremo, rispettando i poeti.   Con eguale sottigliezza d'analisi il M. studia le due  parole " semihomo , e " semifer „ che V. usa a designar  Caco accanto a l'altra di " monstrum „. Perché il sem-     TERGILIO E OVIDIO ; PKOPEBZIO 403   biante degli Dei è identico a quello degli ucraini, per  questo " semihomo , equivale ad " halb Gott , (p. 46).  Ma se cotesta è solo una minuzia, grave diviene l'errore  metodico allorquando da essa si traggono le più rigorose  deduzioni logiche : fino a trovare che l'epiteto di " vir ,  da 0. tribuito a Caco (vv. 553 e 576) non si conviene  alla concezione vergiliana del " semihomo „, sebbene 0.  imiti pel resto l'Eneide e ripeta (y. 554) la parola  " monstrum „ e la paternità del ladrone. Per vero il  " vir , ovidiano disdice bensì, ma non al concetto di Ver-  gilio, SI a quello del Mùnzer (p. 52). — Ugual giudizio  deve farsi di una serie d'altre inezie, e in particolare  delle osservazioni su l'uso delle saette e della clava,  presso V. ed 0. (p. 67). Nel mito indiano Indra usa il  fulmine o la clava. Ed è da ricordar pure che cosi le  saette come la clava sono i simboli primordiali dei raggi  solari, e si addicono quindi entrambi all'essenza del rac-  conto. Se quindi la clava o le saette o l'una e l'altre  fossero già nella forma originaria o vi mancassero è im-  possibile dire.   Il M. rileva in fine un'analogia fra l'episodio di Caco  e quel di Polifemo (Odissea t) : dalla quale trae una de-  duzione che gli è fondamentale. A quel modo che nel-  l'Odissea Polifemo invoca contro Odisseo il proprio padre,  cosi, Caco dovendo essere assistito da un Dio, Vergili©  lo avrebbe fatto figlio di Vulcano (p. 49). E questo  è accanto a una serie di altri " monstra , vergiliani  riportati ad analogia (pp. 43-48), l'unico argomento per  asserire che Caco è nell'Eneide " eine freie Schopfung  der dichterischen Phantasie „ (p. 50). Per qual motivo  Vulcano fosse prescelto; perché Caco emettesse fuoco  e fumo ; non è detto ; ma tutto si fa dipendere dalla  " ihn (Vergil) beherrschende Auffassung des Cacus als  eines halb gottlichen, halb tierischen Wesens „ (ibid.).     404 III. - l'abigeato di caco   — Una confutazione ormai non è più necessaria. — Più  ragionevole è la tesi del Winteb o. c. p. 251 sgg.: che  Vergilio risusciti i caratteri dell'antica divinità del fuoco  Caco sul modello di Tifeo ([Esiodo] Teog. 820; Inno ad  Apollo 340-70). Ma in tal caso è ipotesi molto più logica  e semplice che Vergilio si valga dei caratteri i quali la  tradizione letteraria ha fissati per Tifeo (non che, — si  può aggiungere, — per altri consimili mostri), a fine di  colorire artisticamente un personaggio del suo tema, non  già di ricrearlo.   Resta che si dica di Properzio. Intorno al quale pru-  dentissimo diviene il • Mùnzer (p. 65-70) ; e non a torto,  in massima. Le rassomiglianze del suo racconto con quel  dell'Eneide (M. 21. 32) che il PtOTHSTEm (nota a IV 9, 9)  dichiara come riferimenti culti a Vergilio, potrebbero in  vece esser soltanto riferimenti al modello di questo, per  certo assai noto, a cui è dovuta la conservazione poetica  della saga: riferimenti p. e. ad Ennio. — E parimenti  antichissima potrebb'essere la concezione di Caco a tre  teste, la quale è nel Rigveda. Si è anche pensato, in  vero, che essa sia dovuta all'influsso greco traverso Ge-  rione : e può essere. Ma forse si preferirebbe pensare che  il particolare venisse soppresso da Vergilio appunto  per dissimilar Caco da Gerione, entrambi avversarii di  Ercole. — Se poi l'assenza di Evandro, che nel mito ori-  ginario mancava e che fu indotta dall'equazione erudita  Cacus = Jtajtdff (De Sanctis St. rf. i2. I 194 e n. 2; cfr.  sotto § V), sia pur dovuta alla fonte di Properzio o a  una sua brachilogica omissione, non è possibile dire. A  ogni modo nel tutt'insieme il racconto di lui sembra  avere un'impronta arcaica ed è certo un indizio egregio  di quel che il mito potesse essere prima dell'intrusione  di Evandro.     LIVIO E DIONISIO 405     IV. Livio e Dionisio. — Cfr. Liv. I 7, 4-9; Dion. I  39-40. 11 Caco di Livio è " pastor ... ferox viribus , (5) e  prima di venir abbattuto da Ercole " fidem pastorum  nequiquam , invoca. E in somma un uomo: — ben di-  verso dal " monstrum , di Vergilio. Di qui due possibi-  lità si presentano al critico : o la concezione liviana è  prodotto d'un erudito razionalista che ha abbassato la  statura del personaggio; o la concezione vergiliana è  l'effetto d'un volo fantastico del libero poeta. Il Mùnzer  che s'è, — come si vide, — chiusa la via a sceglier con  metodo, si attiene a questa seconda ipotesi senza visibili  ragioni (p. 75). E nello stesso errore cade, per motivi  analoghi, il Winter o. c. Il mito indiano per contrario  decide incontrovertibilmente a favor della prima e induce  ad affermare, con la maggior sicurezza possibile in cosi  fatte ricerche, che Livio riflette una forma razionalizzata  e umanata della saga. La quale serba tuttavia anche  cosi un indubbio color favoloso ma è più lontana assai  dall'origine naturalistica. — E poiché a ragione il Miinzer  afferma (p. 72) Livio indipendente da Vergilio e atti-  nente a una fonte pre-vergiliana, se ne deve conchiudere  che l'età augustea riceva dalle anteriori intorno a Caxìo  ed Ercole almen due versioni, l'una più dell'altra co-  lorita.   A punto perché anche il racconto della fonte di Livio  è coperto di una patina da fiaba, Dionisio (39) scrive :  UoTi óè xGiv i}7iÈQ Tov Sttifiovog Tovóe Àeyoftévojv tà fièv  fiv&iKÓtteQa, za d' àÀij&éais^a; e a lui difatti, se il rac-  conto della fonte vergiliana poteva sembrare degno di  poeti, ma non di uno storico erudito, quello della fonte  liviana doveva apparire a bastanza verisimile per esser  riportato, troppo poco prammatico per non preferirgliene  uno in cui dietro a Ercole e a Caco stessero degli eser-  citi interi. Col che si confuta il Mùnzer (p. 76) quando,     406 III. - l'abigeato di caco   prendendo rigorosamente alla lettera il [iv&iKdjxsQa, af-  ferma che Dionisio intese narrare "die Fassung, der  Sage..., die mit den buntesten Farben geschmùckt war „;  e non si accorge che il comparativo è da riferirsi solo  alla seconda versione, * più vera „ della prima e men  favolosa.   Assai brevi sono Livio e Dionisio nel narrare la lotta  fra Ercole e Caco, — quella su cui si dilunga Vergilio  e il mito del Rigveda. Il motivo è chiaro: quivi appunto  era il perno del mito e il fondo della sua allegoria;  quivi il razionalista più deve sopprimere (contro M. p. 77).  — Mentre però Livio concepisce Caco qual pastore, Dio-  nisio lo dichiara Àrjatrig rtg èjtix(ì>Qios (39, 2). Tal diffe-  renza acquista valore se la si contrappone alla concordia  con cui due poeti indipendenti, Vergilio e Properzio, raf-  figurano Caco sotto la specie del mostro. Gli è che in  questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli  storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non  identiche, dell'unico mito: non identiche, perché è dif-  . fìcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : del-  l'unico mito, perchè nel " ferox viribus , come nel  yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum „. (Contro  MùNZER 78-79).   In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde  di non aver visto i buoi (39, 3). Ciò, — fu notato, —  corrisponde a Vergilio (263 " abiuratae rapinae „). In  Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se  non che cosi della presenza come dell'omissione è diffi-  cile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco è da avvicinare  all'altra di condurre " aversos „ i buoi : ed entrambe ri-  tornano nell'omer. Inno a Ermes (75-78, 211, 220 sgg.;  235-386). Nel quale, ove si narrano le astute imprese  del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono  burlesco di tutto il racconto; là dove sembra che la fiaba     I PABTICOLABI ETIOLOGICI DEL CULTO 407   di Caco, che è contesta su la lotta violenta della luce  contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze  COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due  i particolari più tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso  letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi  spiegherebbe anche la brevità degli accenni in Vergilio  e Dionisio. Mentre ben altra è la natura del muggire i  buoi nell'antro di Caco: che è primitivo simbolo del  tuono (Bkéal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mììnzer 77). — E  anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) può  essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vi-  cini a quelli che solevano adz^ avvayQavÀslv : la  quale difatti manca nel Rigveda, e non è intrinseca-  mente connessa con la forma prima del mito. — Né si  erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste  imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei  poeti come negli storici; cosi, cioè, nel mito come nei  suoi travestimenti razionali.   Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di  Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello  poetico che è fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;  ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma pri-  mitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune  agli storici e ai poeti è anche un'altra parte del mito:  la etiologica, che attende ora il nostro esame.   V. I particolari etiologici del culto.— Quella parte  del racconto, in Vergilio Ovidio Properzio Livio Dionisio,  che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco  fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta  di particolari etiologicamente desunti dal culto di Er-  cole. Ma se non è più possibile questionare su ciò, bi-  sogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal pro-  posito il MùNZEE (p. 88) asserisce: " dassin der Tat Cacus     408 III. - l'abigeato di caco   und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei  ganz rerschiedene Erzàhlungen, die nur die Persoti des  Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben,  rein àusserlich zusammengeschweisst worden sind... ,. E  anche : " Der Einfluss der Verbindung mit Euander àus-  serte sich am frubesten und am bedeutssamsten da-  durch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher  bestimmt wurde „ (p. 89). A questa concezione si contrap-  pongono le parole del De Sanctis (ìS^^. d. jB. I 154) : " hanno  contribuito a suggerirne [del mito] i particolari l'Ara  Massima di Ercole vincitore nel Foro Boario e le vicine  scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino I 18; Diod.  IV 21). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco eti-  mologico è il contrapposto fra l'uomo buono e benefico  del Palatino, Evandro (1), e il cattivo ladrone (xaxó^) del-  l'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente  A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros) ,. La  tesi del De Sanctis si può dimostrare più verisimile.   Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole ;  e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella  forma, greca. Se v'è dunque in Roma un luogo cui si at-  tiene il nome di Caco (" scalae Caci „) e uno ove si  rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che  questi due servissero a localizzar il mito e il primo in-  nanzi al secondo. Si potrebbe, è vero, pensare anche che  l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di  Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma  l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perché suppone,  prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole,     (1) Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^ìo^,  e che era la mitica personificazione della eéavÒQÌa, fu,  — com'è noto, — interpretato " buon uomo „.     I PARTICOLARI ETIOLOGICI DEL CULTO 409   per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la  saga. Là dove l' essersi anche topograficamente Ga-  rano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne  la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il  Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguità  dei luoghi giovò senza dubbio a fondere le due simi-  glianti figure.   Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) 6, 6 sgg.  a proposito del Kdxiog diodoreo è osservato : " hic per-  peram idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re  vera auctor gentis Caciae ,. E il Mùnzer accetta, pur  ammettendo (p. 116) che il nome alle scale possa derivar  anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben  Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt  und Bedeutung war ,. — Ora il testo di Diod. IV 21, 2  (che è : èv xavtrj oh twv éTiicpavcóv ò'vreg àv6Qù>v Kamog  xal HivaQiog èòé^avvo tòv 'H^UKÀsa §evcoig àicoÀóyoig  Hai ócàQealg xsxccQiafiévaig étifirjaav ' noi tovtcov tòìv  àvÒQcàv èTCOfiv^fiata ftéxQi t&vòe tù>v KaiQÒiv óiafiévet  Korà xìiv 'PiLfiTjv. TÒJv yàQ vvv eiiysvùv àvÓQwv zò ziàv  UtvaQÙoìv òvofia^o^évcùv yévog òia^évei, nagà zoìg 'Pco-  ftaloig, à)^ vTiccQXov àQ^aLÓzazov, zov óè Kaxiov èv z(p  HaÀazCcj) •/.azd^aalg èaziv ey^ovaa Ài&lvrjv KÀifiaaa zrjv  òvof*a^ofi£vt]v àn èy.eùvov KaKÌav, oiaav nÀrjaiov zfjg  zóve yevofAévrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara  l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono :  1) l'esistenza di scalae Caciae; 2) l'antichità dei Pinarii;  3) le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii  ed Ercole. Da questi dati sono desunti : 1) (per falsa eti-  mologia) il nome KaKtog; 2) il nome Ilivd^tog; 3) (per  analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le  cui scale son prossime a quell'Ara Massima (Joedan-  HuLSEN Topogr. I 8, 41) ove al culto erculeo i Pinarii  partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad     410 III. - l'abigeato di caco   ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra  Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche  il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poiché  i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa " R. E. ^ , VITI  1, 563), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel  culto, non è arrischiato pensare che il racconto in cui di  quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran  inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi ap-  punto (cfr. Pais Storia critica di Roma I, 1 200 n.:  contro WiNTER 222 sgg. e 260 sgg.).   A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se  la nostra ipotesi è vera, da Cacus, come da esse fu tolto  Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della  lotta. E perchè accanto alla menzione di esse va posto  il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (Verg.  En. Vili, 231, Ovidio Fasti I 551), se ne deve concludere:  che la localizzazione di Caco è mossa dall'area piana ch'è  fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso  verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nel-  l'altro verso l'Aventino (caverna).   La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la  quale servi a fornire assai più tratti al disegno: ciò sono,  tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.  (Cfr. Peter o. c. 2281 sgg.). — Che se il mito di Caco è,  come si vide, italico e vetustissimo, là dove Ercole è  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle  greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo  alla figura di questo costituisca un secondo strato leg-  gendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in  genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sa-  crifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.  In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclu-  sione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno  tre versioni : da Properzio IV 9, 21 sgg. ; dallo scritto     I PAKTICOLAEI ETIOLOGICI DEL CULTO 411   OìHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti,  in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che signi-  fica come un unico fatto venisse travestito in almeno  due forme diverse. Lo stesso si può dire dell'ara lovi in-  ventori che è ricordata in Dion. I 39, 4, Solino I 7, Origo  geni. rom. 6. Ovid. l. e. .579-81, e taciuta dagli altri. Il qual  silenzio dimostra, se non più, che il nesso tra quell'al-  tare e YAra maxima non era nel mito etiologico essen-  ziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non è  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topo-  grafia: giacché secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  è naqà tfj TQiòifiq) IIvÀrj ov'è un altro tempio d'Ercole  (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). —  Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda in-  venzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe  erige l'ara a Giove (o. e. 2286, 32 sgg).   Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che  il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente  per più tarde aggiunte, la medesima discordia conferma  l'asserzione del De Sanctis (nonché del Bormaim) in-  torno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, — che è  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio  1. e, Dion. l. e, Ovid. l. e, Solino I 10, Serv. En. VIII  268-9 (= Myth. Vat. I 69 [II 153] III 13, 7) e nello scritto  Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si  sa bene perché (v. sopra § III), — è però narrata in fogge  diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui  la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio  in Solino Evandro non è che uno, e sia pur il principale,  fra gli spettatori del primo sacrifizio : e secondo Servio  egli è da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istitu-  zione medesima dell'Ara è attribuita a un vaticinio ora  di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e  Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico     412 III. - l'abigeato di caco   (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perché  la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio) è a  nord del Foro Boario ov'è l'Ara Massima. E Nicostrato  e Temide son sue variazioni di sapore greco. E pari-  menti è chiaro che il vaticinio di lei è un accessorio  della leggenda, parallelo bensì a quel di Evandro, però  con una base topografica non pseudo-etimologica. En-  trambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di  Evandro. — Se non che tutto cotesto processo semieru-  dito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'età  Augustea, — in quelle medesime ove non è più incerta  la localizzazione della saga nel Foro boario ed è soli-  damente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne  deve pertanto dedurre che Evandro è rispetto a questo  di gran lunga più tardo. — Rappresenta dunque il terzo  strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui  un'aggiunta è introdotta col far da lui annimziare la ve-  nuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su  Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom. 7).   Di qui s'iniziò poi una mitografia del tutto secondaria  la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno  in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (Der-  CYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee IV 387); o di Fauno il  figlio, Latino (Conone Narr. 3 appr. Fozio Bibl. cod. 186;  cfr. anche Schweglee Rom. Gesch. I 374).   In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito è,  a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre  strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aven-  tino) ; Ercole, con l'Ara Massima ; Evandro, con taluni  episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie,  come sul mito vero e proprio, si esercitò il razionalismo  degli eruditi.   VI. Gli eruditi. — Il riscontro degli errori in cui     GLI ERUDITI 413     cade la dimostrazione del Munzer su Caco è offerto dal  suo cap. VI " die antike Forschung ,. Egli si trova di  fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra  tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi  incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Vili 203  (" Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam  Romani consentiunt : solus Verrius Flaccus dicit Garanum  fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit,  omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules  dictos ,) e nello scritto (1) Or. gen. rom. 6, 1 (e 2. 3. 5.  7; 8, l=sei volte) (" Recaranus quidam, Graecae ori-  ginis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui  erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appel-  latus ,) ritoma sotto due forme diverse un nome diffe-  rente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus  e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi è  incerto (con Mukzee 104 contro Peter o. c. 2272, 60 sgg.,  Pais 0. e. 200 n., Winter 205, Bohm in Pault-Wissowa  " R. E.^ „ VII 752). Ma non è incerta, a noi pare, la in-  terpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco è  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non più  tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica,  lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto  due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che  gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non  potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole  per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Her-  cules dictos ,. Riteniamo per conseguenza legittimo at-  tribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui     (1) Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae „  in " Berichte der K. Sàchsischen Gesell. d. Wiss. zu  Leipzig , Phil.-hist. Kl. LXIV (1912) 71 sgg.     414 III. - l'abigeato di caco   preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in  vece il Mùnzer (p. 95) deve asserire, giusta la sua tesi,  che un cotal Garano (Recarano) è invenzione di eruditi  (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore,  dargli avversario un semplice pastore non un eroe fa-  moso) contraddice in parte sé stesso perché, se Caco è  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio,  sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario  di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Ga-  rano (Recarano) né a dire donde Verrio l'abbia ricavato.  Là dove per noi l'oscuro nome è conferma della natura  del vetusto iddio. Né giova, per questo secondo rispetto,  l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n.  e il WiNTER 205 accettano), Garano e Recarano esser  " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide,  fondatore della stirpe dei re Macedoni „. Nulla di fatti  può esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non  ha per sé se non un'approssimativa simiglianza formale  dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata,  giacché sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi  latini. Il supporre, in fine, col Mììnzee 95 che Garanus sia  un obliterato epiteto di Ercole è pericoloso per la tesi  di lui : giacché in quel caso diventa di nuovo probabile  che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso  della divinità soppiantata da esso Ercole. In breve l'osta-  colo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia  preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo  mito latino.   Altra testimonianza che il M. non spiega è quella su  Caca (p. 98-102). Servio En. Vili 190 (= Myth. Vai. [II 153]  III 13, 1) parla d'una sorella di Caco, — Caca, — la  quale lo avrebbe denunziato : ed ivi pure è data notizia  di un " sacellum Cacao ,, e si aggiunge " in quo ei —  per virgines sacrificabatur {cod. Reginensis); — per vir-     GLI ERUDITI 415     gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); — pervigili igne  sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) „. L'ultima  lettura è la preferita; la prima sceglie il M. (p. 101).  Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella  sua concisa oscurità e nella confusione che contiene, è  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un  ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve  ridursi ad ammettere (pag. 102) l'esistenza del sacellum  a una dea Caca (1). Col che ha già ammesso troppo contro  la sua tesi : perché una dea di quel nome è il riscontro  pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio  Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrificava " sicut  Vestae , e l'altro emetteva fiamme dalla bocca, la dedu-  zione non può esser che una. — Verissimo tuttavia che  lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le è da  imputare, come quello ch'è una erudita invenzione poco  felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il  travestimento di queir " una boum , che appresso Ver-  gilio rivela il furto né meno il M. osa sostenere (p. 100).  — E se il " sacellum Cacae „ sia per il M. (p. 102)  oscuro al pari dell' " atrium Caci , e se entrambi oscuri  non sono per la nostra tesi, par che non vi sia più molto  a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte.  Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvi-  cinate, l'una più compiuta che l'altra. Servio En. Vili  190 si esprime : * Cacus secundum fabulam Vulcani filius  fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia  populabatur. veritas tamen secundum philologos et hi-  storicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum  servum ac furem; — ignem autem dictus est vomere,     (1) Cfr. su Caca, G. Giannelli II sacerdozio delle vestali  romane (Firenze 1913) pag. 23. 33.     416 III. - l'abigeato di caco   quod agros igne populabatur; — novimus autem malum  a Graecis kuhóv dici : quem ita ilio tempore Arcades ap-  pellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut  'EÀévi] Helena „. (Cfr. Myth. Vat. I 66 [li 153] III 13, 1).  Poi a En. Vili 269 si danno le notizie sull'Ara Massima i  Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che  qui non c'interessa più (v. sopra § V). Il razionalismo si  è qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar  il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il  nome.   Molto più si permette il racconto che si trova in Origo  gen. rom. (6, 1): " Recaranus quidam, Graecae originis,  ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat  forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus „;   — (6, 2) " Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et  praeter caetera furacissimus „ : — tali i due avversarii.  Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  è per partirsi quando (6, 4) " Enander, excellentissimae  iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum  noxae dedit bovesque restitui fecit ,. Allora Recarano  dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara  Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi.  Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne  son perciò per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo.   — Cotesto racconto è di gran lunga più finito e parti-  colareggiato di quel ch'è in Servio. L'interpretazione ra-  zionale qui si estende fin là, dove il primo non si dilungava  da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore con-  cilia col più noto di Ercole, Ercole mutando in soprannome.  Inoltre, poiché non può giustificar l'intervento d'Evandro  come p. e. Livio, né valersi di vaticinio alcuno ; poiché  d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKÓs servo  di EijavÒQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era  ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.),     GLI ERUDITI 417     e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, — senza  dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non  si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale po-  tesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la pro-  fezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo  stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita  da Ercole ch'è qui soppresso, viene a ragion veduta con-  fusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a  spiegarla.   Tra Servio e il racconto della Origo v'è simiglianza pro-  fonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimi-  glianza in altri. Di questa si comprende il valore com-  parando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che  Ercole non è se non il soprannome di Recarano, alla  prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i  concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su  l'identità Garano = Ercole. Ciò mostra che Servio ha pre-  sente con altre la fonte medesima àoìVOrigo; ma se ne  vale solo saltuariamente rispettando molto pili il rac-  conto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte  di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore  àeWOrigo, è detto quivi al cap. 7, 1 : " haec Cassius  libro primo „. Ossia quasi certamente L. Cassio Emina.  Il Mùnzer (p. 107) a tal proposito suppone che a Cassio  venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, —  in luogo di un solo passo. Di Cassio però abbiamo (Peter  fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli trattò ve-  risimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco.  Non v'è dunque ragione per negare che nella tradizione  erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di  lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del  resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al rac-  conto dell'Orlerò, si può sostenere che in lui era al mena  assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e   A. Ferrabino, Kalypso. 27     418 III. - l'abigeato di caco   Caco. Ma poiché questa appare neWOrigo organica e ar-  monica in tutti i particolari, è difficile negare che, cosi  definita, non si trovasse già anche in Cassio. (Contro M.  p. 111).   Di natura opposta alle due testimonianze erudite che  furon or ora discusse sono i racconti di Dion. I 41-2 e  di Cn. Gellio appr. Solino 18 = Peter fr. 7*. Difatti là  dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a  due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eser-  citi. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficoltà, quando si  conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di  Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d.  Bom. I 173); per contro Gellio è oscurissimo, " hic  [= Cacus], ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno,  ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Me-  gale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et  unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa  Vulturnum et Campaniam regno... oppressus est. Megalen  Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti „.  — Il carattere che sùbito appare più evidente in tal rac-  conto è il travestimento erudito razionalista; cosi che, se  esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito,  le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son  tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i  Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche  righe, ed è difficile che una schietta e unica leggenda  originaria accosti per tal modo tanti popoli. — Ora fin  che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato  sul Volturno più tosto che contro uno sul Palatino, pos-  siamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a ima-  gine della reale storia e si valesse a ciò p. e. della prima  Sannitica inventandone un precedente; che non si scoste-  rebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio  la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro.     «LI ERUDITI 419     E non è rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da  un mito cumano o campano (il passo di Festo p. 266 b  26 sgg. s. V. Romam è di lettura troppo mal sicura e  nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e  i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi , trattarsi  d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimo-  logica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando  in vece è introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)  che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per  qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui  un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale è ri-  tratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi  [KòETE Etruskische Spiegel V tav. 127, Rilievi delle tirne  etnische II 2.54 sgg. ; Petersen * Jahr. D. Instituts „  XIV (1899) 43 sgg.; De Sanctis " Elio , lì (1902) 104;  MuNZER 0. e. 113 e " Rhein. Mus. , LUI (1898) 598 sgg.]  e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio  contro un Caco dal benigno aspetto. Ond'è che difficilis-  simo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere  se anche per i Marsi si debba attribuire la loro pre-  senza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della  storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla  contaminazione d'una terza leggenda con la latina e  l'etrusca.   Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rap-  presentano bensì un unico atteggiamento di fronte alla  leggenda di Caco, come vuole il Mùnzer, ma ciascuno ne  esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla  poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire  la fiaba che sarà poi seguita da Vergilio. Questo, il rac-  conto che narrerà Livio. Per ciò Dionisio dopo aver  esposto il mito assai similmente a Livio, dà il suo àAri-  ^éazeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.óg =  liviano: dà, in somma, il racconto razionale dell'anna-     420 m. - l'abigeato di caco   lista pili tardo come ermeneutica del racconto " favo-  loso „ dell'annalista più antico. Allo stesso modo che  Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al  testo vergiliano, desunto da Ennio.   VII. Conchiusione. — Tra le due teorie che (cóme  vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco, è  da preferire quella che crede ad un antico mito latino»  in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze  ed è meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coe-  rentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, con-  tradicendo il Mùnzer e compiendo il breve disegno del  De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati  (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro)  si è contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa è  elaborata con diversità di tono da un poeta (Ennio) e da un  annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'età succes-  cessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'età  augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dio-  nisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste ma-  nifestazioni.     CAPITOLO IV.  Cirene mitica (1).     I. Bibliografìa e metodo. — Il complesso dei miti  raccolti attorno alla figura di Cirene fu studiato già da  J. P. Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae 1828) che rac-  colse i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe va-  gliarli. Ha trovato poi trattazione minuta ed accurata  per opera di Fbanz Studniczka Kyrene, eine altgriechische  Gottin (Leipzig 1890), che la stessa materia rielaborò  in RoscHER Lexicon III, 1717 sgg. ; e di Lddolp Malten  Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen  in " Philologische Untersuchungen , del Kiessling e Wi-  lamowitz XX (1911) ove è tenuto conto anche delle ipo-  tesi brevemente enunciate da A. Geecke in " Hermes .     (1) Nella sostanza identico e sol nella forma diverso  si vegga questo capitolo negli " Atti della R. Accademia  delle Scienze di Torino , XLVII 17 marzo 1912. Qui ap-  pare con un'ampiezza più dicevole, che lo spazio ora  consente.     422 IV. - CIRENE MITICA   XLI (1906) 447-459. Dopo i quali non si vuol citare che  lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in  " Ausonia , VII (1911) 27-38 (1). Indipendentemente il  Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una  stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si  contrappone in modo reciso a quella dei nostri prede-  cessori. A prescindere di fatti dalle particolari discre-  panze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler  cercare un significato recondito nei miti , (Costanzi 32)  0, com'io mi espressi (* Atti „ p. 505 n. 1), nel non volervi  cercare * la chiave delle più antiche vicende greche „ in  Tara e in Libia. Là dove in vero lo Studniczka {Eyrene  45 sgg.) negava di poter spiegare la leggenda di Cirene  senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalo-  beota in Tera; e il Malten (cfr. spec. p. 209-10) pure  stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia  fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelo-  pico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure  divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di pro-  vare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra  cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti  a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio  in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico  punto di veduta, passo ai particolari.   II. La ninfa Cirene. — Dopo che il Malten (spec.  62 sgg.) ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura  libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo  essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su  questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a  me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe (2).     (1) Cfr. inoltre sotto a p. 448.   (2) Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let-     LA NINFA CIRENE 423     ■* Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen  Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst  nachtràglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist...   " Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie   " dies bei der Aehnlichkeit der Namen natùrlich ist,  friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden,   " war aber gewiss ursprùnglich von ihr verschieden, und  es ist zum mindesten unstatthaft, ftìr Kyrene, die Mutter  des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es   " kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten  Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die  Rede ist, und von dieser Kùste stammt der im Schiffs-  katalog erwàhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn   " des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der ky-  renaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Dio-  medes, kehren auf ganz engem Raum an der thraki-  schen Kùste wieder. Dass die Verbindung dort eine   " ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit  einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden  Ueberlieferung zu tun haben „ (Cfr. Malten 63-65. 65   n. 1; Studniczka 134 sgg.). " Aber nicht genug damit.   " Auch in Kroton ist ein^ Kyrene (als Mutter des Laki-   " n[i]os) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte  ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios (1)   " mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist   " fùr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt,     tera, esprimeva il dubbio che le sue argomentazioni non  potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevità con  cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelli-  gente gli terrà, credo, il dovuto conto. Quanto a noi,  manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso  sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria   (1) Jambl. vii. Pijth. 36 S. 265 (N. d. Gr.).     424 IV, - CIRENE MITICA   " aber doch fùr das benachbarte Thurioi. Aus alledem  " glaube ich entnehmen zu durfen: 1) dass Kyrana und  seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, Ur-  " spruDgs sind, also die Quelle nach der Gòttin heisst oder  " der Quellnamen selbst — aus dem dann, aber wohl  " schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder   * Heroine geschopft sein mùsete — von Griechen tìber-   * tragen wurde ; 2) dass die vier Namen Euphemos, Ari-  " staios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordent-  " lich alten Sagenùberlieferung zusammenstanden. Aus  " Grùnden, die ich nicht in der Kurze ent-  " wickeln kann(l), bin ich ùberzeugt, dass die Verknùp-  " fung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das im  " VlII.Jahrh. einbedeutendesKolonialreichbesessenhaben  " muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene  " und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von  " wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen  " wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen,  " will ich nicht behaupten obwohl ich es  "glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer  " Sagen den àltesten Bestand der Ueberlieferung von  " Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. ,   Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Tre-  zene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed  Eufemo s'irradiò da vero in Tracia, a Crotone, in Libia;  bisogna provare: 1° l'esistenza di questo quadrinomio  a Trezene; 2" il ritorno costante di esso nei luoghi ras-  segnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da pos-  sibili equivoci; 3° l'insistente ripetersi, nelle forme e nei  luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo  alterarsi non sia ben motivato.     (1) Il carattere spaziato è introdotto solo nella trascri-  zione.     LA NINFA CIRENE 425     1° Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insi-  stere " in der Kiirze „ : sorvoleremo noi pure.   2" A Crotone si sarebbero potute raccogliere tracce  di due al meno fra le quattro figure la cui presenza è  riscontrata in Cirenaica; Ariste© e Cirene. Tuttavia farò  sùbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si *  basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone:  il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una  persona non prova assolutamente nulla intorno al culto  locale del nume. Inoltre è ben dubbio se sia veramente  da mantenere la forma Cirene per la madre di La-  cinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes 66;  cfr. Serv. a Verg. Eneid. Ili 552j. Localizzata di fatti  Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole,  reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia  dei Romani I 192-3), non è improbabile che a Crotone  si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli  di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'epo-  nimo del Lacinium promontorium li presso. — Ma se mal  sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in Crotone,  altr' e tanto incerte son quelle che il Gruppe ne riscontra  in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten 65  corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in  IIvQr^vrj. Per il Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nel-  l'essersi permutato Cirene in Pirene. E poiché pare molto  improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tra-  dizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di  Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera  e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede;  credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la sup-  posizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse  il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma né questa  ipotesi è semplice, perché presuppone un originario nesso  " Cirene-Diomede ,, una corruzione * Pirene-Diomede ,, un     426 IV. - CIRENE MITICA   ampliamento * Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone „; né  è in alcun modo giustificata, perché, all'infuori di Apol-  lodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia,  nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricor-  rendo persino a contorte vicende. Più semplice e giusti-  ficata la supposizione del Malten : in territorio predomi-  nato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi  a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Ma-  ronia è troppo evidentemente introdotto da Chio per  opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo  vi è congiunto con Dioniso; perché non si debba rite-  nere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la  supposta Cirene, da cui invece rimane colà al tutto indi-  pendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde  difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni (B 486-7),  e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio  del Fai^oxog. — Or come né in Crotone né in Tracia Ci-  rene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si può fon-  datamente asserire che in Libia Diomede non ha radici  profonde: su quelle coste di fatti naufraga bensì, a si-  miglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a  simiglianza degli Argonauti (v. sotto § VII); ma sol tanto  perché quelle coste sono, nella tradizione poetica dei  vóaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo  quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leg-  genda, è probabile fosse foggiato anche quel particolare.  — In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in Crotone, dubbii  in Tracia; in Tracia l'Eufemo non è con certezza iden-  tico all'avo dei Battiadi ; in Libia Diomede non esiste.  3" Per di più, oltre ad essere incerta la presenza  di tutt'e quattro i numi in Crotone in Tracia in Libia,  non si capisce, — se, come vuole il Grappe, tra quelli  lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi  altrove, — perché a Crotone il perno del mito sia il     APOLLO CARNEO 427     nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea  fondamentale della leggenda sia la discendenza di Dio-  mede da Cirene, mentre in Libia il nucleo è costituito  dalla commessione * Cirene-Aristeo „. E né pure si ca-  pisce perché in Tracia resti indipendente, come forse a  Crotone, Aristeo che in Cirenaica è figura essenziale; e  per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di  Diomede, la quale là campeggia. Tutta la fisonomia della  leggenda si distrugge e si trasforma: — senza causa  evidente.   Non posso dunque finora accettare la teoria del Gruppe ;  e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten.  Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamen-  tale del mito.   III. Apollo Carneo. — Non cade dubbio che Apollo  e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di  Wide e Hofeb in Roscheb Lex. II 1, 961 sgg.). Ma per  il mito di Cirene è di somma importanza il determinare  se la fusione tra di essi fosse avvenuta già in Tara prima  che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto  in Cirenaica (cfr. Malten 61 sgg.).   Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnóÀXoìv  Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor  del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v éoQvriv...  ol fievocy.i^aavTeg ex nsÀonovvfjaov elg ézé^ag nóXsig  ...èneTÉÀovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer),  due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove  il culto appare di sufficiente antichità la figura di Apollo,  separatamente, sorvenisse ad assimilare a sé Carneo; o  pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propa-  gasse dal centro originario nelle altre sedi del culto. E  questa ipotesi com'è più verisimile e più semplice cosi  ritengo preferibile all'altra.     428 IV. - CIRENE MITICA   Né offre difficoltà nello special caso di Tera e Cirene,  giacché l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen  Thera III 69) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico  di * Apollo-Carneo „, non è imprudente o arbitrario il  supporlo già sussistente nella seconda metà del sec. an-  teriore. Né a tale ipotesi è contrario il Malten 60; il  il quale scrive : * Gewiss ist die Verbindung ' Apollon-  Kameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder  erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und  hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet „. Se  non che egli non trae da ciò l'unica deduzione che è lo-  gicamente possibile.   Poiché — difatti — tutta Vlliade (prescindendo dai  pili meno antichi strati) dimostra il carattere premi-  nentemente delfico di Apollo; e poiché l'antichità del  santuario delfico e della sua preponderanza famosa è ben  riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.^ 1 1, 319 (cfr. II.  1 405) ; se si ammette che già in Tera Apollo preponde-  rasse su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si  ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Ci-  renaica avevano ormai alla loro principale divinità ricono-  sciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto  del tutto superflua la opinione che un tal carattere a  quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene.  La quale appar quindi non la causa del fondersi in-  sieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un ef-  fetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e  per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX,  Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo.   Dove appaja la originalità della Eea ci verrà mostrato,  crediamo, dalla terza figura su cui è costituita la saga:  Aristeo.   IV. Aristeo. — Non è qui opportuno studiarne la dif-     AP.ISTKU 429   fusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto  dal Malten 77 sgg. e negli * Atti dell'Accad. di Torino „  citt., a p. 510 n. 1).   Il culto di Aristeo in Cirenaica è attestato da scoi.  Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton. 72, 2, scoi. Pit. IV 4 (ràv  'A^iaraìov, 8v Tia^à KvQrjvaioig ó)g oIklotì^v óià Ttfi^g  dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possi-  bilità si può scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo  il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia)  e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di  quella connessione e la determina. Tra le due possibili  ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una  vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole  dell'Egeo, — quali Ceo (1) Chic l'Eubea, — e l'Arcadia:  onde non è per nulla strano che o già in Tera qualche  strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse  culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che  nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e  dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo  manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si  può obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto  teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco cono-  sciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei  più bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro  la seconda non fa ostacolo la cronologia; già che tra il  principio del VI sec. e il principio del V, cui risale la  Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per VEea di  Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si com-  mettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Ci-  rene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno     (1) Cfr. K. C. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos  Diss. Giessen 1912, pag. 7 sgg.     430 IV. - CIBENE MITICA   stupore v'è, se in Tracia si connette con Dioniso e con  Zeus in Arcadia: cfr. Malten 77 sgg. (1). L'analogia è  sufficiente motivo.   Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero  originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  è tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere  un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito  venne a far parte. Né mi riesce di precisare il luogo  ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti  riescono di minore rilievo a confronto con quelli che  riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico  Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire  nelle sue linee principali il componimento da cui quelle  tre figure vennero collegate in racconto: — l'Eea.   V. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. — Con-  vengo col Malten 1 sgg. che le fonti cui dobbiamo at-  tingere più direttamente per la ricostruzione dell'^'ea  di Cirene sono : Pindaro Pit. IX, Esiodo t'r. 128 Rzach^,  Ferecide in scoi. Pit. IX 27, Seiivio a Veeg. Georg. I 14  = Esiodo fr. 129 Rz.', Apoll. Rodio II 500 sgg. : — cui  vengono aggiunti se bene per la loro sommarietà non sieno  di grande valore, Timeo appr. Diod. IV 81. 82, Nonno Pan.  Dionis. V 215 sgg. 292 XIII 300 XIX 225 XXIV 83 sgg.  XXV 180 sgg. XXVII 263 XXIX 179 sgg. XXXVII 198 sgg.  XLV 21 XLVI 238 (Malten 35 sgg.).   Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono  attenuto a due criterii fondamentali. Il primo è il piti     (1) Il Malten a p. 82 lascia in dubbio * ob der Gott...  schon in der kyrenàischen Lokalsage zum Sohne der  Kjrene v/urde „; ma a pag. 212, per amor della sua tesi,  asserisce quasi il contrario : " Hier [in Thessalien] erregte  sie [Kyrene] das Gefallen des Gottes... Ihr Sohn ward  Aristaios... ,.     LA RICOSTRUZIONE DKLl'eEA DI CIRENE 431   elementare : ritenni originario tutto che ritornasse co-  stantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflet-  tenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio è più com-  plesso. Fu dimostrato poc'anzi (§ III) che non può venir  attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di  Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra è, chi ben  guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com'è noto,  Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tes-  saglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo  dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del tra-  sferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasfor-  mare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto  del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cire-  naico uno sfondo tessalico, è legittimo ritenere, ed è  pure ovvio, che essa contenga più propriamente tutti  quei particolari i quali più propriamente sono con Aristeo  connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre, è  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com'è pro-  babile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il rac-  conto sul figlio di lui Atteone (1). D'altra parte la figura  di Apollo troppo era di per sé notevole e preponderante  perché traverso essa e per sua causa non dovessero pene-  trare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti :  i quali per ciò è dicevole attribuire meglio che al canne  esiodeo alle sue più tarde propaggini.   Nei particolari i criterii esposti conducono a questi ri-  sultati; — 1. Cirene è figlia di Ipseo re dei Lapiti;  Ipseo è nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo:  cfr. Malten 8. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit.     (1) Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del  nostro lavoro qui si omette, Malten 16 sgg. — Si vegga  inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea  di • Studi critici offerti a C. Pascal , (Catania 1913).     432 IV. - CIRENE MITICA   IX 27) fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone.  Se non che questa variante è sospetta, come quella che  tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chi-  rone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che  spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: là dove il cen-  tauro nell'Eea ha parte solo perché già connesso con  Aristeo prima che questo con Cirene. — 2. Apollo scorge  la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La  lotta col leone è ricordata da Pino. Pit. IX 26, da Nonno  loc. cit.; non da Apoll. R. II 500 sgg.: questi l'introduce  nell'officio di pastorella. Il Malten 62 resta per ciò in-  certo su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel  si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa più sopra  (v. p. 222), mostra come esso si allontani assai dall'ori-  ginaria forma del mito a causa dell'influsso del raziona-  lismo: al quale adunque si deve anche attribuire la sop-  pressione della belva e della lotta che troppo male  consentivano al paese tessalo. — 3. Chirone profèta le  nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka 41. Col  quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribel-  larsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio,  allor quando sopprime tutta la scena e induce il Cen-  tauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non  la prosecuzione di quel tentativo. Ciò è confermato dal  doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apol-  lonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii es-  sendo, se non nel nome nell'essenza, questi dèmoni; in-  serto quello. — 4. Apollo trasporta la fanciulla in Libia  sul suo carro (Malten 8-9). — 5. Cirene è accolta da Libia.  Non v'è di fatti differenza sostanziale tra le xd'óviai  vifA,q>ai e la eiQVÀeifioìv nÓTvia Ai^vrj: cfr. Malten 11.  Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve  dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da pre-  ferire per antichità sceglierei Libia: giacché le xd-óviai.     LA KICOSTBUZIOXE PELL'eeA DI CIRFNE 433   vófifat sembrano ben proprie di un'epoca più tarda in  cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito  pili fermamente da quel di regione, si è al tutto ritirato;  mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come  mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite  (v. 9). La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu in-  trodotta a causa di quel KvQdvag yÀvy.vg nÙTiog 'AtpQo-  óczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit. V 24)  e a cui si può riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr.  Malten 207); giacché non trascurabile culto a essa dea  si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne  presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone  XVII 836). — 6. Aristeo è riportato in Tessaglia da Apollo.  Cosi Apoll. R. II 509. Pindaro Pit. IX 59 attribuisce quel-  l'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo  esornativo, è favorita dalle attinenze fra i due dèi : cfr.  l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. 153 Rz.^ = Anton.  LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in  Euripide Ione 10 sgg. Ermes per ordine di Apollo reca  Ione, colatamente, in Delfi. — 7. Aristeo è allevato dalle  Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio  si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon. II 507 sgg.:  però che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche  dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di  Bglaai (Aristot. fr. 511 Rose); l'altra pindarica che in-  troduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le  Muse ; varianti delle quali la prima troppo strettamente  Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del  carme esiodeo, l'ultima traspare sùbito come un'altera-  zione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricor-  dare B. A 603); la mediana è pertanto preferibile. (Ciò  contro Malten 14). Da ultimo è forse da notare che  le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un tra-  scorso impreciso dell'autore che una vera e propria va-  A. Fersabi>-o, Kalypso. 28     484 IV. - CIBENE MITICA   riante. — 8. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone  ed è avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo  (cfr. Malten 10 sgg.)-   Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado  delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino  all'Eea che Apollonio; questi più razionalista di quello.  Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Ari-  steo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di  Eufemo su cui v. a p. 440) : cfr. Malten 25. 61 che qui  si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  è nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini  tessaliche del culto di Asklepios in " Rassegna di Antichità  classica „ I (1897) 237 sgg. contro Kjellberg Asklepios,  mythologisch-archdologische Studien in " Sàrtr. u. Sprakv.  Sàllsk. forhandl. 1894-97 i Upsala Universitets Arsskrift,].  Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinità salutare e sa-  natrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} I 1, 156 e Wilamowitz  Isylìoi 93. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio;  poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che,  secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo  e poi la si trasporta in Tessaglia.   Riassumendo dunque in breve i risultati di queste  ricerche (§ II- V), abbiamo: che Cirene è nome libio-greco  della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad  Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante  il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene;  che questa è la causa per cui Cirene passa in Tessaglia ;  che su questi elementi si può ricostruire l'Eea di Cirene  ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Co-  ronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo  centro di elaborazione mitopoetica.   VI. Euripilo ed Eufemo. — Le due principali figure  del racconto di Pindaro Pit. IV han dato occasione alle     EURIPILO ED EUFEMO 435   più diverse ipotesi: cfr. Studniczka 111 sgg, e Malten  95 sgg. Il farne oggetto di minuto esame gioverà a pre-  parare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito  cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della  ninfa Cirene.   1. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Eve-  mone B 736; in Cos, figlio di Posidone, B 677; in Misia,  figlio di Telefo e condottiero dei Cetei À 519; in Acaja,  Pads. vii 19. — Ora è probabile che l'Euripilo di Cos  si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. Wilamo-  wiTz Isyllos 52 e " Hermes „ XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti  gli altri sono indipendenti. — L'Acaico viene bensì da  Pausania identificato con il Tessalico; ma è notevole che  altri già allora combattevano questa teoria: iy^aipav de  i]Srj Tivég od tip OeaaaÀtp av^i^dvza E-ÒQV7tvÀ(p xà siqri-  jtteVa, àXXà EdQVTcvÀov Ae§afievov Ttatda xov èv ^i2Àév(p  PaoiÀevaavTog éd'sÀovai afia 'HQay.Àeì aiQatevaavxa ég  "lÀiov TiaQÙ Tov 'HQw^Aéovs tìjv ÀÙQvay,a ntÀ. Eviden-  temente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine  dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era  ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Eu-  ripilo di Tessaglia. — Il re dei Cetei è dal Malten 118  ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricon-  dursi in Arcadia e con lui Telefo; è arbitrario dedurne  senz'altro un Euripilo arcadico : perché questi potrebbe  esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in  Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui  lasciata in Arcadia al contrario di Telefo (1) e Ceteo.  Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipen-  dente di un Euripilo in Misia. — Alla schiera adunque     (1) Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens  I 257. 259.     436 IV. - CIKENB MITICA   di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia)  viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro  i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omo-  nimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manife-  stazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima  unica tendenza mitica; la quale ci è dall'etimologia fa-  cilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia  porta „ infernale. Era ovvio che questo comune concetto,  questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato  presso popoli di stirpe greca. In tal caso poiché egli  appare presso la Ài^vij Tgizoìvlg è legittimo credere che  impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del  Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino 1912)  308 sgg.] che era ritenuta appunto apertura di Dite  (cfr. Strab, XIV 647 XVII 886; Tolemeo Geog. IV 4, 4, 8;  Plinio V 31).   In Cirenaica Euripilo è congiunto con altri numi da  uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo  [scoi. Pind. Pit. IV 57) cfr. Malten 116 sgg.:   Atlante  I  PosiDONE ->- Celeno £lios   I I ^^^   Tritone Euripilo —- Sterope Pasifae  LicAONE Lbdcippo   Se non che questo schema ci appare sùbito una com-  binazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak.  Kul. 249), Tritone {Àìfiv^ TqitcovIs Strab. XVII 836 e  Pind. Pit. IV 20), L i e e o = Zeus Liceo (Eeod. IV 203, 2  eSTUDNiczKA 14 Sgg.) souo accertati in Libia da altre fonti:  elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce  (cfr. Maass " Hermes „ XXV 401-2 e Studniczka 126 sgg.).  A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone « Lieo. Di  Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi. II. 2 486, Apoll.     EUBIPILO ED EUFEMO 437   Bibl. Ili 111) è padre Posidone e madre Celano, Atlan-  tide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inse-  rendo però fra Licaone e Celeno-Posidone una genera-  zione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio  della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno è  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito  lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios.   Sia però questo o altro il procedimento seguito dal-  l'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla  più che già non sapessimo : l'influenza grande di Creta  e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze  commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a  quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se  non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio  fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condi-  zioni geografiche.   2. Eufemo è nel mito cirenaico (Pind. Pit. IV) con-  nesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera  con la Libia. La connessione con Lemno è una conse-  guenza della sua qualità di Argonauta: sta e cade con  questa. A Tera non v'è traccia di lui, e anche il mito  vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo  {scoi Pit. V 99, scoi. Apoll. R. IV 1750). Resta adunque  ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per  patria (Pind. l. e. 430 : ol'aoi), i Battiadi di Cirene per  vantati discendenti. — Ora in Beozia v'è traccia della sua  supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad. II 43) : e non  v'è, ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non  originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteri-  sticamente beota. Col che si connette la sua presenza in  Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia :  a ognuno invero è nota l'attinenza stretta fra i miti  beotici e tessalici. — Ma perché i Battiadi ne avrebbero  fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co-     438 IV. - CIRENE MITICA   Ioni recassero quel nome con sé daTera: il Malten 151  che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne fa-  cessero il proprio avo. Il Costanzi 33 mi par ben più  vicino a una probabile ipotesi: * I Battiadi stanno ad  Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli  Euripontidi a Prode „; come, soggiungo, i dinasti Mo-  lossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste ana-  logie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno  cirenaico: Pisistrato è nome d'uno dei figli di Nestore;  Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, è figlio di Achille  nell'epopea: — e similmente ArcesLlao, appellativo di  quattro re di Cirene, è un eroe beota nelVIliade {B 495  329 cfr. Pads. IX 39, 3). E se è errato sostenere col  Mììller Orchomenos ~ 350 che di Beozia fu tratto il nome,  non è però arrischiato l'asserire la possibilità che il nome  beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quan-  d'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genea-  logia, non sarebbero meno da respingere, com'è ovvio,  le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzio-  nate al fatto che vogliono spiegare. — Non resta da vagliare  che la sede al Tenaro. Colà non è traccia di Eufemo  che sia indipendente da questa leggenda : c'è in vece,  importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide  Lak. Kulte 33 sgg.). Non solo, ma i caratteri di Eufemo  (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son più  vicini a quelli di Apollo (Stodniczka 1 14 sgg.) e, in ge-  nere, del dio solare (cfr. Zsòg Eécpiifiog, Esich. s. v.) che  a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo riten-  nero Eufemo p. es. lo Studniczka (p. 155) e il Maass  (Gòtt. Gel. Anz. 1890, 354; Orpheus 157) (1) solo sulfonda-     (1) Ben altrimenti il Gruppe Gr. Myth. 1149. I rapporti  di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro  un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha     EUKIPILO ED EUFEMO 439   mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade :  fondamento per cui s'indussero anche a forzare il signi-  ficato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,  eufemistico in luogo del nome pauroso della divinità ctonia.  Tutto ciò cade, se la localizzazione al Tenaro risulta ar-  tificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinità fra  Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osser-  vazioni, si legge la IV Pitia, vien fatto d'interpretarla  nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro  punti si dovevano necessariamente far toccare, tre for-  niti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso,  Tera, la Libia. Or bene : a Lemno abbiam già veduto  Eufemo. Ma dopo ciò occorrevano due motivi per spie-  gare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per  Tera s'inventò lo smarrimento della zolla; per il Pelo-  ponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo  era figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto  di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro.  Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed è questa  ipotesi molto più semplice che non quella del Malten  95 sgg. (1). Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,  e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di in-  trodurlo nelle genealogie laconiche ; difatti lo troviamo  nipote dell'Eurota (Tzetze Chil. II 43); o figlio di una  Doride [scoi. Pind. Pit. IV 15); o sposo di una Laonome  sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit. IV 76). Ma ha torto il  Malten (p. 134) di dar peso a tali genealogie, e in ispecie  all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indi-  pendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  è arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo     attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd ' Abh. Beri.  Akad. Wiss. ' 1850, 174 sgg.).  (1) Su Eufemo re dei Ciconi v. sopra pag. 426.     440 IV. - CIRENE MITICA   e Eufemo nello schema che ci dà il cit. scoi. Pind. Pif.  IV 76.   Ora, al Tenaro Eufemo è localizzato, a quel che pare,  già nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre  dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che è quello  con cui al Tenaro si venerava Posidone:   fi oirj 'TQitj TtVKLVócpQùìv MrjKiovìiiri   •^ zéxev JEvq)f]fiov yairjóxffi ^Evvoacyaiq)   fieix&ela' èv (ptÀÓTrjzc noÀv^Qvaov 'Aq)QodÌTi]g.   Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R. I 179-84,  IV 1568. 1575; Igino fav. 14; Acesandro e Teoceesto in  scoi. Apoll. B. IV 1750. Se dunque è vero che la localiz-  zazione .al Tenaro è tutta a favor degli Eufemidi (= Bat-  tiadi), cotesta Eea non può esser che sotto l'influsso cire-  naico. La qual cosa spiega o può spiegare per analogia  anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (più propriamente)  di Aristeo, che già abbiamo accennato dianzi. E poiché  l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo è singo-  lare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in  quella di Eufemo come ecistère), avremmo in esse un  modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre  regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar  Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti,  per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Te-  naro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten 160.   3. Crediamo adunque di aver mostrato e che Euri-  pilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo  a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo  beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi,  certo è estraneo al Tenaro. Al Malten 139 pertanto che  afferma Euripilo ed Eufemo costituire " eine Reihe, die  ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thes-  salien hat , e con l'uno d'essi collegarsi intimamente     EUBIPILO ED EUFEMO 441   Atlante e Posidone, " urpeloponnesisch „ (124), possiamo  rispondere di aver troncato a quella " Reihe „, per Eu-  ripilo r " Endpunkt , che sta in Tessaglia, per Eufemo  l'estremità che si fissa in Libia e il centro che si posa  sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo,  reciso i nervi a quella teoria.   Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In  LicoFEONE 901 sgg. naufragano su la costa libica Euri pilo  (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo  magnete. Onde il Malten 132 sgg. sostiene che il nau-  fragio in Libia di Guneo e di Proteo è leggenda cire-  naica (LicoFB. 597-99, Apollod. VI 15 e 15 a Wagner) : e  rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi  però abbiamo già osservato a proposito di Diomede  (cfr. sopra pag. 426) che nei vóaroi la spiaggia libica  appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leg-  gende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il  trovare ora che un mito secondario, attinente per conte-  nuto all'epopea dei vóazoi, fa naufragare in Libia un  Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un  omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra  opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo  non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili,  per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio  la " feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und  " Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die  " in Arkadien ihren Knotenpunkt hat , (Malten 138).   Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi,  Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli  era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una  zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente  le due figure, non resta che studiare la trama narrativa  in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argo-  nauti in Libia.     442 IV. - CIRENE MITICA   VII. Gli Argonauti in Libia. — Poiché su questo  punto io profondamente mi allontano dal Malten 126 sgg.  terrò più minuto discorso. A quattro redazioni leggen-  darie dobbiamo por mente: Pindaro Pit. IV 1-63, 251-262;  Erodoto IV 178-9; Licofronk 877 sgg.; Apoll. Rodio IV  1231 segg.; e tutte bisogna esaminare.   Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con  Medea dall' Oceano sopra VArgo , debbono per dodici  giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino  al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro  Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone,  una zolla: fatidico dono (1). In questo racconto non v'è  nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla  quindi che non paja inventato per il loro compiacimento;  fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale è  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il  lago, di cui Strab. XVII 836, presso Berenice (Bengasi)  che esiste tuttora (" i laghi salati „). E non si vede bene,  svibito, perché per l'appunto quel lago venisse scelto  per il dono. Né Euripilo poteva esser causa della prefe-  renza; però che paja invece piti probabile il contrario:  Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra  parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat-  tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo  a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il  che lascia supporre che in Libia una leggenda più  antica recasse già gli Argonauti. Per queste due possi-  bilità adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che  l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo  mitico più antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi.     (1) Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una  interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si  potrebbero moltiplicare.     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 443     Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esi-  steva una MjAvri f^eydÀrj T^ubìvig: ben lontano dunque  da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava cir-  cumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio,  per ciò che una fortuna di mare ve lo avrebbe improv-  visamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle  strette del lago. Ma Trìtone apparso trasse di rischio la  nave, dimostrò la via, e ricevette in dono un tripode.  Dopo le quali cose, profetò agli Argonauti che un giomo  presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento città:  Taira àytovaavzag rovg è7tix<^QÙovg twv Ai^voìv KQV'kpat,  TÒv zQLJioòa. Qui sono due particolari ben distinti : il  dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia.  Quest'ultima non si avverò perché la piccola Sirte non  ebbe colonie greche ; ed è da vedere in essa (cfr. tra gli  altri CosTANzi 0. e. 29-30) un riflesso del tentativo com-  piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo  nel 515 circa. Ma il dono del tripode non è che fittisiia-  mente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo :  suo vero e unico e primo scopo è ottenere da Tritone  la via. Il resto è superfetazione più tarda. Da ultimo è  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localiz-  zato però non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte.  Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati.  L'uno è recente, e non risale più in là della spedizione  infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di  Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro è  assai più antico, e preesiste a Dorieo : gli appartengono  i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di  Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, gros-  solanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro.   Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi  simili. Identico è il nome della palude ; ma diversi sono  i luoghi: tuttavia più vetusta appare la identificazione     444 IV. - C'IBENE MITICA   con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte  (cfr. RoscHER nel Lex. I 1, 676 e Costanzi o. c. 29). Iden-  tico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e  non è dubbio che Tritone, aderente com'è al lago stesso,  risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente  dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma  la vicenda è mutata: ed è chiaro come al mito primo  degli Argonauti si convenga il dono che serve a favorire  il viaggio, più tosto che quello il quale prepara, a tutto  vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato  adunque più antico di Erodoto appare alla nostra ana-  lisi come la forma su cui vennero foggiate : da un lato  la leggenda cirenaica a prò dei Battiadi, — con alcune  alterazioni dicevoli ; dall'altro la leggenda spartana in  favor di Dorico, — con altri mutamenti opportuni.   Se questo è vero si spiegano facilmente Licofrone e  Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo  ed Euripilo presso Tauchira (città della Cirenaica non  lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon già  gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda  giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre ò Ki-  vv(pEiog ^óog (il Cinipe, cfr. Malten 129, che fluisce, in  vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argo-  nauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere,  per compenso del quale egli insegna loro la via, e pro-  fèta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorché  riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impau-  riti lo celano. Ora è evidentissimo che, ove si muti il  cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena  son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i  luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica.  Né il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazio-  nalità geografica è qui indotta dal ricordo, che tutto il  mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di     GLI ARGONAUTI IN LIBIA 445   Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che  in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio  (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr. 902) (contro  Malten 130). In breve, Licofrone contamina; mischia in-  sieme, di qui due località cirenaiche, di là il contesto  sirtico-spartano del mito.   Ben più contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Ar-  gonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano  a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giun-  gono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti  nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una  zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ciò è, ravvicinati :  il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo  (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il  poeta (o la sua fonte) è cosi conscio della contamina-  zione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge  con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a  oriente : marcia il cui modello può bene esser in quella,  di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia.   Né coteste contaminazioni erano puro effetto dell'ar-  bitrio di poeti. DioD. IV 56, 6, narrando (qual che ne sia  la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano  d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra  come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola  Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse  trovato terreno propizio, anche nella realtà, presso l'altro  lago Tritonio, a Bengasi.   Conchiudiamo. La facilità con cui dalle nostre premesse  furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e  Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona con-  ferma delle premesse medesime.   Poche parole bastino dunque, ancóra, sul posto che,  nella complessiva spedizione, occupa l'episodio degli Ar-  gonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la     446 IV. - CIRENE MITICA   conquista del vello : Medea è presente. Apollonio ed Ero-  doto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna  dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco è ben  possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicita-  mente, ma solo parenteticamente, degli Argonauti. Inoltre  la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo  del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi  che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esi-  genze poetiche o l'estro dell'ispirazione.   E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati  delle ricerche (§§ VI-VII) sul mito dei Battiadi. A favore  di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielaborò un antico mo-  tivo favoloso su gli Argonauti in Libia : conducendo quivi  e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei  Battiadi Eufemo, in qualità di Argonauta; trasportando  i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di  Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come al-  trove. In tutta l'Eea quindi è, si, un complesso rifacimento  di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifaci-  mento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note,  non già altre, anteriori e ignote.   Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene cre-  diamo si possano mostrare contaminate parzialmente in  Callimaco.   Vili. Callimaco e il mito di Cirene. — Il Malten  41 sgg. 58-9, vede nel nesso ' Cirene-Euripilo ' la forma  più antica della leggenda, quella che l'Eea avrebbe adul-  terata. Ora è bensì verissimo che Callimaco, come Ace-  SANDRO {scoi. Apoll. R. II 498) e Filakco (ibid.), storici,  cirenaico l'uno, egizio forse l'altro (III-II sec. a. C), sente  una più viva eco e più genuina della primitiva forma  mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tes-  saglia, Cirene col leone. Ma è altr'e tanto' vero, e intui-     CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE 447   tivo, che il nesso con Euripilo è tardo. Se difatti l'Eea  avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con  quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con  Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia era invero  signore di Ormenio un Euripilo (B 736) figlio di Evemone.  Che se dunque il nesso è posteriore all'Eea e a Pindaro,  è pur posteriore alla leggenda dinastica degli Eufemidi,  già riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha  preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che  Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura  ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito degli Argo-  nauti su la Tquoìvìc Àifivrj. Callimaco pertanto rispecchia  una posteriore forma indigena della leggenda che fu og-  getto del nostro studio; a quel modo che Vergilio (v. so-  pra pag. 223 sgg.) rispecchia una posteriore forma stra-  niera.   A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase  di lui fievà jiÀeióvùìv : Cirene di fatti sarebbe pervenuta  in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po'  diverso, è Giustino XIII 7, 8: mandati dal padre di Ci-  rene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fer-  mati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora,  come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di  Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano  in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso  indirizzo, non più solo col connettere Cirene ed Euripilo,  bensì anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che  vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi  di questo processo mitopeico sono : 1) Euripilo è in Libia  quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ;  dunque molto prima di Batto; 2) Cirene è in Libia ra-  pita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto;  3) Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli  antichi tempi; 4) con Cirene, che ha il trono da Euri-     448 IV. - OIBENE MITICA   pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro)  processo, adunque, le cui forme non si debbon confon-  dere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee.   IX. Esegesi novissima. — Storia e indagine su Ci-  vette mitica erano in questo volume già per intero com-  poste quando apparvero di G. Pasquali le Quaestiones  Callimacheae (Gottingae MCMXIII) ove (pag. 93-147) il  mito di Cirene è di nuovo trattato. Ne pubblicheremo  altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle  Scienze di Torino „ 1914, 17 Maggio).     Torino, Giugno 1914.     FRATELLI BOCCA, EDITORI — TORIXO     Piccola Biblioteca di Scienze Moderne Grice: “Mussolini lacked a classical education – he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient!” Grice: “Mussolini, who wasn’t from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio”. Aldo Ferrabino. Ferrabino. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolini’s dislike for ruins, Mussolini’s use of ‘modern’ versus ‘ancient’. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrabino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715356447/in/photolist-2mPKHfm-2mMUHJF-2mMYNu3/

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