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Tuesday, September 20, 2022

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Grice e Ferraris – supercazzola -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I still connect!” Si laurea a Torino sotto Vattimo. Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di Ontologia dal  Centro interdipartimentale di ontologia. Studiato a Torino.In ambito teorico, ha legato il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del postmodernismo attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro interuniversitario di Ontologia Teorica e Applicata.I primi interessi di Ferraris si rivolgono alla filosofia post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente a Derrida, Ferraris ha dedicato: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Jackie Derrida. Ritratto a memoria.Lavorando invece a contatto con Gadamer, a partire dai primi anni Ottanta si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia del Novecento, e soprattutto Storia dell'ermeneutica.Ferraris sviluppa un'articolata critica alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di una svolta, dpostfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere, in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gli uomini comuni disprezzano la letterale norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per Ferraris è la lettera a precedere e fondare lo spirito.Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti dell'arbitrio.Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento teorico.Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant.Rilegge Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino Paolo Bozzi (Il mondo esterno e Goodbye Kant!La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del sapere), di cui Ferraris articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism.  L'esito naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo inemendabile di un dominio di oggetti in cui la filosofia trascendentale kantiana trova la sua adeguata applicazione: gli oggetti sociali, l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino,  Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La fidanzata automatic, Il tunnel delle multe.La tesi di fondo è che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”.  Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua  si arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies, insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente quelli per Alfabeta e Alfabeta).  La svolta realista compiuta da partire dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto  e che avvia un imponente dibattito, è in primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra individuo e realtà).Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia, Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti extrafilosofici.  In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti  di Vattimo e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum,  di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Markus Gabriel, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (M. De Caro e M. Ferraris), Torino, Einaudi,  e a Sociologia e nuovo realismo, Milano-Udine, Mimesis,  di Luca Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da Ferraris e De Caro, che conta numerose pubblicazioni).  Al Nuovo Realismo di Ferraris hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Mario De Caro (cfr. Bentornata Realtà, a c. di De Caro e Ferraris), sia filosofi di formazione continentale, come Mauricio Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Luca Taddio (Verso un nuovo realismo) e Markus Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il sostegno di pensatori come Umberto Eco, Hilary Putnam e John Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il “realismo speculativo” di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso.  Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. M. Ferraris, Realismo Positivo, Rosenber e Sellier ): nella sua resistenza la realtà non costituisce soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la medicina.  L'ultima corrente filosofica inaugurata ha provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero debole.  Altre opere: “Differenze. La filosofia dopo lo strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova: Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,  Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria di una svolta, in Martin Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e conclusione,  Postille a Derrida, Torino: Rosenberg & Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma-Bari: Laterza); Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica filosofica,  1nterpretazione ed emancipazione. Milano: Raffaello Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica, (con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Jacques Derrida, Roma-Bari: Laterza); Estetica razionale, Milano: Raffaello Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg & Sellier); Una Ikea di università, Milano: Raffaello Cortina); Il mondo esterno, Milano: Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma-Bari: Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani); Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia dell'ontologia, Milano: Bompiani,  Una Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Jacques Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza,  Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Mario De Caro, Torino: Einaudi); Lasciar tracce: documentalità e architettura, F. Visconti e R. Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Leonardo Caffo, Milano: Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg & Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Achille Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Enrico Terrone, Bologna: il Mulino,  Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con John R. Searle, Torino: Einaudi); Intorno agli unicorni. Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, Torino: Rosenberg&Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero in movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si segnalano:   "Felicità. Cos'è la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica,  "Libertà. Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica,  "Arte. Perché certe cose sono opere d'arte?", Roma, la Repubblica,  "Male. È possibile vivere senza il male?", Roma, la Repubblica,   "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale degli altri?", Roma, la Repubblica,   "Bellezza. C'è una regola del bello?", Roma, la Repubblica, s  "Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,  "Morale. C'è un solo modo giusto di vivere?", Roma, la Repubblica,   "Potere. Perché si lotta per il potere?", Roma, la Repubblica,  "Pensiero. Che cosa significa pensare?", Roma, la Repubblica,  "Violenza: La violenza è inevitabile?", Roma, la Repubblica,   "Passione: Chi decide, la ragione o la passione?", Roma, la Repubblica,  "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica,   "Linguaggio: Si può pensare senza parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i filosofi?", Roma, la Repubblica, sha curato, oltre a partecipare con singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di Repubblica curandone gli epiloghi.  Nel biennio - ha diretto e condotto tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai Scuola. Nel  e nel  ha continuato tale lavoro nel programma televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Ha condotto la rubrica di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale.  "Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,   "Maurizio Ferraris", la Repubblica,  Per una rassegna completa del dibattito sorto intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo  R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis,Reperibileonline, fascicolo di Giugno. Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Emiliano Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a curadi), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,; Architettura e realismo, Milano Maggioli,  Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi  Lo stato dell`arteIl  di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia.  "Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,  "Ontologia analitica e ontologie continentali: Maurizio Ferraris e i filosofi italiani di impostazione analitica", in C. Esposito ePorro, Filosofia contemporanea, Roma-Bari: Laterza,  dal  Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di Ontologia Teoretica ed Applicata, LABONT Laboratorio di Ontologia, su labont. Il «questionario Proust» a Maurizio Ferraris, su elapsus. Maurizio Ferraris, il Nuovo Realismo, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai.  Wikipedia Ricerca Talcott Parsons sociologo statunitense Lingua Segui Modifica Talcott Parsons (Colorado Springs, 13 dicembre 1902– Monaco di Baviera, 8 maggio 1979) è stato un sociologo statunitense.  Parsons produsse una teoria generale per l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale nonché all'etnologia. Cercò di combinare "azione sociale" e "struttura" in un'unica teoria non limitata al solo funzionalismo.  Il suo lavoro ha avuto grande influenza negli anni cinquanta e sessanta, particolarmente in America (dove la ricerca era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve al sociologo Jeffrey C. Alexander.  BiografiaModifica Talcott Edgar Frederick Parsons nasce a Colorado Springs il 13 dicembre 1902.  Frequenta l'università all'Amherst College del Massachusetts, ed è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma già nel 1923 si interessa progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere di Durkheim e Max Weber.  Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale H. Laski e R. H. Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi Ginsberg e Hobhouse. Nel 1925, grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia, si trasferisce all'Università di Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart.  Tornato negli Stati Uniti Parsons insegna presso l'Università di Harvard dal 1927 al 1973. Entra a far parte del Dipartimento di Sociologia (diretto da Pitirim Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo stesso Parsons). Nel 1949 viene eletto presidente dell'American Sociological Association.  Muore a Monaco di Baviera l'8 maggio 1979.  Lo struttural-funzionalismoModifica L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque, in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo dell'individuo, il secondo sul ruolo della società.  L'azione socialeModifica In La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti elementi:  L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza; Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme - Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del concetto di sistema.  Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana degli anni 70, per giustificare i ruoli:  Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza. Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione; (Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia, ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di ruoli: nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli fanno anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre, figli).  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazioneModifica Si è già detto che in pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite le norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “Super-Io”) che riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari, l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori.  Variabili strutturali e universali evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da una cultura nel corso della sua esistenza:  Particolarismo/universalismo. È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo. Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi). Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati (il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni particolaristiche e tratti ascrittivi.  Per universali evolutivi, invece, Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana, le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto), tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità.  Parsons effettua una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti. Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società:  - società primitive: dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne: dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante  L'evoluzionismo non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro evoluzione:  - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale: l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. - Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite" ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali, tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.  Ulteriore sviluppoModifica Le teorie di Parsons sono state sviluppate ulteriormente da Robert K. Merton, Niklas Luhmann e Pierpaolo Donati.  CriticheModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. L'opera di Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio dai sociologi Pitirim Sorokin e da Charles Mills, che ne indicava efficacemente anche le implicazioni sociologiche conservatrici.  Il pensiero di Parsons è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le società occidentali come il modello a cui tutte le altre società dovevano tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi sulla trasformazione della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute soprattutto dai movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi.  Parsons viene criticato anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton rileva l'esistenza di disfunzioni.  L'attore di Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai valori, che ha un comportamento del tipo conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe che egli si comportasse.  OpereModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Elenco delle principali opere:  La struttura dell'azione sociale, 1937 Il sistema sociale, 1951 Toward a General Theory of Action (con E.A. Shils et alii), 1951 Working Papers in the Theory of Action (con Robert F. Bales, E.A. Shils et alii), 1953 Saggi di teoria sociologica, 1954 Famiglia e socializzazione, 1955 Structure and Process in Modern Societies, 1959 Sociological Theory and Modern Society, 1968 Politics and Social Structure, 1969 BibliografiaModifica Peter Hamilton, Talcott Parsons, Bologna, il Mulino, 1983. Alberto Marinelli, Struttura dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli, 1988 Riccardo Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, 1998. Uta Gerhardt, Talcott Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Cambridge University Press, 2002;. Realino Marra, Talcott Parsons. Valori, norme, comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXIV-2, dicembre 2004, pp. 315–27. Sandro Segre, Talcott Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, 2009. Matteo Bortolini, L'immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, 2005. Christopher Hart (ed.), Talcott Parsons. A Collection of Essays in Honour of Talcott Parsons, Chester, Midrash, 2009. Voci correlateModifica Ruolo di genere Anthony Giddens Niklas Luhmann Ralf Dahrendorf Jürgen Habermas Alain Touraine Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua inglese dedicata a Talcott Parsons Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Talcott Parsons Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Talcott Parsons Collegamenti esterniModifica Parsons, Talcott, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Parsons, Talcott, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Talcott Parsons, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Talcott Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 29546994 · ISNI ( EN ) 0000 0001 2125 8615 · LCCN ( EN ) n80015395 · GND( DE ) 118591835 · BNE ( ES ) XX1061404(data) · BNF ( FR ) cb120227306 (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007298292605171 (topic) ·NSK ( HR ) 000036537 · NDL( EN ,  JA ) 00452203 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n80015395   Portale Biografie   Portale Sociologia Ultima modifica 2 mesi fa di 151.43.84.5 PAGINE CORRELATE Anomia assenza o mancanza di norme  Funzionalismo (sociologia) posizione dominante tra le teorie sociologiche contemporanee  Robert K. Merton sociologo statunitense  Wikipedia Il contenutoGrice: “There is a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --. Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However, ‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or mutually so does B. Co-operation.” Maurizio Ferraris. Ferraris. Keywords: the ontology of the intersubjective – intersoggetivo – a functionalist approach to the inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist of the inter-subjective. The intersubjective conditions for the understanding of pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective – inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to Grice, he does so very superficially -- and more. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferraris” – The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761852955/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferrero – implicatura arimmetica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra filosofia romana e  pitagorica, rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana classica.  Su questa base l’a. arriva a sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la formazione del politico.  Il piano dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice analitico che ne facilita la consultazione.  Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste.  Ferrero is not the first to claim Italianita and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan! Numa learned from him! Cicero corrects here – it’s the tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian. The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. - Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.  Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni moderne di P. Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino 1868), di R. Westphal (A. v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento in due voll., Lipsia 1883-93) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes, introd. and index of words, Oxford 1903).  ADVERTISING  Bibl.: von Jan, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis., II, coll. 1057-65, che contiene ulteriori indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d. Philos., I, 12ª ed., Berlino 1926, pp. 402 del testo e 123-24 dell'appendice bibliografica; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans l'antiquité, Parigi 1924.  La restituzione della Geometria Pitagorica Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di Euclide 6  PREMESSE 1. Proclo, capo della Scuola d'Atene (V secolo d.C.), ci ha lasciato un prezioso commento sul Primo Libro di Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed importanti notizie che i moderni posseggano sui ri- sultati conseguiti e le scoperte fatte in geometria da Pi- tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo «Pitagora trasformò questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimontò ai principi superiori e ricercò i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura; è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure del cosmo (po- liedri regolari)».1 1 PROCLO, Com. in Euclidem, ediz. Teubner, 65, 15-21: la tra- duzione su riportata è quella del Tannery (PAUL TANNERY, La Géo- métrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en savons, Gauthier-Villars, Paris, 1877, pag. 57). Non è una traduzione alla lettera; e non per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo greco non dice che Pita- gora rimontò ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'al- to i principi della geometria. Anche il Loria (GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 1914, pag. 9), riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. 7   Proclo ci attesta inoltre2 che: a) Eudèmo, il peripatetico3, attribuisce ai pitagorici la scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qua- lunque la somma degli angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un an- golo piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei triangoli equilateri riuniti per il vertice riem- piono esattamente i quattro angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti; questa somma non è data esattamente che dai soli 2 Cfr. P. TANNERY, Le Géométrie Grecque, pag. 102. PROCLO, ediz. Teubner, pag. 379. ALDO MIELI riporta il passo nel testo gre- co a pag. 273 della sua opera: Le scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1916. 3 Eudemo da Rodi, l'eminente discepolo di Aristotele. Aristo- tele è morto nel 322 a.C.; Euclide fiorì verso il 300 a.C. 8    poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È un teorema pitagorico».4 c) Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa di un triangolo rettangolo: «Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta»5. d) «Secondo Eudemo (οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la para- bola delle aree, la loro iperbole e la loro ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel- la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica, dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 304. 5 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 426. Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), IX, cap. II, e da ATENEO. 6 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 419. 7 PROCLO, ediz. Teubner, pag. 65. Per quest'ultimo punto vedi anche GIAMBLICO – De Vita Pythagorae, 18. 9   2. Queste, insieme a poche altre che avremo occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad Euclide da Eude- mo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita Eudemo solo di seconda mano, e precisamente at- traverso Gemino, autore del I secolo a.C., un greco, pro- babilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare l'origine delle indi- cazioni passabilmente numerose e circostanziate perve- nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pita- gorica, il Tannery sostiene9 che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole, che Eu- demo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico desi- gna come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- 8 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 14 e 15. 9 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 82 ed 86. 10 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 87. 10   za, il quadro era già quello che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è il corona- mento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même que Minerve du cerveau de Jupiter»11. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni dei teore- mi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la tratta- zione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eu- demo; nulla, all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eude- mo ai pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o po- stulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva il Vacca12, anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- 11 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 88. 12 VACCA GIOVANNI, Euclide – Il primo libro degli elementi, Te- sto greco, versione italiana e note, Firenze, 1916, pag. 78. 11   vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica (Metaph., 1051 a 24) si riferisce non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; faceva lo stesso anche Eudemo, e faceva- no lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela? Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è neces- sario basarsi sopra il famoso postulato di Euclide, o so- pra un postulato equivalente? Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si riferisce Ari- stotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si può fare senza ammettere o premettere il V po- stulato, o, ciò che è equivalente, senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data pas- sante per un punto assegnato. 12  Se infatti si ammette, per esempio come fa il Severi13, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte di una retta ed aventi da questa una data di- stanza, è ancora una retta, si può osservare: 1o – che tale retta è unica14; 2o – che per poter dimostrare come que- sta retta, cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è anche l'unica non secante della retta data, il Severi ricorre al postulato di Archime- de15, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente al postulato di Euclide; 3o – che la di- mostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo16 (e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta, non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà degli angoli alterni inter- ni17, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e non su quello di Euclide. 13 FRANCESCO SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, 1926: vol. I, pag. 113. È l'edizione non ridotta. 14 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, 114. 15 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, 119-20. Vedremo in seguito come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato. 16 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, pag. 123. 17 F. SEVERI, Elem. di Geom., I, pag. 117. 13   Ne segue che la dimostrazione cui si riferisce Aristo- tele può benissimo sussistere sulla base di un postulato come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente il Loria18: «Una sola cosa bisogna notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo ragionamen- to, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un passo del commento al 1o libro delle Co- niche di Apollonio (Apollonio – ed. Heiberg, II Vol., Lipsiae, 1893, p. 170) dica: «Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei due retti a parte per ogni spe- cie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli 18 GINO LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, II edizio- ne, Hoepli, 1914, pag. 47. 14   interni di un triangolo sono eguali a due retti». «E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino»19. In conclusione anche questo dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an- goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti; particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria20, «era noto il valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano dimostrare [come?] il relativo teo- rema; ad essi per universale consenso viene attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca- ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo: «per conto 19 Cfr. ALDO MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze, 1916, pag. 273; ivi è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo a pagina 154 delle «Scienze esatte...». 20 GINO LORIA, Storia delle matematiche, Torino, 1929-33, vol. 1, pag. 67. 15   mio ammiro coloro che per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di- mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento»21. 3. Non è noto quale fosse la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata dal postulato delle rette parallele. Altrimen- ti gli antichi pitagorici, che per quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona, perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata riporta il testo greco di Proclo. 22 ALLMAN GEORGE JOHNSTON, Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1889, pag. 12. 16   necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo, indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del triangolo rettangolo qualunque (fig. 2), egli completa il rettangolo (di cui si presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily (empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il trian- golo rettangolo è così decomposto in due triangoli iso- sceli cogli angoli alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad 17   essi rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si estende agevolmente, sebbene l'Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo isoscele, e da questo ad un triangolo qualun- que. Il Tannery riconosce esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche egli inverte l'ordine23 dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino, prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che, seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que, soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno. Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai risultati nel- 23 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 104. 18   l'ordine indicato da Gemino, e che faccia appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive il Tannery24, «che se non l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle proporzio- ni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte, se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la dimostrazione, il Tannery, dopo avere detto25 che «i greci introducevano il più tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo che Pitagora deve essersi 24 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 105. 25 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 97. 19   servito della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente26 am- mettendolo a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele». Ora, a parte il fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento, biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche secondo il Loria27 «la dimostrazione che pre- senta il massimo di verisimiglianza è quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che na- scono abbassando la perpendicolare dal vertice dell'an- golo retto sull'ipotenusa. Con una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi di Euclide». Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione accennata dal Lo- ria e dal Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di 26 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 105. 27 GINO LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 67 in nota. 20   Pitagora, non sia affatto quella originale; senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente os- serva l'Allman28 che sebbene Pitagora «possa averlo scoperto come una conseguenza del teorema sulla pro- porzionalità dei lati dei triangoli equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera deduttiva», e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito da Bretschneider» (fig. 3)29. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due 28 ALLMAN, Greek Geometry, pag. 35. 29 BRETSCHNEIDER C. C., Die Geometrie und die Geometer vor Euklides, Leipsig, 1870. 21    retti; ed è invece, come vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman30, l'Hankel31 nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egi- ziani...», da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del resto l'ap- prezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando codesto criterio è proba- bile che si dovrebbe assegnare una provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto semplice- 30 ALLMAN, Greek Geometry, pag. 37. 31 HANKEL H., Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig, 1874. 22   mente usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed, anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione del Menone.  32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, XIX. 23  CAPITOLO I IL TEOREMA DEI DUE RETTI 1. Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito non si incontrano mai, do- veva apparire particolarmente ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiu- to e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a proposizione del li- bro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per- venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di dimostrare il teorema. 24  Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il Tannery che al tempo di Pitagora «il numero delle verità ammes- se come primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso... deve essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu- to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di questo teorema e non a quel- la arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo inspirazione e 25  non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi, quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o no) ammettessero: 1o – i postulati di deter- minazione e appartenenza; 2o – i postulati relativi alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani finiti); 3o – i postulati della congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè: 1) i criteri ordinari di eguaglianza dei triangoli; 2) le relazioni tra gli elementi di uno stesso triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di- suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di cia- 26  scuno degli interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due... 3) l'unicità della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. 2. Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo postulato, ossia ritrova- re l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di Euclide del Commandino del 1619, e come termine filosofico nella versione latina della Reth. ad Alexan. del Philel- phus (morto nel 1489). La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα. Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo avve- nisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario punto di partenza; né è detto che venissero 27  scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tene- re presente che la mentalità geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della logica. Al contrario, osserva il Rostagni33, «Religione, morale, politica, scienze matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o ve- ramente si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le domina tutte, indifferentemente». Archita, il pitagorico amico di Platone, in un frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio,34 dice che la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen- dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gio- co degli scacchi; era la scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e dell'estensione. L'aritmetica era la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- 33 A. ROSTAGNI, Il verbo di Pitagora, ed. Bocca, Torino 1924, pag. 71 34 Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie pythago- ricienne; Paris, 1874, vol. I pag. 279. 28   gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed espe- rienza sensibile umana ordinaria e non aveva per ogget- to soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο, del- l'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpi- camente inalterabile ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza del- le cose, l'al di là del περιέχον, della fascia cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti. Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna anco- ra all'intelligibile e non al sensibile gli oggetti della geo- metria. Tenuto conto di tutto questo, la verità primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano ruo- ta rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato at- torno ad un suo punto fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, del- l'osservazione e dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e rigidamente connes- 29  so con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che più o meno gira la ruota; e l'intui- zione e l'osservazione dicono che la rotazione del seg- mento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai pitagorici; giacché, secondo Eude- mo, il problema, un poco più arduo, di costruire un an- golo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di Euclide; ed Oinopide (500 a.C. circa) è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito nessun pregiudizio. Il movi- mento, ed in particolare il movimento di rotazione, si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche nella geome- tria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai po- 30  tuto procurarsi l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico e gli ba- stava che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. 3. Il postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O (fig. 4) di un certo angolo α, tutti i punti di una retta qualun- que AB del piano ruotano intorno ad O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna trasla- zione. Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota di α, non era 31  naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 . Perciò la proprietà si esten- de subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il rag- gio vettore OH si porta sul prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che 32   due rette perpendicolari in punti diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 .Macisembrachelaformacheabbia- mo prescelto aderisca in modo più immediato alla osser- vazione ed abbia quindi maggiore probabilità di coinci- dere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. 4. Con l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo equilatero di lato assegnato. La considerazione del trian- golo equilatero doveva comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la ret- ta (individuata e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche 33  in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una circonferenza ha il centro su di un'altra circonferen- za ed un punto interno ad essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta co- noscere il 1o e 2o criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo. 34   La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra il lato op- posto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono egua- li perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo nella rotazione, con due altre ro- tazioni eguali, la figura si sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35  5. La verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare que- ste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle in- dicate innanzi: a) La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed altezza. b) Esistenza, unicità e determinazione del punto me- dio di un segmento. c) Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. d) La somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. e) Se un angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti. f) Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36  maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ oppo- sto a b; e viceversa. g) Se un triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore. h) In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due. i) Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un punto. k) Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele. l) Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele (fig. 6) e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei triangoli BAO, CAO 37   segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per- pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicola- re alla OK in K, e per il postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta eguale all'an- golodirotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed ^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale. 38  Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare: a) In un triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA: In un triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A (fig. 7) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è divi-  so in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39  Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali. Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40   Se BA = B'A' il teorema è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote- nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due triangoli, ^A=^A '=90° , BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele 41   B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB. Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC , ^ABC . Si dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò sono eguali, ed 42   OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, men- zionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teore- 43  ma nel primo e semplice caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della rotazione. Si tenga pre- sente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere tro- vato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È un risultato di una 35 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 101, nota 2. 44   certa importanza se il postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9. Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa, ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ' , ^OTB'=^STB; e, se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. 45  Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne il nostro po- stulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti il Dehn (1900) ha dimostrato36 che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordi- naria geometria elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea, dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infi- nite non secanti rispetto ad una retta data37. 36 Math. Ann., B. 53, pag. 405-439, Die Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. ROBERTO BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche elementari, 3 ediz., vol. II, pag. 333. 37 Il Dehn chiama questa geometria: geometria semieuclidea. 46   Lo stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si può: 1o – ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea. 2o – negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. 3o – ignorare completamente i due postulati di Eucli- de e di Archimede e le questioni relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro ac- cettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi ve- niamo a trovarci esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del concetto di pa- 38 La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, pri- ma ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed il Lo- ria ritiene che l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, pag. 143-145 e 224). Comunque gli antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di Archimede. 47   rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione il teorema dei due retti.  Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H = 48  ^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S + ^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA', OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'al- tezza; ed essendo oramai complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decom- posto il triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora indicato. 49  CAPITOLO II IL TEOREMA DI PITAGORA 1. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza, comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via tenuta per ottenere il teo- rema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria pitagorica, come svi- luppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo ai pitagorici, 39 La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posterio- re anche a Proclo, è attendibile. Dice il LORIA (Le scienze esatte, pag. 721) che Eutocio, di mediocrissimo ingegno, era però assai diligente, accurato e coscienzioso; è difficile d'altra parte inventa- re una notizia così precisa e circostanziata. 50   omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del rettangolo e la dimostrazio- ne del teorema di Pitagora. E notiamo come dal teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze: a) Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. b) L'angolo del triangolo equilatero è eguale ad un terzo di due retti. c) L'angolo esterno di un triangolo qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. 2. Passando ai quadrilateri, osserviamo subito che Eu- clide ne distingue, nelle sue definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, 51  discendono invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto (fig. 12) AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta40 perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate all'infinito non pote- va, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo di Euclide. 52    golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53   ^CDB=^ABD; e ̂ siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di ^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC , ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla parte di D si 54  prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale. 4. TEOREMA DI PITAGORA: In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione41: pre- 41 PLATONE, Menone, XIX – Una traduzione corretta e comple- ta del passo di Platone trovasi nelle «Scienze esatte nell'antica Grecia» del LORIA a pag. 115-20. Platone conosceva la validità 55   so un quadrato ABCD (fig. 14) e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o – quella suggerita dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è antica; 2o – quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci ha serbato memoria Anarizio42; 3o – quella di Baskara posteriore a Tabit di circa tre secoli43. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta dal Timeo, XX. 42 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 341. 43 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. 1, pag. 315. 56    grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC (fig. 15) sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e 57   siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB, del quadra- to costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettan- goli eguali al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58  tutti i lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due angoli ^DGC , ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che «togliendo da cose egua- li cose eguali si ottengono cose eguali»; così il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. 59  5. Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati di Euclide e di Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nel- la ordinaria geometria euclidea ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La dimo- strazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di cui i pita- gorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La dimostra- 60  zione del testo di Euclide prova la validità del teorema di Pitagora sempre nel senso di eguaglianza per diffe- renza se ed anche se si ammette il postulato delle paral- lele e nulla si dice di quello di Archimede; le dimostra- zioni moderne ne provano la validità nel senso di egua- glianza addittiva (Duhamel), equivalenza od equicom- posizione (Severi), se ed anche se si ammette insieme al postulato di Euclide anche quello di Archimede. 6. Dalla dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al primo basta semplicemente osservare la fi- gura 15 per riconoscere che: TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61   am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla fig. 15, ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b ) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro che la squadra dei mura- tori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così pure il 62  TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il qua- drato costruito sopra un lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2 , e supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 + c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo, come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im- mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63   TEOREMA: Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH (fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no- tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+ c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64  [β] h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+ 2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema: TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide. Ri- cordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che ad Euclide appartiene solo la di- mostrazione che si trova nel testo degli Elementi (Libro I, 47). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la [β] ossia  potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto omologo del secondo. Siano (fig. 17) i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC = B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d. b2=(AC)2 –BC·HC=ab'  Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le conseguenze del teorema di Pitagora ha massi- ma importanza la scoperta delle grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel no- stro tema; così pure non ci occuperemo dei metodi attri- buiti a Pitagora per la formazione dei triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in generale. Dal 45 P. TANNERY, La Géom. gr., pag. 48. 66   triangolo rettangolo isoscele e dal triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si ottiene il rombo ed il romboi- de. Rombo, secondo la definizione che si trova in Eucli- de, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (per- ché in tal caso si chiama quadrato). Sia ABD (fig. 18) un triangolo isoscele non rettango- lo, e dal vertice B della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gli angoli  e Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; 67   quindi anche l'altra diagonale biseca gli angoli, è per- pendicolare alla prima ed il loro punto d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordina- ti), osserviamo prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte rispetto ad AD. Sup- posto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD, CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C coincidereb- be con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici. Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra loro, e bisecano gli angoli del rombo. 9. La definizione di romboide data dagli Elementi di Euclide è la seguente: Romboide è il quadrilatero che ha 68  i lati e gli angoli opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco (ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri quadrila- teri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo, la definizione di parallelo- grammo; mancanza sensibile anche per il fatto che sap- piamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione di Euclide46. Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la 23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'e- lenco dei postulati, non va troppo d'accordo con le defi- nizioni 2a, 3a e 4a per le quali la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in con- seguenza la definizione di parallelogrammo. Si ha l'im- pressione che l'elenco delle definizioni a noi giunte in- sieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico, e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il postulato delle paral- lele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea, basata sul V postulato; 46 PROCLO, ed. Teubner, 354. II-15. Cfr. ALLMAN G. J., Greek Geometry, pag. 114. 69   e si spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadra- to, rettangolo, rombo e romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il trian- golo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo pro- cedimento. Sia, infatti (fig. 19), ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque insieme a D dalla stessa par- te rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC.  Abbiamo dunque costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; 70  quindi ̂DMA=̂CMB e perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide si ta- gliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli an- goli opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A interno al trian- golo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il quadrilatero ABCD, allora, è divi- 71  so dalla diagonale BD in due triangoli eguali per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide. Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD, perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester- no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo eguali le coppie di angoli opposti si avrà al- lora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi ̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teore- ma dei due retti questa somma ha per supplemento l'an- golo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB. Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un romboide. 72  Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47. 10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si possono definire quadrato, ret- tangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale verisimilmente e proba- bilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec- cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei pitagorici. 73   pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro. Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος (da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro. Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno scoliaste alle Argo- nautiche di Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che vien fatto girare battendolo con delle striscie di lat- ta.48 Archita pitagorico parla in un suo frammento di questi «rombi magici che si fanno girare nei misteri».49 48 Apollonio, Argonautiche, L. I, v. 1139. In OMERO (Iliade, XIV, 413) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo (ed. Teubner, 171. 25) dice che «sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento». 49 Il Il Mieli che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica... pag. 349) e lo CHAIGNET (vol. I, pag. 281) traduce: les toupies magi- 74   Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si riferiscono. 11. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e quello in- terno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo inter- no va crescendo e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ...  ques. 75  Siamo ora in grado di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti attorno ad un verti- ce che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'an- golo giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono il cui angolo è un terzo di giro; e non può verifi- carsi con altri poligoni regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teore- ma dei due retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come il Tannery e l'Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita as- serzione di Proclo che della proprietà dei poligoni rego- lari congruenti attorno ad un vertice fa un teorema pita- gorico. 76  CAPITOLO III IL PENTALFA 1. La divisione della circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presen- tava difficoltà per i pitagorici; occorre appena osservare che dalla riunione di sei triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta. Più difficile invece si presenta il problema della divi- sione della circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale in- teresse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo problema, perché altri- menti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver fatto, sempre prescin- dendo dalla teoria delle parallele, della similitudine, del- le proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archi- mede. 77  2. Il problema dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere, in un caso particolare, anche senza ammettere il postula- to delle parallele. Il problema si può enunciare così: Co- struire un rettangolo di base data ed eguale ad un rettan- golo od un quadrato assegnato; problema che corrispon- de alla determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra geometria. Sia (fig. 20), per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA = a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia in un punto P interno la diagonale AC. Con- duciamo infine per P la MN perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è eguale (in estensione) al ret- tangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al ret- tangolo dato HBCK. Il segmento CN è dunque l'inco- gnito x dell'equazione. 78   Se invece a è minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel commento ad Euclide I, 43 (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è basato sopra l'autorità di Eudemo. La testi- monianza non è questa volta quella personale di Eude- mo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che ci si presenteranno in seguito. 79  Per risolvere, dopo quello dell'applicazione semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici.  Viceversa, se nel triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA; ^OAB=^OBA, , siccome per il teorema dei due retti la 80  somma di questi quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD (fig. 22) il quadrato di lato AB = b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF; per il teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co- struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF risolve dunque il problema, ed è EA la 81  x dell'equazione data. Affinché il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed ammette sempre soluzione. Sia ABCD (fig. 22) il quadrato di lato b, e prendiamo dalla parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua- drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA = EK, ed AF = EF' dei cateti. 82   Se da questo rettangolo si toglie il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap- punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA è la x dell'equazione. 4. PROBLEMA: Determinare la parte aurea di un segmento; ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b. Costruiamo (fig. 23) il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo, quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per lati DK = DF ed ED. 83   Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC, ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte co- mune AGDK si ha che il quadrato EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG, ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB BG = AB BS – AB SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = AB BS – AB SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG + AB SG = AB BS 84  dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS SG + AB SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0 Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0, ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea del lato. Un triangolo isoscele VAB (fig. 24) che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e quindi quelli alla base di 72°, è di- viso dalla bisettrice di uno degli angoli alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre equiangoli tra loro. 85   Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett. (VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50 Il LORIA (Scienze esatte, pag. 41) attribuisce a Pitagora la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- 86   6. Per costruire un triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali, il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo dunque in grado di risolvere il PROBLEMA: Dividere una circonferenza in dieci parti eguali. Uniamo (fig. 25) il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece, dal teorema di Pitago- ra, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in partico- lare il corollario di pag. 53, ed i problemi dell'applicazione che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. 87   esterno ed uno interno a tale circonferenza le due cir- conferenze si tagliano. Questa proprietà talmente assio- matica che Euclide non ha sentito il bisogno di postular- la, per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto; riunendo il pri- mo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come par- tendo dal teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado di dividere la 88   circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali del pen- tagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la scoperta della divisione della circonferen- za in 10 e 5 parti eguali e la costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica. Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag- gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione dei pi- tagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo (fig. 26) successivamente i punti di di- visione A, B, C,... della circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. 89   Congiungendo A con C, C con E ecc., si ha il penta- gono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5; congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decago- no stellato ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10; congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc. del- l'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti 90  nella circonferenza, e che si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato dal P. Kircher nella sua Aritmetica (1665)51; siamo però con- vinti che questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte successi- vamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91   Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha: [1] l2+s2=4r2 10 5 [2] l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali [3] l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce facilmente che il diametro AOF è per- pendicolare al lato EG del pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quin- di ̂EAG di 36°. Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e 92  le congiungenti A cogli altri punti di divisione in 10 par- ti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto at- torno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito. 8. Dobbiamo ora stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tan- gente in quel punto alla circonferenza. E siccome sap- piamo che il luogo geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le 93  tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora (fig. 27) da un punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura 26 sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la base 94   OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura 26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC = l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95  Da questa relazione e dalle altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6] s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l =3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r; l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF = l10 sihaAD=AF=s10;CD=s5.PresoAM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si trova (cfr. LORIA, Scienze esat- te, pag. 271) nel XIV libro di Euclide (che è di Ipsicle, II secolo a.C.), e così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. 96    sulla perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea dell'altezza e l'altezza è parte 97   aurea della proiezione del cateto maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una ter- za relazione tra quei cinque elementi: [11] l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle precedenti an- che le relazioni: [12] 2a5=s10=r+l10 [13] 2a10=s5 Vedremo in seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del dodecaedro regolare. 10. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si disegnava, (fig. 29) con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le lettere componenti la paro- la ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice senso che ha la parola «salute» in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza privi- legiata indicata alla fine dei «Versi d'oro». 98   Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato di solito come «la figura di Pitagora». Talora al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella «flaming Star» di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il fa- tidico «stellone» d'Italia. Diremo soltanto, per chiuder questo capitolo, che il pentalfa ed il fascio littorio (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti sim- boli spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien dall'Oriente. 99  CAPITOLO IV I POLIEDRI REGOLARI I. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare trop- po questo nostro studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: 100  a) Una retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. b) Se due piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani situati da parti opposte rispetto all'altro. c) Se per un punto H di una retta m si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una retta pas- sa un piano ed uno solo perpendicolare ad essa. e) Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare ad una retta r di α (pas- sante o no per il piede H), la terza retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. 101  g) Sia β (fig. 30) un piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β  la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stes- so esso rimane perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasulsemipianoαedαsuβ'.Iduediedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il se- mipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è interno all'uno od al- l'altrodeidiedriα̂βe^αβ';quindiperunarettar del piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi 102  perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi ^ sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β (fig. 30), e si conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al piano β, con- dotta in β una retta b qualunque e per P il piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra subito la unicità. i) I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H si di- mostra per assurdo.  k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un rettan- golo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104  sono eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. m) Se due piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. n) Due piani perpendicolari ad una retta non si incon- trano. o) Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. p) Distanza di un punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro  α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo spi- golo r. I tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; 105  condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con H, P, K, i triangoli rettan- goli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP , ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β èequidistantedaαedaβ,essoappartieneal ^ Si dimostra nel solito modo, e si estende all'ango- loide. t) TEOREMA: La somma delle facce di un triedro è minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso. v) Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. x) Definizione di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. z) Possono esistere al massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cin- 106 piano γ bisettore del diedro αβ. r) Definizione di triedro e di angoloide convesso. s) TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma delle altre due.  que facce congruenti in un vertice eguali a dei triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra nel solito modo. 2. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due cir- conferenze circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della seconda. Per il centro H di un triangolo (fig. 32) equilatero ABC si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB. 107   Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera di rag- gio r. 108  Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diame- tro; la sua intersezione con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto. 3. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD (fig. 33) un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. 109   Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH perpendicolare all'inter- sezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un medesimo punto O 110  che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA: L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile grazie al seguente LEMMA: Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di divisione si con- 111  ducono le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC un triangolo rettangolo (fig. 34), e sia l'ipo- tenusa BC divisa in n (5) parti eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e che essendo ^^^ ^^ EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI = HC.  Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano perpendico- lari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre, indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema di dividere un segmento in un nu- mero assegnato di parti eguali. Frattanto per il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo quintuplo sia maggiore del segmento dato 112  (per esempio riportando cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive so- pra di esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della sfera (fig. 33) si con- duce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. 113   4. Inscrizione dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della sfera il piano perpendico- lare al diametro EF, sia ABCD (fig. 35) un quadrato in- scritto nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del dia- metro EF con A, B, C, D si ha l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il te- traedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle tre facce ivi congruenti è regolare. 114  5. L'icosaedro regolare. Divisa una circonferenza (fig. 36) di centro V e rag- gio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in essa il de- cagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le perpendicolari al piano α della circonferenza, e si pren- 115   dano su di esse i segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così prose- guendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4 per- pendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3; analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo ango- ̂̂ lo C1 C2 C3 è eguale all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro, analoga- mente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q sta nel pia- no del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della circonferenza circoscritta al 116  pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale alla circonfe- renza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha: (C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 = B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila- teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E 117  aventi per lati opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3- C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2 si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico- saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3 sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della piramide pen- tagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimo- 118  stra che ogni vertice dell'icosaedro è vertice di una pira- mide pentagonale regolare eguale. La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si può dunque procedere nel modo seguente: 1o – si de- termina (fig. 23) il segmento C1C4 di cui C1C2 è la parte aurea. 2o – si determina il centro Q della circonferenza circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza di centro Q e raggio QC1. 3o – si inscrive in questa circonferenza il pentago- no regolare C1C2C3C4C5. 4o – si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. 5o – si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. 6o – si conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. 7o – si abbassa dal vertice C1 la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. 8o – si abbassa da C2 la perpendico- lare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla circonferenza di centro V. 9o – si prende il punto 119  medio B1 dell'arco A1A2 e si inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. 10o – si unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1 aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. 36 è rettangolo in C2 per- ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q = r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta. Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen- dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120  DH è dunque eguale al raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E si ricava: R '=12 s5a10 121  cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro è eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio r, oppure è eguale all'apo- tema del decagono inscritto in questa circonferenza. Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R' –12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2 –r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1 (s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53 Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 122    Si può riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della fac- cia, e si può dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare.  e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10 ; s52=2R · s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2  Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124  no piano regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni. Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce ̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4 dell'icosaedro. Tali ele- menti restano dunque gli stessi se si prende la sezione normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125  diedri son tutti eguali, e possiamo concludere che il do- decaedro costruito è regolare, è inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente opposti, que- sti otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di ver- tice A è trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un momento alla figura 26, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di 126  base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127   colare alle Q'A e Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do- decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la diagonale del cubo. Dalla fig. 36 risulta che i centri di due facce opposte del dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O ed è O1O – O2O 128  l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1, avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP. Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2 ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R. Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA = R si può procedere così: 1o – Si inscrive il triangolo equilatero nella circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella faccia. 2o – Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. 3o – Si costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo 129  triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia del dodecaedro. 4o – Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. 5o – Preso un segmento O1O2 eguale al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono quattro vertici del cubo inscritto. 6o – Si conducono per A e per P i piani perpendicolari ad AP. 7o – Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli altri quattro vertici del cubo. 8o – Nel piano AFG si completa il pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura 26 i triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130  perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella mi- nore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131  colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132  Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un ret- tangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo di cui l'ipo- tenusaèegualeadr+a5,ilcatetoμB1 èegualeaa5 e quindi: ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s  si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli al- 134    triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL, KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135  parti, AK eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5 2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e quindi si ha:  2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10 10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5 ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136  [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a 2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 ) L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10 e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2 s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 = 4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 = 6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i triangoli 137  PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da 9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il dode- caedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici: 1o – Dato R si determina come nel- l'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella fac- cia del dodecaedro. 2o – Si determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo del do- decaedro. 3o – L'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del dode- caedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta alla faccia del dodecaedro. 4o – Le proiezio- ni dei cateti di questo triangolo sono l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti nel- la circonferenza circoscritta alla faccia. 5o – Si prende un segmento Θη = l10 lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti ΘO1 = ηO2 = 138  r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del dodecaedro. 6o – Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2 eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici del dodecaedro. 7o – Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5, si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5, la figu- ra 28 fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'. 139  Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2 ... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata geometricamente.  54 Cfr. G. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia, pagg. 159 e 271. 140  CAPITOLO V IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO 1. In relazione ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitago- rici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica. Nicomaco di Gerasa, scrittore del primo secolo dell'e- ra volgare, attesta che Pitagora conosceva le tre propor- zioni aritmetica, geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica55. Si ha proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. 55Cfr. NICOMACO DI GERASA, ed. Teubner, pag. 122; e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G. LORIA, Le scienze esatte, pag. 36. 141    Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al ret- tangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e conse- guentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della proporzione continua 142  di tre termini; le definizioni antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica, la definizione della media armonica è invece di- versa. Riportiamo il frammento di Archita,56 inserendo per chiarezza gli esempi numerici: «La media è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa- mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmeti- ca perché 12 – 9 = 9 – 6; il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12 , ed 13 è minore di 12 )». «Si ha media geometrica, continua Archita, quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la media geo- metrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando 56 Cfr. H. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin 1912; fr. 2o. Il frammento di Archita è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne, 2a ed., vol. I, pag. 282-83) ne dà la traduzione. 143   il primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita (o dei pitagorici?) questa proporzio- ne era chiamata ὑπεναντία tradotto con sub-contraria an- che dal Loria, perché secondo la definizione che abbia- mo riportato, in questo caso succede il contrario che nel primo57. Da questa definizione si può trarre con opera- zioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Di- fatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò signi- fica secondo Archita che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:   2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pita- gora trasportò da Babilonia in Grecia.58 In questa impor- tantissima proporzione geometrica gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica: la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- 58 La testimonianza è di Giamblico, cfr. G. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 36. 145       bile sicuramente (anche senza la teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di armonica alla me- dia sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tan- to nella scala pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia). Ce lo dice, in parte, Filolao in un suo frammento60. Dice Filolao: «L'estensione dell'armonia è una quarta più una quinta [adoperiamo i termini moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta di nove ottavi». Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si 59 I termini di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner, pag. 122. 60 Cfr. CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; vol. I, pag. 230. 146   estende mediante l'aggiunta di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio tetracordo)61. Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era semplicemente la media aritme- tica delle lunghezze di queste due corde estreme. Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sen- sazione di un intervallo rispetto al do inferiore eguale 61 Questo tetracordo non è altro che la lira di Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il canto. Os- serva A. TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (1912, Hoepli, pag. 175), che è «notevole che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella declamazione. Infatti, interro- gando, la voce sale di una quarta; rinforzando, cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta». Occorre anche tener presente che «l'accento dell'indo-europeo era un ac- cento di altezza; la vocale tonica era caratterizzata, non da un rin- forzo della voce, come in tedesco ed in inglese, ma da una eleva- zione. Il «tono» greco antico consisteva in una elevazione della voce, la vocale tonica era una vocale più acuta delle vocali atone; l'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un intervallo di una quinta» (A. MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grec- que, Paris 1912, pag. 22; vedi anche pag. 296). 147   all'intervallo del do superiore a quello del fa, aveva una lunghezza tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formavano una proporzione geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34 , 23 , 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media ar- monica delle lunghezze delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente. Se inve- ce delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde estreme, e la quarta la media armonica62. 62 In molti testi di fisica e di matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lun- ghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque 148   2. Vediamo ora quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha 12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi; come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi= 64, fa= 3, sol= 9 81 4 149   tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo armonia geometrica.63 I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli, 8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e del decalfa in 2 , la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si pre- sentava nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo del- l'universo. Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filo- sofia. Il Robin, p.e., (LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 75) prende per le quattro corde della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. 63 Cfr. NICOMACO, ed. Teubner, pag. 125. 150   essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La me- dia aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M = 45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi, abbiamo trovato che la loro media geome- trica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151 ossia la media armonica tra la somma del raggio della  ferenza circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema dell'ico- saedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro; la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN = l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti, ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha: a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac – c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi  D'altra parte, indicando con M la media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c. Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla sua parte aurea, acca- de che il secondo segmento ed il terzo sono rispettiva- mente la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei seg- menti determinati sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina, ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. 153   Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4 della fig. 26; mentre il lato AN della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154  (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17] (2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago- rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli elementi 2a, s10, r ed l10 deve avere costituito ai loro occhi una conferma significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regola- re il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è che da leggere alcune pagine del «Timeo» di Platone. Riassumiamo servendoci della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che «ogni specie di corpo ha profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli», in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e corrispondentemen- 64 PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da FRANCESCO ACRI, Milano 1915, vol. III, pag. 142-45. 155   te ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una retta che è individuata da due punti. Il punto, la ret- ta, il piano o triangolo ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fat- to che ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è il principio della generazio- ne65. «I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due spe- cie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi, ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro ele- menti]».66 Siccome di triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma), Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipote- nusa doppia del cateto minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore. Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr. PROCLO, ed. Teubner, pag. 166, 15. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET, vol. II, pag. III. 66 Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento. 156   versa, preso un triangolo equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce triangolari non vi sono67. Con il triangolo rettangolo isoscele si ge- nera il cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli iso- sceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di composizione che è la quinta, «di quella si fu giovato Iddio per lo disegno del- l'universo». 67 Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Il Mieli (pag. 262 della sua opera) esclude assolutamente che i pitagorici fossero ar- rivati a riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione di Euclide (XIII, 18) nel suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benis- simo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cin- que poliedri che effettivamente esistono. 157   A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per ri- serva68 forse perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa. La superficie del dode- caedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triango- li rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a Timeo. Ora il numero dodici (che compare anche negli altri poliedri) aveva già per conto suo un carattere sacro ed universale; dodici era il nume- ro delle divisioni zodiacali e dodici in Grecia, Etruria e Roma, era il numero degli Dei consenti, dodici era il nu- mero delle verghe del fascio etrusco e romano, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenuti- ci stanno ad indicare l'importanza del numero dodici e del dodecaedro69. Il numero 360 era poi il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. 68 Il silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche al Robin, il quale dice (LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris, 1923, pag. 273) che «au sujet du cinquième polyèdre regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux». Il Robin non prospetta alcuna ragione di tanto mistero. 69 Cfr. ARTURO REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista «DOCENS» 1934-XIII, numeri 10-11. 158   La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag- giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale 360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni, aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rap- presentano. Abbiamo veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per verti- ci i centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un verti- ce del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti 70 ALCINOO, De doctrina Platonis, Parigi 1567, cap. II. Cfr. an- che l'opera di H. MARTIN – Études sur le Timée de Platon, Paris 1841, II, 246. 71 PLUTARCO, Questioni platoniche, v. I. Naturalmente si tratta dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. 159   e questi tre fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia, come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te- trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii hanno rispetto agli estremi esatta- mente la stessa relazione delle corde medie alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici identifichi l'oracolo di Del- fi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed all'armonia.72 La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo 72 Cfr. LÉON ROBIN, La pensée grecque, Paris 1923, pag. 78. 160   dell'universo. Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza nell'architettura pre-peri- clea73; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia, l'architettura e le varie arti.74 La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del dodecaedro nella sfera ed il rico- noscimento delle sue proprietà, come sappiamo che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- 73 M. CANTOR, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik, 2a ed. I, 178. 74 Alla considerazione della media armonica si connette, inve- ce, il canone della statuaria di Polycleto; cfr. L. ROBIN, La pensée grecque, pag. 74. 75 Cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 189. 161   so anche all'ascesi pitagorica; e si comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Plato- ne potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno, una scuola prepa- ratoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'intimo legame di que- st'ultima con la musica»76. Per i pitagorici e per Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la geometria euclidea, spezzando tutti i con- tatti e divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagli ele- menti costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva costi- tuire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un passo ab- bastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica, non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire 76 Cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc., pag. 110. 162   le connessioni tra la geometria e le altre scienze e disci- pline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας πάντα ῥητά. 163  CAPITOLO VI DIMOSTRAZIONE DEL "POSTULATO" DI EUCLIDE 1. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come ele- 164  mento per la restituzione e non come documento di pro- va, non era possibile fare di più; e sappiamo che in que- sta circostanza anche le prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il loro valore a favore della no- stra tesi. Nello sviluppo della geometria pitagorica ci siamo li- mitati a quanto occorreva per poter raggiungere i risulta- ti menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premet- tere per trattare l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema dell'applicazione semplice, corrisponden- te alla risoluzione dell'equazione ax = bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importan- ti questioni. Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre corde passano per il cen- tro; ma non si può dimostrare in generale che per tre punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo adesso 165  di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà. Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di Archimede, dimostrare con il Legendre77 la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle parallele); e così pure os- serviamo come il Severi, ammesso il suo postulato delle parallele78, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato di Archimede, la unicità della non secante. La cosa è dun- que possibile servendosi del postulato di Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo po- stulato perché Archimede è posteriore persino ad Eucli- de, e non è verosimile che i Pitagorici abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato di Archimede ba- sta per permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, po- tevano i pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato? 77 Cr. R. BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., pag. 323. 78 Cfr. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze 1926, vol. I, pag. 119. 166   Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono da quelle già viste. 2. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendico- lare ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b (fig. 38) perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendico- lare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due perpendicola- ri alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA, avendo inoltre 167   eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, es- sendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una distanza PQ = AB, al- lora diciamo che questo punto P appartiene alla perpen- dicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente apparte- nere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168  è eguale ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a per- pendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b passante per un punto 169  assegnato A, non dice affatto che ogni altra retta passan- te per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla b: ossia per ora abbiamo di- mostrato la unicità della retta equidistante; e nulla sap- piamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e for- ma con esse angoli alterni interni eguali esse sono equi- distanti.  Siano a e b (fig. 39) le due rette incontrate dalla tra- sversale AB, e siano gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni sono supplementa- ri. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono ret- ti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170  spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'ango- lo ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Nota: lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH ; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171  ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono dunque supple- mentari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Nota: non è però dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso generale. 4. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita da Eudemo ai pitagorici, dimo- strazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica di Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basava so- pra il teorema delle rette equidistanti, derivante dal teo- rema dei due retti, doveva necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò inesplicabile la esistenza dell'antica dimo- strazione del teorema dei due retti menzionata da Euto- cio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o non si usi il postulato di Eucli- 172  de. La equidistante è una non secante, che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un postulato sopra le rette equidistanti come quello del Se- veri. Se, come crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso, per- ché, come il Saccheri ha dimostrato, l'ammettere che delle rette equidistanti esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato79. Esso è il postulato del Severi, equivalente alla proposizione Saccheri, ed al nostro postulato pitagorico della rotazione. 79 GIOVANNI VAILATI, Di un'opera dimenticata del P. Girolamo Saccheri, in Scritti, 1911, pag. 481. 173   Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è vero- simile derivi da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eu- demo, ed inoltre la teoria delle equidistanti e, di riman- do, la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo. 5. TEOREMA: Se una trasversale incontra due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistan- ti. E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174  equidistante dalla m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante si chiama altezza del rom- boide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB (fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175   lati consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per assurdo, come conseguenza della uni- cità della equidistante dalla BC passante per M, e della unicità del punto medio M. 176   Come conseguenza di questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bi- sogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. 6. Vogliamo ora dimostrare la proprietà, fondamenta- le che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. 80 In modo simile a questo si può sviluppare la teoria delle ret- te e dei piani equidistanti e la teoria dei piani equidistanti. Avrem- mo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. 177   178   Dal punto A (fig. 42) conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b en- trambi perpendicolari alla AB non si possono incontra- re. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due semirette situate da parti opposte della a; conside- riamo la semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di origine A e comprese nell'ango- lo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179  b; anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a , perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna al- l'angolo ^mAa, , è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infat- ti, a partire da A su questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A com- prese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne all'angolo C A a ; basta infatti 180  prendere un punto S qualunque sul prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A, passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi, e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon- denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita or- dinatamente dalle altre; e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qua- lunque della b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre. Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmen- to BC; le semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata ortogonale ABC, estre- mi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la a l'ultima delle non secanti la b. 181  Facciamo a questo punto una osservazione: La corri- spondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC, permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC . Per dedurre dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un fascio, il Severi81 nota che occorre prima introdurre il postulato delle parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette. Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la corrispondenza è completa, nessu- na semiretta esclusa. Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima delle se- 81 SEVERI, Elementi di geometria, vol. I, pag. 177. 182   mirette secanti la b così da un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo dalla posizio- ne iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato della rotazione pitagorica (o l'equi- valente proposizione Saccheri) sarebbe stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del po- stulato di Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità. Bisogna ammettere come po- stulato la esistenza di una semiretta di separazione delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità 183  talmente evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non ha sentito il bisogno di postulare il po- stulato di continuità nei due casi che abbiamo a suo tem- po espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo due secoli prima di Eu- clide quando Pitagora per primo faceva della geometria una scienza liberale. 7. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo, la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica. Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b), ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sap- 184  piamo la r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h; in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è quin- di contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE: Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che non la seca. Sia (fig. 43) A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che for- ma con la semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b (eventualmente an- che la prima). Allora la prima non secante, ossia la se- miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r, ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere acuto l'angolo HAB del triangolo 185  rettangolo AHB, il piede H sta sulla semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30° e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com- preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a' perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186   e A; perciò il segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK , ̂DAH eguali; quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε. Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s' incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA, il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una secante della b. 187  Conclusione: la prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ; ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ; quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione Saccheri) o l'equivalente postulato del Se- veri sopra le rette equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar- chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva apparire indi- scutibile. 8. Dimostrato il postulato di Euclide si rientra natu- ralmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro compito è finito. 188  A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria pitagorica, non in quanto collimava con la geome- tria euclidea, ma in quanto ne differiva. Che ne differis- se sostanzialmente lo prova la esistenza di quella arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato, abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente da sola la più recente dimostrazione del teore- ma dei due retti riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo postulato della rotazione. 189  Come riprova del fatto che essi non ammettevano il postulato delle parallele, definite come in Euclide, ab- biamo addotto la ragione che per i pitagorici il concetto di infinito si identificava con quello di imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come il concet- to di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di im- mobilità si oppone a quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere presenti i le- gami che avvincevano le concezioni geometriche dei pi- tagorici a quelle cosmologiche; e se «nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano mai»82, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gli astri, ossia gli Dei, si movevano eter- namente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di rotazione restavano im- 82 GIUSEPPE VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova, 1898, pag. 23. 190   mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente onore ad Eucli- de di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato possibile». Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una ri- prova che i pitagorici ne facevano uso senza tanti scru- poli e che quindi potevano benissimo anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente, accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata, puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc., pag. 38. 191   mezzo comodo e rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai soddisfatto nessuno e che D'Alembert chiamava «lo scoglio e lo scandalo della geometria». 9. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si ammette il postulato pitagori- co della rotazione o la proposizione Saccheri, si ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette anche il postulato di Ar- chimede oppure il caso particolare del postulato di con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendico- lari in punti distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto, per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione. Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A ri- spetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P, dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r: quindi esse non si incon- trano. 192   tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così: «Sia il triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ... (καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ παράλληλος ἡ)». Qui appare il termine parallela e l'articolo determina- tivo ἡ ne implica la riconosciuta unicità; ma, anche am- mettendo che Proclo abbia riportato di peso la dizione usata da Eudemo, resta a vedere se Eudemo adoperava il termine parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi da Euclide. Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante; egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce la [retta] di fianco [o di fronte] al lato... Anche in questo passo l'articolo ἡ mostra che tale ret- ta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nes- sun modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della parola parallela non dà in proposito nessuna luce; il termine è adoperato in astro- nomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel 193  linguaggio ordinario da Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle "vite parallele". Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e con quale precisazione non ri- sulta. Aristotele lo usa tre volte nella Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano di descrivere le parallele commettono una peti- zione di principio. Così come stanno le cose il passo di Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non provano affatto che la di- mostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla definizione ed al postulato di Euclide. E non è da escludere che questa retta fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla equidistante vi potessero essere an- che altre rette non secanti. In tal caso il dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela 194  nel senso euclideo e non si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, di Aristotele e di Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due retti una dimostrazione identica a quella di Eu- clide. Se, come ci sembra, questa dimostrazione pitago- rica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche que- sta dimostrazione era indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'ac- cordo con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione pitagorica. E notiamo an- cora che, anche se non si vuole accordare che la geome- tria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pita- gorico della rotazione, la dimostrazione del «postulato» di Euclide che abbiamo esposto si può fare egualmente, se si ammette la proposizione Saccheri od il postulato del Severi. E siccome i pitagorici conoscevano certa- mente il teorema dei due retti indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che essi po- tevano dal teorema dei due retti e senza postulato di Ar- chimede arrivare a dimostrare la unicità della non secan- te. La questione non trascendeva i loro mezzi, né certa- mente l'intelligenza di quei così detti «primitivi». 195  10. La trasformazione del postulato di Euclide in teo- rema è un risultato secondario di questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia- mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e, tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo sce- gliere tra il V postulato ed il postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è an- che un po' personale, e noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiun- gere lo stesso risultato. Il postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il «postulato» di Euclide in modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. 11. Una volta introdotto, come postulato, il V postula- to di Euclide, la proprietà enunciata dal postulato pita- 196  gorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto diversamen- te quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la in- troduzione del postulato di Euclide dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide cambiò l'ordine e le dimo- strazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno goduto per oltre venti secoli gli «elementi di Euclide», aggiungen- dosi a queste condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della glo- ria della «Scuola Italica». Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fonda- menta, nulla si è salvato. Un destino avverso sembra es- sersi accanito contro l'opera vasta ed ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime pitagorico in Cotrone; disperso l'Ordine e la scuola, le scoperte e le conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate. Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra natura, 197  impedì l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagori- che, assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la filosofia, intesa nel senso etimolo- gico e pitagorico della parola, venne occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere salde basi, si è perduta a tutto be- neficio della scuola greca posteriore. Per quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di resti- tuire l'opera geometrica della «Scuola Italica» è stato per noi non soltanto un importante argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi, gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti, preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ Leonardo Ferrero. Ferrero. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferrero” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760965851/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferretti – l’intersoggetivo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Filosofo. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino, Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI, Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg & Sellier, Torino).   Wikipedia Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA)  «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.»  (IT)  «Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.»  (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa "quello posto sotto", "ciò che sta sotto".  Nella speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di significati:  un essere, sostrato[1] sostanziale di qualità che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una "oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Guido Calogero § La teoria sul pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel tempo e nello spazio.  Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato mutevole.  «[...] E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma[...][2]»  Un terzo aspetto particolare del soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il composto di entrambe»[3].  Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto.»[4]  Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Nell'Ottocento, "soggetto" assume una serie di nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche "umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia. Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di "autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà esterna".  Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla "realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana. Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e nella mente umana, il Lògos. Parmenideafferma che «lo stesso è pensare ed essere», ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere».[5]  Per Anassagora il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed oggetto.  I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale il concetto di "realtà", verso la quale ostentano uno scetticismo o un relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito proprio del filosofo diventa: «conosci te stesso». La ricerca si orienta verso l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e vizio, giusto ed ingiusto, ecc.  Con Platone il concetto diventa Idea, da sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa, apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte"[6].  Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui "poggiano" le qualità accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che «la sostanza pare che sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa».[7] Alla sostanza competono numerosi altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto.  Riassumendo la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul soggetto (la mente).  Dal Neoplatonismo al RinascimentoModifica Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale.  Sulla scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato ‘oggettivo’: il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende.  Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Tommaso d'Aquinoprende posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta alla trascendenza divina.[8]  Su questa strada anche il Rinascimento descrive variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma abitata da forze e presenze nascoste.[9]  La filosofia modernaModifica Nel '600 si verificano due processi paralleli: con Galileo Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura.  Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato, inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum" riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così:   Posso dubitare di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di quella che si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi:  L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le "cose", che il senso comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica;[10] le idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto scolastico di «armonia prestabilita».  L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con David Hume, reagisce a questa "sostanzializzazione" del soggetto criticando sia la nozione di "sostanza" (Locke), che poi quella stessa di “soggetto“ (Hume). Ma in tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della realtà esterna.[11] Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre).  Concludendo sul pensiero moderno: all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio), generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo).  Kant e l'IdealismoModifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso (…) deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato».[12] Il pensare dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant: «La chiamo (...) originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre rappresentazioni».[13] Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'Io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria, ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.  Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé. Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della metafisica neoplatonica.  La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini contrapposti.  Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto, ed infine con il Dio cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito»,[14] ma quel che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo "sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817), basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri di Dio")[15]viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza universale o Spirito.  Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale, storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte esistenziale dell'uomo moderno.  Il soggetto oggiModifica La filosofia già da un secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si è messa) al centro del mondo. La Rivoluzione Copernicana esprime un ottimismo della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura.  NoteModifica ^ Secondo Aristotele costituito da una materialità informe, originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. ^ Aristotele, Metafisica, VII, 1042a ^ Aristotele, Op. cit., VII, 1029a 2-5 ^ Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia ^ Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura), fr. 3. ^ Platone, Fedone, 64a. ^ Aristotele, Metafisica, VII, 3. ^ Giorgia Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996 ^ Ad esempio Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus (1566) parlava apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di natura. ^ Francesco Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. ^ HomoLaicus: George Berkeley. ^ Kant, Critica della Ragion pura, par. 16. ^ Ibid. ^ Hegel, Fenomenologia dello spirito, introduzione (1807). ^ Vedere introduzione alla Scienza della Logica(1812). BibliografiaModifica (FR) Olivier Boulnois (a cura di), Généalogies du sujet. De saint Anselme à Malebranche, Parigi, Vrin, 2007. (FR) Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, 2007. (FR) Alain de Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet II), Parigi, Vrin, 2008. (FR) Alain de Libera, La double révolution. L'acte de penser I (Archéologie du Sujet III), Parigi, Vrin, 2014. Rodolfo Mondolfo, La comprensione del soggetto umano nella cultura antica La Nuova Italia, 1967 (nuova edizione Milano, Bompiani 2012). Luca Parisoli (a cura di), Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali, 2010. Giorgia Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, 1999. (EN) Udo Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes to Hume, New York, Oxford University Press, 2011. Voci correlateModifica Individuo Oggetto (filosofia) Controllo di autoritàThesaurus BNCF 21561 · LCCN( EN ) sh85129424 · J9U( EN ,  HE ) 987007543742405171 (topic)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 3 mesi fa di 151.77.188.214 PAGINE CORRELATE Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del pensiero  Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io)  Wikipedia Il contenutoGiovanni Ferretti. Ferretti. While subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The inter-subjective” sounds Butlerian in English! Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the common ground’  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761159508/in/dateposted-public/

 

Grice e Ferri – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s ‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo.  Discusse in tre lettere le “Confessioni di un metafisico” di Mamiani ed elabora in tre memorie le sue concezioni.  Pubblica la “Rivista italiana di filosofia.”    La filosofia platonica poggia su due basi: cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine, le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio; osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia, cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to  Conf. La Dottrina dell'amore secondo Platone, lezione e note,  questa Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni. L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità.  Questa corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci. Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che l'amore non ha altri strumenti da applicare.  Grato è a noi, dice Ficino, il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo bello. E perchè queste tre cose, l'animo  Università di Palermo un'analisi accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza nome di stampatore: “Il Commento di Marsilio Ficino sopra il Convito di Platone e il esso Convito tradotlo in lingua toscana per Hercole BARBARASA da Terni con dedica al maguifico messer Gio. Battista Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Marsilio Ficino a Bernardo del Vero, cad Antonio Manetti, da cui risulta che la versione in lingua Toscana del Commento edito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino.  Le citazioni fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da essa.  « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione, viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di essere riferiti.  Trovandosi il bello nella forma del corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.  Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa posizione di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria -- e proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in parts --– analogia -- con qualche soavità di colori.  [ocr errors] ("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo  questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato e non la medesima  “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo  stimare la forma bella essere qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è maggior grazia. E negli  uguali di età alcuna volta accade che quello che supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo. L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose; quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per  a qual cosa accade che alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo, non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e « occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti, debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè, l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo, secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere? Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un amore infinito che spande la bellezza nell' uni  verso.  Ma prima di salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto della sua vera natura nell'uomo.  A malgrado della tendenza mistica che distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento. Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito – cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi in terra.  Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella dell'intelletto.  Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni epicuree. Difatto, sogliono i mortali,   quelle cose che generalmente o spesso fanno, dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo per la  nostra stoltiza falla in amore. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa coine nelle altro  parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo di esporla il più completamente possibile.  Arriviamo con lui al termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che  [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più « espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie, del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son « chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria; così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da scienza.  Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri  mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme.  In questi cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo.  « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione».  Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi  naturale, del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio di Dante sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva  ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.  Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue inspirazioni.  Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva insegnato como un sublime do  [ocr errors] vere la fuga dalle cose sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità; per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie.  Così è, Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al cielo.  Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore  si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in questi confini.  Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina (').  M) A conferma del carattere mistico del Commento di f'icino si aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene dell'individuo e della società.  Questo aspetto stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della  degli Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel Commentu di Ficino trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.  vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati,  [ocr errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità, innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se stesso al trionfo della libertà e del diritto.  A questo segno aveva mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere  i  suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile nella forza morale.  In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo straniero che stava per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla sua bellezza; la trovò mal difesa, la vinse e se ne insignor). Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fece schernendo la sua debole resistenza, e Ficino era fra essi.  Lagrimò il pio sacerdote su tanto male, ricordd agli uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di punizione; gl'invitd a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più informata a carità che a fermezza, si sforzo di volgere l'animo di lui a miti e clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostrd di che tempra sono gli animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il libro di Ficino sopra l'Amore consta di Orazioni che espongono e commentano con indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel Convito di Platone. Ficino stesso narra nel capitolo primo l'origine e lo scopo del suo lavoro.  Platone spird (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il 7 di ottobre, giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno, celebravano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, fu restaurato con regale apparato per ordine di Lorenzo il Magnifico nella villa di Caregri, sotto la direzione di Francesco Bandini che ne fu costituito Architriclino.  I convitati furono 9, pari cioè al numero delle muse. Sette figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute nel Convito platonico. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio. Cosicchè la orazione di Fedro, bello e giovane retore, tocca a Giovanni Cavalcanti, che per virtù e nobiltà di animo come per bellezza esteriore fu chiamato l'eroe del Convito; la seconda detta da Pausania ad Antonio degli Agli vescovo di Fiesole, la terza di Erissimaco medico a Ficino; la quarta di Aristofane a Cristoforo Landino; la quinta di Agatone a Carlo Marsuppini, la sesta di Socrate a Tommaso Benci, la settima di Alcibiade a *Cristoforo* Marsuppini. Ma il vescovo e il medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le loro disputazioni a Giovanni Cavalcanti. Ficino non poteva essere più cortese coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche il Nuti e il Bandini che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui dimenticati. Al Bandini ordinatore del banchetto non aveva bisogno di attribuire altra parte che quella assegnatagli da Lorenzo. Dal Nuti suppose fatta la lettura del Simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini sarebbe Cavalcanti che avrebbe persuaso Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare la gioventù del celeste bello.  La versione toscana del Commento di Ficino al Convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'Amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore.  Il bello è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.  Finalmente che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la distanza ė o nulla, o vacuo,  o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone; per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era rivolto  E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore;  [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale.  Secondo che mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume, che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere in questi lavori. Bonghi apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica, da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza. Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti, della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale. Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio, riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene, Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano, ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di volgere al  bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo. C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa, intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare un bello, che su tutte « tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al sommo della « scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto, senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e  non accresciuto (nè scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore che s’inizia con la percezione dell’amante del corpo bello dell’amato -- in due modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto) nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’amante e l’amato sempre povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fece credere a parecchi interpreti e critici che Platone quivi, come in altri luoghi, ricorresse a invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse delle sue dottrina dell’amore. Ma al Bonghi sembra, e secondo noi con ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopraenumerate che il Bonghi conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del Paganesimo rinascimentale di Ficino. Altre opere:  Il genio di Aristotele. Discorso, Tip. delle Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e del metodo di Rosmini, «Il Cimento», Della filosofia del diritto presso Aristotele, «Il Cimento», Estr.: Tip. Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni del Mamiani e alle dottrine platoniche, «Riv. cont.», Sulle dottrine platoniche e sulla loro conciliazione colle aristoteliche. Lettera a T. Mamiani, «Riv. cont.», Estr.: Torino, Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Tip. Niccolai, Firenze, Ciò che possa la Filosofia per l'istituzione civile dei popoli. Discorso inaugurale per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. di P. L. da Savigliano, La filosofia di Bossuet; di S. Turbiglio, Storia della filosofia; di C. Cantoni, G. B. Vico, NA, La libertà del pensiero e la filosofia nelle università italiane, NA, L’epicureismo e l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un libro recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze, Le Meditazioni cartesiane rinnovate nel sec XIX da T. Mamiani, NA, L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna, NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. Libri tre, tradotti da S. Bissolati, Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica contro il materialismo, FSI,  Rec. di R. Bobba, La protologia di Ermengildo Pini, Torino, FSI, Vico e la filosofia della storia [Rec. di C. Cantoni, Studi critici e comparativi; P. Siciliani, Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; T. Mamiani, Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, Vinci e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr. editr., Torino, Rec. di F. Fiorentino, Pietro Pomponazzi. Studi storici su la scuola bolognese e padovana del sec. XVI con molti documenti inediti, Firenze, ASI, sEstr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, IIl senso comune nella filosofia e sua storia, FSI, IEstr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di G. E. Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sulle attinenze della religione e della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera al Conte Mamiani, FSI, Rec. di F. Fiorentino, La filosofia della natura e le dottrine di Bernardino Telesio, Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di ‘causa’ nella scuola di Herbart, FSI, Vinci filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo libro di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo Platone, FSI, Estr.: Tip. Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna, FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’Avvenire, Herbart, NA, Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Tip. Civelli, Roma, Il metodo psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Giuseppe Ferrari, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La psicologia di Pietro Pomponazzi, secondo un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, T, 3, 8, intitolato: Pomponatius in libros de anima. Memoria del prof. Luigi Ferri,  «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Salviucci, Roma, Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nella Università di Roma «Annuario Univ. di Roma». Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima nel Pomponazzi, FSI,  Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma, “L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI,  L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La psicologia dell'associazione dall'Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. di G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno(«Acc. Scienze Torino. Memorie»,  FSI, “L'assoluto”, FSI, Cicerone sui Doveri. Conferenza, FSI,Rec. di A. Conti e G. Rossi, Esame della filosofia epicurea nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia Platonica fondata in Firenze dai Medici. «Acc. Lincei. Transunti», FSI, Helmholtz sulla percezione, FSI, Delle Idee e propriamente della loro natura, classificazione e relazione,  FSI, Il Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana di S. Tommaso d'Aquino e l'istruzione filosofica del clero, NA, s. II, vol. XXIV, 1880, pp. 613-Sulla recente restaurazione della filosofia scolastica e tomistica considerata in ordine ai metodi degli studi ed alle attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, «Acc. Lincei. Transunti», Vera, «Acc. Lincei. Transunti», Sulla percezione esteriore e sul fenomeno sensibile, «Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a Giordano Bruno, a cura di D. Berti, Roma, FSI, La filosofia d’Aquino, FSI, Petrarca e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI,  316-340. Estr.: Salviucci, Roma, FSI,  Zanotti, La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di L. Ferri e F. Zambaldi, G. B. Paravia e Comp., Torino, Dottrina aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa, «Acc. Lincei. Transunti», Relazione sul concorso al premio reale per le Scienze filosofiche, «Acc. Lincei. Transunti», Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la ‘causa’ della rinascenza del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, Vinci, NA, Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al dinamismo filosofico, «Acc. Lincei. Memorie», s«Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo del Ficino, FSI, La dottrina dell’amore del Ficino, Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La giustizia nella repubblica utopica di Platone. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della filosofia. Il platonismo di Marsilio Ficino. Le idee e la dialettica. La dottrina dell'amore, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, «Acc. Lincei. Rendiconti», Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti», sVera, «Acc. Lincei. Rendiconti», “Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di ‘causa’ e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma - Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia dell’ipnotismo), FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality – Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di A. Chiappelli, Del suicidio nei dialoghi di Platone, FSI,  Mamiani, Lincei,  «Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro tempo, «Acc. Lincei. Rendiconti», Mamiani, RIF, I, Il fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico, RIF, Rec. di A. Chiappelli, La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, ILettera a Pennisi-Mauro, RIF, Rec. di D. Levi, Giordano Bruno o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF,  «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di E. Dal Pozzo di Mombello, L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Della idea del vero e sua relazione colla idea dell'essere, «Acc. Lincei. Rendiconti», «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Salviucci, Roma, La filosofia politica in Aristotele, RIF, Rec. di M. Panizza, La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione del concetto, RIF, Rosmini e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito di Platone tradotto da R. Bonghi, Roma, RIF, Della idea dell'essere, «Acc. Lincei. Memorie», Estr.: Tip. Acc. Lincei, Roma, Berti, «Acc. Lincei. Rendiconti», Benzoni, «Acc. Lincei. Rendiconti», La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, sFranchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo secondo Spaventa, RIF, La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di E. Colini, Mamiani, Jesi, RIF, Rec. di D. Berti, Giordano Bruno da Nola, sua vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF, Rec. di L. Credaro, Lo scetticismo degli Accademici, Le fonti - la storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani Bruno Nolani Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di Tocco, «Acc. Lincei. Rendiconti»,  - F. Cicchitti-Suriani, Della dottrina degli affetti e delle passioni secondo la filosofia stoica: saggio storico di psicologia morale con prefazione di L. Ferri, Tip. Aternina, Aquila,Intorno al Pitagorismo in Italia, Nota, «Acc. Lincei. Rendiconti», Estr.: Roma, Il problema della coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di Spaventa, RIF, Rec. di C. Lessona, Elementi di Morale Sociale ad uso dei Licei (3° corso) e degli Istituti Tecnici, compilati secondo gli ultimi programmi, RIF, L'Accademia Platonica di Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, «Acc. Lincei. Rendiconti», Della conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, VAlcune considerazioni sulle categorie, «Acc. Lincei. Rendiconti»,  Il Teeteto, tradotto da Bonghi, Roma NA, La percezione intellettiva e il concetto, «Acc. Lincei. Rendiconti», Rec. di G. Zuccante, Saggi filosofici, Renan, «Acc. Lincei. Rendiconti», Taine, «Acc. Lincei. Rendiconti», La percezione intellettiva e il concetto,     Taine, RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma); Estr.: Tip. Balbi, Roma); “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica degli italiani, NA, Estr.: Tip. Forzani e C., Roma, Rec. di F. Maltese, Socialismo, RIF, “L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine, in G. Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Libreria Editoriale Milanese, Milano, a cura di O. Campa, La Voce, Firenze  19243.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care. As for Carmide and Licide, Ferri dedicates little attention. Luigi Ferri. Ferri. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio – psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R. Bonghi” RIF,  il dialogo dell’amore di Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689395171/in/photolist-2mRCLwu-2mPY4jk-2mN1R8H-2mLLBQT-2mLGwFD-2mLP3hz-2mKBEmt-2mKT6cK-2mPvmTf-2mJd7nN-o1cZ1Z-nYkP5S-mujhJF-muktXS-mukt4N-mujkJt-mujmJz-muiPJa-muiFjz-mukwpq-mujjcR-mujo6x

 

Grice e Ficino – amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo. Grice: “If Ficino had JUST commented on Plato’s symposium that would be already a magnificient achievement! So Renaissance – it taught the Romans and the Italians, and us, that the dialogue IS the philosophical form per tradition, whatever Cicero tried!” Figlio di Diotifeci d'Agnolo e da Alessandra di Nanoccio, studia a Firenze sotto Bernardi, Comandi, Castiglione e Tignosi – filosofo aristotelico autore di “De anima” e di “De ideis”. Conseguenza di questo è la “Summa philosophiae”, dedicata a Mercati in cui tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones. Nella dedica a Mercati, scrive di volerlo introdurre “a quegli studi che devono impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone.” Studia Epicuro e Lucrezio, scrivendo i Commentariola in Lucretium, il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche, epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione mnemonica e senza pretese sistematiche. Scrive vari libri di Institutionum ad platonicam disciplinam, tratti da fonti latine e per questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte greca. Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare l'opera d’Aquino a Bologna. Ma la permanenza a Bologna non è documentata e resta certo l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica. Traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco attribuito a Senocrate. Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e una villa a Careggi, che divienne sede del circolo dei “Platonisti”, fondato dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare la filosofia di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione. Qui inizia la traduzione dei Libri ermetici, portati in Italia da da Leonardo da Pistoia. La sua opera di traduzione avrà un notevole influsso nella filosofia rinascimentale. Vede in quella sapienza antica la presenza di una rivelazione, di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della quale l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto per primo disputò con grandissima sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine) della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo. Lo seguì, secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino Platone. Esiste dunque, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e culmina con Platone. La «pia filosofia», antitetica alle correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce la verità, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui, grazie all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili, possa renderli partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino numine revelata).  La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già tradotto in volgare da Benci, viene stampata. Inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, e vi aggiunge i suoi commenti, al Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), al Timeo, e al Parmenide. Stende l'opera più importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Compone la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi la versione latina nella De christiana religione. Scrive la Disputatio contra iudicium astrologorum e viene dato alle stampe il suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia. Inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e traduce le opere di Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Psello, la Mistica teologia e i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora. Con questo ampio corpus platonico persegue la sua teorizzazione della continuità della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, e Bessarione. I tre libri del De vita gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con un'Apologia. Pubblica dodici libri di Epistulae che comprendono anche opuscoli come il De furore divino, la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de voluptate quattuor. Scrisse un Commento a San Paolo. È noto come Aristotele concepisca l'essere umano come sinolo, unità ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicché il suo principale commentatore dell'antichità Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalità dell'anima contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone ha già distinto le due sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal destino del corpo.  A questa concezione aderisce Ficino, che in polemica contro Aristotele esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come una forma di religiosità propedeutica alla fede cristiana. La sua Theologia platonica o De immortalitate animarum si apre dunque con un  «Soluamus obsecro caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur. Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro” (Ficino, Theologia Platonica). Per comprendere la sostanza dell'anima è necessario comprendere la struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici:  Dio; gli angeli; le anime; le qualità; la materia. Al grado inferiore sta la materia, concepita come pura quantità. La materia non ha di per sé nessuna forza che possa produrre le forme», diversamente da chi la concepisce come «sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme. È la qualità il principio formale che dà sostanza alle realtà corporee, grazie a «una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualità corporee»: questa sostanza incorporea nell'uomo si eleva al rango di anima «che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente. Al di sopra delle anime sono gli angeli. Sopra quelli intelletti che alli corpi s'accostano, cioè l'anime ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal commercio dei corpi al tutto divise. E se l'intelletto dell'anima è mobile e parte interrotto e dubbio, l'intelletto angelico è stabile tutto, continuo e certissimo. Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità assoluta, fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta. Dove un continuo atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una assolutissima intelligenza» che è luce per gli uomini perché si riflette in tutte le cose. Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti intendono. Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e la funzione dell'anima, che è considerata, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realtà in sé e non solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi per riunire lo spirito e la corporeità:   Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros come mediatore dei contrary. L'anima è tale da cogliere le cose superiori senza trascurare le inferiori per istinto naturale, sale in alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe più la copula del mondo Theologia Platonica. La "copula mundi" è l'anima razionale che ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della natura» (obtinet naturae mediam regionem) «e tutto connette in unità». La sua opera unificatrice è resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita, per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui. L'amore di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per l'antico filosofo greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perché, a differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo attributo dell'uomo ma anche di Dio. Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino non faccia distinzione tra platonismo e neoplatonismo. Per lui esiste una sola filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia. Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù dell'unione vitale del mondo da essi presupposta, filosofia e religione si fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità, sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o «teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'uno è il bello. Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù Cristo è considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il bene dell'umanità. Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale di etica, cioè di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo, essendo lui stesso una divina Idea di virtù, manifestata agli occhi degli uomini. De Christiana religione. Elevando il cristianesimo a religione suprema, Ficino asserì che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti della creazione». Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante richiesta delle sue opere, dopo la fine del Rinascimento venne commentato sempre meno, fino ad essere accusato, immeritatamente, di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove è riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco, e in particolare su Bruno, e Vico a raccogliere nel Settecento l'eredità platonica di Ficino, di cui lesse l'opera di traduzione, rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui, rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio. Sottoposto ad attacchi nel corso del Novecento che giudicarono retorici e privi di valore» i suoi scritti, è stato rivalutato como uno «psicologo del profondo» e «precursore della psicologia junghiana», per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni affermazione proveniente dai campi più disparati, sia della scienza che della teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene vista cioè come mediazione e compendio» dell'universo. La conoscenza dell'anima è infatti la quintessenza del neoplatonismo italiano, in cui giacciono sepolte le fantasie mistiche di questo strano uomo che suonava inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva canti astrologici, quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore, malinconico traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui stesso di alcuni tra gli scritti più diffusi e influenti (Commento al Simposio) e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo. La centralità attribuita da Ficino all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo de' Medici lo considerava prescelto alla cura delle anime come suo padre medico lo era dei corpi, convinse che egli ebbe un impatto paragonabile per estensione ed intensità solo a quello prodotto oggi dalla psicoanalisi. Notevole è ad esempio l'intuizione di Ficino del potere psicosomatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina moderna considera un effetto placebo. Io sono del parere che l'intenzione dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non tanto al momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera intensamente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento all'aiuto che essa può dare. De vita. Altre opere: “De Voluptate; De Amore o Commentarium in Convivium Platonis; De religione Christiana et fidei pietate; Theologia Platonica de immortalitate animarum; Compendium in Timaeum; De triplici vita; De lumine; In Epistolas Pauli commentaria (Venezia) El libro dell'amore De vita Teologia platonica; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone La religione cristiana Epistolarum familiarum, liber I. R. Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente dell'astrologia, Edizioni Capone, Ove non diversamente riportato, le notizie sulla vita e la dottrina ono tratte da Garin, Storia della filosofia italiana,  I, Einaudi, Giuseppe Saitta, Marsilio Ficino e la filosofia dell'umanesimo, Fiammenghi & Nanni, Giornale storico della letteratura italiana, Francesco Novati, Egidio Gorra, Vittorio Cian, Giulio Bertoni, Carlo Calcaterra, Loescher, Giorgio Bàrberi Squarotti, Storia della civiltà letteraria italiana: Umanesimo e Rinascimento,  POMBA, Giovanni Semprini, I platonici italiani, Edizioni Athena, La Letteratura italiana: Storia e testi,  E. Garin, Riccardo Ricciardi Editore, A. Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Eugenio Garin, Ermetismo del Rinascimento, Ed. Riuniti,  «Primus de maiestate Dei, daemonum ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae theologiae partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in theologia Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor. Andrea Cusimano, Storia del pensiero occidentale, Lulu.com,.  L'immenso lavoro di traduzione compiuto da Marsilio Ficino è stato documentato in particolare da Paul Oskar Kristeller, in Supplementum ficinianum: Marsilii Ficini florentini philosophi platonici Opuscula inedita et dispersa, Firenze, Leo S. Olschki, Cfr. anche: Arnaldo Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Alessandro di Afrodisia, L'animaAccattino eDonini, Roma-Bari, Laterza, Parodos.  I sentieri della ragione, Le divine lettere del gran Marsilio Ficino, S. Gentile, Edizioni di storia e letteratura, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, G. Ottaviano, S. Gentile, Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e scientifica, Guido Ceriotti,  Bramante, IoanCouliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago Press,Il termine "neoplatonismo" è stato coniato solo nel XIX secolo per indicare le interpretazioni platoniche che si erano andate via via sovrapponendo a partire dall'età ellenistica, ma che erano sempre state identificate col pensiero stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite (cfr. Cenni sulla tradizione platonica). Sebastiano Gentile, Il ritorno di Platone, dei platonici e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e astrologia nell'opera di Marsilio Ficino, in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, P.C. Pissavino, Milano, Bruno Mondadori, La prospettiva storiografica, di E. Lo Presti, Università degli Studi di Bologna.  Battista Mondin, Storia della teologia: epoca moderna, Edizioni Studio Domenicano, Citazione da A. C. Grayling, Una storia del bene. Alla riscoperta di un'etica laica, Storia e civiltà, Bari, Edizioni Dedalo,  Cesare Vasoli, Quasi sit deus: studi su Marsilio Ficino,  Cfr. anche A. Jugegno, Bruno e l'influenza, in «Rivista critica di storia della filosofia. Hillman, Plotino, Ficino e Vico, precursori della psicologia junghiana, J. Hillman13, ivi.  Aneddoto rintracciabile in Coenobium,  Casa Editrice del Coenobium. De vita, trad it, Edizioni Biblioteca dell'Immagine, Pordenone. Marsilio Ficino, Commentarius in Convivium Platonis, in Venetia, Giovanni Farri e fratelli, De christiana religione, Firenze, Nicolò di Lorenzo, Marsilio Ficino, De triplici vita, Lugduni, apud Gulielmum Rouillium sub scuto Veneto, Theologia Platonica De immortalitate animorum, Gilles Gourbin, apud Aegidium Gorbinum, Opera omnia, Torino, Bottega d’Erasmo, Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, De vita libri tres, Albano Biondi e Giuliano Pisani, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, Scritti sull'astrologia, Ornella Pompeo Faracovi, Milano, Il neoplatonismo nel Rinascimento, Roma. Il ritorno a Platone, Firenze, con  ficiniana). Tamara Albertini, Marsilio Ficino. Das Problem der Vermittlung von Denken und Welt in einer Metaphysik der Einfachheit, Monaco, Cesare Catà, Il Rinascimento sulla via di Damasco. Il ruolo della teologia di San Paolo in Marsilio Ficino e Nicola Cusano, in “Bruniana & Campanelliana”, Cesare Catà, L'idea di “anima stellata” nel Quattrocento fiorentino. Andrea da Barberino e la teoria psico-astrologica in Marsilio Ficino, in “Bruniana & Campanelliana” Gian Carlo Garfagnini, Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Garin, Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, James Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leida,  Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico, Firenze,Paul Oskar Kristeller, Il pensiero filosofico, Le Lettere, T. Moore, Pianeti interiori. L'astrologia psicologica, Moretti & Vitali, Erwin Panofsky, Il movimento neoplatonico a Firenze e nell'Italia settentrionale, in Studi di iconologia, Einaudi, Torino), A. Polcri, L'etica del perfetto cittadino: la magnificenza a Firenze tra Cosimo de' Medici, Timoteo Maffei e Marsilio Ficino, in "Interpres: rivista di studi quattrocenteschi" Roma–Salerno, Michele Schiavone, Problemi filosofici, Milano, Zerilli, Alla lente dell'astrologia, Edizioni Federico Capone, Torino. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.openMLOL, Horizons Unlimited srl. Progetto Gutenberg.  di Marsilio Ficino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Marsilio Ficino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.  Sito della società ficiniana, su ficino. Marsilio Ficino: dalla cristianizzazione della magia alla "magicizzazione" del cristianesimo, su aispes.net. Eugenio Garin, Una sintetica presentazione del pensiero di Ficino, RAI. James Hillman, Plotino, Ficino e Vico precursori della psicologia Junghiana, su rivista psicologi analitica. Il mito greco alla corte dei Medici. IL CONVITE (traduzione al toscano di Hectore Barrabasa).  Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra curiosità. L'altro giorno, infatti, venivo in città da casa mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano in tono scherzoso. Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento? Mi fermo e l'aspetto. E quello: Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si sono fatti sull'amore. Mi ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta: nessuno meglio di te può riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per cominciare. Eri presente a quella riunione o no? Si vede bene, rispondo io, che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi. Io credevo così. Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni. Non lo sai? -che Agatone manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e che fa. Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed ero invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione sia meglio della filosofia. Non mi prendere in giro, disse, e dimmi piuttosto quando c'è stata quella riunione. Noi eravamo ancora dei ragazzini, gli rispondo. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a quello in cui offrì, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua vittoria. Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso? No, per Zeus, dico io, ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo Aristodemo, del demo Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo. E lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto. E allora racconta, presto. La strada per la città sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre andiamo. Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose. è per questo che sono così preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di Apollodoro: Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome di Tranquillo, proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai. Ce l'hai sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate. Ma carissimo, non è evidente? Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle, quanto deliri? Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero quella notte? E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse è meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue abitudini. Gli domandai, dove andasse, visto che si era fatto così bello. E lui mi rispose, Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perché mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e così mi son fatto bello. Voglio esser bello per andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato invitato? Io risposi, Ai tuoi ordini. Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza coraggio. Ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato. L’uomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso. E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto così. Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere, come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che mi hai invitato tu. Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro. E allora andiamo, che per via penseremo a cosa dire. E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta è aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica. Uno schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano già preso posto, già pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice. Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro, rimanda tutto a più tardi, perché ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non è con te?Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo più. Non mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi alla cena. Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è? Era dietro a me sino ad un istante fa. Dove può essere finite? Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco. E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro arriva dicendone una nuova. Questo Socrate di cui parlate s'è rintanato nel vestibolo dei vicini, ed è fermo là. Ho avuto un bel chiamarlo, non è voluto venire. Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a chiamarlo e non lasciarlo lì. Non fate niente, dissi io, lasciatelo là piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa dove, e di restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo tranquillo. E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu. Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita. Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti. E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito. Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo. A qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là. Socrate si siede e fa. Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io. Come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa più piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimony. Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare. E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie d'uso, ci si preparò a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per dire più o meno così. Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? Io, ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera. Del resto voi dovreste essere più o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri. Allora, come possiamo fare per bere senza star male? Intervenne Aristofane. Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perché sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato. A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno. Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di bere? Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio. A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perché noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate. è tanto bravo a bere che a non bere, per lui andrà sempre bene, qualunque cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscirò a non essere sgradito a nessuno dicendovi la verità sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che è evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura, né a consigliare ad un altro di farlo, soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima. Poi intervenne Fedro, quello di Mirrinunte. Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono matti. Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che non si sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva. E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista che è appena entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico. Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo. Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, perché non son mie queste parole, che adesso vi dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato. Non è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana composti dai poeti e che in onore dell’amore, un dio così potente, così grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il più piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama. Scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c'è di peggio. Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogio del sale, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'amore, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita. Ecco come ci si dimentica di un grande dio. Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito. Adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'amore, il più bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parla per primo, perché è al primo posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea. Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voterà contro la tua proposta. Non sarò io ad oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'amore son proprio esperto. Non Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, né gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito è più difficile per noi che occupiamo gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri. che faccia l'elogio dell'amore. Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di Socrate. Aristodemo non si ricordava più esattamente ciò che ciascuno disse e io stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò. Le cose più importanti, o quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso ve lo riporterò nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E così, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso più o meno in questi termini. E' un gran dio l'amore, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli dèi per diverse ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i più antichi dèi, e questo, aggiunse, è un onore. Di questa antichità abbiamo una prova. L’amore non ha né padre né madre, e nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, e la Terra dall'ampio seno, sicura sede per tutti i viventi e l'amore. E, in accordo con Esiodo, anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'amore. Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che di tutti gli dèi, l’amore fu il primo che la dea partorì. Così c'è ampio accordo nel dire che l'amore è uno degli dèi più antichi. Essendo così antico, è per noi la sorgente dei più grandi beni. Per me, io lo affermo, non c'è più grande bene nella giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà della nascita né agli onori né alla ricchezza, né a null'altro: devono ispirarsi all’amore. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per l’azione cattiva, l'attrazione per l’azione bella. Senza questo, nessuna città, nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io lo dichiaro, un amante, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa, soffre certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque altro. Ma soffrirà molto di più se a scoprirlo sarà il suo amante, il suo amato. Ed è lo stesso per l'amato. è davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che l’amato sente la più grande vergogna, quando sarà sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia. Allontanerebbero infatti da loro tutto ciò che è cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore. E se questi amanti combattessero l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere, per così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo, perché sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un amante innamorato sarebbe più intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito. Preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare l’amato chi si ama, a non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'amore non riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero l’amore viene a ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, così l'amorefa questo dono agli amanti innamorati, ed essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto l’amante accetta questo. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato un esempio chiarissimo di ciò che dico. Soltanto essa acconsentì a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva così in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo modo, il suo gesto è sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli dèi. Essi concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle più belle azioni, concessero questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli dèi onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'amore. Al contrario essi mandarono via dall'Ade Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla. Gli mostrarono soltanto un'immagine della donna per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole, perché altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille, il figlio di Teti. L’hanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece tornato a casa finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perché era già stato ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Così gli dèi, pieni di ammirazione, gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante. Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo. Achille era più bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme. Era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai più giovane di Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza dell'amato per l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, è più vicino al dio dell'amato, perché un dio lo possiede. Ecco perché gli dèi hanno onorato Achille, aprendogli la via per le isole dei beati. Ecco dunque, io lo dichiaro, l'amore è tra gli dèi il più antico e il più degno, ha i maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virtù e della felicità, sia in vita che nel regno dell'aldilà. Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si espresse in questi termini. Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'amore. Se dell’amore ve ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così. Non ce n'è uno soltanto, e allora è bene prima spiegare di quale amore dobbiamo tessere l'elogio. Cercherò dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un elogio che sia degno di questo amore. Tutti sappiamo che non c'è Venere senza amore. Se dunque non vi fosse che una Venere, non vi sarebbe che un solo amore. Ma Venere è duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due amori. Come negare che esistano due Venere? Una Venere, senza dubbio la più antica, non ha madre: è figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Venere Urania. L'altra Venere, la più giovane, è figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Venere Pandemia. E allora necessariamente l'amore che serve Venere Pandemia dovrà chiamarsi Amore Popolare (o volgare) Pandemio. Quell’amore che serve Venere Urania Amore Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli dèi. Ma, detto questo, qual è il dominio dei due amori? E' questo che dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non è né bella né brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c'è nulla di bello in sé. è piuttosto il modo in cui si compie un'azione a dar questo o quel risultato, e così seguendo la regola del bello e della rettitudine un'azione con rettitudine diventa bella, al contrario senza rettitudine l’azione diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto o l’azione dell’amore (l’amore). Non tutto l'amore è bello e degno di elogio: lo è soltanto quello che porta all’azione di “amare bene”, la azione dell’amore e bella. Ora l'amore volgare, compagno di Venere popolare, certo è volgare e opera a casaccio: è proprio degli uomini da poco. Questi uomo si innamora di un ragazzo. Poi, l’amante ama il corpo bello. Voglie arrivare dritto al loro scopo. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come è ovvio, quest’amore volgare, dell’uomo volgare, si unisce alla più giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre è estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione, l’uomo che e ispirato dall’amore volgare Eros e attrato dall'elemento maschile. Ama teneramente il sesso per natura più forte. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi di un ragazzo si posse riconoscere quanto e posseduto con purezza da quest’amore volgare, perché l’uomo volgare non ama i giovani prima che abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo è impossibile che accada prima che il giovane sia abbastanza grande da avere la prima barba. E' questa l'età dell’efebo in cui è bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare un ragazzo troppo giovane. Così non si sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. Non è infatti possibile prevedere che cosa ne sarà di un ragazzino, se avrà vizi o virtù nel corpo efebo. L'uomo che vale si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi coltiva l’amore volgare abbia un limite. E proprio quest’ amante volgare, infatti, che hanno screditato l'amore e dato a certuni il coraggio di dire che è una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo fa perché ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di onestà di quest’amante volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di più. La regola di condotta, per quel che concerne l'amore, è facile da comprendere nelle altre città, perché la sua definizione è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre città in cui gl’uomini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa è semplice. è un bene cedere all’amante e nessuno dirà mai che c'è da vergognarsi. Il fine è di evitare l'imbarazzo di dover convincere il giovane con la parola, perché non e gran parlatore. Nella Ionia, al contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene.Sono paesi dominati dai barbari. Presso i barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici, il giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante. Lo stesso giudizio si dà per l'amore per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure una grande amicizia saldamente unita, come in effetti l'amore, più di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto esperienza anche i tiranni qui da noi. L’amore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Così là dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione è nata dalla debolezza morale dell’uomo: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta semplicità che è cosa buona, essa è nata per la pigrizia dell'animo di quell’uomo. Presso di noi la regola è molto più bella e, come ho detto, non è facile da comprendere. C'è da rifletterci, in effetti. è più bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e soprattutto amare il giovane di nascita migliore e di meriti più alti, anche se meno belli di altri; di più, chi è innamorato è straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco è la sua vergogna. E nei tentativi di conquista la regola elogia l’amante per delle stravaganze che esporrebbero alle critiche più severe chiunque osasse comportarsi così per altri scopi. Supponiamo infatti che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi funzione importante. Se accetta di fare ciò che fanno l’amante per il suo amato - assillarli con preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di schiavitù che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo gli e impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici. L’amico gli rimprovera la sua adulazione e la sua bassezza; il nemico lo fa ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica affatto. E qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa più strana è, secondo il detto popolare, che lui solo può giurare e ottenere grazia davanti agli dèi se tradisce i suoi giuramenti. Dinanzi a Venere, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Così l’uomini danno all’innamorato una libertà totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a pensare che la regola nella nostra città giudichi cose perfette il bello e l'amore, e l'amicizia che ricompensa l’amante.  Ma quando d'altra parte un padri fa sorvegliare da un pedagogho il suo figliolo innamorato, in modo che non possa parlar d'amore con il suo amante. Quando i giovani della loro età, i loro amici, li rimproverano per il loro amore. Quando gli adulti non si oppongono a queste critiche e non le biasimano come fuori luogo. Allora se si considera tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non è per nulla semplice, come ho già detto all'inizio. In se stessa non è né bella né brutta. E' bella se l’azione d’amar bene rettamente e bella, è brutta se l’azione d’amare male sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per un cattivo motivo. è cosa bella cedere ad un uomo di valore e per un bel motivo. Ora chi si comporta male è, come prima dicevo, l'amante volgare, che ama il corpo bello. Non ha costanza, perché l'oggetto del suo amore – il corpo bello -- è incostante. All'affievolirsi del  bello del corpo che ama, "s'invola e va via", e tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma l’uomo chi ama il carattere di una persona per le sue alte qualità, resta fedele tutta la vita perché il suo amore riposa su qualcosa di costante. La nostra regola si propone di mettere l’uomo alla prova della serietà e dell'onestà, perché si ceda al’uomo che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che natura sia l'amante. Su questo si fonda evidentemente la massima: «a cedere subito c'è da vergognarsi». Più tempo passa, infatti, più si ha la prova, sembra, della serietà dell'amore. Una seconda massima, poi, dice che c'è da vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria d'essere solido e stabile, e dunque non può venirne alcuna generosa amicizia. Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una sola via onesta perché l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola è la seguente. Come tra gli amanti non c'è nulla di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavitù che prima dicevo, e non c'è il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavitù volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù come proprio oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, in la virtù, questa servitù liberamente accolta non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola regola, che riguarda l'amore dell’uomo verso i ragazzo. Vogliamo che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia. L’uno potendo contribuire a dare la virtù, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione, allora in verità quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti, è da escludere. Nel bene, anche se chi cede è completamente vittima della situazione, non c'è alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno, c'è di che vergognarsi. Infatti se c'è qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla, perché il suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si è una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e questo non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento, se si cede a qualcuno credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi a questo amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagità, quanto sia povero nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualità dell'anima. La virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia. Quindi è bellissimo cedere, quando si cede per la virtù. Quest’amore viene da Venere Urania, ed è davvero divino e prezioso per la città come per l’uomo, perché esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame con l'altra dea, la Venere volgare. Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è questo il mio tributo per l’amore. Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo stile dei maestri della parola - era venuto il turno di Aristofane. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche altra ragione, avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a Erissimaco di parlare lui al posto suo. Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi. E va bene, rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro. Parlerò al tuo posto e tu parlerai al mio quanto ti sarà passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo si deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà. A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguirò i tuoi consigli. Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto l’uomini nei loro rapporti con le persone belle. Riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante che la terra nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri viventi. La medicina, la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che l’amore è un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò che è sano nel corpo è ben diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile. L'amore che è proprio della parte sana è dunque diverso dall'amore che è proprio della parte malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei corpi stessi favorire ciò che vi è di buono e di sano in ciascuno è cosa bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è la scienza dei fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo; ebbene costui è davvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo - è il fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che l’uno «in sé discorde con se stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira56».Ora, è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e una consonanza è una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti, è impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra ciò che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cioè da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E come prima la medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perché non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il discorso di prima: se bisogna cedere, è bene farlo con uomini dai costumi ben regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualità; l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di Polimnia, l'Eros Pandemio57, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare; è come nella nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica, in medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi. Anche l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano l'abbondanza e la sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura, rovina ogni cosa ed è causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e così le più varie malattie che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate dall'amore. C'è una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia. Tutti i sacrifici, poi, e tutto ciò che ha a che fare con la divinazione (cioè tutto ciò che mette in comunicazione gli dèi e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empietà nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è il compito assegnato alla divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed è ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia tra gli dèi e gli uomini, perché essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto degli dèi e alla pietà.Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale potenza che è propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli dèi, con la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di vivere in società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri a noi superiori, gli dèi. Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però, se ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'è andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola. Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non è strano che il buon ordine del mio corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, però, che il singhiozzo è passato appena ho starnutito. Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi in giro un attimo prima di fare il tuo discorso? Così mi costringi a sorvegliare bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando puoi parlare in tutta tranquillità. Aristofane si mise a ridere e disse. Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia Musa si troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro! Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi scappare, non è vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da parte mia ti farò grazia, ma solo se vorrò!"Discorso di Aristofane "A dir la verità, Erissimaco - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'amore. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come è oggi,quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, così potrete essere maestri a vostra volta. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati62, infatti, la nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmine. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. [190] Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra64. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli dèi.Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. «lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri65». Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico.  Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione68 dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi nell’occuparsi di politica. Da adulto, ama il ragazzo. Il matrimonio e la paternità non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosi ffatto desidera un ragazzo e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è parte. Quest’uomo - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non è possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: «Il vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è questo che può rendervi felici?» A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'amato. Non più due, ma un essere solo. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come l’ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine, così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità. Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros. T'ho già pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano, Agatone e Socrate."Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così:"Sì sì, farò proprio come dici tu, perché il tuo discorso mi è piaciuto molto e anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".E Socrate allora disse. Dici così perché hai già fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se non sarà bellissimo -, avresti una gran paura e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento"."Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sarà attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo. Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo così pochi?""Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, così innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti sono più da temere di una folla ignorante?""Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro molta più importanza che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo saggi. Perché c'eravamo anche noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?""E' vero", rispose."Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la parola e disse:"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà proprio nulla se la conversazione prenderà una piega o l'altra, perché a lui basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se è un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a chiacchierare tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta perché avrò ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C'è tempo.Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro che hanno già parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la natura di ciò di cui è responsabile. E così dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, Eros - mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia - è il più felice, perché è il più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande prova dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: "Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che Eros sia più antico di Cronos e di Giapeto. Io dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che è sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie della Necessità, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli dèi non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui sugli dèi l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso tempo che è delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, ella avanza sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti sulla terra, né sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma, perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità della sua natura, ebbene di questo la sua grazia ne dà una prova eclatante, quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perché tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilità c'è da sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma là dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie la sua casa. Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virtù. Ecco la più importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perché tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle «leggi, le regine della città86».E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c'è piacere più grande dell'Eros: gli altri piaceri sono più deboli e possono essere dominati dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante in massimo grado.Quanto al coraggio, «Ares stesso non può lottare contro Eros87». Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro che è pieno di coraggio deve avere ancora più coraggio di lui89.Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando l’Eros lo possiede, «anche se prima non conosceva le Muse». Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una prova che Eros è abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha, o non si sa, non lo si può certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine «per il governo degli dèi e degli uomini». Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per il bello, certo, perché Eros non si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo quanto narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi nacque questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi come per gli uomini. Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno del bello, e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». E' lui a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini.Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare. Quando Agatone ebbe finito di parlare tutti applaudirono perché si era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si voltò verso Erissimaco e gli disse. Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso così bello, così seducente! Non è stato tutto perfetto, questo è vero; ma nella conclusione chi può non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non è possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi diventare muto95. Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio turno, l’elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verità sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse scegliere le verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero, naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare un elogio non è questo: bisogna piuttosto attribuire all'oggetto del proprio discorso le più grandi e le più belle qualità - che le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che è. Ecco perché, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza delle sue opere: voi volete così farlo apparire il più bello e il più buono possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo è una bella cosa un elogio simile. Ma io ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo, promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: «ma la lingua promise, non certo il mio cuore97». Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio così non ve lo faccio, non ne sono capace. Però, a condizione di dir solo la verità, se lo desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho nessuna intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno di un discorso di questo genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con le parole e lo stile che mi verranno al momento.Allora - disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste parole:"Per la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda: è nella natura dell'Eros essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura è di essere amore per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il padre è padre di qualcuno o no?,tu mi risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è vero?""Certo", disse Agatone."E non dirai la stessa cosa della madre?" - Agatone ne convenne."Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: «Il fratello, in quanto fratello, è fratello di qualcuno o no?»Rispose che lo era."Dunque è fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di niente o di qualcosa?""Di qualcosa, evidentemente".[200] "Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ciò che ama". "Lo desidera certamente", disse."Quando possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non lo possiede?""Quando non lo possiede: è probabile che sia così" - disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non è una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso", disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di esser grande? O di esser forte se è forte?""E impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti mancare di queste qualità, poiché ce le ha.""E così.""Però supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi, Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che hanno, che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già? Ma se qualcuno ci dicesse «Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che già possiedo», allora noi gli risponderemmo: «Tu hai la ricchezza, la salute, la forza; quel che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per il presente, che tu lo voglia o no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero ciò che adesso ho già, queste parole significano semplicemente: ciò che io ho adesso, desidero averlo anche per l'avvenire». Sei d'accordo, non è vero?Agatone - disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate proseguì: "Se tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non è forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano conservate?""Certo", disse. "Quindi l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio, desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non ha, ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente è così" - disse."Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d’accordo. Non è forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?""Sì", disse. "E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai detto, credo, che gli dèi hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel che è brutto. Son più o meno le tue parole, non è vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros dovrebbe amare il bello, non certo la bruttezza, non è vero?"Agatone fu d'accordo."Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente la mancanza e che non si possiede?""Sì", ammise."L'Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?""Per forza", disse."Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?""No di certo.""E allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che Eros sia bello? Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo"."Però il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?""Lo sono, a mio avviso"."Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza mancare anche la bontà"."Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici"."No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo. Adesso ti lascerò un po' in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros. Adesso cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per usare le mie parole, né buono. E io le dicevo: «Ma come Diotima? Allora Eros è cattivo e brutto?»«Che dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che non è bello debba essere per forza brutto?»«Ma certo!»[202] "E perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza102?» «E qual è?»«Avere un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza103».«E' vero», risposi.«Dunque chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve essere cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra questi estremi».«Però - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente».«Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?»«Io parlo proprio di tutti».Diotima si mise a ridere. «Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono che non è affatto un dio?» «Ma chi dice questo?» dissi io.«Tu per esempio - disse - ed anch'io!»Ed io: "Ma cosa dici?»«E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né bello né felice?»«lo non oserei proprio», risposi.«Ma chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?»«Certo».«Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perché gli mancano».«È vero, ero d'accordo con te su questo».«E allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?»«Sembra impossibile, in effetti».«Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio».«Chi sarà dunque Eros? un mortale?»«No di certo».«E allora?»«E come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e l'immortale».«Che vuoi dire, Diotima?»«E' un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli dèi. Ma qual è il suo potere», chiesi.«Eros interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria107, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni, mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi è Eros».«Chi è suo padre - domandai - e chi sua madre? E' una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros110, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare, com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo fianco e restò incinta di Eros. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per natura amante della bellezza - e Afrodite è bella.Proprio perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e così non è mai povero e non è mai ricco. Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli, né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza».«Ma allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?»«E' chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in effetti, è tra le cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse. Così, mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità. Ma l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto117». Io allora ripresi:«E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a cosa può esser utile a noi uomini? Adesso cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine: ama il bello, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando si ama? Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci  appartenga, risposi io. Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle? Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile. E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera? Che siano sue», risposi.«E cosa accade all'uomo che le possiede? In questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice. In effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perché parlando della felicità abbiamo già toccato il fine ultimo del desiderio».«E' vero», dissi."Ma questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi»,«E' così, questa volontà è comune a tutti».«Ma allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?"«Sono stupito anch'io di questo», risposi.«Non devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi».«Mi fai un esempio?», chiesi.«Certo. Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi. La creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perché prima non c'era e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti."«E' vero».«Però - continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli artisti».«E' vero», dissi.«Ed è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che è bello, è per tutti "amore possente, Eros ingannevole. Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati. Sei proprio convincente», risposi.«Molti dicono, però, che “amare” significa cercare la propria metà. Io non sono d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ciò che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene. Non la pensi così anche tu?» «Certo, per Zeus», risposi.«Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?»«Sì».«E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è buono?»«Certo che dobbiamo».«E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre». «Dobbiamo aggiungere anche questo».«Quindi - disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono? E' così», dissi.Se è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire? » «Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai».«Allora - riprese -, te lo dirò io: amare, per il corpo, significa creare nella bellezza». «Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto». «Mi esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può generare nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è la fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non può avvenire se non c'è armonia123: e non c'è armonia tra la bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la propria creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate, come tu credi. E cosa allora?»«Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza. Ammettiamolo», dissi.«E proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi essere mortale l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il desiderio d'immortalità accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se è vero che l'amore è desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità126».Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese:«Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?»Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese:«E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo? Ma è ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore». «Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è quello sul quale abbiamo più volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non può farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì che un nuovo essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose. Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi -, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte.Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. E' per questo che sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. E' così che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa dell'immortalità, nel suo corpo e in tutto il resto; l’immortale vi partecipa in modo del tutto diverso128. Non meravigliarti dunque se ciascun essere è dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell'immortalità129». Queste parole mi riempirono di stupore e glielo dissi: «Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?»Ella mi rispose col tono serio di chi insegna:«Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai senza dubbio della loro assurdità; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto è strano lo stato di coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria immortale per l'eternità: sono disposti per questo a correre ogni rischio, più ancora che per difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che è giunto sino a noi? E' così, disse. A mio avviso, è per rendere immortale il loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto più se le loro qualità personali sono alte - perché è l'immortalità che essi desiderano. Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d'amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare alla loro persona l'immortalità - questo essi credono - e la memoria di sé e la felicità per tutto il tempo a venire. Altre persone, però, sono feconde nell'anima: c'è infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è superiore a quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza - perché mai potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima è feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà tutto il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: così potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e così nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea così una comunione più intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto più solido. Sono più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le creature che nascono dalla loro unione. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserverà con invidia quale discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurare loro l'immortalità della gloria e della memoria, perché anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se vuoi - disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo abbia lasciato agli Spartani per la salvezza della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi opere, mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di quello che queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti templi135, mentre questo non è mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna. Ecco, Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio però parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finché puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento al bel corpo. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili, non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo, imparerà a innamorarsi del bello di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa, e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncerà così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della bellezza142, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il sapere143. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parlerò. Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà il bello nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte145. Essa non si accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. Il bello non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione del bello in sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro148. Cosa proverà l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine149 egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità150. Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?» Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a convincermi, così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura umana il possesso di ciò che è bene, non si troverà miglior aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai". Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso151, ecco che si sentì bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando a dormire." Un istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade, non più molto in sé per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E così lo accompagnarono nella sala e stava in piedi solo perché una flautista e qualcun altro dei suoi compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente e il più bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete, ridete, tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiamò, Alcibiade si diresse verso di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominciò a togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate e andò a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla testa. "Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma chi è terzo con noi?" Dicendo così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al più bello della compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -. Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di guardare un solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione, che non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la sua follia d'amore mi fanno una paura terribile." "No - disse Alcibiade -, è impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e non solamente una volta come te ieri." Dicendo questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise comodo e disse:"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi è permesso: bisogna bere, l’abbiamo convenuto tra noi! Sarò io il re del simposio, finché voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è bisogno. Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece riempire e bevve per primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo: "Con Socrate, amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non ci sarà verso di farlo ubriacare."Il servo allora portò il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un discorso sull'Eros, il più bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto, adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta alla sua destra e così via.""Ben detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non può dire cose che stanno alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi forse una sola parola di quel che ha appena detto? non lo sai che è tutto il contrario? Perché lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi.""Ma che dici!", gli fa Socrate."Per Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti, perché in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di te.""E allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un tipo così e mi vendichi davanti a voi?""Ma ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verità: a te accettare o meno.""La verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non è vera, tronca a metà le mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa lì io mento, perché io volontariamente non racconterò certo delle balle. Però mescolerò un po' tutto nel mio discorso, e tu non meravigliarti, perché tu sei proprio un bel tipo e non è certo facile, nello stato in cui sono, ricordare con ordine proprio tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Sono sicuro che lui penserà che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in tutto simile a quelle statuette dei Sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è l’immagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io produrrò dei testimoni. Ma, si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa è certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere più forte di quello dei Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavitù in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che non è vero. E ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi160. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho avuto vergogna di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161. Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui l'ho già paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io, siccome ho già cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno è l'immagine che vuol dare. Non è questa la maniera di fare di un Sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno è ricco o ha tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi163, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli dèi, preziose, perfette e belle, straordinarie: e così mi son sentito schiavo della sua volontà. Ero giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero della mia bellezza e così speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo con lui. Devo proprio dirvi tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me, e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al suo amato167. Ma non accettò subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo convinsi a restare. Era dunque coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi, perché solo loro possono comprendere, e scusare tutto ciò che si è osato fare o dire per l'angoscia del dolore.  E io son stato morso da un dente più crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore, nell'anima (poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che penetra più a fondo del dente della vipera168 quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perché certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte più spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che non dovevo più giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi, Socrate?" "Per nulla", rispose. "Sai cosa penso?" "Che cosa?" "Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido, io credo, non cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti, è più importante ai miei occhi che migliorare il più possibile me stesso, e io penso che su questa strada nessuno mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei dinanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te più di quanto mi vergognerei dinanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare il bello con il bello, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto piccolo. Tu non vuoi più possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di scambiare - non c'è dubbio - il bronzo con l'oro. Eh no, mio bell'amico, guarda meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono niente171. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel momento." Al che io rispondo: "Per quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso, decidere ciò che è meglio per te e per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrerà migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse più forte: non degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto, fu quasi offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (sì, giudici della superiorità di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute introvabili: e così non potevo prendermela con lui e privarmi della sua compagnia, né d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era totalmente invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito175. Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo è stato d'altri, gli giravo vanamente attorno. Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e prendemmo anche i pasti insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte in qualche punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun altro aveva tanta resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli inverni sono terribili - Socrate è del tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello. Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio con più tranquillità di quelli che avevano le scarpe: e così i soldati lo guardavano di traverso, perché pensavano li volesse umiliare. E c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e sopportò il forte eroe", laggiù in guerra: vale veramente la pena di sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole. Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perché anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiutò di abbandonarmi e riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai personalmente insistito più di loro perché il premio invece andasse a me. Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo incontrare.  Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito lì per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perché avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di Lachete - e quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando occhiate di fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perché sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri uomini probabilmente meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate, invece, che lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si può trovare l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o Antenore, e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni né nel passato né oggi, per quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad altri uomini, ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. Sì, perché c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle statuette dei Sileni che si aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è caso che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virtù. Chi lo ascolta è portato verso le cose più alte; anzi, meglio, è guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per diventare un uomo che vale. Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non impara che soffrendo." Quando Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito ch'era ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse: "Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso così sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di guastare l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te, da nessun altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno possa mettersi tra me e te." E Agatone di rimando:"Hai detto proprio la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare proprio tra te e me, per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così, perché io torno proprio a mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino! Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due. E' impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovrà mettersi a fare il mio elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov'è, mio divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero proprio cantare le sue lodi. Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non è proprio possibile che resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate". "Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e così erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna regola, si bevve allegramente un sacco di vino. Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a riposare.  Platone Carmide  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Carmide  Platone CARMIDE Arrivammo (1) il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, (2) e poiché tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea,(3) dirimpetto al santuario della Regina,(4) e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte (5) invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e afferratami la mano: «O Socrate», diceva, «come ti sei salvato dalla battaglia?». Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea, della quale lì si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: «Così come mi vedi », dissi. «Eppure qui è arrivata la notizia che la battaglia è stata molto dura», disse lui, «e che vi sono morte molte persone note». «Le notizie riportate sono esatte», risposi io. «Eri presente alla battaglia?» chiese lui. «C'ero». «Allora siediti qui», disse, «e raccontaci, perché non abbiamo saputo ogni cosa in maniera chiara». E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di Callescro.(6) Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri, ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra. Quando però fummo sazi di questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza, per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perché aveva visto alcuni giovanetti entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, «dei belli», disse, «o Socrate, credo che tu saprai subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama di essere il più bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare». «E chi è», chiesi io, «e di chi è figlio?» «Forse lo conosci anche tu», mi rispose, «ma non era ancora adulto prima che tu partissi; èCarmide figlio di nostro zio Glaucone, mio cugino».(7) «Lo conosco, per Zeus!», esclamai. «Neppure allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere decisamente un giovanetto». «Presto saprai», rispose, «la sua età e che tipo egli sia diventato», e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide. Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si può misurare nulla: infatti io sono semplicemente una cordicella bianca con i belli (8) - infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava, erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -, molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il più piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: «Che te ne pare del ragazzetto, o Socrate?», disse. «Non ha un bel volto?» «Straordinariamente bello», risposi io. «Ebbene», aggiunse, «egli, se volesse spogliarsi, ti sembrerà privo di volto, a tal punto è bellissimo di forme». Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: «Per Eracle», dissi, «di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta». «Quale?», chiese Crizia. «Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima», risposi, «e in qualche modo è scontato, o Crizia, che egli sia tale, dal momento che è del vostro casato». «Ma sì», rispose, «è bellissimo e virtuoso anche in questo». «Perché dunque», esclamai, «non spogliare di lui proprio questa cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa età, desidera certamente dialogare». «Senza alcun dubbio», rispose Crizia, «sia perché è appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta». «Questa bellezza», dissi io, «caro Crizia, voi l'avete, è lungo tempo, dalla vostra consanguineità con Solone.(9) Ma perché non hai chiamato qui il giovane e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora più giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei insieme suo tutore e cugino». «Certo tu hai ragione», disse, «chiamiamolo». E intanto al servo: «Ragazzo», disse, «chiama Carmide e digli che voglio presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere affetto». Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: «Poco fa diceva dì sentire come un peso alla testa, quando si è alzato di buon mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa?» «Nulla», risposi, «purché venga». «Certo, verrà», assicurò. E la cosa in effetti andò così. Infatti venne e suscitò gran riso, perché ognuno di noi che eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui accanto a sé, finché di quelli seduti all'estremità uno lo facemmo alzare, mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia precedente arditezza, che avevo perché pensavo che gli avrei parlato con molta scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero colui che conosceva il rimedio, mi fissò con 2  Platone Carmide  occhi quali è impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in cerchio da ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ciò che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero più in me e pensai che il più sapiente in cose d'amore è Cidia, (10) il quale disse, parlando di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, «di stare attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda»; mi sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile animale. Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo. «Qual è allora?» chiese. E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilità. E quello di rimando: «Allora trascriverò la formula da te». «Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?», dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: «Se ti persuaderò, o Socrate». «E sia», conclusi; «e tu conosci bene il mio nome?» «Sarei colpevole, se non lo conoscessi», disse, «si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia età, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente». «Ben fatto», dissi io, «ti parlerò così più liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non è in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai già sentito da bravi medici, quando uno va da loro perché è malato agli occhi, dicono che non è possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa senza il corpo intero è una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; (11) o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno così?» «Certo», rispose. «E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento?» «Assolutamente», rispose. E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegliò di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: «Tale dunque, o Carmide, è anche il caso di questa formula magica. Io l'imparai laggiù, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis,(12) dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che è un dio, dice che non bisogna cercare dì guarire gli occhi senza la testa né la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perché trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, è impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza,(13) per la comparsa e la presenza della quale è ormai più facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continuò, "è diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comandò con molta decisione che non dovesse esserci nessuno così ricco né nobile né bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedirò dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornirò il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide». Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: «Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sarà costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua età non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no?» «Certamente», dissi io. «Dunque sappi bene», continuò, «che ha fama di essere di gran lunga il più assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'età che ha raggiunto, non è inferiore a nessuno». «E infatti», dissi io, «è anche giusto, o Carmide, che tu emerga tra gli altri per tutte queste cose; perché credo che nessun altro tra coloro che si trovano qui potrebbe con facilità esibire due famiglie, riunitesi in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili una discendenza più bella e più nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato tu.(14) Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, (15) ci è stata tramandata come oggetto di encomio da parte di Anacreonte,(16) di Solone (17) e di molti altri poeti, poiché eccelle per bellezza, per virtù e per tutto ciò che è detto felicità; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, (18) tuo zio, nessuno tra gli uomini del continente si dice avesse la fama di essere più bello e più prestante, tutte le volte che si recò come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati, è naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei dotato per natura di buone capacità sia per assennatezza sia per tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre», conclusi. «La 3  Platone Carmide  cosa dunque sta così. Se davvero c'è già nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno né degli incantamenti di Zalmoxis né di Abari l'Iperboreo, (19) ma a questo punto bisognerebbe darti proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?». Carmide dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora più bello - e difatti la modestia si addiceva alla sua età - poi con animo non certo vile rispose: disse infatti che non sarebbe stato più facile, lì sul momento, né approvare né negare ciò che gli veniva chiesto. «Se infatti», spiegò, «non dicessi che sono assennato, non solo sarebbe strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei insopportabile; sicché non so che cosa risponderti». E io risposi: «Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso», dissi, «che bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto domandando, affinché tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque ti è cosa gradita, voglio fare questa ricerca con te, altrimenti lasciar perdere». «Ma tra tutte è la cosa che mi fa più piacere», disse lui, «quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che tu ritieni il migliore». «Ecco allora», dissi io, «quale mi sembra il miglior metodo di ricerca su questo argomento. è chiaro infatti che se tu possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio. è d'altra parte necessario, quando essa è presente, se davvero c'è, che se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi così?» «Certo, lo penso», disse. «Ebbene, questa cosa che pensi», dissi, «dal momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che sia?» «Forse», rispose. «E allora affinché possiamo congetturare se tu l'hai in te oppure no, dimmi», continuai, «che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo la tua opinione?». Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente rispondere, poi però disse che assennatezza a suo parere è fare tutto con ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo. «E penso», concluse, «in una parola che ciò che mi chiedi sia una certa calma». «è forse giusto ciò che dici?», dissi. «Certo, Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c'è del vero in quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non è tra le cose belle?» «Certo», rispose. «E qual è la cosa più bella nelle lezioni del maestro: scrivere le lettere simili in fretta o con calma?» «In fretta». «E nel leggere? Velocemente o lentamente?» «Velocemente». «E suonare la cetra con velocità e lottare con ritmo serrato non è molto più da virtuosi che farlo con tranquillità e lentamente?» «Sì». «E allora? Nel pugilato e nel pancrazio (20) non avviene la stessa cosa?» «Certo». «Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidità non si addicono al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillità?» «è evidente». «Dunque ci pare evidente», dissi io, «per quel che concerne il corpo, che non è la calma, ma la massima rapidità e prontezza ad essere la cosa migliore. Non è così?» «Certamente». «Ma l'assennatezza era una cosa bella?» «Sì». «Allora per il corpo non la calma, ma la rapidità sarebbe cosa più assennata, dal momento che l'assennatezza è una cosa bella». «Così sembra », rispose. «E allora?» continuai io. «è più bella la facilità di apprendere o la difficoltà di apprendere?» «La facilità di apprendere». «Ma la facilità di apprendere», chiesi, «significa apprendere rapidamente? E la difficoltà di apprendere significa farlo con calma e lentezza?» «Sì». «Non è più bello insegnare a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente?» «Sì» «E poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente è più bello che farlo con decisione e rapidità?» «Con decisione e rapidità», rispose. «La perspicacia non è una certa acutezza dell'animo, e non la calma?» «è vero». «Non è forse vero che se si tratta di comprendere ciò che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro luogo, la cosa più bella non è farlo con la maggior calma possibile, bensì con la maggior rapidità?» «Sì». «Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di lode non è il più lento nel prendere una decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa con la massima facilità e rapidità». «è così», disse. «E in tutte le cose», aggiunsi io, «o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che riguardano il corpo, le azioni di velocità e prontezza non appaiono più belle rispetto a quelle di lentezza e di calma?» «è possibile», rispose. «Dunque l'assennatezza non è una certa calma né la vita assennata è calma, in base a questo ragionamento, dal 4  Platone Carmide  momento che deve essere bella, se è assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai raramente le azioni calme ci apparvero nella vita più belle di quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le più insignificanti, capita che siano più belle di quelle decise e rapide, così neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo forte e rapido, né nell'andatura né nell'eloquio né in nessun'altra situazione, né la vita calma potrebbe essere più assennata di una vita non tranquilla, dal momento che nel discorso l'assennatezza è stata da noi posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille». «Mi sembra ben detto, o Socrate», disse. «E allora», ripresi io, «di nuovo, ponendo più attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto su quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per produrre tale effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?». Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente virile, «ebbene, mi sembra», disse, «che l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ciò che di fatto è pudore». «E sia», dissi io, «ma poco fa non ammettevi che l'assennatezza è una cosa bella?» «Certamente», disse. «E che gli assennati sono anche uomini buoni?» «Sì». «Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni?» «No, certo». «Non è solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa buona». «Per lo meno mi sembra». «E allora?» ripresi io. «Non pensi che Omero aveva ragione quando diceva: "Il pudore non è un buon compagno per l'uomo bisognoso"?» (21) «Sì». «Dunque, parrebbe, il pudore non è un bene ed è un bene». «è evidente». «L'assennatezza è un bene se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi». «Ma certo, le cose mi sembra che stiano come tu dici». «Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore non è un bene più di quanto sia un male». «A me, o Socrate, sembra», disse, «che questo sia detto bene: ma prendi in esame questa definizione della assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato - è una cosa che sentii già dire da un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose.(22) Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa». E io: «Ah furfante», dissi, «tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da qualche altro sapiente!». «Probabilmente da un altro», disse Crizia, «non certo da me». «Ma che differenza fa, o Socrate», disse l'altro, Carmide, «da chi l'ho sentito?» «Nessuna differenza», dissi io, «perché in ogni caso bisogna indagare non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no». «Ora parli bene», disse. «Per Zeus», dissi io, «ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei, perché somiglia a un enigma». «E perché?» «Perché sicuramente», continuai, «le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero, quando diceva che assennatezza è "fare le proprie cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando scrive o quando legge?» «Si, certo, lo penso», disse. «Dunque tu pensi che il maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei nomi degli amici?» «Per nulla meno». «Forse che vi impicciavate degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo?» «Assolutamente no». «E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere sono fare qualcosa». «Ma certo lo sono». «E infatti il guarire, caro compagno, il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa». «Certo». «E allora?» dissi io, «pensi forse che una città sarebbe ben governata da quella legge che impone di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe, l'ampolla, lo strigile (23) e tutto il resto in base a questo stesso discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie?» «Non lo penso», disse lui. «Tuttavia», replicai, «se è governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata». «Come no?», disse. «Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie cose in questo modo». «Non sembra». «Parlava dunque per enigmi, a quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le proprie cose è assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o Carmide?» «Minimamente», rispose, «perché anzi aveva fama di essere molto sapiente». «Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perché è difficile capire che cosa mai significhi fare le proprie cose». «Forse», disse. «E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le proprie cose? Puoi dirlo?» «Io non lo so, per Zeus», rispose lui, «ma forse nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ciò che pensava». E mentre diceva queste cose 5  Platone Carmide  sorrideva e guardava a Crizia. Ed era evidente che già da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era trattenuto, allora non ne fu più capace: mi sembra infatti più che vero, cosa che sospettai, che Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza. Carmide dunque, poiché non voleva render conto lui della risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro non lo tollerò, ma mi sembrò adirato con lui come un poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guardò fisso e poi disse: «Sicché, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che l'assennatezza è fare le proprie cose, allora neppure lui lo sa?» «Ma, eccellente Crizia», dissi io, «non è affatto una cosa che desta meraviglia, data la sua età, che ignori questa cosa; invece è naturale che tu la sappia, sia per via della tua età sia per i tuoi studi. Se dunque ammetti che l'assennatezza è appunto ciò che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto più volentieri io indagherei insieme a te se la definizione è vera oppure no». «Ebbene lo ammetto senz'altro», rispose, «e lo accetto». «E fai bene», dissi io, «ammetti anche ciò che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa?» «Sì». «E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle degli altri?» «Anche quelle degli altri». «Dunque sono assennati, pur non facendo solo le loro cose?» «Infatti, che cosa lo impedisce?» chiese. «Niente, per me almeno», replicai io, «ma bada che l'impedimento non ci sia per colui che, avendo ipotizzato che l'assennatezza è il fare le proprie cose, dice poi che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano assennati». «Io infatti, in un certo senso», disse, «questo l'ho ammesso, che sono assennati coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono assennati coloro che realizzano le cose degli altri».(24) «Dimmi, tu non chiami con la stessa parola il realizzare e il fare?» «No davvero», disse, «e neppure il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo,(25) il quale diceva che il lavoro non è affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e "fare", avrebbe detto che non è una vergogna per nessuno fare il calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro è la realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata è a volte motivo di vergogna, quando non è accompagnata dal bello, il lavoro invece non è mai motivo di vergogna: infatti chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato chi si occupa delle sue cose». «O Crizia», dissi io, «non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite volte Prodico (26) fare delle distinzioni riguardo ai nomi. Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa dài il nome che stai pronunciando. Dunque, ora dài daccapo una definizione più chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose buone, tu dici che questa è assennatezza?» «Sì», rispose. «Dunque non è assennato colui che compie azioni cattive, bensì colui che compie azioni buone?» «E a te, nobile Socrate», disse, «non sembra così?» «Lascia perdere», dissi, «non indaghiamo su ciò che penso io, ma su ciò che stai dicendo ora tu». «Ebbene», disse, «io affermo che colui che realizza cose non buone ma cattive non è assennato, mentre è assennato colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io te la definisco chiaramente assennatezza». «E certo nulla impedisce che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia», dissi io, «il fatto che a tuo parere gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati». «Ma non lo penso», replicò. «Poco prima non è stato detto da te che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano assennati?» «è stato detto, certo», disse, «ma che vuol dire questo?» «Niente; ma dimmi se secondo te un medico, quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui che guarisce». «Sì». «Colui che agisce così non fa forse il suo dovere?» «Sì». «E colui che fa il suo dovere non è assennato?» «è assennato, certo». «Non è allora necessario che il medico sappia quando guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando può trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no?» «Forse no». «A volte», dissi io, «dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non è così che dicevi?» «Sì». «Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente ed è assennato, ma ignora di se stesso che sia assennato?» «In realtà, o Socrate», ribatté, «questo non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti ammissioni, che è inevitabile che ci si accordi su questo, io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che un uomo ignori di se stesso che è assennato. Io, per me, infatti, più o meno affermo che assennatezza è proprio questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. 6  Platone Carmide  Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del dio a chi entra, in luogo del "Salve", perché questa forma di saluto non è giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni con gli altri, ma augurarsi dì essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro che entrano nel santuario un saluto differente da quello che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offrì, a mio parere; e dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica, come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione (27) e come sostengo anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso, è capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni "Nulla di troppo" (28) e "Garanzia porta guai".(29) Costoro infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano; quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui io dico tutto questo dunque, o Socrate, è il seguente: ti lascio cadere tutto ciò che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi più ragione tu in qualcosa, forse invece avevo più ragione io, ma nulla di ciò che dicevamo era chiaro -; ora voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza è conoscere se stessi». «Ebbene, Crizia», dissi, «tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non è così, al contrario, infatti io indago assieme con te di volta in volta il problema che si presenta, perché io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono d'accordo o se non lo sono. Suvvia, aspetta finché io non abbia fatto il mio esame». «Fai dunque il tuo esame», disse. «Difatti lo sto facendo», replicai io, «se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa, è chiaro che sarebbe una scienza e una scienza di qualcosa o no?» «Lo è di se stessi», rispose. «Dunque anche la medicina», chiesi, «è scienza della salute?» «Certamente». «Se allora tu mi chiedessi», continuai «"Essendo la medicina scienza di ciò che è sano, in cosa è per noi utile e che cosa procura?", risponderei che è di non poca utilità, perché ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea». «Sono d'accordo». «E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che è la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca, risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a proposito della assennatezza, dal momento che affermi che essa è conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia, l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi». «Ma, Socrate», replicò, «la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non è simile alle altre scienze né le altre scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse fossero simili. Perché, dimmi», continuò, «quale risultato del calcolo o della geometria è simile alla casa dell'architettura o al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene, puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma non potrai». E io risposi: «Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo è la scienza del pari e del dispari, della quantità, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra loro; (30) o no?» «Certamente», rispose. «Il dispari e il pari, non sono diversi rispetto al calcolo stesso?» «Come no?» «E a sua volta la statica è arte del pesare il peso più pesante e il peso più leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei d'accordo?» «Sì». «Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa è scienza, che si trovi ad essere diverso dall'assennatezza stessa?» «Questo è il punto», replicò, «o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con le altre. La cosa però non sta così, al contrario, tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece è scienza delle altre scienze e anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ciò che poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perché cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso». «Quale errore fai», dissi, «a pensare che se ti confuto quanto più è possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene, io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere?» «è proprio ciò che penso anch'io, o Socrate», rispose. «Coraggio, dunque», ripresi, «carissimo, rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo ne verrà fuori, se viene confutato». «Ebbene», concluse, «farò così: le tue parole mi sembrano misurate». «Parla allora», ripresi io, «riguardo all'assennatezza cosa dici?» «Affermo allora», rispose, «che sola tra le altre scienze essa è scienza di se stessa e delle altre scienze». «Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza», chiesi io, «se lo è anche della scienza?» «Certamente», rispose. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso e sarà in grado di esaminare che cosa egli si dà il caso che sappia e 7  Platone Carmide  che cosa non sa, e sarà capace allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo può farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza: conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non è questo ciò che vuoi dire?» «Sì», rispose. «E ancora», ripresi, «con la terza coppa al salvatore, (31) come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa sia possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in seconda istanza, se è possibile nel modo più assoluto, quale utilità ne potremmo ricavare noi a saperlo». «Certo, bisogna fare un'indagine», disse. «Via, Crizia», incalzai, «esamina se riguardo a questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa più pieno dì risorse di me, perché io sono in difficoltà; ma devo dirti in cosa sono in difficoltà?» «Certo», rispose. «Tutto questo», dissi io, «non sarebbe forse, se davvero è come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non è scienza di nient'altro se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di scienza?» «Certo». «Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso punto in altri contesti, ti sembrerà, com'io credo, impossibile». «Come e in quali contesti?» «In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista, e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra che possa esistere una vista di tal genere?» «Per Zeus, no». «E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze di udito?» «Neppure questo». «Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione?» «Non lo penso». «Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri?» «No davvero». «Neppure una volontà, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volontà». «No, certo». «Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori?» «No», rispose. «E hai già osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non tema neppure una sola delle cose terribili?» «Non l'ho notata», rispose. «Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose sulla quali opinano le altre opinioni non opini?» «In nessun modo». «Ma, a quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non è scienza di nessuna disciplina: non è scienza di nulla, ma è scienza di se stessa e delle altre scienze?» «Lo affermiamo infatti». «Non è assurdo, se davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo piuttosto ancora se esiste». «Dici bene». «Vediamo dunque: questa scienza è scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no?» «Certamente». «E difatti noi affermiamo che ciò che è maggiore ha un potere tale da essere maggiore di qualcosa?» «Difatti lo ha». «E di qualcosa che è minore, se davvero è maggiore?» «Necessariamente». «Se dunque trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero è maggiore di se stesso, di essere anche minore di se stesso; o no?» «Assolutamente inevitabile, o Socrate», rispose. «Ancora, se qualcosa è doppio delle altre cose doppie e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una metà che è sia se stesso sia gli altri doppi: (32) e difatti non c'è doppio di altro che della metà». « è vero». «Essendo dunque più di se stesso, non sarà anche meno? Ed essendo più pesante più leggero, ed essendo più anziano più giovane e in tutto il resto allo stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avrà anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del suono, o no?» «Sì». «Se dunque sentirà se stesso, sentirà se stesso perché provvisto di suono, altrimenti non si udrebbe». «Decisamente inevitabile». «E la vista, nobile uomo, se davvero essa vedrà se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un colore, perché una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore». «No, certo». «Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le grandezze, le quantità e altre cose di tal genere è assolutamente impossibile; o no?» «Certamente». «L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8  Platone Carmide  cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulità, in altri forse no. C'è bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguerà adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune sì e altre no; e s e poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c'è la scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace di fare queste distinzioni: perciò non posso sostenere fermamente ne se sia possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, né, nel caso sia precisamente così, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu dunque, figlio di Callescro - giacché stabilisci che l'assennatezza è questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di scienza - per prima cosa mostra che è possibile ciò che poco fa io dicevo, in secondo luogo che oltre ad essere possibile è anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia giusta la definizione che dài dell'assennatezza». E Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficoltà, come accade a coloro che, nel vedere delle persone sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembrò costretto dal mio essere in difficoltà e preso egli stesso dall'imbarazzo. Poiché dunque in ogni occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non diceva nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo. E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi: «Ma se è opportuno, o Crizia, ammettiamo pure ora questo dato, che è possibile che esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se è così o no. Suvvia, posto che questo sia assolutamente possibile, in cosa allora è maggiormente possibile sapere quel che uno sa o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo è appunto conoscere se stessi ed essere assennati; o no?» «Certo», rispose, «e in certo qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio quando uno ha la velocità, veloce, quando ha la bellezza, è bello, e quando ha la conoscenza, è uno che conosce; quando però uno abbia una conoscenza che conosca se stessa, in certo qual modo sarà allora egli stesso conoscitore di se stesso». «Non discuto questo», ribattei io, «che quando un uomo possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscerà egli stesso se stesso, ma che necessità c'è che colui che abbia questa cosa sappia ciò che sa e ciò che non sa?» «Perché queste due cose sono identiche, Socrate». «Forse», ribattei, «ma ho paura di essere sempre allo stesso punto, perché non capisco come possa essere lo stesso il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa».(34) «Come dici?», chiese. «Dico questo», risposi, «una scienza che in qualche modo è scienza di scienza sarà in grado di distinguere di più rispetto al dire: di queste cose l'una è scienza, mentre l'altra non è scienza?» «No, ma solo questo». «Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e l'ignoranza del giusto?» «In nessun modo». «Ma l'una, credo, è la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non è nient'altro che scienza». «Come no, infatti». «Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo, potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa una cosa e possiede una scienza, o no?» «Sì». «Ciò che conosce grazie a questa scienza come lo saprà? Infatti conosce ciò che è sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ciò che è armonico grazie alla musica, ma non grazie all'assennatezza, ciò che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma non grazie all'assennatezza, e così via, o no ?» «è evidente». «Ma grazie all'assennatezza, se davvero è soltanto scienza delle scienze, come saprà che conosce ciò che è sano o ciò che riguarda le costruzioni?» «In nessun modo». «Dunque colui che ignora queste cose non saprà ciò che sa, ma saprà soltanto che sa». «Sembra». «Né l'essere assennati né l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa». «è probabile». «Né costui sarà capace di esaminare se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ciò che dice di sapere o non lo sa; ma conoscerà questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa però l'assennatezza non glielo farà conoscere». «Non pare». «Non sarà in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo è e chi invece lo è realmente, né nessun altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il vero medico e colui che non lo è, non si comporterà dunque in questo modo. Non gli parlerà certo di medicina- perché il medico, come dicevamo, non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?» «Sì, è così». «Di scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto». «Sì». «Né di medicina sa nulla il medico, dal momento che la medicina si dà il caso che sia appunto una scienza». «è vero». «Che dunque il medico possiede una scienza, l'assennato lo comprenderà; poiché tuttavia bisogna sperimentare quale sia, non esaminerà forse di quali cose sia scienza? O non è forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene 9  Platone Carmide  stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia, grazie cioè al fatto che è scienza di qualcosa?» «Grazie a questo, certo». «E la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che è scienza del sano e del malato». «Sì». «Dunque colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata?» «Certo non in queste». «In ciò che è sano e in ciò che è malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminerà il medico, in quanto medico». «è naturale». «Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette, le azioni, per vedere se sono ben fatte?» «Necessariamente». «Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose?» «No davvero». «Nessun altro potrebbe farlo, com'è naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perché dovrebbe essere un medico in aggiunta all'assennatezza». «è così». «Soprattutto, se l'assennatezza è soltanto la scienza della scienza e dell'ignoranza, non sarà in grado di distinguere né un medico che conosce i princìpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o pensa di conoscerli, né nessun altro di coloro che conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani». «è evidente», disse. «Quale vantaggio dunque», dissi, «Crizia, potremmo ancora ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ciò che sa e ciò che non sa, e sapesse queste cose di saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di grandissima utilità, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati da noi. E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, né permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ciò che potrebbero fare bene: e questo sarebbe ciò di cui abbiano scienza; e così, una casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una città ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza: rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni azione è necessario che coloro che si trovano in queste condizioni abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non è questo», dissi, «Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo quale grande bene sarebbe conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa?» «Certamente», rispose: «è così». «Ora», ripresi io, «vedi che non è apparsa in nessun luogo nessuna scienza di questo tipo». «Lo vedo», disse. «Non ha forse questo di buono», continuai, «la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa apprenda, la apprenderà più facilmente e tutto gli apparirà più chiaro, dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, (35) avrà la visione della scienza, ed esaminerà meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in maniera più debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di più grande e desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia?» «Forse è così», rispose. «Forse», dissi io, «forse però noi non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perché mi appaiono certi strani fatti riguardo all'assennatezza, se è di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che è possibile conoscere la scienza e ciò che all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cioè conoscere ciò che si sa e ciò che non si sa, non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porterà anche qualche vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ciò che dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene, facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della città». «Come mai?» domandò. «Perché», risposi, «ammettemmo con facilità che è un grande bene per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che le conoscano». «Dunque non facemmo bene ad ammetterlo?» «No, non mi sembra», risposi io. «Dici cose strane veramente, o Socrate», commentò. «Per il cane!», (36) esclamai. «Anche a me sembra così, e avendo rivolto là lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se l'assennatezza è esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro quale vantaggio essa ci arrechi». «E come mai?», disse lui. «Parla, affinché sappiamo anche noi ciò che vuoi dire». «Penso», dissi io, «di star sragionando; bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso». «Parli bene», disse. 10  Platone Carmide  «Ascolta dunque», continuai, «il mio sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di avorio.(37) Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, né medico né stratego né nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le cose stanno così, potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente più sani di ora e ci salveremo nei pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte e molte altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la scienza di ciò che deve avvenire e l'assennatezza, che è ad essa preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che così disposto il genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia». «Tuttavia», riprese, «non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza». «Insegnami allora ancora una piccola cosa», dissi io, «secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio del cuoio?» «Per Zeus, no». «Allora della lavorazione del bronzo?» «Niente affatto». «Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere?» «No davvero». «Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive secondo la scienza è felice. Infatti costoro, nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che conosce tutto ciò che sta per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a lui o a qualcun altro?» «A lui», rispose, «e a un altro». «Chi?», domandai. «Forse un uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive con più scienza di lui». «No, certo». «Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice? O forse tutte nella stessa misura?» «Nient'affatto nella stessa misura», rispose. «Ma quale più di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale conosce il gioco degli scacchi?» (39) «Ma quale gioco degli scacchi?», esclamò. «Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo?» «Nient'affatto». «Allora quella per cui conosce ciò che è sano?» «Piuttosto», rispose. «Ma qual è quella scienza alla quale faccio particolare riferimento», continuai, «grazie alla quale, cosa può conoscere?» «Quella per cui conosce il bene e il male». «Ah furfante», esclamai, «da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a fare la fortuna e la felicità, né è prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che è soltanto quella che tocca il bene e il male. Perché, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la medicina farà guarire un po' meno, l'arte del calzolaio farà calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impediràmeno di morire in mare e quella dello stratego in guerra?» «Non meno», rispose. «Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verrà a mancare, se questa scienza è assente». «Quel che dici è vero». «Questa scienza dunque, a quel che sembra, non è l'assennatezza, ma quella la cui funzione è di esserci utile. Infatti non è la scienza delle scienze e delle non scienze, ma del bene e del male: cosicché, se dunque la scienza utile è quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso». «Perché», chiese, «non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza è in modo particolare scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche su questa, cioè la scienza del bene, dovrebbe esserci utile». «Quale fa guarire?», chiesi. «Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito da tempo che essa è unicamente scienza della scienza e della mancanza di scienza e di nient'altro, non è così?» «Almeno pare». «Non sarà dunque artefice di salute?» «No, certo». «La salute era infatti opera di un'altra arte, o no?» «Si, di un'altra». «Né dunque sarà artefice di utilità, caro compagno: perché poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito, è vero?» «Certo». «In che modo sarà dunque utile l'assennatezza, se non è artefice di nessuna utilità?» «In nessun modo, o Socrate, almeno sembra». «Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile sull'assennatezza? (40) Infatti la cosa che per generale ammissione è tra tutte la più bella non ci sarebbe apparsa priva di utilità, se io fossi stato di qualche utilità alla realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado di scoprire per quale delle realtà esistenti il legislatore (41) pose questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al nostro ragionamento. 11  Platone Carmide  Infatti ammettemmo che è scienza della scienza, nonostante che il ragionamento non lo permettesse e affermasse che non è così; concedemmo poi a questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che neppure questo ammettesse il ragionamento, affinché l'assennato potesse diventare per noi uno che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosità, senza riflettere sul fatto che è impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si sa ciò che non si sa. Eppure, com'io credo, non c'è nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire più assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati così disponibili e non inflessibili, n on è maggiormente in grado di trovare la verità, anzi tanto l'ha derisa che ciò che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per te», continuai, «o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ciò molto assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilità da questa assennatezza, né ti sarà di alcuna utilità la sua presenza nella vtia. Ma ancora di più mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre è di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano così, ma che io sono un ricercatore mediocre; perché, penso, l'assennatezza è un gran bene e se davvero la possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno della formula magica, perché se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunché, te invece quanto più assennato tanto più felice». E Carmide, «Ma per Zeus», disse, «io non so né se la possiedo né se non la possiedo: come potrei sapere ciò che neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che venga incantato da te tanti giorni finché tu dica che è sufficiente». «E sia: tuttavia, o Carmide», disse Crizia, «se lo farai, questa sarà per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento di Socrate e non ti allontani da lui né molto né poco». «Stai sicuro che lo seguirò e non lo lascerò», rispose, «perché mi comporterei in modo terribile, se non obbedissi a te, il tutore, e non facessi ciò che mi ordini». «Ebbene», ribatté l'altro, «io te lo ordino». «Lo farò», rispose, «a partire da questo stesso giorno». «Voi due», intervenni io, «che cosa state decidendo di fare?» «Nulla», rispose Carmide, «abbiamo già deciso». «Allora mi costringerai», esclamai, «e non mi concederai la possibilità di un'inchiesta?» (43) «Stai sicuro che ti costringerò, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ciò decidi tu cosa farai». «Ma non resta nessuna decisione», dissi io, «infatti se tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sarà capace di contrastarti». «No, certo», ribatté: «non opporti neppure tu». «Allora non mi opporrò», dissi io. 12  Platone Carmide  NOTE: 1) è la lezione "ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ men"). 2) Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di partecipare al governo della città. Il rifiuto di Potidea alle richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio della guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese guidato da Callia, durò dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide, 1, 56-66). Nell'Apologia (28e) Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedeltà, da lui dimostrata sul campo a Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. 3) Si tratta evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinità ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava probabilmente a sud dell'Acropoli. 5) Cherefonte, del demo attico di Sfetto, è ricordato come amico di Socrate già da Aristofane (Nubes 104) e da Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta Tiranni nel 404 a.C., rientra ad Atene nel 403, con Trasibulo. Nel 399, anno dei processo e della morte di Socrate, Cherefonte era già morto (cfr. Apologia Socratis 21a). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il più saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte, perdute tuttavia già nell'antichità. 6) Callescro era fratello di Glaucone, nonno materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente). Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di Carmide, e figlio della cugina di Crizia. 8) Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: «su pietra bianca cordicella bianca». I carpentieri che normalmente usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide, come dimostreranno già le prime battute sul suo arrivo, smantellerà completamente questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. 157e; Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, Volume 3, 1, e Proclo, In Platonis Timaeum 26b, Dropide era fratello di Solone. Solone fu arconte ad Atene nel 594/593 a.C. (Diogene Laerzio, Volume 1, 62) o nel 592/591 a.C. (Aristotele, Respublica Atheniensium 14, 1). Abolì i debiti e liberò dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libertà a coloro che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riformò il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta più leggera, con una svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene Laerzio, Volume 1, 61), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco (De facie in orbe lunae 19, 931e). 11) Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano, è alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum è compreso un trattato (Sul regime di vita). 12) Divinità dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto (quarto, 94-96) racconta che prima di essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libertà, tornò in Tracia, dove annunciò ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis è in realtà vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze, 1959, pagine 159-209. 13) Per il senso più ampio da attribuire al termine greco "sophrosúne" cfr. quanto osservato nella premessa al dialogo. 14) Cfr. le note 7 e 8. 15) Cfr. la nota 9. 16) Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore, intorno al 570 a.C., e morì nel 485 a.C. Visse alla corte di Policrate dì Samo (tiranno dal 533 al 522 circa) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. 17) Del Crizia antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento 22 Gentili- Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco, Pericles 13). Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito di Perictione, madre di Platone. 19) Abari è sciamano e taumaturgo, che Erodoto (4, 36) definisce sacerdote di Apollo. Pindaro (frammento 283 Bowra) lo assegna all'età di Creso (560-546 a.C.). Di lui si raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con sé una freccia donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese degli 13  Platone Carmide  Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora, è un altro esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente. 20) Combattimento combinato di lotta ("pále"), e pugilato ("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario. Cfr. Platone, Euthydemus 271c-272a. 21) Cfr. Odyssea libro 17, verso 347. 22. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia è confermato dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce in 162c. Si tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di ricerca della definizione ultima di "sophrosúne". In Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il «settarismo esclusivista di una concezione di vita che sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica» (A. Battegazzore, in Sofisti. Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze 1962, pagina 339). 23) Lo strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia. Probabilmente c'è qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias minor 368b-d), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad Olimpia esibì un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente realizzati da lui. 24) Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che è invece implicita nel verbo "poieo", come anche nel verbo "érgazestai" 'lavorare', che Platone impiega qualche riga più in basso (A. Braun, I verbi del «fare» nel greco, in «Studi italiani di filologia classica» 15, 1939, pagine 260-261). 25) Esiodo, Opera et dies 311. La formulazione anticipa uno dei princìpi del l'etica attivistica periclea, nel "manifesto" della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea all'età romana, Bari-Roma 1994, pagina 208; Idem Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma 1995, pagine 104-105. 26) Prodico dì Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le "Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggiò in molte città greche come ambasciatore e spesso ad Atene, dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilità di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias maior 282c. 27) L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di ammonimento al visitatore affinché ricordasse la sua condizione mortale. 28) Cfr. Teognide, 335 e 401. 29) Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino. 30) Cfr. Platone, Gorgias 451b-c. 31) Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus Salvatore), il decisivo, perché decisivo ci si augura che sia il terzo tentativo di definizione della "sophrosúne". 32) Passo di difficile interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: «se qualcosa è doppio di altri doppi e di se stesso, sarebbe doppio essendo quindi metà sia di se stesso sia degli altri doppi», oppure come proposto nel testo. 33) Cfr. 167a. «Dunque soltanto l'assennato conoscerà se stesso...». 34) Non è a mio parere necessario aggiungere al testo «con il conoscere se stessi», coma propone Diano, né espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase «il sapere ciò che si sa e il sapere ciò che non si sa». 35) Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36) Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis 22a). 37) Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni veritieri inviati agli uomini dagli dèi, attraverso la porta di avorio passano invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa 'compimento', 'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges 739a). I "pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi". 40) Cfr. 172c. (I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...). 41) L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina è ampiamente sviluppata nel Cratilo. 42) Cfr. 156d. (E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio...). 43. Il termine "anácrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare. Platone Liside  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Liside  Platone LISIDE Percorrevo la strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia (1) direttamente al Liceo. (2) Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana di Panopo, lì incontrai Ippotale, (3) figlio di Ieronimo, Ctesippo (4) del demo di Peania e altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena mi vide avvicinarmi, disse: «Socrate, dove vai e da dove vieni?» «Dall'Accademia vado direttamente al Liceo», risposi io. «Ma vieni qui, direttamente da noi. Perché non cambi strada? Ne vale la pena»~ disse egli. «Dove mi inviti e da chi di voi?», domandai io. «Qui», rispose, mostrandomi un recinto davanti al muro e una porta aperta: «qui passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani». «Cos'è questo luogo e come passate il tempo?» «è una palestra costruita da poco. Per lo più passiamo il tempo in discussioni, di cui ti renderemmo volentieri partecipe», rispose. «E fate bene: ma chi insegna qui?», domandai. «Un tuo amico e ammiratore: Micco», (5) rispose. «Per Zeus, non è certo un uomo da poco, ma un valente sofista», osservai. «Vuoi seguirci per vedere chi c'è dentro?», chiese Ippotale. «Prima ascolterei volentieri per quale motivo devo entrare e chi è il bello», chiesi a mia volta. «Ognuno di noi la pensa diversamente, Socrate», rispose egli. «Per te chi è, Ippotale? Dimmelo». Interrogato su questo arrossì e io dissi: «Ippotale, figlio di Ieronimo, non dirmi più se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato, ma ti sei spinto molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non servo a molto, ma questo dono ho ricevuto dal dio, la capacità di capire subito chi ama e chi è amato». Udendo queste parole egli arrossì ancora di più e Ctesippo disse: «è bello che tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate quel nome; ma se egli si intrattiene anche poco con te, sarà sfinito sentendotelo ripetere un numero infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e riempito le nostre orecchie con il nome di Liside: e se poi beve ci è facile, quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di Liside. E quanto dice a parole, anche se terribile, non è così terribile come quando tenta di rovesciare su di noi poesie e prose. E ciò che è ancora più terribile è il fatto che canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce». «Liside è un giovane, a quanto pare: lo intuisco dal fatto che sentendone il nome, non lo conosco», osservai. «Infatti non lo chiamano molto con il suo nome ma è ancora chiamato con il nome del padre che è molto conosciuto, perciò so bene che non puoi ignorare l'aspetto di quel ragazzo, poiché è in grado di farsi notare solo per questo», disse. «Mi si dica di chi è figlio», chiesi. «è il figlio maggiore di Democrate del demo di Aissone» disse. «Bene, Ippotale, che amore nobile e giovane da ogni punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ciò che mostrerai a costoro, perché io veda se sai ciò che un innamorato deve dire del suo amato di fronte a lui stesso e agli altri», osservai. «Ma Socrate, perché dai peso a come parla costui?», chiese Ippotale. «Neghi di amare il giovane di cui costui parla?», domandai. «No, ma nego di comporre poesie e prose per l'amato», rispose. «Non sta bene, ma farnetica e delira», disse Ctesippo. Io chiesi: «Ippotale, non ti chiedo di ascoltare qualche verso o qualche canto, se ne hai composti per il giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo ti comporti con l'amato». «Te lo dirà costui: infatti lo sa bene e se ne ricorda se, come afferma, è rimasto assordato a furia di ascoltarmi». «Per gli dèi, me ne ricordo bene, poiché sono cose ridicole, Socrate. Infatti esser innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in particolare senza sapergli dire nulla di ciò che anche un bimbo non saprebbe dirgli, non è ridicolo? Ciò che la città tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i suoi antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di cavalli, le vittorie pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da corsa, questo egli compone e declama, e cose ancora più antiche di queste. Ultimamente infatti ci raccontava in un poema l'ospitalità data a Eracle, cioè che un loro antenato aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacché anche lui era nato da Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti, questi e molti altri simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo è ciò che costui, dicendo e cantando, ci costringe ad ascoltare». Tali furono le parole di Ctesippo. E dopo aver udito ciò, così dissi: «Ridicolo Ippotale, componi e canti un encomio indirizzato a te prima di aver vinto?» «Ma non è per me, Socrate, che io compongo e canto», ribatté. «Tu credi di no», incalzai. «Come stanno le cose?», chiese. «Questi canti sono indirizzati a te più che a tutti gli altri perché, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi canti saranno per te un onore e saranno realmente encomi per un vincitore, poiché hai conquistato un tale amato; se invece ti sfugge, quanto più ampi sono stati i tuoi elogi dell'amato, tanto più apparirai ridicolo, privato di una conquista tanto importante. Dunque, amico, chi è sapiente in amore non loda l'amato prima di averlo conquistato, poiché teme il futuro 2  Platone Liside  e come andrà a finire. Nel contempo i bellì , quando qualcuno li loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia così ?» «Sì », disse. «E più sono orgogliosi, non sono più difficili da conquistare?» «è naturale». «Come ti sembrerebbe un cacciatore se, cacciando, spaventasse e rendesse più difficile da catturare la selvaggina?» «Evidentemente un inetto». «Ed è una grande rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per inselvatichire: non è così ?» «Mi pare di sì ». «Bada allora di non procurarti tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io credo che tu non ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia sia un buon poeta, dal momento che arreca danno a se stesso». «No, per Zeus, perché sarebbe del tutto privo di logica. Ma è per questo, Socrate, che ti consulto, e se puoi, consigliami quali parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare gradito all'amato», così mi pregò. «Non è facile dirlo: ma se tu volessi farlo venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ciò che bisogna dirgli al posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli rivolgi», dissi io. «Ma non è difficile. Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere, credo che egli si avvicinerà a te - d'altronde è molto amante delle discussioni, Socrate, e inoltre, poiché si celebra la festa di Ermes, (7) si sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si avvicinerà. E se ciò non si verifica, egli è amico di Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, (8) di cui è il più caro amico. Dunque che Ctesippo lo chiami, se non si avvicina da sé», ribatté Ippotale. «Bisogna fare così », dissi. E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli altri ci seguirono. Entrati, trovammo lì che i bambini avevano terminato i sacrifici, giocavano agli astragali, (9) poiché la cerimonia era quasi finita, ed erano tutti ben vestiti. Dunque i più giocavano fuori nel cortile, alcuni in un angolo dello spogliatoio giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno osservandoli. Tra di essi c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i bambini e i giovinetti e si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte sedendoci all'angolo opposto - infatti lì c'era tranquillità - e ci mettemmo a discutere tra noi. Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era chiaro che desiderava avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava avvicinarsi da solo; poi dal cortile entrò Menesseno in una pausa dal gioco e, non appena vide me e Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo, Liside lo seguì e sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono e Ippotale, quando vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi dietro di loro, là dove pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di infastidirlo, e restò così ad ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli chiesi: «Figlio di Demofonte, chi di voi è più grande d'età?» «Possiamo discuterne», rispose. «E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due è più nobile», dissi io. «Certo» rispose. «E allo stesso modo su chi è più bello», continuai. Entrambi risero. Io continuavo: «Non domanderò chi di voi due è più ricco perché siete amici. O no?» «E molto», dissero. «Dunque si dice che le cose degli amici siano comuni, sicché in questo non sarete differenti, se dite la verità sulla vostra amicizia», dissi. Assentirono. Dopo questo scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due fosse più giusto e più sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare Menesseno, dicendo che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse celebrando un rito. Egli pertanto se ne andò e io domandai a Liside: «Liside, ti amano molto tuo padre e tua madre?» «Certo», rispose. «Non vorrebbero dunque che tu fossi quanto mai felice?» «E come no?» «E ti sembra che sia felice un uomo che sia schiavo e non possa fare ciò che desidera?» «Per Zeus, non mi sembra proprio», disse. «Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia felice, è chiaro che si danno premura in ogni modo perché tu sia felice». «Come no?», disse. «Dunque ti permettono di fare ciò che vuoi senza rimproverarti e impedirti di fare ciò che desideri?» «No per Zeus, Socrate, mi impediscono moltissime cose». «Come dici? Pur volendo che tu sia felice ti impediscono di fare ciò che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi salire su uno dei carri di tuo padre prendendo le briglie, quando c'è una gara, non te lo permetterebbero, anzi te lo impedirebbero?», domandai. «Per Zeus, no che non lo permetterebbero», rispose. «E a chi lo permetterebbero?», chiesi. «C'è un auriga che riceve da mio padre un compenso», fu la sua risposta. «Come dici? Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli più che a te, e per giunta lo pagano per questo?» «E allora?», domandò. «Ma, credo, affidano a te di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per batterli, lo permetterebbero». «E come potrebbero mai permetterlo?», disse. «E allora? Nessuno può batterli?», obiettai. 3  Platone Liside  «Può farlo il mulattiere», disse. «è uno schiavo o un uomo libero?» «Uno schiavo», rispose. «A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a te che sei loro figlio, preferiscono affidare più a lui che a te le loro cose e gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano?» «Come, affidarmelo?» chiese. «Allora qualcuno ti guida?» «Sì , il pedagogo», (10) rispose. «è forse uno schiavo?» «E allora? è nostro», disse. «è strano che, pur essendo libero, tu sia guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni questo pedagogo ti guida?», chiesi. «Senza dubbio conducendomi dal maestro», rispose. «E non è forse vero che anche i maestri ti comandano?» «Certo». «Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E dunque, quando arrivi a casa da tua madre ella, perché tu sia felice, ti lascia fare ciò che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo di toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione della lana». Ed egli ridendo disse: «Per Zeus, Socrate, non solo me lo impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi». «Per Eracle, hai forse fatto un torto a tuo padre o a tua madre?» «No, per Zeus», rispose. «Ma in cambio di che ti impediscono in modo così terribile di essere felice e di fare quello che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di qualcuno e, in una parola, senza che tu possa fare nulla di ciò che desideri? Sicché, a quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che sono così cospicue, ma tutti le governano più di te, né tu governi il tuo corpo così nobile, ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside, non comandi su nessuno e non fai nulla di ciò che desideri». «No, perché non ne ho ancora l'età, Socrate», disse. «Figlio di Democrate, non è questo a impedirlo, perché c'è almeno una cosa, come credo, che tuo padre e tua madre ti affidano e non aspettano che tu ne abbia l'età. Infatti quando vogliono che sia letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo, il primo in casa cui commissionano questo compito. O no?» «Certo», rispose. «Dunque in questo caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e così pure capita per la lettura. E se prendi la lira, come credo, né tuo padre né tua madre ti impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di farla vibrare con il plettro. O te lo impediscono?» « No di certo». «Dunque, Liside, quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa?» «Credo perché queste cose le conosco e quelle no», disse. «Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta l'età per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considererà più saggio di lui, allora ti affiderà se stesso e quanto possiede», osservai. «Lo credo», disse. «E sia: allora? Il tuo vicino non seguirà nei tuoi confronti la stessa regola di tuo padre? Credi che ti affiderà la propria casa da amministrare quando ti riterrà più saggio di lui nell'amministrazione di una casa o la dirigerà lui stesso?», continuai. «Credo che l'affiderà a me». «E allora? Credi che gli Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si renderanno conto che sei abbastanza saggio?» «Sì ». «Per Zeus, e il Gran Re? (11) Preferirebbe affidare al proprio figlio maggiore, a cui spetta il regno dell'Asia, l'incarico di mettere quello che vuole nel brodo, mentre la carne cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo di essere più bravi di suo figlio nella preparazione del cibo?» «A noi, è chiaro», rispose. «E a suo figlio non permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi, anche se volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe». «E come no?» «E se suo figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo ritenesse un medico, o glielo impedirebbe?» «Glielo impedirebbe». «Se invece ritenesse noi esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerli di cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti». «Dici il vero». «E allora non affiderebbe anche a noi più che a se stesso e al proprio figlio tutto il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi più sapienti di loro?» «Necessariamente, Socrate», rispose. «Dunque è così , caro Liside: le cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano, Elleni e barbari, uomini e donne, e in esse faremo ciò che vogliamo e nessuno deliberatamente ce lo impedirà, ma in esse saremo liberi, comanderemo sugli altri, saranno cose nostre e quindi ne trarremo vantaggi. Invece le cose nelle quali non saremo abili nessuno ce le affiderà per farne quel che ci pare, ma tutti ce lo impediranno per quanto possono, non solo gli estranei ma anche nostro padre, nostra madre e coloro che ci sono ancora più vicini, e in esse dipenderemo dagli altri e ci saranno estranee, poiché non ne trarremo guadagno alcuno. Sei d'accordo che la questione stia in questi termini?» «Sono d'accordo». «Dunque allora saremo amici di qualcuno e qualcuno ci amerà in relazione a ciò in cui non potremo essere di utilità alcuna?» «No di certo», rispose. «Dunque ora né tuo padre ama te, né un altro amerà chi è inutile». «Così pare», disse. «Se dunque diventi sapiente, ragazzo, tutti ti saranno amici e intimi - perché sarai utile e buono - altrimenti nessun altro, 4  Platone Liside  nemmeno tuo padre, tua madre e i parenti ti saranno amici. Pertanto, Liside, è possibile essere orgogliosi di sé nelle cose in cui non si sa ancora pensare?» «E come potrebbe essere?», chiese. «E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora pensare». «Dici il vero». «Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se sei ancora privo di pensiero». «Per Zeus, Socrate, non mi sembra», disse. Io, dopo averlo ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco mancò che non commettessi un grande errore, poiché mi venne da dire: «Così , Ippotale, bisogna parlare all'amato, umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu, insuperbendolo e blandendolo». Però, vedendolo in ansia e turbato da ciò che si diceva, mi ricotdai che voleva assistere senza che Liside se ne accorgesse, quindi mi ripresi e mi trattenni dal rivolgergli la parola. A questo punto ritornò Menesseno e si sedette accanto a Liside, nel posto da cui si era alzato. Liside allora, in modo molto fanciullesco e amichevole, di nascosto a Menesseno mi disse a voce bassa: «Socrate, di' anche a Menesseno ciò che dicevi a me poco fa». E io risposi: «Glielo dirai tu, Liside, giacché hai prestato molta attenzione». «Certo», disse. «Dunque prova a ricordartelo nel modo migliore possibile, per riferirgli tutto per filo e per segno. Ma se qualcosa ti sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi incontri» continuai io. «Lo farò, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma digli qualcos'altro, perché io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di tornare a casa», disse. «Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di venirmi in aiuto, se Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che è un eristico?», (12) chiesi io. «Sì , per Zeus, e anche abile: per questo voglio che tu discuta con lui», rispose. «Per rendermi ridicolo?», domandai. «No, per Zeus, ma per dargli una lezione», rispose. «E come? Non è facile, poiché è un uomo abile, allievo di Ctesippo. Ma c'è anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo», notai. «Non preoccuparti di nessuno, Socrate, ma su, discuti con lui», disse. «Bisogna discutere», così dissi. Dunque, mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese: «Perché conversate soltanto voi due e non ci coinvolgete nella discussione?» «Ma certo, partecipate pure. Costui infatti non comprende nulla di ciò che dico, ma afferma che Menesseno crede di saperlo e mi ordina di interrogare lui», dissi io. «E allora perché non lo interroghi?», chiese Ctesippo. Io risposi: «Lo interrogherò. Menesseno, rispondi a ciò che ti chiedo. Fin da ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera un'altra; uno desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo (13) più belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane - e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l'oro di Dario, (14) anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia. Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici perché, pur essendo così giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con facilità questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te. E dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama di colui che è amato o chi è amato di colui che ama? O non c'è alcuna differenza?» «A me pare che non ci sia nessuna differenza», rispose. «Come dici? Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno dell'altro?», chiesi io. «Io la penso così », rispose. «E allora? Non è possibile che chi ama non venga ricambiato da colui che egli ama?» «è possibile». «E allora? è dunque possibile che chi ama sia odiato? Talvolta, ad esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro amati: infatti, pur amando quanto di più non potrebbero, alcuni credono di non essere ricambiati, altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia vero?» «è del tutto vero», rispose. «Dunque in questo caso uno ama e l'altro è amato?», chiesi. «Sì ». «Chi dei due quindi è amico dell'altro? Chi ama di colui che è amato, sia nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi è amato di colui che ama? O in tal caso nessuno dei due è amico dell'altro, dato che entrambi non si amano a vicenda?» «Sembra proprio così ». «Dunque ciò che pensiamo ora è diverso da quanto pensavamo in precedenza: allora pensavamo che se uno dei due prova amore, entrambi sono amici, ora invece pensiamo che nessuno dei due sia amico dell'altro, se non sono entrambi a provare amore». «è probabile», disse. «Dunque per chi ama non c'è amicizia se non è ricambiato». «No, pare». «Quindi non sono amanti dei cavalli quelli che non sono amati dai cavalli, né amici delle quaglie, dei cani o del vino o 5  Platone Liside  della ginnastica o della sapienza, se la sapienza non li ama. O ciascuno ama comunque queste cose che non gli sono amiche e allora il poeta che disse: "Fortunato chi ha per amici dei fanciulli e cavalli solidunguli e cani da caccia e un ospite di terra lontana" (15) mentiva?» «Non mi sembra», rispose. «Ti sembra che il poeta dica il vero?» «Sì ». «Allora, a quanto pare, ciò che è amato è amico di ciò che lo ama, Menesseno, sia nel caso in cui ami sia in quello in cui odi; per esempio, anche tra i bambini piccoli, alcuni non amano ancora, altri già odiano, quando vengono puniti dalla madre o dal padre; tuttavia, anche nel caso in cui provino odio, sono quanto di più caro i loro genitori hanno». «A me pare che sta così », disse. «Dunque ne consegue da questo ragionamento che amico non è chi ama ma chi è amato». «Sembra». «è dunque nemico chi è odiato e non chi odia». «Così pare». «Quindi molti sono amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici degli amici, se amico è ciò che è amato e non ciò che ama. Eppure, caro amico, è del tutto privo di logica, anzi credo che sia impossibile essere nemico dell'amico e amico del nemico». «Mi sembra che tu dica la verità, Socrate», disse. «Dunque se questo è impossibile, ciò che ama sarebbe amico di ciò che è amato». «Così sembra», disse. «E quindi ciò che odia sarebbe nemico di ciò che è odiato». «Di necessità». «Pertanto risulterà necessario arrivare alle stesse conclusioni di prima, cioè che spesso si è amici di coloro che non lo sono e spesso addirittura di coloro che sono nemici, quando si ama senza essere ricambiati o quando si ama chi invece nutre odio, e che spesso si è nemici di coloro che non lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a sua volta non odia o addirittura nutre amore». «è probabile», disse. «Dunque come ci comporteremo se amici non saranno né quelli che amano né quelli che sono amati né quelli che nel contempo amano e sono amati? Diremo che oltre a questi casi vi sono ancora persone amiche tra loro?», domandai. «No, per Zeus, Socrate, non è affatto facile risolvere bene la questione», disse. «Forse allora non abbiamo condotto la ricerca in modo del tutto corretto?», chiesi. «Non mi pare, Socrate», disse Liside, e mentre parlava arrossì , infatti mi sembrò che quelle parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse. Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: «Liside, mi sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo più per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza, dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri. Dicono all'incirca così , credo: "il dio conduce sempre il simile verso il simile" (16) e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi?» «Sì », rispose. «E non hai letto gli scritti dei più sapienti che dicono le stesse cose, cioè che è giocoforza che il simile sia sempre amico del simile? Costoro sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto». «Dici il vero». «Dunque dicono bene?», chiesi. «Probabilmente», rispose. Continuai: «Probabilmente a metà o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra che il malvagio, quanto più si avvicina e frequenta il malvagio, tanto più ne diventi nemico, poiché commette ingiustizia, ed è impossibile che chi commette ingiustizia e chi la subisce siano amici. Non è così ?» «Sì », rispose. «In questo modo, dunque, la metà di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono simili tra loro». «Dici il vero». «Ma credo che essi vogliano dire che i buoni sono simili tra loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di loro, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili, e ciò che è dissimile e diverso da se stesso, difficilmente potrebbe essere simile o amico di altro. O non ti sembra così ?» «Sì », disse. «Quindi, mi pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il simile è amico del simile, cioè che solo il buono è amico unicamente del buono, mentre il cattivo non è mai veramente amico né del buono né del cattivo. Sei d'accordo?». Annuì . «Dunque ormai sappiamo chi sono gli amici: il ragionamento ci indica che sono i buoni». «Mi sembra che sia proprio così », disse. Continuai: «Anche a me. Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per Zeus, vediamo in cosa consiste il mio sospetto. Il simile, in quanto simile, è amico del simile, e come tale è utile all'altro che è tale? O meglio: una qualunque cosa simile quale utilità o quale danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che anche questa non possa comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non possa subire anche per opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi reciprocamente, se non ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra? è possibile?» «Non lo è». «E ciò che non è amato, come può essere amico?» «In nessun modo». «Allora il simile non è amico del simile e il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe amico del buono?» «Forse». 6  Platone Liside  «E allora? Il buono in quanto buono non sarebbe sufficiente in quanto tale a se stesso?» «Sì ». «E chi è autosufficiente, nella misura della propria autosufficienza, non ha bisogno di nulla». «E come no?» «E chi non ha bisogno di nulla, a nulla aspira». «Certo che no». «E colui che non desidera nulla, neppure ama». «No». «E chi non ama non è un amico». «Pare di no». «Dunque i buoni come saranno fin da principio amici dei buoni, se quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti anche quando sono separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non hanno un'utilità reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente?» «Nessuno», rispose. «E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a vicenda». «Dici il vero». «Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque ci siamo completamente ingannati?» «Come?», chiese. «Ho già sentito dire una volta da uno, e adesso me ne ricordo, che il simile è assai ostile al simile e i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo, dicendo: "il vasaio odia il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante odia il mendicante".(17) E quanto al resto diceva che giocoforza le cose più simili sono piene di invidia, rivalità e ostilità reciproca, mentre quelle più dissimili sono le più propense all'amicizia: infatti il povero è costretto a essere amico del ricco, il debole del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora più convincente, dicendo che il simile è assai lontano dall'essere amico del simile, anzi sarebbe proprio il contrario, dal momento che l'opposto è amico soprattutto del suo opposto, poiché ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto e così via, secondo il medesimo rapporto. Il contrario infatti è nutrimento per il contrario, mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio, dicendo questo sembrava un tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come sembra che parli?», chiesi. «Bene, almeno a sentirlo così », rispose Menesseno. «Dunque dobbiamo dire che il contrario è soprattutto amico di ciò che a lui contrario?» «Certo». «Bene: ma non è strano, Menesseno? E soddisfatti ci assaliranno subito questi pozzi di sapienza, gli antilogici, (18) e ci domanderanno se l'odio non sia quanto di più contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo loro? Non dobbiamo per forza ammettere che dicono la verità?», chiesi. «Per forza». «E dunque, diranno, ciò che è nemico è amico di ciò che è amico o amico di ciò che è nemico?» «Né l'una né l'altra cosa» rispose. «Ciò che è giusto di ciò che è ingiusto, ciò che è saggio di ciò che è intemperante, ciò che è buono di ciò che è cattivo?» «Non credo che le cose stiano così ». Io dissi: «E tuttavia se una cosa è amica di un'altra in base alla contrarietà, è necessario che anche queste cose siano amiche». «Di necessità». «Dunque né il simile è amico del simile né il contrario è amico del contrario». «Pare di no». «Esaminiamo ancora questo punto: a noi non sfugge più il fatto che l'amicizia non è veramente nulla di tutto questo, ma è ciò che non è né buono né cattivo che diventa così amico del buono». «Come dici?», chiese. «Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le vertigini per la difficoltà del ragionamento e forse, secondo l'antico proverbio, ciò che è amico è il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via facilmente, poiché è tale. Dico infatti che il buono è bello. Non credi?» «Sì ». «Dico dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono è ciò che non è né buono nè cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che ci siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo. E a te?» «Anche a me», disse. «E che né il buono sia amico del buono né il cattivo del cattivo nè il buono del cattivo, come neppure il ragionamento precedente consente. Resta allora che, se una cosa è amica di un'altra, ciò che non è né buono né cattivo sta amico o del buono o di ciò che è tale quale esso è, cioè né buono né cattivo, perché una cosa non potrebbe essere amica del cattivo». «Dici il vero». «Né il simile del simile, dicevamo poco fa: non è così ?» «Sì ». «Dunque ciò che è tale e quale ad esso non sarà amico né del buono né del cattivo». «Pare di no». «Quindi ne risulta che solo al buono è amico unicamente ciò che non è né buono né cattivo». «Pare debba essere così ». «Ragazzi», dissi, «ci guida bene ciò che si è detto ora? Se vogliamo considerare il corpo sano, esso non ha affatto bisogno della medicina né di un aiuto, infatti è autosufficiente, sicché nessuno, quando sta bene, è amico del medico, considerata la sua buona salute. O non è così ?» «Sì , nessuno». «Invece il malato, credo, lo è a causa della malattia». 7  Platone Liside  «E come no?» «Dunque la malattia è un male, mentre la medicina è cosa utile e buona». «Sì ». «E il corpo in quanto corpo non è né buono né cattivo». «è così ». «Il corpo è costretto dalla malattia ad accettare e amare la medicina». «Così la penso». «Quindi ciò che non è né cattivo né buono diviene amico del buono per la presenza di un male?» «A quanto pare». «Ma è chiaro che ciò avviene prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perché una volta diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne amico, dato che dicevamo che è impossibile che il cattivo sia amico del buono». «Infatti è impossibile». «Esaminate ciò che dico: dico infatti che alcune cose sono determinate da ciò che è presente in esse e altre no: per esempio, se qualcuno volesse spalmare di colore una cosa qualsiasi, ciò che è spalmato è presente su ciò su cui è spalmato». «Certo». «E allora ciò su cui è spalmato è tale nel colore quale ciò che vi si trova sopra?» «Non capisco», disse. «Pensala così », dissi: «se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che sono biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi?» «Lo sembrerebbero», rispose. «Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza». «Sì ». «E tuttavia non sarebbero più bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la bianchezza, non sarebbero né bianchi nè neri». «è vero». «Ma quando, amico mio, la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora diventerebbero come ciò che è presente in essi, cioè bianchi per la presenza del bianco». «E come potrebbe non essere così ?» «Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne è presente un'altra, quella che la possiede sarà come quella che vi è presente o lo sarà se quella è presente in un certo modo, altrimenti no?» «è così , piuttosto», rispose. «E dunque ciò che non è né cattivo né buono, quando è presente un male, talvolta non è ancora cattivo, ma lo è quando ormai è diventato tale». «Certo». «Dunque, quando pur essendo presente un male, esso non è ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene, quando invece lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell'amore per il bene. Infatti non è più né cattivo né buono, ma cattivo, e il cattivo non è amico del buono, dicevamo». «No, infatti». «Per questo potremmo dire che anche quelli che sono già sapienti non amano più la sapienza, siano essi dèi o uomini. Né d'altra parte amano la sapienza coloro che hanno un'ignoranza tale che li rende cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e ignorante ama la sapienza. Restano quelli che hanno questo male, l'ignoranza, ma non sono ancora diventati privi di senno e ignoranti per opera sua e ammettono ancora di non sapere ciò che non sanno. Perciò sono amanti della sapienza quelli che non sono ancora né buoni né cattivi, in quanto i cattivi non amano la sapienza né lo fanno i buoni, infatti nei ragionamenti precedenti ci è apparso che né il contrario è amico del contrario, né il simile del simile. O non ricordate?» «Certo», risposero. «Ora dunque, Liside e Menesseno», dissi, «abbiamo trovato fra tutte le cose ciò che è amico e ciò che non lo è. Infatti diciamo che sia che si tratti dell'anima, sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ciò che non è né buono né cattivo è amico del bene per la presenza del male». Entrambi furono assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse così . Anch'io ero molto contento, come un cacciatore che è felice di ciò che ha cacciato, ma poi, non so come, mi venne lo stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre conclusioni e subito dissi crucciato: «Ahimè, Liside e Menesseno, forse è un sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza». «Perché?», chiese Menesseno. «Temo», dissi io, «che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani». «Come?», chiese. «Procediamo così nel ragionamento», dissi io: «chi è amico è amico di qualcuno o no?» «Per forza», rispose. «Dunque lo è senza nessuno scopo e senza nessuna causa o per qualche scopo e per qualche causa?» «Per qualche scopo e a causa di qualcosa». «E quella cosa in vista della quale l'amico è amico dell'amico, è amica anch'essa o non è né amica né nemica?» «Non ti seguo del tutto», rispose. «è naturale», dissi, «ma forse così mi seguirai e, credo, anche io saprò meglio ciò che dico. Il malato, dicevamo poco fa, è amico del medico; non è così ?» «Sì ». «E dunque è amico del medico a causa della malattia e in vista della salute da riacquistare?» «Sì ». «E la malattia è un male?» «E come potrebbe non esserlo?» «E la salute», chiedevo, «è un bene o un male o non è nessuna delle due cose?» «è un bene», rispose. 8  Platone Liside  «Dicevamo dunque che, a quanto sembra, il corpo che non è né buono né cattivo, a causa della malattia, cioè a causa del male, è amico della medicina, e la medicina è un bene; e la medicina ottiene l'amicizia in vista della salute, e la salute è un bene. Non è così ?» «Sì ». «E la salute è una cosa amica o no?» «è una cosa amica». «E la malattia è una cosa nemica». «Certo». «Dunque ciò che non è né cattivo né buono, a causa di ciò che è cattivo e nemico, è amico del bene in vista di ciò che è buono e amico». «Sembra». «Dunque ciò che è amico è amico in vista di ciò che è amico e a causa di ciò che è nemico». «Così pare». «Bene», dissi: «dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo attenzione a non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ciò che è amico sia diventato amico di ciò che è amico e che il simile sia amico del simile - cosa, questa, che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a questo, che non ci inganni ciò che ora è stato detto. La medicina, diciamo, è una cosa amica in vista della salute». «Sì ». «Dunque anche la salute è cosa amica?» «Certo». «Se dunque è amica, lo è in vista di qualcosa». «Sì ». «Di una cosa amica, se sarà la conseguenza dell'ammissione precedente». «Certo». «Dunque anche ciò sarà cosa a sua volta amica in vista di una cosa amica?» «Sì ». «Quindi non è necessario che rinunciamo a procedere così o arriviamo a un principio che non si riferirà più a un'altra cosa amica, ma giungerà a quella che è la prima cosa amica in vista della quale diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche?» «è necessario». «Questo è ciò che voglio dire: badiamo al fatto che non ci ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di quella prima cosa che è veramente amica. Infatti riflettiamo in questo modo: quando qualcuno tiene qualcosa in grande considerazione, ad esempio in taluni casi un padre che antepone suo figlio a tutti gli altri beni, egli che è tale da considerare suo figlio più importante di tutto, non apprezzerà forse molto anche qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo ritenesse utile per salvare il figlio?» «Sì , certo. E allora?», domandò. «Dunque apprezzerebbe anche il recipiente in cui ci fosse quel vino?» «Certo». «E allora non tiene forse in maggior considerazione una tazza d'argilla rispetto a suo figlio o tre cotile (19) di vino più di suo figlio? O le cose forse stanno così : tutta la sua attenzione non è rivolta a questi oggetti predisposti in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono tutti predisposti. Nonché spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar gento, ma forse la verità non è per niente questa, e ciò che teniamo in grande considerazione è quello che appare come ciò in vista del quale si predispongono l'oro e ogni altro oggetto. Diremo dunque così ?» «Certo». «E dunque lo stesso ragionamento non vale anche per ciò che è amico? Infatti quando definiamo cose amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra cosa amica, ci riferiamo a esse evidentemente con una parola sola; ma è probabile che veramente amica sia proprio quella mèta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie». «Probabilmente è così », disse. «Dunque ciò che è realmente amico non lo è in vista di un'altra cosa?» «è vero». «Ci siamo sbarazzati anche di questo problema: l'amico è amico ma non in vista di una cosa amica. Ma dunque il bene è ciò che è amico?» «A me pare di sì ». «Quindi allora il bene è amato a causa del male, e le cose stanno così : se delle tre categorie che enumeravamo poco fa, cioè il buono, il cattivo e ciò che non è né buono né cattivo ne fossero conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non si attaccasse a nulla, né al corpo, né all'anima né alle altre cose che diciamo non essere in sé né cattive né buone, allora il bene non ci sarebbe per niente utile ma sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse più danneggiare, non avremmo bisogno di alcun aiuto e così diventerebbe chiaro che accoglievamo e amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male e il male una malattia: ma se non c'è la malattia, non c'è nemmeno bisogno di una medicina. Dunque il bene è così per sua natura e a causa del male esso è amato da noi, che siamo a metà tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha alcuna utilità?» «Sembra che sia così », rispose. «Dunque quella mèta per noi amica, alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle erano amiche in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti queste sono chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia sembra essere per natura tutto il contrario di questo, poiché ci è parso che ciò che è amico lo sia a causa di ciò che è nemico, ma se ciò che è nemico si allontana, non ci è più amico, a quanto pare». «Mi pare di no, in base a quello che ora si è detto», rispose. «Per Zeus!», dissi io. «Se il male sparisce, non ci sarà né fame né sete né altri mali simili? O la fame ci sarà, se ci sono gli uomini e gli altri esseri viventi, ma non sarà dannosa? E la sete e gli altri desideri ci saranno, ma non saranno cattivi, 9  Platone Liside  poiché il male è scomparso? O è ridicolo chiedersi cosa ci sarà o non ci sarà allora? Infatti chi può saperlo? Ma questo dunque sappiamo, che avere fame può essere ora dannoso, ora utile, o no?» «Certo». «Dunque avere sete e tutti gli altri desideri di questo genere talvolta possono essere utili, talvolta dannosi e talvolta né l'uno né l'altro?» «Certo». «Pertanto se i mali spariscono, perché devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali?» «Per nessun motivo». «Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non sono né buoni nè cattivi». «Sembra». «E dunque possibile che chi desidera e ama non sia amico di chi desidera e ama?» «Non mi sembra». «Dunque, a quanto pare, ci saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono». «Sì ». «E se il male fosse causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere amica di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che esistesse ancora ciò di cui questa era la causa». «Dici bene». «Dunque noi avevamo convenuto che ciò che è amico ama qualcosa e a causa di qualcosa: e allora non avevamo creduto che ciò che non è né buono né cattivo amasse il bene a causa del male?» «è vero». «Ora, invece, a quanto pare, sembra essere altra la causa dell'amare e dell'essere amato». «A quanto pare». «Dunque realmente, come dicevamo poco fa, il desiderio è causa dell'amicizia, e ciò che desidera è amico di ciò che è desiderato, quando lo desidera, mentre ciò che prima dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo elaborato poema?» «Forse», disse. «Tuttavia», dissi, «ciò che desidera desidera ciò di cui è privo, o non è così ?» «Sì ». «E quindi ciò che è mancante è amico dì ciò che manca?» «Così credo». «Ed è privo di ciò che gli è stato eventualmente sottratto». «E come no?» «Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia e il desiderio lo sono di ciò che è proprio, come sembra, Menesseno e Liside». Assentirono. «Se voi dunque siete amici uno dell'altro, per natura siete in un certo qual modo affini l'uno all'altro». «Esattamente», dissero. «E se pertanto uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo né amarlo né essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto», dissi io. «Certo», disse Menesseno, mentre Liside taceva. «Bene!», dissi: «a noi è parso che sia necessario amare ciò che è affine per natura». «A quanto pare», disse. «Dunque è necessario per l'amante reale e non fittizio essere ricambiato dal suo amato». Liside e Menesseno assentirono anche se a stento, mentre Ippotale diventava dì tutti i colori per il piacere. E io, volendo esaminare il ragionamento, dissi: «Se ciò che è affine è differente in qualcosa da ciò che è simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire dell'amicizia ciò che essa è; se invece simile e affine sono identici, non sarà facile respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile è inutile al simile in virtù della somiglianza: ma è assurdo ammettere che l'inutile sia amico. Dunque», dissi, «dato che siamo come ubriachi per il ragionamento, volete che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine è diverso dal simile?» «Certo». «Quindi stabiliremo che il bene è affine a ogni cosa e il male è estraneo a tutto? O che il male è affine al male, il bene al bene e ciò che non è né bene né male a ciò che non è né bene né male?». Risposero che secondo loro ogni cosa è affine a ciò che le è corrispondente. «Dunque, ragazzi», dissi, «siamo caduti dì nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo respinto: infatti l'ingiusto sarà amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo non meno che il buono del buono». «Pare di sì », rispose. «E allora? Diciamo che il buono e l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il buono è amico del buono?» «Certo». «Ma anche su questo punto credevamo di poter essere confutati; o non ricordate?» «Ricordiamo». «Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O è evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ciò che si è detto. Se infatti né gli amati né gli amanti, né i simili né i dissimili, né i buoni, né gli affini, né tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ciò è amico, non so più cosa dire». Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei più anziani, ma allora, come démoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poiché era già tardi. Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poiché non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: «Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di 10  Platone Liside  essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos'è l'amico». 11  Platone Liside  NOTE: 1) Giardino a nord di Atene, dove Platone avrebbe poi fondato la sua scuola. 2) Ginnasio presso il tempio di Apollo, a nord-est di Atene. 3) Sembra assai improbabile che sia il discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Libro 3,45. 4) Ctesippo, che non è l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo di Socrate presente alla morte del maestro, è uno degli interlocutori dell'Eutidemo. 5) Di costui nulla si sa. 6) Le Pitiche erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni quattro anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. 7) Ermes era il dio patrono dei ginnasi e delle palestre. 8) è il protagonista dell'omonimo dialogo platonico. 9) Gli astragali sono una sorta di dadi. 10) Il pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli del padrone. 11) Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca. 12) L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva raggiungere risultati contraddittori tra loro. 13) Entrambi uccelli addestrati per il combattimento. 14) Dario, il ricchissimo re dei Persiani, aveva regnato dal 521 al 485 a.C: aveva tentato l'invasione della Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona nel 490. 15) Si tratta di un frammento di Solone (17 Gentili-Prato). 16) Omero, Odyssea libro 17,218. 17) Esiodo, Opera et dies 25-26. 18. Gli antilogici erano coloro che teorizzavano e praticavano la possibilità di contraddire ogni argomentazione e ogni ragionamento. 19) La cotila è un'unità di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro.Marsilio Ficino. Ficino. Keywords: desire, love, beauty, il bello, amore, cupido, desiderio, platonismo, walter pater – Plathegel e Ariskant, sensibile, percezione, “I platonisti” fisiologia dell’amore, convito di Platone, amore platonico, amore socratico, dottrina dell’amore, I dialoghi dell’amore di Platone: Fedro, Convito -- --. Refs.: Ficino’s “Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi Speranza, "Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51692400360/in/photolist-2mRRHVK-2mRkgtK-2mQifgs-2mPF8UJ-2mN8Hgb-2mLLZRD-2mKCQBD-2mKT4G5-2mKFnvf-2mKBsEN-2mKHqkS-2mKth3c-2mKjsJY-2mKiPND-2mGnP2f-BvUfSB-nuoDVU-nsj5ZA-ncSabS-nnvnLQ-nr43e9

 

Grice e Fidanza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoregio). Filosofo. Grice: “Italians call Fidanza an ‘anti-dialectician’ but then they have Aquinas, who is an hypoer-dialectiician!” essential Italian philosopher. Figlio di Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita.  Inizia i suoi studi al convento di San Francesco "vecchio". Si recò a Parigi a studiare nella facoltà delle Arti. Ddvenne maestro e ottiene la licenza d'insegnare. Francesco predica agli uccelli.   Intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo. Attacca quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo. Morì a causa di un avvelenamento. è considerato uno dei filosofi maggiori, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria scuola di filosofia. Combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali. Inoltre valorizza alcune tesi del platonismo. La distinzione della filosofia in ‘filosofia naturale’ (res) (fisica, matematica, meccanica), filosofia razionale (signa, segni) (logica, retorica, grammatica) e filosofia morale (azione) (politica, monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa ed actiones -- la cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La parzialità delle arti è non altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illumina il mondo. Nel paradiso, Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità.  Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti smarrirebbe se stessa nell'auto-referenzialità. L’intelletto agente è capace di comprendere la verità inviata dall'intelletto passivo. Nel “Itinerario della mente" spiega che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana, e può farlo riportando l'uomo all'anima. La "scala" dei 3 gradi e un “primo grado” esteriore, è necessario prima considerare il corpo. L’anima ha anche tre diverse direzioni. La prima direzione si riferisce al corpo, e la sensibilità o animalita. La seconda direzione dell’anima ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé. La terza direzione ha per oggetto la “mente” -- che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché ami Dio con tutto il corpo, l’anima, e la mente. La sinderesi è la disposizione pratica al bene. Cf. Moore – ‘external world’ – mondo del corpore. Tre modi. Il primo modo e il vestigium (vestigio) o improntum. Il secondo modo e l’immagine, che si trova solo nell’uomo, l’unica creatura dotata d'intelletto, in cui risplendono la memoria, l’intelligenza e la volontà. Il terzo modo e la “similitudine”, che è qualità propria di una buona persona, una creature giusta, animata di benevolenza e carità. La natura e un segno sensibile. «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre.»»  (Lc, 19,38-40). The stones will shout. The shout of the stone MEANS that thou shalt be benevolent. Una creatura, dunque,  e una impronta o vestigio, una immagine, una similitudine (Per Lombardo, ‘imago e similitude’ is redundant). La pietra "grida" – la pietra e una impronta – la pietra significa – la pietra segna che p.  Altre opere: “Breviloquio; Raccolte su dieci precetti; Raccolte sui sette doni dello Spirito Santo; Raccolte nei Sei Giorni della Creazione, Commentari in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo, Il mistero della Trinità; questione disputata, La perfezione della vita alle sorelle, La riduzione della arti alla teologia), Il Regno di Dio descritto nelle parabole evangeliche, La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità, Le sei ali dei Serafini, La triplice via, Itinerario della mente verso Dio, La leggenda maggiore di San Francesco, La leggenda minore di San Francesco, L'Albero della vita, L'Ufficio della passione del Signore, Questioni sopra la perfezione evangelica, Soliloquio, Complesso di teologia, La vite mistica. Eletto Ramacci, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, Oggi del convento restano solo i ruderi.  Grado Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei Minori, in Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone” (Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione di Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo,Tip.Camera dei Deputati, Roma, Pinzi parla dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del Conclave e dell'amicizia con Gregorio X.  Testi: Bonaventura da Bagnorea presunto, Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, Legenda maior, Milano, Ulrich Scinzenzeler, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Commentaria in libros sententiarum,  Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, 1668. Studi Bettoni E., S. Vita e Pensiero, Milano, Bougerol J.G., Introduzione a S. Bonaventura, trad. it. di A. Calufetti, L.I.E.F., Vicenza, Corvino F., Bonaventura da Bagnoregio francescano e filosofia, Città Nuova, Roma, Cuttini E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della “mens” in Fidanza. Rubbettino, Soveria Mannelli, Di Maio A., Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di Bonaventura da Bagnoregio, Aracne, Roma, Barbara Faes, da Bagnoregio, Biblioteca Francescana, Milano, Mathieu V., La Trinità creatrice secondo san Bonaventura, Biblioteca francescana, Milano 1994. Moretti Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma, Ramacci Eletto, S. Bonaventura e il Santo Braccio, Associazione Organum, Bagnoregio, Todisco O., Le creature e le parole in sant'Agostino e san Bonaventura, Anicia, Roma, Vanni Rovighi S., Vita e Pensiero, Milano); Raoul Manselli,  Dizionario biografico degli italiani,  11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Emiliano Ramacci, Un Inno, Associazione Organum, Bagnoregio, Emiliano Ramacci. TreccaniEnciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Bonaventura da Bagnoregio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Bonaventura da Bagnoregio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  (DE) Bonaventura da Bagnoregio, su ALCUIN, Ratisbona. Opere. Audiolibri di Bonaventura da Bagnoregio, su LibriVox. Bonaventura da Bagnoregio, su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Biografia di San Francesco d'Assisi, su assisiofm. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio Itinerario della mente in Dio, su lamelagrana.net.  Itinerarium mentis in Deum, Peltiero Edente, su documentacatholicaomnia.eu.  San Bonaventura online, su dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di QuaracchiSalvador Miranda.  Wikipedia Ricerca Trinità (cristianesimo) dottrina centrale delle più diffuse Chiese cristiane Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Santissima Trinità" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Santissima Trinità (disambigua). Santissima Trinità Masaccio 003.jpg La Trinità di Masaccio   Dio, uno e trino    AttributiDio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo La Trinità è la dottrina fondamentale e più importante[Nota 1] delle chiese cristiane, quali la cattolica[Nota 2] e quelle ortodosse, oltre che delle Chiese riformate storiche come quella luterana, quella calvinista e quella anglicana. Tale dottrina non viene comunque presentata in modo univoco.[1]   Icona rappresentante i tre angeli ospitati da Abramo a Mambre, allegoria della Trinità. Dipinta dal monaco-pittore russo Andrej Rublëv (1360-1427) e conservata a Mosca, Galleria Tret'jakov.  Schema della relazione trinitaria fra Padre, Figlio e Spirito Santo secondo le chiese cristiane di origine latina come la Chiesa cattolica. DescrizioneModifica La dottrina si è precisata nell'ambito del Cristianesimo antico: prima nel credo del primo concilio di Nicea(325), poi nel Simbolo niceno-costantinopolitano(381), dove venne affermato come primo articolo di fede l'unicità di Dio e, come secondo, la divinità di Gesù Cristo figlio di Dio e Signore,[Nota 3] a seguito, tra le altre, della controversia suscitata dal teologo Ario, che negava quest'ultima.  Il dogma della "trinità" è in relazione alla natura divina: esso afferma che Dio è uno solo, unica e assolutamente semplice è la sua "sostanza", ma comune a tre "persone" (o "ipòstasi") della stessa numerica sostanza (consustanziali) e distinte. Ciò è stato anche interpretato come se esistessero tre divinità (politeismo) o come se le tre "persone" fossero solo tre aspetti di una medesima divinità (per il modalismo semplici energie o modi di apparire della Divinità). Le tre "persone" (o, secondo il linguaggiomutuato dalla tradizione greca, "ipòstasi") vengono d'altra parte tradizionalmente intese come distinte ma della stessa sostanza di Dio:  Dio Padre, creatore del cielo e della terra, Padre trascendente e celeste del mondo. il Figlio: generato dal Padre prima di tutti i secoli, fatto uomo come Gesù Cristo nel seno della Vergine Maria, il Redentore del mondo. lo Spirito Santo che il Padre e il Figlio mandano ai discepoli di Gesù per far loro comprendere e testimoniare le verità rivelate. Nella dottrina trinitaria il Dio di Israele Yahwehracchiude tutta la Trinità ed è quindi Padre Figlio e Spirito Santo.   Al mistero della SS. Trinità[Nota 4] è dedicata, nella Chiesa cattolica, la Solennità della Santissima Trinità, che ricorre ogni anno, la domenica successiva alla Pentecoste.  La dottrina trinitaria è stata accolta dalla maggior parte dei Protestanti, particolarmente dal protestantesimo storico (di cui fanno parte fra gli altri il luteranesimo e il calvinismo).  Origine del termine e della nozioneModifica Il termine "trinità" deriva dal latino trīnĭtas-ātis (a sua volta da trīnus = di tre, aggettivo distributivo di trēs, tre) e fu utilizzato per la prima volta da Tertulliano nel II secolo, ad esempio nel suo De pudicitia (XXI). Occorre ricordare che prima di lui già Teofilo di Antiochia (II secolo), apologeta cristiano di lingua greca, utilizzò nel suo Apologia ad Autolycum (II,15) il termine analogo greco di τριας (triás).  Se il termine "trinità" non è certamente antecedente al II secolo, la nozione che rappresenta sembrerebbe invece apparire già a partire dal Vangelo di Matteo (I sec.):  (GRC)  «πορευθέντες οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος[Nota 5]»  (IT)  «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»  (Vangelo di Matteo XXVIII, 19) A tal proposito lo studioso e teologo cattolico francese Joseph Doré[2] nota come l'espressione al singolare eis to onoma (εἰς τὸ ὄνομα) ovvero "nel nome" unitamente alle due ricorrenze della congiunzione kai(καὶ), "e", quindi nel significato di "del Padre 'e' del Figlio 'e' dello Spirito Santo" evidenzierebbe la presenza di un credo già trinitario.  Allo stesso modo e in tale senso possono essere letti alcuni altri passi dei Vangeli canonici, ad esempio:  (GRC)  «βαπτισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς εὐθὺς ἀνέβη ἀπὸ τοῦ ὕδατος καὶ ἰδοὺ ἠνεῴχθησαν οὶ οὐρανοί, καὶ εἶδεν πνεῦμα θεοῦ καταβαῖνον ὡσεὶ περιστερὰν ἐρχόμενον ἐπ' αὐτόν[Nota 6]»  (IT)  «Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.»  (Vangelo di Matteo III, 16) (GRC)  «καὶ ἀποκριθεὶς ὁ ἄγγελος εἶπεν αὐτῇ, πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σέ, καὶ δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει σοι· διὸ καὶ τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ[Nota 7]»  (IT)  «Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio»  (Vangelo di Luca I, 35) e in particolar modo in alcuni passi del "discorso dopo la cena" riportato nel Vangelo di Giovanni:  (GRC)  «πιστεύετέ μοι ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρὶ καὶ ὁ πατὴρ ἐν ἐμοί· εἰ δὲ μή διὰ τὰ ἔργα αὐτὰ πιστεύετε μοι[Nota 8]»  (IT)  «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 11) (GRC)  «καγὼ ἐρωτήσω τὸν πατέρα καὶ ἄλλον παράκλητον δώσει ὑμῖν, ἵνα ᾖ μεθ' ὑμῶν εἰς τὸν αἰῶνα τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας, ὃ ὁ κόσμος οὐ δύναται λαβεῖν, ὅτι οὐ θεωρεῖ αὐτὸ οὐδὲ γινώσκει· ὑμεῖς γινώσκετε αὐτό, ὅτι παρ' ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔστιν[Nota 9]»  (IT)  «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 16-7) (GRC)  «ὁ δὲ παράκλητος τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον, ὃ πέμψει ὁ πατὴρ ἐν τῷ ὀνόματι μου ἐκεῖνος ὑμᾶς διδάξει πάντα καὶ ὑπομνήσει ὑμᾶς πάντα ἃ εἶπον ὑμῖν ἐγώ.[Nota 10]»  (IT)  «Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.»  (Vangelo di Giovanni XIV, 26) (GRC)  «εἰ οὐ ποιῶ τὰ ἔργα τοῦ πατρός μου, μὴ πιστεύετέ μοι· εἰ δὲ ποιῶ, κἂν ἐμοὶ μὴ πιστεύητε τοῖς ἔργοις πιστεύετε, ἵνα γνῶτε καὶ γινώσκητε ὅτι ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί .[Nota 11]»  (IT)  «Se non compio le opere del Padre mio non credetemi, ma se le compio anche se non volete credere a me credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.»  (Vangelo di Giovanni X, 37-38) Joseph Doré[2] nota anche qui che se il termine greco πνεῦμα (pneúma, "spirito", "soffio") è certamente neutro esso viene indicato con il pronome relativo al maschile come ad evidenziarne la personificazione.  Lo storico delle religioni italiano Pier Cesare Borispiega al riguardo:  «La teologia degli scritti di Giovanni è diversa negli strumenti concettuali: nel Prologo del Vangelo, per comprendere la natura e il ruolo della funzione messianica di Gesù, diventa fondamentale la categoria del Lógos, la parola creatrice che "è con Dio, ed è Dio" (stessa idea di preesistenza in Colossesi I,15 ed Ebrei I,6). Un ruolo importante in questi sviluppi dottrinali dovette avere, più che la filosofia ellenistica, la speculazione giudaica del tempo, che attribuiva un grande ruolo a potenze intermedie tra Dio e l'uomo, prime fra tutte il Lógos e la Sapienza divina, tendenzialmente ipostatizzate. Il risultato complessivo è l'affermazione della divinità di Gesù, e dello Spirito, uniti nell'invito finale di Matteo, 28,18, a battezzare "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Una formula trinitaria che presiede all'evoluzione che porterà alle formulazioni trinitarie e cristologiche dei concili del IV e V secolo. Al termine il monoteismo biblico riceve una enunciazione completamente nuova: la sostanza, o natura unica divina, contiene tre ipostasi o tre persone; la seconda ipostasi unisce in sé nell'incarnazione due nature, quella divina e quella umana.»  (Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993, pag.205) Allo stesso modo vi sono dei richiami alle tre figure divine nelle lettere attribuite agli apostoli:  (GRC)  «Ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ [Χριστοῦ] καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν[Nota 12]»  (IT)  «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi»  (Seconda lettera ai Corinzi XIII, 14) (GRC)  «κατὰ πρόγνωσιν θεοῦ πατρὸς ἐν ἁγιασμῷ πνεύματος εἰς ὑπακοὴν καὶ ῥαντισμὸν αἵματος Ἰησοῦ Χριστοῦ, χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη πληθυνθείη.[Nota 13]»  (IT)  «Secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza.»  (Prima lettera di Pietro I, 2) Uno studio approfondito sulla presenza della Trinità nel Nuovo Testamento giunge a questa conclusione:   É ora possibile rispondere alla domanda, "La dottrina delle Trinità è presente nella Bibbia?" La risposta è che non c'è un'affermazione formale della dottrina, ma una risposta al problema della Trinità. Almeno tre autori neotestamentari, Paolo, Giovanni e l'autore della Lettera agli Ebrei sono consapevoli dell'esistenza di un problema. Paolo e l'autore della Lettera agli Ebrei si concentrano sulla relazione tra Cristo e Dio, ma Giovanni era conscio del problema della mutua relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo.[3]  Nonostante questo anche la teologa cattolica statunitense Catherine Mowry Lacugna ricorda che sia gli esegeti sia i teologi concordano sul fatto che il Nuovo Testamento non contenga un'esplicita dottrina della Trinità[Nota 14]. Del tutto assente è invece, sempre per gli esegeti e per i teologi, qualsivoglia riferimento alla dottrina della Trinità nell'Antico testamento[Nota 15].  Nel II secolo, san Melitone di Sardi affermò che Dio Padre aveva un corpo umano e divino come quello del Figlio Dio, e un'anima distinta da quella del Figlio Dio, unita al proprio corpo. Di fatto, si affermava la consustanzialità del Padre e del Figlio nella duplice natura umana e divina del corpo e dell'anima. In tale dottrina, la distinzione fra anima e spirito descritta in 5.23[4] portava a identificare lo Spirito Santo Dio con l'unico spirito comune alle due anime e ai due corpi di Dio Padre e di Dio Figlio, in modo tale da unire due persone distinte in anima e corpo in un solo Dio tripersonale la cui sostanza è Spirito.   Lo studioso cattolico statunitense William J. Hill nota comunque come questo "trinitarismo elementare" sia presente anche nell'opera di Clemente di Roma (I secolo) il quale nella Prima lettera di Clemente (cfr. 58 e 46) si richiama espressamente a Dio Padre, al Figlio, allo Spirito, menzionando tutti e tre insieme. Allo stesso modo Ignazio di Antiochia (inizi II secolo) nella sua Lettera agli Efesini (cfr. 9) chiama il cristiano a "incorporarsi" nel tempio divino come per diventare uno con Cristo, nello Spirito fino alla filiazione del Padre. Ciononostante, anche per lo studioso statunitense, la soluzione trinitaria, per come successivamente verrà proposta, era ancora ben lontana[Nota 16].  Sviluppo della nozione nei teologi e nei confronti conciliari del IV e V secoloModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento Cristianesimo non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Come è possibile affermare che Dio è "uno e trino"? Secondo la fede cristiana la natura divina è al di là della conoscenza scientifica, ed è incomprensibile e non conoscibile se non fosse per quanto è dato sapere attraverso la rivelazione divina. Quindi la dottrina trinitaria non è una conoscenza, come quella dell'esistenza di Dio, a cui si potrebbe pervenire attraverso la ragione umana o la speculazione filosofica, sebbene anch'essa non sia dimostrabile. Tuttavia molti teologi e filosofi cristiani (cfr. Agostino d'Ippona) hanno scritto innumerevoli trattati per spiegare la paradossale identità unica e trina di Dio, che è un mistero della fede, un dogma (cioè una verità irrinunciabile anche se non compiutamente dimostrabile) in cui ogni cristiano-cattolico è tenuto a credere (dal Concilio di Nicea del 325 E.V. in poi) se vuol essere tale.  Unicità, Unità e Trinità di DioModifica  Completa rappresentazione Teo-cristologica Dio è uno solo, e la divinità unica. La Bibbia ebraicapone questo articolo di fede sopra tutti gli altri, e lo circonda di numerosi ammonimenti a non abbandonare questo fondamento della fede, mantenendo la fedeltà al patto che Dio ha fatto con gli ebrei: "Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è uno solo", "tu non avrai altri dei di fronte a me" e anche "Questo ha detto il Signore re d'Israele e suo redentore, il Signore delle schiere: io sono il primo e l'ultimo, e oltre a me non c'è alcun Dio". Ogni formula di fede che non insista sull'unicità di Dio, o che associ nell'adorazione un altro essere diverso da Dio, oppure che ritenga che Dio possa venire all'esistenza nel tempo anziché essere Dio dall'eternità, è contraria alla conoscenza di Dio, secondo la comprensione trinitaria dell'Antico Testamento. Lo stesso tipo di comprensione è presente nel Nuovo Testamento: Non c'è altro Dio se non uno. Gli "altri dei" di cui parla San Paolo non sono affatto dei, ma sostituti di Dio, cioè esseri mitologici o demoni.  Secondo la visione trinitaria, è scorretto dire che il Padre o il Figlio, in quanto alla divinità, siano due esseri. L'affermazione centrale e cruciale della fede cristiano-cattolica è che esiste un solo salvatore, Dio, e la salvezza è manifestata in Gesù Cristo, attraverso lo Spirito Santo. Lo stesso concetto può essere espresso in quest'altra forma:  Soltanto Dio può salvare Gesù Cristo salva Gesù Cristo è Dio In parole semplici è possibile esprimere il mistero della Trinità nell'Unità dicendo che il solo Dio si conosce (nel suo Figlio, Verbo, Pensiero, Sapienza) e si ama in esso (Spirito Santo, Amore). Il Padre è trascendente e nessun vivente poté vederlo, attraverso il corpo di uomo di Gesù poté rivelarsi ed essere visto e creduto dagli uomini.  La Trinità e AgostinoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pensiero di Agostino d'Ippona § Il problema trinitario e De Trinitate (Agostino d'Ippona).  La Coronazione della Vergine, di Diego Velázquez (1645), Museo del Prado A tale proposito è interessante leggere quanto scritto da sant'Agostino nel De Trinitate e in altre opere per tentare una chiarificazione del concetto di unica Sostanza e tre Persone. Nell'uomo, ragiona Agostino, si può distinguere la sua realtà corporale (esse), la sua intelligenza (nosse) e la sua volontà (velle). Se Dio ha creato l'uomo a propria immagine e somiglianza è allora necessario che questi tre aspetti appartengano anche alla Divinità, anche se in modo perfetto e divino, non imperfetto e umano: così Dio è Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito Santo). Ecco alcune citazioni bibliche al riguardo:  «  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi». »   ( Es 3, 14, su laparola.net.)«  Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". »   ( Gv 14, 6, su laparola.net.) «  Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. »   ( 1Gv 4, 16, su laparola.net.)Creazione dell'UniversoModifica La creazione dell'universo viene attribuita alla Trinità tutta intera; Dio Padre crea l'universo per mezzo del Figlio ("il Verbo","la Parola") e "donando" o "riempiendolo" di Spirito Santo.  Il credo recita infatti:   «Per mezzo di lui [il Figlio] tutte le cose sono state create»  (Credo) La fonte di questa interpretazione è in Genesi, al primo capitolo, Dio crea il mondo attraverso la Parola, espresso con la duplice formula: "Dio disse..." e "Dio chiamò ...". Questo è appunto il "Verbo di Dio", ossia nella visione cristiana proprio la seconda persona della Trinità, ovvero il Cristo. Valga, a titolo di esempio il racconto della creazione:  Primo giorno:  « Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu »  ( Genesi 1, 3, su laparola.net.) « e chiamò la luce giorno e le tenebre notte »   ( Genesi 1, 5, su laparola.net.)Secondo giorno:  « Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque... »   ( Genesi 1, 6, su laparola.net.)« Dio chiamò il firmamento cielo. »   (Genesi 1,6, su laparola.net.) e così prosegue nei "giorni" successivi con lo stesso schema, fino alla creazione dell'Uomo:  « E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, »   ( Genesi 1, 26, su laparola.net.)Anche lo Spirito Santo, che è la relazione d'amore fra il Dio Padre e il Figlio, terza persona della Trinità, partecipa alla creazione:  « La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito Santo aleggiava sulla superficie delle acque »   ( Genesi 1, 2, su laparola.net.)Natura e ruolo di GesùModifica  La Santísima Trinidad, di Francesco Cairo(1630), Museo del Prado In ambito teologico trinitario viene fatta una distinzione fra la Trinità da un punto di vista "ontologico" (ciò che Dio è) e da un punto di vista "ergonomico" (ciò che Dio fa). Secondo il primo punto di vista le persone della Trinità sono uguali, mentre non lo sono dall'altro punto di vista, cioè hanno ruoli e funzioni differenti.  L'affermazione "figlio di", "Padre di" e anche "spirito di" implica una dipendenza, cioè una subordinazione delle persone. Il trinitarismo ortodosso rifiuta il "subordinazionismo ontologico", esso afferma che il Padre, essendo la fonte di tutto, ha una relazione monarchica con il Figlio e lo Spirito. Ireneo di Lione, il più importante teologo del II secolo, scrive: "Il Padre è Dio, e il Figlio è Dio, poiché tutto ciò che è nato da Dio è Dio."  Simili affermazioni sono presenti in altri scrittori pre-niceni,[5] cioè prima dello scoppio della controversia ariana:  «vediamo ciò che avviene nel caso del fuoco, che non è diminuito se serve per accenderne un altro, ma rimane invariato; e ugualmente ciò che è stato acceso esiste per se stesso, senza inferiorità rispetto a ciò che è servito per comunicare il fuoco. La Parola di Sapienza è in sé lo stesso Dio generato dal Padre di tutto.»  (Giustino) Immagine ripresa anche da scrittori successivi:  «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.»  (Ilario di Poitiers, De Trinitate) Se Gesù Cristo nel vangelo di Giovanni viene chiamato l'"unigenito" Figlio di Dio, evidenziando con questa affermazione il suo essere ontologicamente in Dio, secondo la dottrina ortodossa Gesù è anche diventato una creatura con l'incarnazione, svolgendo un ruolo "ministeriale", e in un certo senso subordinato in relazione a Dio, nei confronti dell'umanità. Viene pertanto chiamato "primogenito" in altri passi, in riferimento alla creazione e redenzione, ad esempio è detto "immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione... egli è principio, primogenito dei risuscitati". La distinzione è ripresa nell'affermazione che Gesù fa quando dice che dovrà "ascendere al Padre mio e Padre vostro, Iddio mio e Iddio vostro", distinguendo così fra l'essere figlio di Dio in senso proprio (caratteristico di Gesù) e in senso figurato (caratteristico degli uomini).  Atanasio di Alessandria sviluppa questa distinzione commentando il passo evangelico in cui Gesù dichiara di non conoscere il giorno e l'ora della fine del mondo:  «Ancora un altro passo che è detto bene, viene interpretato male dagli ariani: Voglio dire che "Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli, neppure il figlio." Ma essi ritengono che avendo detto "neppure il figlio", egli, in quanto ignorante, abbia rivelato di essere creatura. Ma la cosa non sta così, non sia mai! Come infatti dicendo: "Mi ha creato", lo ha detto in riferimento all'umanità, così, anche, dicendo: "neppure il Figlio", si è riferito alla sua umanità. ... Poiché infatti è diventato uomo, ed è proprio dell'uomo ignorare, come l'aver fame e il resto (infatti l'uomo non sa se non ascolta e apprende) egli, in quanto uomo, ha dato a vedere anche l'ignoranza propria degli uomini per questo motivo: in primo luogo per dimostrare di avere veramente un corpo umano, poi anche perché, avendo nel corpo l'ignoranza propria dell'uomo, dopo aver mondato e purificato tutta l'umanità, la presentasse al Padre perfetta e santa. ..... quando dice: "Io e il Padre siamo una cosa sola e Chi ha visto me ha visto il Padre e Io nel Padre e il Padre in me", dimostra la sua eternità e la consustanzialità col Padre. .... Nel vangelo di Giovanni i discepoli dicono al Signore: Ora sappiamo che tu sai tutto...»  (Atanasio, Seconda Lettera a Serapione, trad. M. Simonetti) Origine e sviluppo della dottrinaModifica La nozione dell'unicità di Dio e di Gesù Cristo come "Dio da Dio" e consunstanziale al Padre è stata affermata come articolo di fede al primo concilio di Nicea (325) e sviluppata nei successivi concili ecumenici. Il termine "trinità" non è utilizzato nel credo niceno, ma il termine è precedente e rintracciabile già in scrittori ecclesiastici come Tertulliano.  Nel Nuovo Testamento il termine non compare, tuttavia la cristologia di Giovanni, che presenta Cristo come Logos di Dio, (cioè verbo e ragione), assieme ad alcune affermazioni di Paolo di Tarso, sono stati considerate dai Cristiani come le basi per lo sviluppo della dottrina trinitaria. Per la Chiesa in più punti del Nuovo Testamento si ravviserebbe il carattere trinitario di Dio, ad esempio quando Gesù dice: "Il Padre ed io siamo una cosa sola" od ancora nel Prologo del Vangelo di Giovanni: " In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio."  In un saggio sulla divinità di Gesù nel Nuovo Testamento il biblista americano Raymond E. Brownipotizza che Gesù sia chiamato Dio nel Nuovo Testamento, ma lo sviluppo sarebbe stato graduale e non sarebbe emerso fino a un'epoca tarda nella tradizione neotestamentaria:  «... nella fase più antica del cristianesimo prevale l'eredità dell'Antico Testamento nell'utilizzo del termine Dio, per cui Dio era un titolo troppo ristretto per essere applicato a Gesù. Esso si riferisce strettamente al Padre di Gesù, al Dio da lui pregato. Gradualmente, (negli anni 50 e 60 d.C. ?), con lo sviluppo del pensiero cristiano Dio venne compreso in un'accezione più ampia. Si vide che Dio rivelò così tanto di sé stesso in Gesù al punto che Dio includeva sia Padre che il Figlio."»  (Does the New Testament call Jesus God?) Il primo teologo cristiano a discutere sistematicamente la dottrina della Trinità fu forse Prassea (II secolo),[6] la cui opera ci è nota solo attraverso la confutazione che ne fece Tertulliano nel suo Adversus Praxean (dopo il 213), opera in cui è esposta per la prima volta la formula del rapporto tra una sola sostanza e tre Persone.[7]  Lo sviluppo completo della dottrina si ebbe in seguito, anche in reazione alle dottrine di Ario che introdusse le sue interpretazioni subordinazioniste di Gesù come essere semidivino (vedi arianesimo).  Molti termini che si impiegano per esplicitare questo insegnamento sono stati mutuati dalla filosofia greca e ulteriormente approfonditi per evitare di esprimere concetti erronei. Tra questi si possono citare: sostanza, ipostasi e relazione. La Trinità viene così definita in teologia come tre ipostasi individuali, cioè tre Persone o sussistenze, che hanno e vivono in un'unica essenza o sostanza comune.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ipostasi § Nel cristianesimo. La controversia arianaModifica Magnifying glass icon mgx2.svg          Lo stesso argomento in dettaglio: Arianesimo e Ario. La causa che portò alla convocazione del primo concilio di Nicea fu la disputa ariana, che giunse a una svolta all'inizio del IV secolo d.C. I protagonisti furono tre teologi-filosofi provenienti da Alessandria d'Egitto. Da una parte c'era Ario, e dall'altra gli ortodossiAlessandro e Atanasio. Ario affermava che il Figlio non fosse della stessa essenza, o sostanza, del Padre e che lo Spirito Santo fosse una persona ma inferiore a entrambi. Parlava di una "triade" o "Trinità", pur considerandola formata di persone ineguali, delle quali solo il Padre non era stato creato.  D'altra parte Alessandro e Atanasio sostenevano che le tre persone della Divinità fossero della stessa sostanza e che pertanto non fossero tre Dei, ma uno solo, sebbene il Padre fosse il "primo" e la causa delle altre due.  Ario, "volendo difendere il monoteismo più rigoroso, secondo cui Dio è trascendente"[8] accusò Atanasio di reintrodurre il politeismo. In effetti l'arianesimo viene considerato da molti studiosi moderni[senza fonte] come il ramo più rigoroso del subordinazionismo cristologico dei primi padri della Chiesa (Giustino, Ireneo di Lione ecc.) e scrittori cristiani (Origene, Tertulliano ecc.) i quali ancora non si interrogavano sul rapporto fra le persone della divinità. Atanasio accusò Ario di reintrodurre il politeismo, dal momento che distingueva la natura divina delle tre persone.  Accanto a Dio, Ario poneva infatti una creatura "che può essere chiamata dio in modo improprio"[9], considerato il Figlio di Dio, ma ritenuto da lui semplicemente "la prima creatura di cui il Padre si era servito per compiere la creazione", incarnatosi in Gesù, simile ma non uguale a Dio, che avrebbe avuto esistenza dal nulla, affermando che "generare" e "creare" fossero sinonimi. Gli ortodossi invece ribadivano l'assoluta unità di Dio, e se il Logos era divino, (come era affermato nel prologo di Giovanni "il Logos era Dio"), ciò non comportava una suddivisione o una moltiplicazione di dei, ma Dio era sempre uno solo. In questo senso il termine "generazione" indicava l'unità della natura e non andava inteso in senso temporale e umano, con un "prima" e un "dopo", ma il Figlio era eternamente generato, cioè era sempre stato insito in Dio. Al tempo opportuno il Verbo si sarebbe incarnato in Gesù, in un processo di abbassamento e annichilimento, e l'unione della natura divina e di quella umana nella persona di Gesù diede origine ad un'altra serie di controversie nei secoli successivi.  La controversia ariana non terminò a Nicea. L'arianesimo ebbe grande fortuna nell'Impero romano e in certi momenti presso la corte imperiale. Molte tribù germaniche che invasero l'impero romano professavano un cristianesimo ariano e lo diffusero in gran parte dell'Europa e dell'Africa settentrionale, dove continuò a prosperare fino a gran parte del VI secolo, e in alcune zone anche più a lungo.  La Trinità nei primi scritti cristianiModifica  Santissima Trinità, di Hendrick van Balen (anni 20 del XVII secolo), Sint-Jacobskerk, Anversa I primi scrittori cristiani così si esprimono al riguardo:[10]  «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.»  (Ilario di Poitiers De Trinitate) «Quando affermo che il Figlio è distinto dal padre, non mi riferisco a due dèi, ma intendo, per così dire, luce da luce, la corrente dalla fonte, ed un raggio dal sole»  (Ippolito di Roma) «Il carattere distintivo della fede in Cristo è questo: il figlio di Dio, ch'è Logos Dio in principio infatti era il Logos, e il Logos era Dio - che è sapienza e potenza del Padre Cristo infatti è potenza di Dio e sapienza di Dio - alla fine dei tempi si è fatto uomo per la nostra salvezza. Infatti Giovanni, dopo aver detto: In principio era il Logos, poco dopo ha aggiunto e il logos si fece carne, che è come dire: diventò uomo. E il Signore dice di sé: perché cercate di uccidere me, un uomo che ha detto la verità? e Paolo, che aveva appreso da lui, scrive: Un solo Dio, un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo»  (Atanasio di Alessandria, Seconda lettera a Serapione) Teologia delle Chiese orientali e della Chiesa latinaModifica L'interpretazione trinitaria nella Chiesa latina si differenzia da quella greca. Se entrambe le Chiese, infatti, riconoscono l'unità delle tre Persone divine nell'unica natura indivisa, per cui ciascuna di esse è pienamente Dio secondo gli attributi (eternità, onnipotenza, onniscienza ecc.), ma ciascuna è a sua volta distinta e inconfondibile rispetto alle altre due, è altresì vero che nasce il problema di comprendere le relazioni che intercorrono fra di esse.  Con il simbolo niceno-costantinopolitano, approvato nel primo concilio di Costantinopoli (381 d.C.), si afferma che il Figlio è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è spirato dal Padre. Il Padre è dunque l'unica origine della Trinità. Col Concilio di Toledo, però, e con i suoi successivi sviluppi, la Chiesa latina, usando una terminologia diversa, stabiliva unilateralmente che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio (la questione del cosiddetto Filioque), cioè che è la terza persona. Gli ortodossi rifiutano tuttora tale sviluppo, temendo che essa renda il Figlio concausa dello Spirito Santo; per questo preferiscono parlare, secondo la teologia greca, di "spirazione dal Padre attraverso il Figlio" (proposta da grandi teologi come san Gregorio di Nissa, san Massimo il Confessore e san Giovanni Damasceno), pur non introducendo questa specificazione nel Credo. La Chiesa cattolicaritiene valide entrambe le versioni, infatti le chiese cattoliche orientali utilizzano nella liturgia la versione priva del Filioque.  Anche altri gruppi cristiani hanno rifiutato il Filioque; in particolare bisogna citare il caso dei vetero-cattolici, che accettano la validità dei primi sette concili ecumenici, rifiutando le dottrine cattoliche successive. Invece le Chiese nate dalla riforma hanno generalmente accettato questo dogma nella versione occidentale (comprensivo, cioè, del Filioque).  Simboli di fede                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                         Lo stesso argomento in dettaglio: Simbolo di fede. La dottrina della Trinità è espressa in alcuni Simboli di fede, cioè proposizioni il più possibile chiare e prive di ambiguità che si riferiscono a punti controversi della dottrina. Ad esempio al primo concilio di Nicea venne approvato il seguente paragrafo (dal cosiddetto credo di Nicea) relativo al significato di Figlio di Dio riferito a Gesù Cristo:  «...nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create.»  Tale proposizione deriva dal passo del primo capitolo della lettera agli Ebrei:  «...il Figlio, che Dio ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della gloria (di Dio) e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola....»  Il simbolo atanasiano (detto anche Quicunque vultdalle parole iniziali) è invece un'esposizione sintetica della dottrina della Trinità secondo la tradizione latina, probabilmente composto in Gallia verso la fine del V secolo, ed usato nelle chiese occidentali:  «...veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità. Senza confondere le persone e senza separare la sostanza. Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna maestà. ...Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente... Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. E tuttavia non vi sono tre Dei, ma un solo Dio. (...) Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. ... E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore: ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali. (...) Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato. Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato. Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.(...) ... il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo. È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità; è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre. Perfetto Dio, perfetto uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana. Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità.»  In seguito vennero elaborati altri simboli di fede in cui si riassumevano le dottrine precedenti e si trattavano altri punti controversi, ad esempio al XI Sinodo di Toledo (675) venne elaborata un'altra "confessione" attribuita in passato ad Eusebio di Vercelli, di cui si riporta solo l'inizio:  «Professiamo e crediamo che la santa ed ineffabile Trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, secondo la sua natura è un solo Dio di una sola sostanza, di una sola natura, anche di una sola maestà e forza. E professiamo che il Padre non (è) generato, non creato, ma ingenerato. Egli infatti non prende origine da nessuno, egli dal quale ebbe sia il Figlio la nascita, come lo Spirito Santo il procedere. Egli è dunque la fonte e l'origine dell'intera divinità.»  Posizioni antitrinitarie                                                  Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Antitrinitarismo, Gesù nell'ebraismo e Gesù nell'islam. La dottrina del Dio Uno e Trino non è accettata al di fuori del cristianesimo, dato che afferma la divinità di Gesù Cristo, che è caratteristica delle maggiori confessioni di questa religione. Ebraismo ed Islamrifiutano questo aspetto, e nel Corano in particolare questo punto dottrinale viene esplicitamente negato[Nota 17].  Anche nell'ambito del cristianesimo vi sono movimenti religiosi e diramazioni anti-trinitarie; fra queste le più note a partire dall'età moderna e contemporanea sono i testimoni di Geova[11], la House of Yahweh, i cristadelfiani, gli antoinisti, i mormoni, la Chiesa del Regno di Dio, la Chiesa cristiana millenarista, il cristianesimo scientista, la Chiesa dell'unificazione e le chiese odierne che si rifanno all'unitarianismo.  Ordini e congregazioni della Santissima TrinitàModifica Numerosi istituti religiosi condividono la devozione alla Trinità e sono a essa intitolata: l'Ordine della Santissima Trinità, con il ramo delle monache e le congregazioni delle suore di Madrid, Roma, Valence, Valencia e delle Montalve; le statunitensi congregazioni dei Missionari Servi e delle Ancelle Missionarie della Santissima Trinità; le canadesi Domenicane della Santissima Trinità; le spagnole Giuseppine della Santissima Trinità; le messicane Serve della Santissima Trinità e dei Poveri e le italiane Adoratrici della Santissima Trinità.  NoteModifica ^ (EN)  «Trinitarian doctrine touches on virtually every aspect of Christian faith, theology, and piety, including Christology and pneumatology, theological epistemology (faith, revelation, theological methodology), spirituality and mystical theology, and ecclesial life (sacraments, community, ethics).»  (IT)  «La dottrina Trinitaria tocca virtualmente ogni aspetto della fede cristiana, della teologia e della devozione, comprese la Cristologia e la pneumatologia, l'epistemologiateologica (fede, rivelazione, metodologia teologica), la teologia mistica e la spiritualità e la vita ecclesiale (sacramenti, comunità, etica)»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9360 e segg.) ^ «non è esatto dire che i cristiani credono in Dio! Per lo meno non è esatto rispetto al fatto che essi non si contentano di affermare l'esistenza di quell'Essere supremo, onnipotente, creatore del cielo e della terra che gli "uomini chiamano Dio" (Tommaso d'Aquino) e che, nel vasto mondo e nella storia, anche tanti altri credenti riconoscono. La sola cosa che, in realtà, si possa dire se si vuole usare un linguaggio preciso, è che i cristiani credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; o ancora nella Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che insieme costituiscono l'unico Dio vivo e vero.»  (Joseph Doré. Trinità in Dictionnaire des Religions (a cura di Paul Poupard). Parigi, Presses universitaires de France, 1984. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, 2007, pp. 1918 e segg.) Cfr. ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica che al n. 232 riportando l'Expositio symboli (sermo 9) CCL 103,48 di Cesario d'Arlessostiene «La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità». ^ Il "simbolo niceno-costantinopolitano" rispetto al credo di Nicea, amplia gli aspetti cristologici e pneumatologici: Gesù Cristo figlio di Dio è generato da sempre dal Padre, è increato, è homoúsioncioè della "stessa sostanza" del Padre e per mezzo di lui si è realizzata la creazione; egli è dunque Dio vero da Dio vero, luce da luce. Lo Spirito Santo ha parlato per mezzo dei profeti, egli è Signore e da lui proviene la vita, procede dal Padre ed è elemento di culto come il Padre e il Figlio. Cfr., ad esempio, Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cura di Giovanni Filoramo) Torino, Einaudi, 1993, pagg. 203 e segg. ^ Per la Chiesa cattolica la "trinità" è un mistero della fede ovvero uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati» (Concilio Vaticano I, DS 3015; FCC 1.080). ^ «poreuthentes oun mathēteusate panta ta ethnē baptizontes autous eis to onoma tou patros kai tou uiou kai tou agiou pneumatos» ^ «baptistheis de o iēsous euthus anebē apo tou udatos kai idou ēneōchthēsan oi ouranoi kai eiden pneuma theou katabainon ōsei peristeran erchomenon ep auton» ^ «kai apokritheis o angelos eipen autē pneuma agion epeleusetai epi se kai dunamis upsistou episkiasei soi dio kai to gennōmenon agion klēthēsetai uios theou» ^ «pisteuete moi oti egō en tō patri kai o patēr en emoi ei de mē dia ta erga auta pisteuete» ^ «kagō erōtēsō ton patera kai allon paraklēton dōsei umin ina ē meth umōn eis ton aiōna to pneuma tēs alētheias o o kosmos ou dunatai labein oti ou theōrei auto oude ginōskei umeis ginōskete auto oti par umin menei kai en umin estin» ^ «o de paraklētos to pneuma to agion o pempsei o patēr en tō onomati mou ekeinos umas didaxei panta kai upomnēsei umas panta a eipon umin egō» ^ «ei ou poiō ta erga tu patròs mou, pistèuete moi; ei dè poiō, kan emoì mē pistèuēte tòis ergòis pistèuete, ìna gnōte kai ginōskēte oti en emoi o patēr kagō en tō patrì.» ^ «ē charis tou kuriou iēsou [christou] kai ē agapē tou theou kai ē koinōnia tou agiou pneumatos meta pantōn umōn» ^ «kata prognōsin theou patros en agiasmō pneumatos eis upakoēn kai rantismon aimatos iēsou christou charis umin kai eirēnē plēthuntheiē» ^ (EN)  «Further, exegetes and theologians agree that the New Testament also does not contain an explicit doctrine of the Trinity. God the Father is source of all that is (Pantokrator) and also the father of Jesus Christ; "Father" is not a title for the first person of the Trinity but a synonym for God.»  (IT)  «Inoltre, esegeti e teologi sono d'accordo che anche il Nuovo Testamento non contiene un'esplicita dottrina della Trinità. Dio Padre è fonte di tutto ciò che è (Pantokrator) e anche il padre di Gesù Cristo; "Padre" non è un titolo per la prima persona della Trinità ma un sinonimo per Dio.»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN)  «Exegetes and theologians today are in agreement that the Hebrew Bible does not contain a doctrine of the Trinity, even though it was customary in past dogmatic tracts on the Trinity to cite texts like Genesis 1:26, "Let us make humanity in our image, after our likeness" (see also Gn. 3:22, 11:7; Is. 6:2–3) as proof of plurality in God. Although the Hebrew Bible depicts God as the father of Israel and employs personifications of God such as Word (davar), Spirit (ruah: ), Wisdom (h: okhmah), and Presence (shekhinah), it would go beyond the intention and spirit of the Old Testament to correlate these notions with later trinitarian doctrine.»  (IT)  «Esegeti e teologi oggi sono d'accordo che la Bibbia ebraicanon contenga la dottrina della Trinità, anche se era abituale nei trattati dogmatici della Trinità citare testi come la Genesi, "Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza" (vedi anche Gn. 3:22, 11:7; Is. 6:2–3) come prova di pluralità in Dio. Sebbene la Bibbia ebraica descriva Dio come padre di Israele e usi personificazioni di Dio come Parola (davar), Spirito (ruah: ), Saggezza (h: okhmah) e Presenza (shekhinah), andrebbe oltre le intenzioni e lo spirito del Vecchio Testamento correlare queste nozioni con la successiva dottrina trinitaria.»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vo.14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360) ^ (EN)  «In the last analysis, the 2d century theological achievement was limited. The Trinitarian problem may have been clear: the relation of the Son and (at least nebulously) Spirit to the Godhead. But a Trinitarian solution was still in the future. The apologists spoke too haltingly of the Spirit; with a measure of anticipation, one might say too impersonally.»  (IT)  «In ultima analisi i risultati teologici del II secolo furono limitati. Il problema Trinitario poteva essere stato chiaro: la relazione fra il Figlio e (almeno nebulosamente), lo Spirito alla Divinità. Ma una soluzione Trinitaria era ancora futura. Gli apologisti parlano con troppa esitazione dello Spirito; con il valore di un'anticipazione, si potrebbe dire in modo troppo impersonale.»  (R.L. Richard e William J. Hill. Trinity, Holy. The New Catholic Encyclopedia, vol.14. NY, Gale, 2006, p. 191) ^ «O Gente della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno spirito da Lui [proveniente]. Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra. Allah è sufficiente come garante» (Cor., IV:171). RiferimentiModifica ^ Catherine Mowry Lacugna, "Trinity", in Encyclopedia of Religion, vol. 14. NY, Macmillan, 2006, p. 9360 ^ a b Trinità in Dictionnaire des Religions, pag.1923 ^ Arthur W. Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK 1962, pp. 265-266. ^ Ts 5.23, su laparola.net. ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, pp. 337-378 online ^ Roger E. Olson, The Story of Christian Theology: Twenty Centuries of Tradition & Reform, Downers Grove (IL), InterVarsity Press 1999, p. 92. ^ Tertulliano, Contro Prassea, ed. critica e trad. italiana di Giuseppe Scarpat, Torino, S.E.I. 1985. ^ "Terzo millennio Cristiano", paragrafo: "Eresie cristologiche" ^ "Dizionario Mondadori di Storia Universale" ^ John Henry Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano, Jaca Book 1981. ^ Com’è nata la dottrina della Trinità? JW.org BibliografiaModifica Arthur W. Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK, 1962. Voci correlateModifica Corpus Domini Cristologia Dio (cristianesimo) Dio (ebraismo) Dio Padre Dio Figlio Diofisismo Figlio dell'uomo Figlio di Dio Gesù di Nazareth Gesù nel cristianesimo Iconografia della Trinità Inabitazione trinitaria Pericoresi Prosopon Spirito Santo Solennità della Santissima Trinità Triade (religione) Trinità (araldica) Unione ipostatica Verbo (cristianesimo) Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla Trinità Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «Trinità» Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file sulla Trinità Collegamenti esterniModifica Trinità, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Enrico Rosa e Umberto Gnoli, TRINITÀ, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1937. Modifica su Wikidata trinità, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Trinità, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) Dale Tuggy, Trinity, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. ( EN ) H.E. Baber, The Trinity, su Internet Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 29 luglio 2019. ( EN ) Anne Hunt, The Development of Trinitarian Theology in the Patristic and Medieval Periods( PDF ), su TRINITY - Nexus of the Mysteries of Christian Faith, google.it. URL consultato il 26 aprile 2018. La Trinità secondo le Sacre Scritture, sito evangelico pentecostale Controllo di autoritàThesaurus BNCF 30177 · LCCN( EN ) sh85137555 · GND ( DE ) 4060909-1 ·BNF ( FR ) cb11933629k (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007548874505171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00570172   Portale Gesù: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Gesù Ultima modifica 27 giorni fa di Lorenzo Longo PAGINE CORRELATE Antitrinitarismo Cristologia studio su chi è e cos'è Gesù Cristo  Dio (cristianesimo) concetto di Dio nel Cristianesimo  Wikipedia Il contenuto  Contenutisticamente l'ascesa a Dio si scandisce in tre tappe (ognuna delle quali a sua volta divisa in due):  il mondo sensibile, vestigium Dei l'anima, in quanto realtà naturale, imago Dei l'anima, in quanto abitata soprannaturalmente dal Mistero trinitario, in Cristo, similitudo Dei Il mondo, vestigium Dei la predica di S.Francesco agli uccelli nel pensiero di Bonaventura vibra la nuova percezione francescana della natura.  L'importanza data alla prima tappa, il mondo sensibile è ciò che differenzia Bonaventura da Agostino, in forza dell'eredità francescana, che gli consente di recuperare qualcosa della impostazione aristotelica, più valorizzatrice del livello corporeo. Il mondo può essere letto come un segno, un simbolo del Trascendente: tutto parla di Dio, e permette perciò di risalire a Lui. Non occorre fuggire dalla realtà, ma è nella realtà, anzitutto materiale, che l'uomo trova la testimonianza del Creatore invisibile.  Secondo Bonaventura la realtà ci parla di Dio non solo nella unità della Sua natura, ma ne annuncia anche il Mistero trinitario: ad esempio la conoscenza delle cose corporee è simbolo della processione del Figlio dal Padre. Come dalla cosa si stacca una immagine, così dal Padre è generato il Figlio, e come l'immagine della cosa si unisce all'organo sensoriale corporeo, così il Verbo si è unito alla carne, facendosi Uomo.   L'anima creata, imago Dei Tuttavia è soprattutto nell'anima che Dio si rivela: il mondo è solo un vestigium, mentre l'anima è imago Dei. Tra l'altro testimonia e parla del Mistero trinitario, come già per S.Agostino, la tripartizione dell'anima in memoria (che rimanda in particolare al Padre), intelletto (che rimanda al Verbo) e volontà (che rimanda allo Spirito Santo, come Amore del Padre e del Figlio).  L'anima redenta, similitudo Dei Più di tutto ci dice chi è Dio l'anima in stato di grazia, l'anima abitata da Cristo: nessuno più del santo ci mostra il volto di Dio. Non basta perciò uno spiritualismo generico. L'uomo non è solo corpo e anima: ma l'anima stessa deve superarsi, dilatarsi, accettando una misura più grande: l'Ospite che ci inabita e chiede di crescere in noi.Dire- zione e gradi del cammino si presentano anche nelle forme di rapporto, tra cui vengono analizzati la realtà nel suo insieme e l'uomo in particolare: traccia (vestigium) del Creatore nel sensibile, sua immagine (imago) trinitariamente sviluppata, nelle facoltà o attività dello Spirito e massima somi- glianza possibile (similitudo) con Lui nello stato della contemplazione perfezionatrice o unione con Lui.  Vestigium o speculum, traccia o specchio come primo grado della «contemplazione riflettente» di Dio indica la forma di essere e di movimento del mondo sensibile che rinvia il pensiero alla sua origine; imago, immagine, cone caratterizzazione della mens conduce il pensiero che si accerta di se stesso al suo archetipo trinitario; similitudo, somiglianza, in- dica lo stato di colui-che-supera-se-stesso nel suo massimo avvicinamento possibile o nella connes- 26 sione con la meta dell'ascesa.  Itinerarium c. 1 e 2: per vestigia e in vestigiis. 3 e 4: per imaginem - in imaginem. All'agire della mens come o   nella similitudo (It. III 2 [303 b], VI 7 [312 a], corrispondono i gradi descritti nei capitoli 5 e 6. Un'interpretazione del rapporto tra vestigium e imago nell'Itinerarium è stata presentata da L. Hodl: Die Zeichen-Gegenwart Gottes und das Gott-Ebenbild-Sein des Menschen in des hl. Bonaventura Itinerarium mentis in Deum, cc. 1-3, in: «Miscellanea Media- evalia» 8, Berlin 1971, pp. 94-112. Sulla differenziazione di vestigium-imago-similitudo ulteriormente: De scientia Christi q. 4 concl. (V 24 a). Orizzonte neoplatonico di «traccia» = ἴχνος: il male stesso ha ancora una «traccia del Bene (ἴχνος ἀγαθοῦ, Proclo, In Remp. I 38, 26). «Essere» come «traccia dell'Uno», in Plotino, vedi sopra pp. 80 ss., ss. e la relazione con la dottrina dell'immagine. Nel contesto oggettivo e storico di questa dottrina vi è Agostino: il creato, l'ente molteplice e temporale nel suo insieme è «traccia dell'unità e atemporalità (divina)» (unitatis e aeternitatis vestigium: Vera rel. 32, 60. Gen. ad litt. imp. lib. 13, 38. Anche Eriugena segue questo concetto di «traccia», che vede nel sensibile la traccia o la manifestazione dell'Essere divino in sé nascosto, come punto di partenza della summitas theoriae: omnis creatura corporalis atque visibilis sensibusque succumbens extremum divinae naturae vestigium non incongrue solet in Scripturis appellari: Periphyseon III 25; 186, 26-28. Sulla «teofania» cfr. Beierwaltes, Negati affirmatio, pp. 241 ss.; sull'aspetto della metafisica della luce: sopra p. 310.Grice: “Bonaventura is generally more liked than Aquinas at Oxford. More platonic, less dogmatic sort of type!” -- Findanza. Fidanza. Keywords: Lc. 19:38-40 ‘grideranno le pietre’ ‘la pietra grida’ – i segni trinitari -  primo grado: vestigio o impronta; secondo grado: immagine; terzo grado: similitudine --. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691361846/in/photolist-2mRGVwA-2mPGkBm-2mMQbzj-2mLznXk-2mKNM4g-2mKMJYE-2mKC3nj-2mKCnei-2mKjR8g

 

Grice e Figliucci – Giove e Ganimede – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Of course I love Figliucci, who doeesn’t? Of course, there is Figliucci and [Vincenzo] Figliucci, both moralists at Siena; what I love about Figliucci is that he championed the big ones: Plato’s Fedro – with the charismatic metaphor of the winged warrior; and then Fedro is an interesting character for maieutica; and Aristotle’s ethical ‘books,’ which we hope he instilled on Alexander!” – Studia a Padova. Dopo aver vissuto le piacevolezze mondane della corte, entrò nel convento domenicano di Firenze. Altre opere: “Del bello” (Roma); “Ficino” (Venezia); “Le undici Filippiche di Demostene con una Lettera di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in lingua Toscana” (Roma, Appresso Vincenzo Valgrisi); “Della Filosofia morale d'Aristotile” (Roma); “Della Politica, ovvero Scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, libri VIII scritti in modo di dialogo” (Venezia, Gio. Battista Somascho); “Catechismo, cioè istruzione secondo il decreto del Concilio di Trento”; Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. FIGLIUCCI, “IL FEDRO O VERO IL DIALOGO DEL Bello di Platone, Tradotto in lìngua Toscanà per Felice Figliucci Sense.  IN ROMA Con priuilegio del Sommo Ponstefice per anni X.IL FEDRO. Ó VERO il D/4iWa id Bello di Telatone. TRADOTTO in lingua Tofcana» Perfone del Dialogo, SOCRATE, ET FEDRO. O Fedro mio caro,doue uai tu,ac Soc. donde uieni ^ F E D. Socratc,io uego da cafa di Lifia figliuolo di Cefalo,flC hora me ne uh un poco à fpafTo fuor della città: per ciò che buona peza feco à ragionar fedendo, da quefta mattina per tempo, per fino à hora fon dimorato. Et hora,c(rendo à ciò ftato perfuafo,da Acumeno tuo amico, fiC mio,fò caminando efTercitio: il qual modo di efTercitarfi, egli affai più facile, CC molto più gjoueuole giu:sdica, che laftaticarfi nel correre, come molti fanirsno. SOCR. Certamente Fedro mio, eh* egli ti configlia bene^ma fecondo il tuo dirc,Lifu dee elTere nella città, è uero ^ F E D, Ve^sro,fi£ alloggia infieme con Epicrate nella cafa di Morico,uicino al Tempio di GioueOlimpiót SOCR. rimali di gratia,clie faceuate uoi quiui f Inuitouui forfè Lifia al parto delle fuc orationii' FE D. Tu lo fapra!,par clic tu babbi tempo di uenire i(ifieme coumeco^fin che io te l habbia narrato. SOCR. Che dici tu.^ Hor Don penfi tu, che io proponga à ogni mia facen <ìa (come di^Te Pindaro) il ragionamento di Li:s fia,fl£iltuo? FED, Seguitami adunque S 0,C R. Di pure^ F E D. Et fappi Socra;^ tc.che quella difputa, che nacque fra Lifia^a ine.è {lata à punto degna delle tue orecchie. Per ciò che il parlare,che Ci\ ùilto,(ìx in un cers; to modo tutto intorno alle cofe d'amore;.pcr ciò che Lifia haueua fcritto una oratioue doftiG:: fima,fi£eIegantiflima,manoDÌn fauore d'uno 'amante,anzi pier quello era artificiofa.fi: Icggias: dra,che egli in quella prouaua,che più toftofi dee far ccfa grata à chi non ama, che à chi ama» S O C. O huomo certamente digniffuno; uo:s lefTe lddio,che egli haueffe fcritto,che fi hauefe fe à fave bene più tofto à unpoueio.che à un ricco, ftàunuecchio, che à un giouane,aà moltialtrijiquali in molte altre cofe fono mal condotti, come me: per ciò che fe tale fufTe fta^ ta la fua oratione.all' bora fi poteua degnametc ^nc ce piaccuole.a utile. Non di meno anchora che ella non fia (lata cefi, egli m'è foptags giunta una fi gran uogliad' udirla, che (e tu cdis minando te ne andaflj perfino à Mcgara,flC fc (comeècoftume di Hcrodico ) tofto che alle mura della città fiifli giunto.indietro te ne tornaflì,io per queflo fon difpofto di non ti aK? bandonarmai. FED, Che dici tu Socrate^' Penfi turche io giouane inefperto poffa hora narrarti, flC ramentarti quelle cofe,chc Lifia moi te più dotto di quanti Sìcrittori hoggi fi troua:^ no, in molto tempo à fua commodità compofe/ Sappi,che io fono affai lontano da quello ti uoglio dire,chc iouorrei più prefto fimil cofa faper fare, che effer d' infinite riccheze poffeffo? re. SOCR. Fedro cparrebbe.cheip non fi conofcefL, non fai tu, che tanto à me farebbe il non fapere chi tu fei, quanto lo fcordarmi di me medefimo.^ Delle quali^ofe neffuna è uera: per ciò che io fo beniflimo,che tu non udirti una uolta fola quefta Oratione di Lina,ma te U facefli replicare affai uolte. Et Lifia fo io, che uo lentieri ti ubidiua: ne quefto anchora ti fu affair ma fattoti al fine dare m mano il libro. doue eri fcritta,confiderafti ineffo tutte quelle cofe,U quali maggiormente defideraui fapere: il che come hauedi fatto, fianco di hauere in quel Iugo fi fungamciife fedufo,(i partifti per andare tene a fpafTo. Et io giiiraréi,che bora tela mefe teui alla memoria, fé gii non fufTeftata troppo lunga, te neandaui fuor della città^perconi fiderare date ftefloà quello, che haueui letto» Ma poi che tu ti fei abbatuto ì un'huomo pazo di udire fimili ragjonamèti,come fono io,toflo che iMiaiucduto, ti fei oltra modo rallegrato, quafi che tu fufli certo di hauerc uno, che dei niederimo,che tu,tecori hauefli à rallfgrare,flc fare feft^,flC cofi mi bai commefTo.che io uenea teco. Quindi pregato da me defiderofiflimo di ud/rti, che à dir cominciaflj, bai finto ciò efTerti difficile, come fe tu non hauefli bauto uoglia di raccontarmi quefta cofa: flC io fon certo, che. al fine, quando alcuno qui non fuffe ftato,che ti haueffe per fe fteflo uoluto udire, tu haueui tan ta uoglia di dire quello, che haueui udito, che tu cri per sforzare qualunque fi fuffe.à udirti à fuo mal grado. Et però Fedro mio caro, non tt fare pregare à mia fòdisfatione di fare queU lo, che eri ogni modo per fare fenza che alcuno te ne ricercaffe^ FED. Sarà adunque me;s gbo dirti quefla cofa, come jo faprò,purcbc io la dica; per ciò che e mi pare, che tu non fia per abbandonarmi mai, fin che non Thabbia fentita. <^ Sccr. I o S O C R. Certamcnfe che tu hai^buon credtere* F E Cofi adunque faro: ma per dirti il uero Socrate, io non ho imparate le parole tutte à mente, ma io mi ricordo bene quafi di tutte le ragioni, flC argomenti: per li quali egli dimcftra un'amante efferdifTimile da chi no ama, fiC cofirdì fon deliberato nan-artele tutte ordinatamen:? te. SOC Moftrami di gratia prima quel, che tu hai nella man fiftiftra fotto il mantello, che à dirti il uero, io dubito che tu non habbia quel libro proprio: il che fe è uero, pen(à che io ti ftimo afTai; non di meno fe io poffo udire jLifia,non uoglio ftarc à udir te. Ma che fai tu, che ncn me' 1 moftrif F E D • Deh fta fermo: tu m'hai leuato d'una grande fperanza o Socrais te, che io haueua di efercitait hoggi il mio ingc^ gno con teco: ma poi che io non poffo farlo, po niamcd à federe, per leggere doue più fi piace • S O C Aridiamocene, prima che à leggere. cominciamo,dj U dal fìume Iliffo, ftquiui ci porremo à federe, doue più ci parrà FED. A tempo mi truouo difcalzo,ma fu non uai mai altrimenti: & però ci farà ageuole paiTare quefta piccola acqua, ne anchora ci douerà difpiaccre, tnaflimamente in quefta ftagionc,&à quefta hcra. SOCR. Va uia adunque, ft in tanto confiderà, doue po(&amo federe » F £ Vedi tu quel Platano cofi alto S O G R. Si ueggo. F E D. Qoiui è una piaceuolc ombra, •fiC un uentolino fcaue.flC l'herba tenera in ogni parte: fi che pofTjamo porci à federe,© à giacere, doue più ci piacerà. SOCR. Va Ij^adaquc. F E D, Dimmi un pooc Socrate, non fi dice egli, che già in quefto luogo Borea rapì Oriss fhia,uicinoaI fiume Iliffoi' SOCR, Col; fi dice» F E D. Non ti pare egh, che qui fi uegga una acquetta grata, pura, fiC chiara, nella quale commodatamcte pofTano le fanciulle fcher zarci' SOCR» Non é quefto il luogo, ma po co più di fotto, lontano due ò uero tre ftadi,do:s ue habbiamo trouato il Tempio di Diana, flc in quel medefimo luogo è un certo altare fatto ad honore di Borea. F E D. Io non fq bene quc ftacofa. Ma dimmi per tua fe Socrate, penfi tu che quefta fauola fia ftata uera t S O C R. Se -io non penfafli^che fuffc uera, come fanno an^s chora tutte le perfone fauie.non per quefto farei da elTere ftimato fcioccho: ma non uolendola in tutto negare, potrei fingermi quefta cofa,fiC dire, che il uento Borea ulcito da quefte pietre ui:s cine à (chcrzare.flC foUazarfi con Farmacia, fi ina; contro in Onthia,cCla fecegrauemente à terra cadere, della qual cola ella ne. mori: OC di qui hanno finto, che ella fò rapita da Borea, non già da qiiefto luogo, ma dallo Ariopago.doue bora fi giudicano le caufe: per ciò che è /ama affai da quefta diuerfa^che ella non fu rapita da quello^. ma da quel luogo. Hora io Fedro mio, giudico certamente quelle cofe molto diletteuoli, ma da huomini troppo curiofi, & folkcjti di quello» che poco importa, fiC da perfone anzi poco fortunate, che non: le quali fe per altro non hauefs fimo à chiamare infelici, quefta però farebbe cas:gione giuftf/Tima^che eglino tégono cofa neceffarla, che bifogni interpretale la forma de i Centauri, delle Chimere, flC di molte altre fintioni inutili. Et non folo fi truouano quefte fi fatte figure, ma à chi fi intrica in fimili cofe.gli pio^ uonoà doffo.k turbe de i Serpenti, delle Gorgoni,fiC la bugia del cauallo Pegafo,& di moU te altre forme contrafatte; onde fe alcuno di quefti cofi diligenti non crederà, che quefte co^ fe fienò flate nel modo, che fi narrano, ma uorrà Qgni cofa ridurre alla fua allegoria, & al fenfo più, fecondo lui,conuenienfe,coftui certo bara otio d'auanzo,flf fi fiderà di elTér ricordato per uia d'una fcientia roza,flc di poco memento» Maio,à dirti il uero,non ho tempo à cercare (i^ mili ccfe; perche non anchora pc/To ccnofcerc me fl:e(ro,ri come ci infegna clie dobbiamo fare 1 oracolo Delfico. Et per qnefto à me pare cofa da ridere, il uoler cercare di fapere le cofe d altri,' Don conofcendblhcTìora quelle, che à me fi ap35 partengono,flf che fono in me ftefTo. Per il che laiciate andar quefte cofe.ft crededo paramene» te à quello, che credono gli altri intorno à qucfto,non perdo il tempo nella cqnfidcrafione Io ro,malo metto à confiderare me {lefTo. ft^cofi ^ taì'hora fra me dico. Sono io una beftia più (u^ riofa,flC più rabbiofa,che non fu il gigante det^ to Tifone,© pure (come è uero ) fono nato ani^ m^ile più placabile, fiC humano,fiC più femplice; participc per natura della mente diu{na,fiC nato per godere al fine uno ftafo.ft una forte felicif^s fimar Ma non è egli quefl:o,al quale ragionado, fiamoarriuati, quello albero, doue tu mimenas ui^ FED, Quefto é d elfo. SOCR. Cerato che quefto è flato un viaggio degno: per ciò che quefto Platano hai rami larghifTimi.fiC è molto alto,£(la alteza di qpcllo Agnol cafto; infieme con l'ombra che fa, è bella oltra modo,' ficpiaceuole: fichoraè il tempo, nel quale più che mai,fiorifce: per il che il luogo tutto intorbi noe ripieno di foauiflìmo odore. Oltra ciò, è quefto fonte,che fotlo il Platano la terra riganjs s ^ do. (io bagna, cliiariflìmo, CC di acqua frefca puc afrai,comeripaoconofcerenel metterci dren^ to un piede. Et le fanciullesche quiui fcolpitc j] ueggono.&lealfre belle imagini.dimoftra:? no chiaramente, che il fonte c ftatofagratoak le Ninfe.&ad Acheloo. Non ti accorgi olfra di quefto, quanto gioconda, écfoanefia Taura^ (che quiui fpjrar fi lente r Oltra ciò/i ode una moifitu'crine di cicale: ìe quali, fecondo il temrs po cantando, ne fanno fentiie un concento non fo come fcaue.fiC piaceiiole. ma più dbgni altra 'Cofa,mj pare degna deffcr lodata quefta tenera herbetta,Iaquale.4 mirarla, pare che ella beni:s griamenteafpetfi, che altri ripofiil capo fopra 4/ lei perriceuerlo.tìcfoftenerlo commodiffima mente. Per il che Fedro mio caro, fu mi hai me nato hcggi qui, doue io fono come foreftiero, per farmia ftare più uolenfierijl che hai fatto prudentemente. FED. Chi ti.fentifre.crede:^ rebbe che tu fufli huomo da pochiTIimo: flC cer:s tamente a quel. che tu dici, tu pari più prefto un foreftiero.che uno del paefe: talmente di^ moftn non hauer mai pafTato i noftri confini, ne effer mai ufcito delle noftre porte, S OCR, Perdonamf Fedro mio da bene,|) ciò che io, coxnc (u fai^foiamente defidero imparare:& fu bea falche gli alberi, fiele unie,& li campì, non ttìì pofTono ifegnare cofa alcuna, ma fi bene gli huo >mini, che habitano la città. Ma tu, fecondo me> hai truouato un modo da allettarmi all'ufcircì qualche uolta: per ciò che fi come coloro, che à *gli animali moftrano frondi,ac porgono frutti, li menano doue uogliono: cofi tii,moftrando5 mi queftolibro,mi menareftiper tuttq il contar no d' Atene, doue tu uoleffj. Hora poi che fias mo giunti qui, mi pare di pormi à federe: fiC tu acconciatoti in quel n(iodo,che più commodo ti parrà, comincerai à leggere, F E D * Odi adunque» • I N Q^V E S T O (lato certamente fi trubuano le cofe mie: flC quefto.comc fai,p0:s co fì intefo da me,penfo che m' babbi à gioua:^ re affai. Hora io uoglio che fappi, che io ftimp, ce giudico, fecoia alcuna io ti domanderò, dos: uerla da te per quefta cagione impetrare, per ciò che io non fon prefo del tuo amore • Et che ciò Ca il aero, tu fai che gl'amanti, come prima han no la lor libidine fatiata,fi pentono de i benefiis cii,che ti hanno mai fatti: ma quelli, che dall'ai mor legati non fono, non fi pentono per tempo alcuno, la ragione è quefta, Che eglino fanno li bcneficii per fe fteflì penfatamente, fiC fecondo che pofTono.fif che le facalfà loro compocifanot & non fono à ciò sforzati, còme gli amanti. Ob tra cib,gli amanti alle uolte tra fe ftcflj penfand quanto negligentemente dall'amore impediti J habbino le lor faccende condotte à fine,ft quaa li beneficii habbino con troppo danno loro à gli amati fatto.flC quanti affanni,» quante fati^ che habbino fofferto: fif per quefta cagione mai hanno da gli amati bene alcuno,tengonù per certo non glie n'effere obligati.mahauera gliene per J'addietro dato degno guiderdone^ Ma coloro, che dall'amore non fi truouanoinii ' - gannafi,nonfi lamentano di effere ftati pccd accorti nelle faccende lóro: non gli duol delle paffate' fatiche, non fi rammaricano, per cagion deiramato,hauer con li parenti fatte grauiHime nimicitie,come fpeffe uolte fuol auuenire. Onai k de tolti uia tanti mali, che à gli amati fòlamenie interuengono, refta folo,che quelli, che non amano, come fo io. fieno fempre pronti,» para^ tiffimi à fare tutte quelle cofe,che penfano potergli arrecare giouamento. Sono molti che dicono,che per quefta cagione fi douerebbond affai gli amanti appiezare: per ciò che grandif^ fima è la carità, che uerfo gli amati loro hanno « tutte le bore, flC che fempre apparecchiati fi truo «ano à ubbidire air amato, ec a fargli cofagri!* fa ce con le parole, & con le opere, anchora che perqucfto ceruffimi fuffcro, doucre offendere pgni altra perfona. il qual parere di qui faciU xncnfe fi può confidcrare non edcr uero.chè Ic^s uafa alle uoltc la beneuolentia da uno,* in ua^ litro portala, affai più confo de i nuoui amanti 0inno,chc di quelli, che prima haucuano: fiC che pm,fequefti amanti più frcfchi gli el com mette/fero, diuentarieno c^udeh/Tjmi inimici de Ipaffati. Etin qual modo pofTjamo noi dirc^ che ne gli amanti fia cofi ardente amore, efTenj: do à quella infelicità, & calamità fottopofii, dals: la quale perfona alcuna quantunque fauia,& acs: corta, mai potrebbe rimuouerhV Et quefto è, che codoro ccnfeffano per loro fleffi effere anzi fuor di loro, che non^ft dicono conofcere la loro fcioccheza,a: pazia,ft non di meno non poa» tjfrfene rifenere,o i;ifliuouerc. Et pero gli huoismini faui, come potranno approuare,& giudicar hiioai i configli,fiC i pareri di perfone da tal mancamento macchiate.'' Olfra CIO, fe tu uorrai fciogliere un'huomo in ogni parte perfetto tra gli amanti, bifognerà che tu faccia quella fcelfà tra pochi, che pochi fono quelli, che amantifi poffano dircma fe tu uorrai procacciarti ungami tò.ì)totnpagfio,recòr)(5ofl Mi^ctio tuo,^acl t^nicofa atto;&accommodato^tra quelli, chè non amano Jo potrai più fàcilmente fare:pct tiòchc tra molte petfone ti ùd toncefTo fctrglict lo:^ più debbi fpcrare di bauere un buono ami co tra molti, cHc tra pochi, à trotianc- Et fe al fi* ne tu temi,» fuggi, come debbi fjre,l'in6mf* publica.i8C il biafimo unuierfale, quale per òrdi ration delle leggi fi può ffTet dato.ti & bifos^ gno ramf n(arti,che gli amanti\li quali per quel la cagione uoriebbono tfTer^ amati ^ per \m quale amanoilogliono poi che al defiderato fint fi ueggono giunti, gloriarfi, OC uantarfi alla fco3f perta,che eglino non hanno m uano ncHorol «more confumato il tempo. Ma quelli,che noft tìmano, con ciò fvache facilmente pofTano taccsi re,a: tenerfi di due quel, che hanno fatto, han^a no coftume di cercar più toilo quel, che penfa^j no eflérottim.o per loro.fiì per lamico^che Tefa fer dalla moUitudine,fiC dal nolgo ricordati,^! portati per bocca. Aggiugnc anchora à que^s fto.che acccrgendofi la plebe, che un'aman:^ te fegua un' amatorie afliduaménte in ogni cofa Mclcntierrgli ubbidifca,^< fimilmente gif compiace a, fubito entra in fofpùlto^ che tr* loro non fu flato, o nori fia càttiuo defidcdQ^ ma non ha già ardire di bafitnarc le amicitie dr coloro, che non amano: per ciò che ben fa, che à gli huomini fa di bifogno ben fpelfo infieme ritroiiarfi.ò uero per cagione di amicitia,ò uera per qualche lorocommodità. Etfe forfè tu teis fnefTì di quelli, che non amano, fic penfaffi, che fuffecofa diffìcile, che con quei tali Tamicitia durafTe, anzi nata qualche guerra, ò nimicitia, du^jitafTe che ne ne fu(Te per uenire danno deU r uno, ài deir altro: CC (e poi tu, concedendo i un, che non t'ama, quello che più d'ogni altra Éofa apprezi,ne uenifli per quello non poco ofss fefo,fiC faccfTì non piccola perdita, facendo cofa grata à chi poco, ò niente ti appreza, ti dico^^che per quefta cagione barai maggiormente da te^s mere gli amanti.per ciò che molte cofe fon quel le, che gli offendono, CC fenipre penfano che ciò the fi fa, per danno loro fia fatto» Et per quefto uietano à gli amanti loro il conuerfare tra gli aU fri, temendo fempre che quel l'i, che di loro più ricchi fono, non li fuperino de benefici!, ò uero che gli huomini dotti non li uincano di fape:^^ re. Et in fomma fe perfona conofcono. che in fc babbi cofa alcuna di buono, quàto più poffono, fi sforzano da coftui rimuouere gli amici, flC cofi perfuadendoli, che da fimil pratiche fi guardi^ no. no,à poco à poco li prfuanó di tutti gli amfciv^ ^ Hora le tu penlerai bene à te, « a quelJo,chc>i fi conuiene,flC Te farai miglior deliberafione di loro, non fi appiglierai al parer loro, ma te ne difcofterai quanto potrai. AlT incontro coloro^ che del tuo amore non fon preri,ma fanno quei le cofe,che ueggonoefTer conuenienti,& fi fcr^ uono ne i bifogni,folo per operare uirtuofameij te,(5f efortati à ciò da una mrtù,a: bontà d'ani:? mo, non ti haranno inuidia,fe ti ucdranno prassticar con altrui, ma piu tofto quelli harani>ojp odio, che à te non fi uor ranno accoftare,penfando (come è uero ) che coftoro li fprczino,£Ì gli amici ti giuouino,à; aiutino: flC per qucftp^ molto maggiore fperanzafi dee hauerc,che da quefta praticane uengano amicitic,che inimù citie.Aqueftecofe fi può aggiugnere,che la maggior parte de gli aitanti, prima defiderano pofrcdere,flC godere il corpo dell amato.che hab biano conofciuti li coftumi fuoi,ò l'altre cofe^ che debbono in un'amato ritrouarfi. Et di quì uiene.che fi dubita,fe latiatala uoglia loro,dei bano nella amicitia perleuerare. Ma traquelli^^ che non amano, li quali efTcndo per T addietro flati amici, non laceuano quelle fimihcofe in bf neficio dell' amico, per che eglino fuffero trop:? po afFcttionatl urrfo Ai hì^t cofa ragicneuolc, che l amieitia fia minore: ima bifogna ben cons; fefEire,chc i beneficii, che Tannargli facciano, accio che per quel mezo habbiano à efier iicor:s ciati daqnelli,che dopo loro iierranno,doue gli amanti ad altro, che al prefente,no attendono. ©Ifra di quefto(credi à nfie)diuenterai affai nusj gliore,fc afcolterai un che non ti ama, che fe à un amante prederai le orecchie: per ciò che gli amanti con lodi infinite inalzano oltra modo tutte le cofe,che fu fai, odici: parte per che te:J tnono,fecendo altrimenti di non ti offendere: parte per che dallo ardente defiderio loroacce:^ catione! giudicare fi ingannano: per ciò che la^ more fa, che coloro, che ne i cafi d'amore poco fortunati Ci ritruouano, fono sforzati à giudicare quelle cofe trjfte.ft infelici, chea gli altri non darebbono moleflia alcuna ^ Et per il contrario quelli^che hanno buona fortuna^flf che dtll'as worlofo fi godono, a mal ior grado fonconrx dotti a lodar quelle co(è, come fauoieuoli.fiC gioconde, che non meritano, ne poffono fare ftar contento huomo alcuno: ££ però più toflo farebbe di b/fogno di quelli tali hauer compaf? fione. che fegui tarli ♦ Hora fe tu uorrai credere. alle ter alle mie parole, io primieramente uoglio effe* tuo amico,ac darti apprcfro,non per il piac^re^t che di te al prefente potrei haiiere, ma per la utf lifà,che la mia amicitja per Io auuenire ti potrà dare. Et non farò quefto, legato, òuinto.ò fog^ gietto all' amore, ma uorrò effer patrone di mcs ftefTo: a non douerai temere, che io per cagiost ne alcuna, ben che leggiera, habbia fra noi à (xt nafcerc grauiffime nimicifie,anzi fc pure alle- uolfe mi altererò alquanto, non lo farò fenza grandiflìma cagione. Et non di menoqnclli er:s rori che inauuertentemente mi uetran fatti, al fine liconofcerò: ft quelh,nelii quali uolontariamente incorrerò, mi sforzerò emendare, AC»- fchifare.flCquefli fono ucri fegni d'unaami^ dtia,che habbia lungamente à durare. Etfe for fé tu pcnfi,che non pofla truouarfi una ueia^CC ' durabile amfcitia,fe dall'amore non è cagtona^. fa, debbi confiderare,che per quefta medefinia cagione noi non appiezeremo gli figliuoli, ne ameremo li padri, ne terremo cari, flC fedeli co:s, loro.che per buoni ufficii,a: beneficii fattici, d fuffero diuentati amici, fe da quefto ardore amo rofo non haueflcro hauto principio ♦ Potrecs ftr dirmi. Si dee fempre fare bene à queU li huomini^ che ne hanno più di bifogno; ft però è cofa conucnientc.non cercar di giouars rcàglihuonnini,chepcr fe fteflì hanno, mai quelli, che fono più bifognofi: per ciò che co:^ ftoro^fe da me ne i maggior bifogni loro farani; no aiutati, mi renderanno Tempre infinite gra:^ tie. Aqueftofirifpondo,chefe ciò fuffe uero, nelle fpefe^che priuatamcte facciamo,fiC ne i do ©eftici conuiti, non haremo à inai tare gli amis; Ci.ma più torto gli affamati, fiC li mendichi: per che coftoro molto più apprezeranno un tal bcis,neficio,ti feguiteranno,ti corteggieranno, ti fanno fefl:a,ti ringratieranno infinitamente, fiC pregherano iddio per te. Onde tu puoi uedere, che fi conuiene non compiacere à i bifognofi principalmente, ma fi bene à quelli, che ti pof:^ fono riftorare. Et per quefto non à gli amanti^ comeà bifognofi, ma à quelli, che mentano, debbi far piacere: & non debbi fodisfare à quei lische della tua belleza fi delettano,maà queU lische anchora quando farai uccchio,ti fono per dare utile: ft non debbi giouare à quelli, i quali hauendo il defideno loro adempiuto, fcoperta^: mente fe ne uanteranno^ ma a quelli, che uer:^ gognofi taceranno. Et non debbi far cofa gra^s ta à coloro, che per ifpafio di breue tempo ti ho BorerAoao.ma a quelli^che tutto il tempo dell* uifa tua ugualmente ti ameranno: 6C non debb accarezare coloro,! quali, fpeto l'ardore del loro sfrenato defiderio,cercherano Tempre cagioni di far nafcere nimicitie^ma quelli,! quali (anchora che la belleza manchi ) Tempre moftrano la fcrj: meza^flCla conftantialoro. Ricorderatì aduns: que di quelle cofe, che io ti ho dette, flC penfej: rai che gli amanti fono da i loro amici riprefi,fiC accufati,per chc.ramoreècofa brutta, OC inde^ gna,ma nenuno uitupera,ò biafima quelle, che non ama, dicendogli, che egli fi gouerni male, come fi può dire à gl'amanti. Foife mi domane: derai.fe io fi uoglioconfegliare.che tu debbia ubidire à tutti quelli, che non tramano. Al che io ti rifpondo,di nò: perciò che io focerto^chc iimilmentc un tuo amante con ti comandereb be.chc tu à un medefimo modo amafli tutti quelli che ti amanorper ciò che quelli, che han no da hauere gli benefici! da te, non meritano tutti ugualmete.nc à te farebbe cofa facile coms: piacere à tutti, fe uolefll che uno non s'accorgef fi dell'altro;&bifogna che di quefto feruirc nonne uenga danno alcuno, ma fi bene/che r uno a l'altro ne cauì qualche utilità. Hora io penfo hauer detto à baftanza: fe à te pare, che io ci debbi aggiugnere qualche coU,Aor.uujgi da,ch^ io ti fodisfarò. Cloe ti pare di quefla Ora fione Socrate r' Non é ella fiC nelle altre cofe,& nelle parole comporta mirabilmen ter S O C R* Ella è tanto marauigliofa, che mi ha fatto ft(i:s pire,fif tutto, per tua cagione Fedro mio, mi (os no fentito commouere, mentre che io guardauj gli attrae i gefti,chc nel leggere quefta Oratio^: ne faceui. Et però penfando che tu meglio, che io, conofca^flC intenda fimili cofe,ho hautoad ufcir di me per troppa allegreza infieme con tes: co^ F E D. Inqueftomodo mi uuoi burss lare? S O C R. Adunque parti, che io ti burhf' Non penfi tu,ch'io dica da aero/ F E D., Non certo: Ma dimmi un poco per tua fe^penss fi tn,che altro Greco intorno à fimil materia po fede dire più cofe,« pia d9ttes* S O C R, Pen fiamonoi.chcfia da effer lodato uno Scrittore folamente per che gh babbi detto quelle cofe, che fono ftate necefTarier'òpure diremo, che me^: riti lode, per che egli babbia tutte le fue paroledifpcfl:e,£(ordniate chiaramente, numeroiamen te, a elcgantementes' Se à te pare, che bifogni lodare Lifia per la inuentione, IO per farti pia^: cere, tei concederò ma io per la mia fciocche^: za,(S(ignorantia,non Tho in luì conofciuta.pcr ciò che folamente ho attefo alla eloquentia dei • pariate: al che poter perfettamente fare, io non penfo che Ljfia fteffo hc'^bbia penfato d' efier fla fo bafteuole. Et cerfainenfe à irìeè parfo(fé già '^tu non uolefh dire il contrario) che egli habbia leph'cato dne,flC tre uolte le medefime cofe.co^ me fe gli fufTe fnacata copta di faper dire diuerfe cofe fopra una mcdefima materia.ò uero uoglia^ 'imo dire, che egli no babbi hauto Ibcchio à quc fto. A me certo, fe tu uuoi,cheio ti dica la mia cpintone,è parfo che egli habbia uolufo parere •^di faper moftrare elegantemente in ogni modo, *cKe à lui pareua quella cofa,che fi metteua à dl^ chiarare, dicendola bora in uno,& hora in un' al tro modo. F E D. Socrate tu no dici niente: per ciò che quella Oratione h*a in fe quefto,chc neffuna cofa ha lafciato in dietro di quelle, che intorno à tal fuggietto accomodar fi poteuano: "onde io giudico, che neffuno poffa di quefto me defimo più cofe dire.tt phi uerifimili di quelle, che egli ha dette. S O CR. Quefta cofa non 'fi poffo io hormai più concedere, per ciò che gì' huomini raui,chc ne tempi paffafi furono, flC le donne, che di queflo hanno parfato.ficfcritto mi riprenderebbono,* mi arguirebbono con:? 1ra,fe io per la tua fodisfàttionc tei concedeffi ^ J £ D. Chi fono eglino quefti huomini, flC qiicftc donne Et douchai tu udite migliori cofc diqueftes' SOCR. Al prcfente io non me ne ricordo cofi bene, ma fappia cerfo,che io non fo in che luogo ho letto,flC udito quel, che io ti dico, & potrebbe efTere.che fufTe ò nelle opere della^èlla Saffo. buero ne libri del fa:5 aio Anacreonte,ò uero d'altri Scrittori: fiC faps; pi, che non per altra cagione fo ioquefta coniet 4ura,cheper fentirmi pieno d'altri argomenti non forfè peggiori de fuoi,che intorno à ciò fi potrebbonp addurre, Et per che io conofco be^ ni/Timo la mia ignoranza, fiC confcfTo che io non fo cofa alcuna, fenon per hauerla ueduta in aU tri^fiCnonperhauerla imparata da me, hi fogna che io confeffi di hauere attinte quefte cofe daU le fonti d'altrui à guifa di un uafo: ma per U piia rQizeza,mi fono fcordato da chi io le habbù.iaiparate,flCinche modo. F E D. O Socrate da bene, tu fai bene à dir cofi.ne uoglio che tu,dica anchor che io te'l.comanda(ri.dachi,fi(eoa?.me babbi quefte cofe apprefe: ma uaglio benc^ che tu mi moftri (come confeffi di poter fare.).quelle ragioni, che dici, che fai più efficaci, OC più dì quelle che Lifia intorno a ciò fcriffe.ll che fe farai, non dicendo le cofe, che diffe Lifu^ ti prometto confegrare in Delfo una ftatuadcl mcdefimo pefo,chc fci tu j1 che fcgliono fare i none noftri Magiflrati,come fai» SOCR* Tu mi uuoi Fedro caro un gran bene,& fei uc^^ ramente d'oro,fe tupenfi che io poffa dirti, che Lifia habbia errato, ftche fi pofTano fcriuerc cofe migliori di quelle, che egli ha fcritto. Io uo glio che tu fappia,che io non direi, che ciò po:5 tefTe accadere à un uiliflTimo Scrittore, non che i lui. Ma per dirti anchora quelle cofe,che io fo, non già per riprendere lui, primieramente parlando folo di quello. che fi appartiene à quc ftonoftro ragionamento, penfi tu che colui, che uorra prouarc.che fi habbia più tofto à fare pia:^ cere à chi non ama, che à chi ama.fe prima^nbh prouerà,chechi non ama,fia fauio,flf pruden:? te,ft l'amante infano, flC fe quello non loderà, flC queflo non biafimerà (le Squali cofe fenza dù bio alcuno, ne uengono di neceffità ) poffi nel proceder fuo dir cofa alcuna, che alle prime fia corrifpondente (Non di meno io giudico, che quefte fimili cofe, che di neceflìtà ne fegucno, fi habbiano à rimettere nella uolòta de gli Scrit tori,ficfe non le dicono, gli fi pofTa perdonare: per ciò che di queftj tali non fi dee lodare la in:^ uentione,man bene la difpofitfone.Ma di quel le cofe,che neceffanamente non fi concedono, flCcIie difficilmente firitruouano,non foìo pèfì55 fo io, che fi babbi à lodare la difpofitione^niala muentione anchora. F E D. Ti concedo che fu uero quello, che tu dici: per che mi pare, che tu habbia detto apprcfTo che bene, OC ioanchora intendo non indugiare k fare quefto.che hai detto: « però ti concedo^che tu prefupponga, che un' amante fia peggio trattato, che uno che Jima. Hora fe tu nelle altre cofe,che dirai, mi fass rai fentire p/u dotte ragioni, flC più degne parole che egli nò fece, ti prometto, che ti farò una ftass tua d'oro nella Olimpia apprcfTo alle ftatue de gli fucceffori diCipfelo. SOCR. Tu liai Fedro forfè hauto per male, eh' io habbia ripres: fo un'huomo tantoàtecaro,ma io mi burlaua teco. E penfi forfè tu, che io fia per pigliare(la:i fciamo andar le baic)un imprefa di hauere à di^ recofa alcuna più elegantemente di Iui,che.c fauifrimo,C£dottiffimorF ÈD. Tu fei ritor* nato Socrate mio in un medeftmo, dicendo que fte parole. Tu hai da dire in ogni modo quel, che tu fai;ft eoe potrai: flcfopra tutto auuertifct^ che in quefto noftro ragionamento non ci con:» uenga fare quel, che fanno coloro, che recitano le Comedie.ciÒTè rifponderci troppo fpeiTo T un 1 altro;il che é.fccondo me.mokftjflimo. E non far fi, che io fja sforzato à dire, come tiJ,pòco fi dicefti. Se ici no fapefli chi fufle Socrate, potrei dire dj non conofcere anchora me ftefTotperchc certamente fo,che tu hai defidcrio di fodisfarmi: ma tu uuoi fingere, che quefta cofa ti fia difficii k,'Et per dirtela, finalmente tu hai da penfare, che tu non Tei per partirti di qui ^ prima che tu non mi habbi dette tutte quelle cofe,che tu dirs ceui fapere migliori di quelle, che hai udite: pei! ciò che tu uedi,che nei fiamo foli,(3C in luogo re moto.fiC regreto,fiC io fon più giouane,(!f più ga gliardo di te. Si che per quefte cofe tu puoi ìn^ tendere per difcrctione quel, che io uoglia infes? rire: ne uoler più tofto hauere i ragionare sfor^> zatOjChe di tua uolontà.. S O C Io lo fo mal uolentieri.-perche io conorco,chc io farò degno delTer beffato, fe io, che fon rozo flC fciòc co al poflibIle,uorrò coptcdere con uno cofi per fetto Scrittore, flC fe io uorròalla fprouifta difpu tare di quel mcdefimo,di che eglipenfafamentc ha ragionato. F E D, Sai tu f^gmc la co(a ua^ Lafcia andar quefte cofe meco: per che io credo quafi hauer trouato una uia,|) la quale io ti con durrò.flC sforzerò à dir quel, ch'io defidero, Soc. Non mei dire di gratia. Fed.Come no mei diref anzi Io uoglio dire, io mi uolterò alli giurameff^ poi che alfro non mi naie. Io ti giuro per qatW iddio clie tu uuoi, flC anchora,fe ti pare, per quc fto Platano, che fe tu non dici quel, che tu fai al la fua prefentia,fiC fotto quefta fua ombra, io da qui innanzi non ti moftrerò.ne ti manifefterò mai più oratìone di perfona alcuna. S O C R. OfceIerato,chehaitudettor'Ocomc bene hai ritrouato il modo di sforzare un'huomo defide» rofo di udire orationi,come fono io,à fare queU lo,che ti fuffe in piacere, FE D. Hora fe tu ne fei, come dici,cori defiderofo,che indugi tu più? S O C R. Io nonindugierò più lunga^ mente, poi che tu4iai fatto un fimil giuramen:? to: per che come potrei io uiuere.fe io fuffe pri uo di cofi dolce cibo? FED. Hor dì aduns: que. SOCR, Saituqucl,cheiouogliofa5: re? F E Che cofa t' S O C R. Io dirò quel,che io intendo dire, col uolto.fiCcol capo coperto, per dire più pretto: per che fe io mirafs fi a te, farei impedito dalla uergogna. F E Di Pur che tu dica, fa quello, che fi piace. S O C R; Hor fu dunque ò Mufe dolci, il qual cognome ui fi dà perii modo del uóftro cantare, ò uero perladolceza della Mufica uoftra,la quale fi dolcemente fuona,fauoritc ui prego,& aiutate quello mio ragionamento, il quale mi sforzai éitt quefto huòino da bene: accio che poi che mi harà udito^giudichi anchora molto più pru^ dente il fuo caro amico Lina, che prima cefi uìó gli pareua* T V haicla fapere,chefik già un fanciullo^anzi pure un giouane di gen:i tiliflìmoafpetto:coftui haueua molti amanti^ tra li quali un'huomo certamente allato gli diede ad intendere, che non Tamaua^nc per ciò punto meno de gli altri il fencua caro, fif gli uo leuabenc.Hora auucnne.che un giorno egli lo pregò, che al fuo defideno compiacer doucli fe,flC per impetrare quello, che egli domanda» ' ua,gliprouò che maggiormente fi doueuafare cofa grata à colui, che non amaua,che à colui^ che amaua • Et per farglielo intendere, gliCi moflrò con quefte ragioni » In tutte le còfe fall v^>^^> ciuUo mio à coloro, che confultar bene,ò difpuf-^'^-^\ tar uorranno,fa di bifogno hauere un folo.qjìj roedefimo principio, quale è il conofcere,flC insK ^ ^/ tendere che cofa fu quella, intorno alla quale fl'^;:^ ^o' confulta, ce difputa: altrimenti è neceffario in tutto errare» E fonomolti,chenonfi accorga:» no di non conofcere, ne fapcre la fuftantia della cofa, della quale ragionano; fif cofi come fc egli» nolafapeffero^nel principio della difputaloro ' altrimenti non la dichiarano: tal chenel lor pioi^ cedere ne feguc,come è hccefTario che inferuerii: ga.che eglino dicano cofe fuor del loro propos: fito^adagli altri male intefe. Adunque acciò che ne à me, ne à tc interiienga quei, che in al:: ^rui biaCimiamo,pofcia che egli è hora differctiìi tra noi, Te fi dee più tofto pigliare Tamicitiadi colui, che non ama, che di colui, che ama, farà buono che uediamo, che cofa fia amore, & che forza egli habbia, dandogli qualche difFinifio^ ne, alla quale l'uno, fif l altro di noi acconfenta» tt cofi dipoi, hauendo fcmpre 1 occhio, flC ogni. fìoftio argomento drizandoà quella dijffinitio:: ne, confideraremo fé egli dannoso utile near^ reca. E adunque ccfa manifefta a ciafcuno,che l'amore altro non è, che un certo defiderio. Sap piamo anchora,che fimilmente queni,che non ainano, hanno queflo defiderio di cofe belle, fiC buone. Per intendere aduBque in che fia diffe^ rente l'amante da quel, che non ama, tu dei fa:5 pere, che in ogni perfona fono due idee, le quali ci fignoreggiano,ó: doue più li piacerci uolta^ no Je quali noi fumo à feguitare sforzati ouunis que elle ci conducono. Vna delle quali infiemc con noi è nata.fiCqucftaè j1 defiderio de i piacer ri, L altra T-habbiamodopo il nafcimento noftro acquiftata; fiC quella è quella opinionc,che ne gli ììiiomfni (5el fonimo Wne fi ut je,per fa qn* ic tanto afìetfuofamc'jntc lò defider/arho. Qaeftft: alle uoltefono in noi fra loro amiche, alle uoltèi' in difcordia fi truouano,& bora quefla uince^ feor fupera quella Quando adunque quella opf fìione del fortìmo bene, cÌ>e difopra hò detto^ dalla ragione guidafa,à qrfel'lo ciie è nero b^nc^; •ci conduce, uincendo il defideriode i.piacen\ quefto'nTodo di uiirere fi domanda femperanfiaS ma quando quello sfrenato defiderio, lontano al tutto dalla ragione, ci fpingc.flf sforza à feguià tare ipiaceri,& amai grado noftro fi fa di nof ^padrone, quello fuo imperio fi domanda libidi^si w: ài efTcndo h libidine di moìu fòrti, £(ha^j uendo molte parti, anchorà è nominata in molss li modi. Et di quelle molte forti di libidine, chfi io dico, quella cbe più ch'altra T alc'unb fi ritrud ua,dj à colui quel nome,col quale ella é chiais mata me può à coloro, li quali ella fignoregà già, nome alcun dare bonefto,ò buono- per chè quel defiderio, che intorno alli cibi uince &Ia ragione, fiC ogni altra uoglia,fi domanda golo^s fità: 8C colui;che ha in fe quefto alt pigi ian:^ do il.nome medcfimo, fi chiama golo(o, Anà chora quel deficlcno, che intorno al bere,d'ù'à no fi impadronifcc^è co(a chiara, flC maiiifefta^donic fi douerà chiamare, fiC anchora che nome liauerà colui, che da tal noglia fi lafcerà uincere: àfimilmentc pofTono cfTer chiarina manifefti. ì nomtde gli altri defiderii congiunti à quefti. Hora io penfo,che quafi fia fcoperto.perqual ca gionc 10 ti habbia dette quefte cofc, ma uoglio io tacerlo. òuoglio dirlo.'' Io lo dirò pure, per elle più fi intende una cofa à dirla, che à non dirla. Et pero dicp,che quel defiderio priuo di ragione, il qual fupera,&: uince quella opinion: ne, che è Tempre al giufto,fiC all' honefto indirirs zata,a ci rapifce à cercare il piacer della belles: za, quindi col moftrarci quei diletti, che dalìa bellezadiun corpo fi cauano, pigliando non piccole forze. fiC rinfrancandofi, ci uincealtutrs to>flC ^^^p^t^aquel defiderio, dico é detto ^§cù9» ciòèamore,daf 6J/^K?,che uuol dire gagliardia. Parti egli, tedio mio caro,comc ì me, eh' io habbia détto diuinamente T F E D » Certamente ò Socrate che fuor del tuo folito,ti fei non fo co:5 me più ampiamente allargato. S O C R. Taci adunque,^ odimi; per ciò che qucfto luogo è certamente diuino,flC pero non ti marauigliare, fe nel parlare farò dalle Ninfe di quefto luogo iafpirato à dire cofe diuinc: fif tu puoi hauer co fiofciuto,chequci]o,che iopocofa,diceua,non fono Tono (late molto difllmili da i uerfi Ditirambi ' che fogliono dire le facerdoti di Bacco all'horaj^, che dal loro iddio fono ripiene di diuinità^ FED. Tudiciiluero. SOCR. Di que? (le cofe ne fei cagion tu fenza dubio alcunormk odi quelle cofe, che reftano, accio che io non nji fcordi di quello, che hora me fouuenuto,al che fo certo io che iddio mi aiuterà, ft no mi ufciran no di mente. Et pero ritorniamo, feguitando il ragionamcto noftro,al fanciullo,col quale. diao zi parlaua.Hora fanciullo mio, noi habbiamo detto flC dichiarato che cofa fia quella, della quacs le noi ragioniamo. Adunque hauendo feraprc- I occhio à quefto.confideriamo.lora quel, che nercftaà dire,flCquefto è,Chegiouamento,Ó: che danno fia per uenirc per cagion di un aman te,ò di un che non ami,à colui, che gli ubidirà. E adunque neceffario.chc un' huomo uinto dal la libidine, Sedato alli piaceri, cerchi femprc con ogni fuo sforzo, che ramato più che altra cofa,gli babbi da piacere. Sai àhchora che ad uno che é infermo,gli piacciono, flC gli fon gra^ te tutte quelle cofe, che alla uolontà fua non re:^ pugnano, f5C quelle gli fonomo(efte,fi£ difpia^ ceuoli^che fono di lui migliori, ò feno migliori, ugualmente buone /£t pero efTendo T amante \t)fcmo,fìon potrà mai pafifc,clìe uno amato jpaà lui uguale, ò da pia, anzi cercherà femprc- ^^uanto potrà, fìflo da manco di lui.a più bifors ' ^^nofo. Et per che tu fai, che un ignorante è d:a^ manco che un dct(o,8C d'un forte un'timìdo,* 'id'un oratore,© olequente uno inelegante. fi(po^ co atto adire,» d'uno acuto, «uiuo ingegna kinofcmplice,er fcioccho.fe qaefti,»: molti ali. |ri mancamenti dell' animose per natura conofcè; Ìitfóuar(ì,ò per ufo in un'amato efTcr nati, ali Thora godeva fi rallegra lamantetS: non gli bi ìftando quello, fi sforza anchor de gli altii pro^:^ cacciargliene;altrimenti non gli pare poter ca^ Ilare dell' amor fuo piacer alcuno. E adunque- HeccfTario, che un amante habbia Tempre inui* ^laall'amato & rimoucndolo da ogni amicitia,^ ite da ogni efercitio^per il quale "pò te (Te diuenà tare eccellente, bifogna che grandemente glii inuoca; a k non gli nocelle per altro, per quei, ■fio al meno gli è dannofc,che lo prfua di queli |a co6,che ne fa prudentflimr. Per cièche la di iiina fìlofofia è quella.per la quale ueniamo pru^ "déntiffimi'dalla ì]*tiafc lamanfe e sforzato rfmua ll^rc quanto può ì' amato, temendo Tempre di' •pon effcre'fprezato da lui, fé pm prudente chft; V?li nQO è.diuentaiTe,.CC in fomnia fi sforza f?r« ogni cofa,'pèr la qaale egli al fu((o ignorate dh uenga.&fimaraiiigli folo di quelle parti, che ramante pofTiede. Qriando adunque farà tale la niato,airhora farà ali amante carilIìmo,ma dans: nofiffimo a fe ftefTo: fiC cofi puoi uedere,che in torno à quelle cofc,che al fapere fi appartengo:?. no,è lamicitia con un'amante nocina. Debbia^ mo bora confiderare in che modo colui, che c sforzato à anteporre il dilefteuole al buono, hab bia da hauer cura di quel corpo, che egli ama,ca fo che a lui fuffe una tal cura commefTa. Certas: mente che egli defiderà che quel corpo non fia fchietto,fiC duro, ma delicato. & molle, non nus:, trito.aauuezo al Sole nelle fatiche, ma fottò - l'ombra nelle dchcateze. Vorrà che fiaalleuato lontano da futri Ij pericoli,» fatiche, che non habbia mai prouato fudore,» lo farà uiuere con cibi feminili.ac delicati. Lo auezerà à crnarfi di colorila fàccia,» di ftranieri,fiC nuoui ucftimeti la perfona,» à fimili altre cofe,le quali tutte eù fendo dishonefte,» brutte à raccontare pia lun gamente,perpafrare ad altro le lafciercmo an:? dare.Vn corpo adunque fi fattamente allcuato^ nelle guerre,» in ogni altra pericolofa necefll^ ta,incmicì ficuramente uincono; onde li faci amici,» gli amanti hanno femprc più paura, che à coftui qualche male n5 interuenga^che ad *ltri: ma qiicftacofa.efTcndo per fc fteffa cliias ra.lapoflTiamolafciarc andare. Hora habbiama da dire che dannoso che giouamcnto nelle co^ fesche di fuor uengonojaamicitia.flC laguar^: dia d* un amante ci arrechi, Qnefto adunque è chiaro à tutti, flC nnafiime à un amante, che egli ' defidera.che il fuo amato fia priuato di tutte quelle cofe.che egli pofTjcdeJe quali amiciflì^ lfte»gratiffime,tì:peift:ttiffimegli fono: perciò che egli defidera, che gh fieno tolti li parenti,, Ce gli amici, penfan do che quelli gli dieno gran df impedimento à goder la dolceza della ami^ citia dell'amato, Ol tra ciò penfa,che un fanciul lo ricco dbro.o di qual fi uogli altra cofa,non poffi cofi facilmente effere prefo d'amore: flC fe pure è prefo.uede che troppo lungamente in quello amore non può durare. Et pero bifogna che un'amante^comejnuidiofo,fi dolga della felicità dell' amato, flC fi rallegri della miferia del medefimo, Defidera anchora,che lungo tempo uiua fenw moglie, fenza figliuoh\OC fenza cala^ bramando goderfi quel pucere,che quando co:^ (Ifi ritruouano,foIamente e/fj fentono. Sono ^^n(;hora molti altri mali in quefto amore, ma nel ia maggior parte di quefti mali, come prima (i comincia i amar qualche fpirita diuino,mefco5i. la fubifo un certo piacere, come ha fatto à uno adulatore, il quale è certamente una dannofifljs: ma fiera, fiC una grandifljma calamità: non di meno la natura ha mefcolato con quefta adulai tione un non foche di piacere non al tutto da fprezare. Oltra di quefto farà alcuno, che biafi:s mera le meretrici, come cofa noceuole^fiC altri fimili animali, ò uero fi fatti ftudi, quali foglio:? no al prefente deiettarci, douc 1 amante non fo^ lamente è noceuole^ma anchora nel praticarlo c moleftifTimo • Per ciò che tu fai, che il prouerbio antico è. Che li pari facilmente con li pari s*a^ nifconorper ciò che la ugualità dei tempo, della età di due(con ciòfiache per lalomiglian za de gli anni conduca gh huomini à delet^ tarfi de i medefimi piacerijpartorifce facilmente 1 amicitia.Ma ne gli amanti la età non pure non genera amicitia.ma arreca un faftidio troppo grande: per che la neceflìtà in ogni cofa à cia^. fcuno è mole{la,la quale più che ogni altra cofa è in uno amante uerfo T amato, accompagnata dalla difTomiglianza de gli anni, Et che fia il uc ro,tu fai, che amando una perfona attempata qualche giouane,mai ne il dì, ne la notte per fc ftcffo da Uh partir fi uorrebbe,ma è coftretto dal la necefljtà.à; dalla pafFionc amorofa^tt è fcm^prc dalle carcze de i piaceri allctfato.lc quali nel ucdcre, l'amato gufta, ft pruoua nell' udirlo, ne! toccarlo. fiC in fomma nel goderlo con qual fi uogli fciitimento: tale che con grandifTimo fuo piacere fempre fi ftudia compiacergli. Ma r amato da qual forte di piacere, ò da qual follai zo potrà effer trattenuto, che in ogni modo egli non fu da grandilTima molcftia oppreiTo.^ Eflcn do fempre sforzato mirare una feccia d' un huos ino di tempo,flCbrutto.<5C molte altre cofe.che Don folo à colui fono molcfte.à chi elle intera ncngono,maanchoraà chi l'ode.tiouatc folo per una certa neceflità.che ha l'amante di farfi r amato bèneuolo: flC qucfto è l'effer fempre disf lìgentemcnte guardato quanti pafll faccia, l'udì re ogn' hora quelle faftidiofe lodi.tt quelle ima portune riprcnfioni, delle quali fempre gl'aman* ti abbondano, flC con le quali ogni giorno li ma ' Iettano: le quali cofe accafcandoà uno, che fia padron di fe.fono però intollerabili: ma à uno, the è fuor di fe,come uno amante, non folo fos no intollerabili.ma anchora per la troppa licerla tia,chefj pigliano di dire apertamente quel, che- gli' pare, fono brutttffime. Oltra di quefto men» tre che uno ama, è fempre dannofo.flC importa* no: ina quando poi ha l'aujor fine.diuenta perI auuenirc contra dj quello poco fedele, quale.,.con molti giuramenti, flc preghi, & promcflc ^ pena potè condurre. che egli dalla fpeme di pre mioàciòperfuafo.fidifponcflj à Apportare la moIeftafuaamicitia.Ai fine quandòpur glie concelTo ritornare in fe.fi rifolucà pigliare un nuouo padrone,ac ubidire ad altro fignore: £C cofi in uece dell'amore.a: della pazia.feguita lo intcllctto.a la ragione.* la temperanza; onde ùtto un altro,cerca fempre dall' amato fuggire, <f afcondcrfi. All'hora l'amato ricordandofi del* le cofc die tra loro fi fono dette flC fatte, de i dati beneficii la mercede domanda, penfando che la mate habbia feco à ufar le mcdefime parole,chc prima ufaua. Ma l'uno per la ucrgogna non ar* difce confe/Tare d'elTer mutato,ne fa tronarc in ' che modo egli fodis6cci alli giuramenti, A pro:^ mefle,che mentre fotto la crudel fignoria d'amo refi ffouaua.inconfideratamenfc fece: « teme, «flendo già diuentato temperato. & nhidictc alli ragione, facendo le medefime cofe che prima.di non diuétare il medefimo.che dianzi era. £t di qui nafce.che colui. che poco fa. amaua, bora ua da fuggcndo.ac fchifando l'amato.ft mutatofi di fantafu.fi allontani da lui.come fe un di coloro |u|fc,a cui il gittato uafo fw cafcato à contrailo. tome ben fai.clic nel giuoco infcrutène, elici noftri fanciulli foglion fare. L altro all'incontro è sforzato à feguifare T amante. flC parendogli pur mal ageuclc cfler lafciato/j uolta al fine alle ma* le parole. Ne ciò gli accade contra ragione.per ciò che nel principio quefto tale no fapeuaquan tomai fi conuenifle, ce quanto poco lecito.» honefto fufTe à un'amante far cofa grata. quale è di neceffità fuor di mente.» quanto ben fatto fu (Te compiacere à un'huomo dall'amor libero, che fuor di fe non fi ritrouaffe. Ne tonofccns dofimilmente.che fidandofi di un'amante.G fida d'un huomo fttano.inuidiofo, moleflo, dannofo.a inutile, prima alla roba. «poi ai corpo.ma molto più noceuole alla fcientia del* ■ l'aoimo.della quale nefTuna cofa è certamente. pia oenerabile a appreffo Dio,» apprelTo gii huomini. Qucfte cofe adunque douiamo fans ciullo mio confiderare.CC oltra di quefto fi ha da luuertirc.chc l'aroicitia d' uno amante da bene» uolcntia alcuna non nafce, ma da una certa aui» diùdi faturfi.comc gli a ffamati: & però ben diffe colui in quelli uet6, fe^omeillupo l'agnello. Cefi un giouin l' amante ardendo brama. Qiiefte fono ò Fedro quelle cofc.che io h Uf ua promcffo narrarti: flC però non uoglio pa bora dire altro, ma farò fine al mio ragionamens: to,anchòra che io penfaua d efTer folamcff giun toalmezodcl mio parlare, flC ci reflaffe à dire altrettanto di quelle, che non ama,&piouarc che più torto fi haiièffi ad ubbidire i un tale: oltra di quefto penfaua hauere i raccontare di quanti beni, flC di quante utilità uno, che non ama,fia ripieno, F E D, Perche adunque fi reftii' SOCR. Non hai tu confiderato,chc io non fo più quei uerfi Ditirambi, che dianzi m'ufciuano di bocca,quantuque il mio ragiona:? meto fin qui fia flato nel uituperarei* Hoia le io feguitado uolefli lodare quel, che n6ama,quan tohobiafimato l'amante, che penfi turche io dice/Iìf' Non ti accorgi tu, che io fono aiutato,, flC ripieno di fpirito dalle Ninfe di quefto iuos^ go,fiCper tuagratia,fiC per aiuto diurno l'Per la qualcofaio concluderò breuemente,che tanti beni fono in quello, che non ama, quanti mali ti ho moftrato truouarfi in un'amante; ft però iion ci bifogna far più lungo ragionamento, ha:? uendo già dell' uno, fiC deiTaltrò a bailaiiza ra^ gionato. Et pare à me, che la noftra fauola hab^ bla hauto quel fine, che era conuenientc & pcs^ " ròpaffando d fiunic^mi uoglio partire, prima D i i i the fu mi %(orz\ atìirc quatcKc altra cofa piuvfm portante, F E D • Non ti partire anchora So^ crate, prima che il caldo non fe ne uada:n6 uedi tu,chehoraè à punto il mezo giorno, nel qual tempo è il caldo grandiflimoi^ Et peròafpettani: <Joqui^ 6C ragionando infieme delle cofe, che habbiamo dette, come prima il caldo farà mcinrs cato, ci partiremo. SOCR. Certamente Fe^ dro, che nelle tue parole tu (ci diuino,fiC uerais mente mirabile: flC però io penfo certo^che dcU JeOrationi.qualialtuoìtempo fonoftafe fatte, nefTuno ne habbia dato più cagione, che tu,flC neiTuno altro à più Thabbi potuto pcrfuadere.ò aero conletue efoifationii quello conducenrs |Cloli,ò uero in qualche altro modo sforzandoli • Et certamente m quefto(cauatonc SimiaTebac no)tu auanzi tutti gli altrirJC bora 'fecondo me) tu folo fei (lato cagione, che io habbia à dire di nuouo,non fo checofe,che nella mente mi fo^ no fopraggiunte. Il che facendo tu, pollo dire, che tu mi facci una guerra. FED, Etinche modo ti fo io guerra flC che cofe fon quefte.chc tu mi uuoi.dire^ SOCR. In quel, che io uo leua paffare il fiume, quel mio fpìnto fohto,chc tu faì,paiuc che mi faccffe lufato cenno: il che ogni uol tacche mi accade^ nò è uietato fare quel lo.cJic fogia farpeniaua,Quindi mi paruc udi:^ re una uocejaquafe mi liietana il partire. prima che io non lùuefTe placato gli dei,cofl:ie fe con^: fradiIoroIiaueflìconiiiìe(To qualche errore. Io adunque fono fcnzadubiohoggi indouino,fiC flC fe io non fono cofi de buoni, fono al meno di forte^che forfè à me farà affai, come battano, anchora le poche lettere a coloro, che male le hanno apprefe, Lt però Fedro mio, hormai ip chiammente concfco il mio fallo: per ciò che c,mi pare hauer neiranimo un no fo che, che mi indouini r erfor,che,^ ho fatto. Et quefta cofa dianzi,mentre che ioragionaua,mi turbò tnt^ to: per il che io cominciai in un certo modo à temere di non acquiftarmi gloria apprefFo gli huomini del mcndo^all'hora che io contra gli iddìi grauemente erraua (fecondo che già dilTe Ibico nella fua opera )flc bora al fine conofco, come t'ho detto T error mjp. f £ D, Qnale er^ rorc è quefto/ S O C R, Ò Fedro.un trillo ra:^ gionamento.un tritio ragionamento edro hai hoggi mcfTo in carapo.fic sforzatomi i ragiona|C ne. FED. In che modqj' S O C R. E (lata cofa ftoIta.dC empia, della quale che fi può egli più tpfto.a: noccuolc ritrouarcs' FED. N is cnte.fc tu dici iJ uero. SOCR. Ohimè, non fai tu quel, che fia amore i Non è egli fi^ gliuolodi Venerei Non penfi tu,che^gli fu uno iddio 1^ F ED. Cofi fi tiene per certo. S O C R. Et non di meno Lifia non ha detto.quefto^nc manco il tuo ragionamento, il quale non io, ma tu hai fatto: per ciò che tu me T hai à forza canato di bocca, come per incanto, Hora fc [amore è Dio, come e certamente, ò uero qual che cofa diuina.non può efler cattiuo,& non di meno noi habbiamo parlato di lui, come fe fuÉ: fe cattiuo. In quefta cofa adunque habbiamo peccato contra amore. Et certamente quefte no ftre qùeflioni fono moho fuor di propofito,an^ chora che forfè paiano piaceuoli: le quali non ritenendo in fe cofa alcuna di fincero,ò di uero, nondi meno fc per cafo faranno approuate da qualche huomiciuolo di poco fapere, quelli, che le fanno, fe ne gloriano, come fe fulTero di granrs de importanza. Hcraàme fa di bifcgno per quefto errore, placare gli iddii: & hai da fapere^ che a quelli, che nel ragionare, ò nello fcriuerc errano,è ordinato un certo modo di placare gli iddii antico, il quale Homeronon feppe cono^ fcert.mafi bene Steficoro: per ciò che efTendo (lato priuato de gli occhi, per che haueua uituis perata Helena, conobbe come huomo amico del le Mufe.pfrqual cagione cieco fu/Te diuentafo, il che non fece Homero; per il che fubito fece quei uerfi,>^Non fu uer quel parlarne in l'alfe naui Fuggendo, andafle alle troiane mura. Et cofi fatto un'altro poema di nuouo al conai trario di quello, che prima comporto haueua,fu bitoglifurendutoil uedere.Ma io in quefto farò più fauio d'ambe due loro, per ciò che in^ ^ nanzi che male alcuno mi interuenga per il hh fimo, che all'amore ho dato, mi sforzerò dire il contrario di quello, che tu hai udito r il che fa^ ' cendo mi uogli fcoprire il capo, flC non uoglio tenerlo per uergogna afcofo,come ho fatto nel mio primo ragionamento. F E D. Tu non mi puoi fare ò Socrate il maggior piacer di ques fto. SOCR. Telcredo,perchetu tidebbi ricordare con quanta poca uergogna habbiamo letto quelle cofe.che il libretto di Lifu contess "^Tieua,fiC quanto anchora fciocchamente io hab^ bia ragionato di amore. Per che fe qualche huo mo di generofo animo, modello, che al pre:s fente ama(Te qualche fuo uguale, ò uero per lo addietro l'hauede amato, ci haueffe fentito dire, che gli amanti fanno per Iteui cagioni nafcerc grandiiTime nimicitie^flc che fono huomini in^ niàìofi^a noccuolia gli amati, certo clic egli harebbc pcnfato udire tanti huomini auuezi fo Io,flCalIeuati dentro alle naui,liquali nonco:s nobbero mai un uero,fiC gentile ancore: CC unaperfonafauia non ci concederà in modo alcuno, che quelle cofe fieno Licre, che in biafmio d'sts: more habbiamo ritrouate. F E D. Certo che,io crcdo^chc tu dicail ueio per mia fe. S O C R. Et però temendo, che qualche huomo cofi fat^i lo, non rhabbia à fapcre, fichauendo anchorz paura d' amore, defidero lauare^fli nettarela mea tc.ÓL le orecchie noftrc di quello amaro, flC no^, ceuole ragionamento, cbe habbiamo fatto, con qualche altro più foaue parlare, & al gufto no:2 ^ftro più giocondo. Lo fo anchora pergiouare à lifia,perfuadèdogli che cglifubito debbia fcri:^ ucre.che più toftofi habbia da fodisfarc à unoamante,che à uno che non ama, quando l'amor re è tra li fimili. F E D. Sappi certo, che egli lo farà, per ciò che dipoi che ti barò fenti to lo;:.dare l'amante, farà necefrario,che io lo sforzi à criuereanch egliii medefimo. S O C So certo, che ti uerrà 6tto fin che durerai dVfferc co mefei alprefente, F E D. Hor dì adunque arditamente. S O C R. Hor fu; douc è egli quel fanciullo, col quale dianzi ragionaua,ac:s ito clic egh oofi ancìiora cfue^o mio nuouo pire lare, che fe forfè non infendelTe altro cIa me^ cercarcbbe anch' egli lemerariamente fare pia:: éere a.chi non Tama, F E D. QLieftofaticiulis lohauendotelo finto,tì è femprcappreflo: gni uolti^che louuoif SOGR. Fa aduns: quc conto fanciullo mio gentilesche il mio pr^ mo ragionamento Cu flato detto dà Fedro Mirjs rinefe,figh(ioIo di Pitoclc,ÒC queflo che hora di ro^da Steficoro.figkuolo di Eufemio,fauomo degno d' eiTere daciaiciino amato.il qual ragio namcnto in quefto modo cominceifemo. Q^V E L ragionamento non è uero,ìneI ^uale fi è detto, che per edere l'anì^inte pieno di fiiWc^À quello, che non ama da tal furore lifae^s ro,fi debba mjggriormente fare cofa grata m pri feotia d^i un'amante, à chi non ama, che per iì contrario: per ciò che fe fuflè in tutto uero^che il furoretuifecattiuo,haremo per certo ragioncj» uolmente parlato. Ma io ti uoglio dife,,ch^mol tì.ac grandiffimi beni ci intcraengonoper mcjs zo del furore, concefTo certamente folo iptxbt^ neficiodiuino.Etchcfia il uero^ucdiche pri-? ma quella Sacerdote, che in Delfo predice il futuro, fiC qudla altra apprefTo Gioae Dodosc nco. fono cefliflimamente ripiène di furóre^non di meno hanno Tempre date molte, C(gran diflimc commodità i gli huomini di Grecia flC priuataniente,flf publicamcnte: ma mentre che da tal furore fon libererei fanno o poco, ouero nefTuno giouamento. Et fc io uoleflì horara^s gionare delle Sibille, &dituttiquegli altri^chc hanno per uirtù diuina indouinato il futuro, flC feiotiuolefli dire cjuanfo eglino predicendo molte cofe da uenirc,habbino giouafo, troppo farei nel mio parlare lungo, ol tra che io direi co fa chiara à ciafcuno. Non di meno par cofagiu^ (la dimofl:rare,che li noftri antichi, li quali pos: fcròi nomi alle cofc.uiddero.fif conobbero, che il furore non era cofa brutta, o uituperofa.che fc gli haue(Tero altrimenti penfato,non harebbo:^ ^ noqucfta arte perfettiflima^con la quale il fu:s turo fi conofce, chiamata ^àyiKHv » che tanto uuol dire, quanto furore diurno: per eie che il furore uiene à gli huomini peruolontà diuina, & pero parendo k coftoro,chc fufle come è quers. fto furore, un gran bene,à quefta fi honcfta arte uolfero mettere un fi honorato norhe. Ma hogs gi quefti pia moderni interponendo i quella uoce un poco confideratamentc hanno qn erto furore chiamato fuy-v7JH«f, che uuot ^ire arte di ifadouinare.d: non furore. Et hai da fapcrc,chc il modo dello indoufnarc il /ufuro^' che hanno gli huomini priui di quel furore dis aino,pcr uiadegh* uccelh^flf delle conietturc, parendo à efli,chc procedere da difcorfo huma^ nojl domandarono oÌovohsìkh: ma quelli, che fon uenuti dipoi, mutando Io piccolo nel Io6)grande,]' hanno con più honefta uocc chiamato oiqvisihm • Et pero quanto è più perfetto,a: più nobile lo indouinare per uirtù dinina,chc per coieffure,flC per uccelli, tt qiun fo il nome diuino,chc è /xocvmK?, c più de^ gnocheThumano^cheè fMy^Kug, ftpiuun opera, che l'altra perfetta, tanto i noftri antichi hanno detto, che il furore, che uiene dal ciclopc più degno, che la prudentia^flC l'arte humana. Tu debhi purfapere,che già per riparare alle grandi infirmiti. che ueniuano,flC per liberarci da qualche auuerfità troppo grande, che alle uolte per gli antichi errori li popoli minacciai uano,ueniua à una certaforted'huominique^ (lo furore diuino non fo donde. Et da quellconfigliati,queirimedii ritrouauano,che erano alla falute loro neceffarii^facendoli quel furore ricorrere alli uoti.& alli preghi, al raccoman^ darfi à Dio: per quefla uia impetrando mife^ f icordia/i rendeuano da ogni infirmità.dCpe^ rìccio fahii CT per quel te nripo,* pcrquc1To,chc haueua da uenifc: K cofi acquiftauano.fiC rice:^ iieuancpfrmczodi qucfto furore dal' cielo la sflblutione del II errori loro, pur che di furore de gno,&: buono fuffeflo ripieni. Il terzo furore è quello,che uien? dalie Mufe, il quale rapifcc.J'i^nima altrui, anchor dafimile forza non più of fefa,a cefi la fjfiieglia.flC k infpira. Per il che è per uu di cantico facccdo qualche t^pbile poe fia, ornando con Ufuoi numeri, fiffcriucndouirs finiti ùtti òc gli antichi, per tal uiainfegnaà colorii, che dopo Ihì uerranno. #Jf quello, che fenzail furc^l■ delle Muk ha ardire di accoftarfi pure alla porta delb poefia,fidajndofi per quaU che fuaingfgnofà arte haiieicà diuentar buoi^ poeta^ti d'jco,che qiicfto tale 4 fine farà tenu:^ to fciocco: a lapoefia di un'hUdmoda que:s furore hbero, «i^fce finalmente uana, fit, fenza fugo alcuno, i couipararione d/ quella^ che da un' huorao funofo è ritruouata. Tut:^ quefli, a molti altri' nobilj/Timi effetti del. furor djuifìo tipofloio raccontare: per la qual cofà noi non hsbbiamo hoimai più da temersi rè ua furiofo.Ne aTgomento-^ò neramente ra:?- gioac alQU<w.CJllM da fpau.Gntarc^moftrandoci clìepiu foflo fi Iiabbfa ad eleggere un'amico prudente, & fano,che uno incitato, flC furiofo*. Ma lafciamo andare quefto.jMoftiimi coIlui,fc può, flC in quefto uincami, che i' ancore non fia da Dio (lato truouato per utilità dell' aman^s le.flC dell'amato. Doae io hora per il contrae rìogli uog!iomoflTare,chequcflo tal furore e flato dato da Dio à gli huomini per una gran^ difllma (cìicità.LsL qual mia dimoflratione à quelli, chehtigiofi fono, & che ogni cofa tropss po minutamente uogliono' fapere,tt che ogni cofa uituperano,fiCà ogni cofa appongofièf.fàà rà forfè incredibile: ma afii faui farà il con^ frario. Ma prima che à quefto ucnga,ci fa di bifogno,confiderando bene le operationi,fiC gli affetti dell'anima humana, fiC diuina, troitare la uerità di quello, che intorno à lei fi può ra^ gionare,flC difputarc. Sari adunque il princi:? pio di queda mia dimoftratione cofi fatto. OGNI anima c immortale, per ciò che quella cofa, che fcmpre da fe fi muoue^queU. la douiamo direefTere immortale: ma quella co^ fa,che altri muouc,tì: da altro è mofra,con ciò fia che ilfuomoto fia terminato, ha anchora il termine, 6: il fine della fua uita. Et pe:sr rò folamente quella cofa^ che fe (leda muoue/ per ciò che mai non fi abbanclona.nonfi rcfta mai di muouere^anzi quella e fonte, ££ principi pio del moto di tutte le altre cofe.che fi muos: iiono.Ettufai,cheil principio è fenzanakis: mento alcuno; per ciò che egli è neceffario, che tutte le cofe^che fi generano, nafchino da un principio, flC quel pnncipio non ha altro prin^s cipio: per ciò che sci principio nafceffe da qual che altra cofa, non potrebbe gii nafceredaun principio, cfTendo il principio egli • Ma cfTendo il principio fenza nafcimento.è necffTario che;inchorafia fenza mancamento, o fine alcuno; per ciò che fe il principio mancaffe,© morilTc^ non potrebbe più ne egli nafcere da un'altro,, tie un'altro rifufcitare da lui, con ciò fia che fu neceffario, che tutte le cofe nafchino da un pria cipio. Se adunque il principio è un moto,chc inuoue fe ftefro,queflo principio non può ne mancarcene nafcere da un'altro* & fe altrimenti fuffe, farebbe neceffario, che tutto il cielo man:s caffè, a fi diftruggeffe,flC ogni altra cofa creata» ^oltra di quello non fi potrebbe mai fapere on^ de quefte cofe nafchino, & da chi fieno moffe^ Adunque effendo chiaro, che quella cpfa^che fc flefla muoue^è immortale, non harà da temere di due il falfo.chi affermerà che la fuftantia del l'anima è cofi fatta;Ia ragione è quefi:a,chc ogiiìi corpo, che ha il nìoto da altri,è corpo inanima:^ to. Ma quel corpo, che ha il moto in fe ileffo^. & per (e fi miioue, quello è animato: fimilc» adunque puoi penfare,che fia la natura dell'ara nima. Et però (e gli è uero.che altra cofa non fi truoui,che in fe fle/Tafi muoua, fuor che Tanis: ma,di neceflìta ne fegue, che I anima Tia fenzi principio, fiC immortale. Dell' immortahtà dela l'anima habbiamo detto affai. Voglio bora u:: gionare della fua ideà;ò aero della fua forma,» ìmagine in quefta guifa. Se io uolefli narrarti tutte le Tue qnalità,CJ particularità,bifognareb:à becheio (i\([ì un'huomo diuino, fiC poi farei troppo lungo. Ma può bene un'huomo motà tale,comcfonio,defcriuere una certa fimilitua dine,flC figura di quefta anima, flC quella porre dauanti à gli occhi; & à far quefto,fari cofa pia breue,che à entrare nelle altre diffic ulta, che nel ragionar di lei fi ritruouano. Et però diremo per bora cofi, Facciamola per quefta uolta fimi^i le à un carro alato, che habbia il fuo rettore: la qua! figura ci è affai nota, flf (a intendiamo be:s nifijmo. Hai adunque dafapere.che tutti li cast:Ualh\flC li rettori de i carri de^li iddii fon buo^ ni,tt nati df buoni •De gli altri^che non fona fddii, parte fono buoni, & parte non. Primierajf. mente colui, che dell'anima. della mente norx j ftra tiene il gouerno, raffrena, guida, flf corrfg:^ geli duecaualli,cbe il carro noftro tirano con. le briglie in mano.Oltra diquefl:o,un di quefti duecaualliè buono.fiC bello,flC nato di ftmilfó Taltro è il contrario, & nato di contrarii. Per ii che accade, che quefta noftra moderatione,flf reggimento di caualli fia di ncceflifà difficile • Horamiuoglio sforzare moftrarti breuementc. perqual cagione fia detto un'animale mortale, 6: uno immortale, Ogni anima ha cura di tuts?: i to il corpo inanimato, flc difcorre per tutto il cielo bora pigliando una forma, bora un' aU fra; fiC mentre che ella è anchora perfetta, « riaij tiene le fue ale intere inalza in alto,fiC gouer:P na air bora tutto il mondo. Ma quella anima, alla quale fieno per qualche cafo, come ti dirò^ cafcatc le 3lc,rouiDa al bado, ne mai fi ferma, fin che non fi intoppi in qualche corpo fohdo,clic la ritenga. Quando poi quella anima ha trouas^ to doue habitare,* ha per fua ftanza prefo qual che corpo (errenp (il qual corpo fabitp che ha, in fe quefta anima, par che comincia à muo^^ ucrfi,macpera lapotentia della anima, che lomuoue} muoue) ali 'bora tatto qucfto fi chiama ani? male: & qucfta anima unita infieme con un cor po terreno (come ho detto ) U un'animale.il quale fi domanda mortale. Ma il corpo immorj: tale fi conofce non per ragione alcuna per ora' didifcorfo ritruouafa.ma quel, che fi dices'd fingono gli huomini da fe ftefli; perciò che quefto corpo non lo habbiamo mai ueduto. ne à baftanza ci è maj flato dato ad intendere, Ids dio adunque è un certo animale immortale il quale fenzadubioha ranima.flcfimilmentc il corpo,flCquefte due cole fono liate per natura in fempiterno infieme congiunte. Ma queflc cofé bifogna dire che fieno, come piace i Id* dio, a ragionandone, à lui bifogna' riferirfcne. Hora ci rcfta à dire per qual cagione le ale caa (chino all'anima. Tu ha» da fapere,che la nas tura.ef il proprio delle ale di quefta anima.é il- leuare il graue in alto uerfo quella parte del'cics lo, la doue habilano gli iddiU Sappi anchos ra, che di tutte le cofe.chc in un corpo fi nst truouano, ranima,piu d'ogni altra cofa.della diurna cognitione è participe. Qiiefta diuinità tengo io che fi pofli dire, che fia cofa bella.iaa uia, bHona,flC ciò che i tali cofe c fimilc.Da quc* (lo adunque prindpaimclìfc fc ale dell'anima fono nutrite,* per quefto più che per altro crc:s fcono,flC mchora per le cofe brutte, flC trifte>ac per le altre à quelle'contrarie, che di fopra ti ho dette, mancano, fl£ uengono à niente. Oltra di quefto hai da intendere, che in cielo è un gran Principe^il quale fi chiama Gioue. Coftui pd^ mo à tutti gli altri, guida con uelocità un fuo carro alato, ornando, fiC affettando ciafcuna cofa,. ce con fomma diHgentia al tutto procurandoé Dopo coftui feguita lefercito de gli altri iddiì^ femidei,fiC fpiriti diuini, diuifo, flC ordinato in undici parti, 6C folamènte nella cafa de gli iddii f cfta la Dea Vefta. Ma gli altri iddii (dico fola^ mente quelli, li quali fono poftì nel numero de j dodici ) fe ne uanno ordinatamente, fecondò che fono difpofti,& ordinati. Et hai da fapere^ che dentro al cielo fono molti fpettacoli,fiC mol ti uiaggi,difcorrendo Intorno fi fanno diuinifTì^ mi,& beatifTjmi: alli quali i beati iddii femprc ftanno intenti, & ciafcuno fa quello ufficiosa! quale è fl:ato pofto,CC che gli fi conuiene.fiC cofi ua feguitando ciafcuno iddio fempre potendo ugualmente,* uolendo: per ciò che dal diuin choro è femprc ogni inuidia,* ogni maleuolen tia lontana, Quando poi fe ne uanno al celeftc cofluifo, ce à guflarc le diuinc uiuande, all'ho:: ra inalzate, & già in alfo afcendendo^caminano per la circunfèrentiade i cieli. Li carri delli do5 dici iddìi bene accónci, flC aflettati, con le briglie de i caualli uguali, flf parimente da ogni banda pefando, fàcilmente caminano. Ma gli altri carri che cofì no fi truouano.à fatica fi poflono muo uere: per cicche quel caualio trifto è dalli uitii aggrauato,6C cofi uerfo la terra fi p^^ga, & feco il carro, & il rettore à forza tira.fiC quefto à quelsj li rettori interuiene,che j1 caualio non buono, hanno troppo ingraflato,fiC alThora patifcono le anime una fatica eftrema^fic fono in un graridifs fimo combattimento. Per ciò che quelle anime; che fon chiamate immortali, ciò è quelle, che no fono dal trifto caualio sforzate, quando allafom miti giunte fono,allontanatefi dalle altre, fi fer mano nel dorfo del cielo, fiC quiui pofatc,fono dalla circunferentia attorno rotate: ft quefte fos: no quelle anime, che ueggono quelle cofe,chc fuor del cielo fono pofte, Et quel diuino luogo (opra tutti li cieli non è anchorada alcuno dei noftri Poeti flato fin qui lodato: ne alcuno fi tro uerà,che mai quanta egli menta, lodar lo pofla. Quefto luogo è fatto in un tal modc(& mi met^: to i dire quefto; per che parlando della uerità, pofTo tiene hiuctt ardire di dire il acro ) è adun que fcnza colore, fenza figtira alcuna. non fi può toccare.è una cfTcntia; la quale fola fi può dire.chc ucramcntc fiaft qucfta effentia fola» mente li Icrue dello intelletto, guida, flf gouer^ Inadore dell'anima, il quale intelletto femprc fta in continoua contemplatione del (omwo bello^Etla uera fcientia, flCil perfetto fapere altro luogo non ha, che quello, che c pofto ins: torno i quefta effentia ucra,£c nella fuacognfc ttònc. Come adunque il penficro^a: la contems plationc diuina è poftafolo intornò i un'ina tellettopuro,fiCà una fcicntia immaculata, cefi il penfiero, flc la contemplatione d'ogni ani^: ' ìna,che habbia i pigliare che corpo, ò forma fi uoglia (pur che à lei fia conuenientc ) rifguarp dando per qualche tempo in quella efienfia, che io dico, che fola fi può dire che fia contea!? ta della contemplatione della uerità,di quella fi nutrifcc,a: di quella fi con tenta, fin che un'aia: tra uolta la circa nfercntia aggirandola, non la ritorni in quclmedefimo luogo.Et in quefto fuo aggiramento uede la giuftitia, con tempia la temperanza, fcorgc la fciehtia, K non uedc (jueftc uirlù come generate/flCpoftein uno,ò^in un'alfrc (Ti comé potiamo dire ) che fiend quelle. che noi qua giù confiderandaci paio^ nouirtù,ft cofi le chiamiamo, ma uede quella iiera fcientia, che è in colui, che folamcntcfi può dire che fia.-flCinquefto medefimo mo:s do ucde, flC contempla tutte le altre uirtù,chc fono uirtù ueranente. Quindi di quefti cibi nutrita, a fatia. ritornando di nuouo dentro al cielo, fc ne ritorna à cafa, dalla quale dianzi fi parti: flC dipoi che è ritornata, il Rettore mets: fendo li cauallr nella ftalla à ripofarc.gli da:per cibo T Ambrofia. (JC gli fa bere il Nettati:rc,fif quefta è la uità de gli iddii/te altre ani^.-jne poi, alcuna che dirittamente ha gli iddìi feguitato,6tta che è à lorofimile, fa tanto, che:4inchora ella inalza il capo del fuo Rettore à ^uedere quel bellifllmo luogo, che iotihodet^: oefTer fopra li cieli rftcofi ancho ellainfies» me con gli iddii è dalla circunferentia de i cicjs li aggirata, a portata, ma à T ultimo dalli cauals: li e trafportata fuor della uia: talmente che à grandiflìma fatica può mirare quelle cofe, che in quelli Iuoghj,di uentà piene fi ritruouais no* Alcuna altra anima hora il capo del Ret^ Jore in alto leua^tt hora la abbafTa: onde daU £ ini Ifcaiialli sforzata, parfe ucde quel bcne,flf parte non. Et le altre anime tutte ugualmente defiderando ftar di fopra.feguitano quefte tutte ins, fj fiemc confufamente: a non potendo in alto le:: I uarfi,premendofi tra loro, fono à torno portate: ! fCcalcandofi^ficrunaialtra fpingendo,ft ciafcu i:na quanto più può di pafTare innanzi sfor7an5; dofi, fanno tra loro grandiffima contefa:.onde j ne nafce un romore,un. combattimento, una fafica grandiffjma: nella qual con(éfa,per uitio, ce difetto de i rettori, molte fi azoppano, molte delle altre rompono le penne delle ale,a al fin tutte dopo un;i lunga, flC gran fatica, fen za p 0:5 ter pur uedcre quella effentia diuina.che io di:^, co, che è ueramente,fi partono, flC dopo quefta lor partita fi pafcono folo d'opinione, non potendo quel fommo bene per altra uia conofcerc: a ciafcuna fi sforza, quanto può, di poter haue:5 re quefto cibo,defiderando conofcere doue fia il bel campo della uerità. Per ciò che di quefto prato la natura dell'anima per fe fteffa ottima, xaua conucniente cibo,Cf di quefto fi nutrifcc la natura delle ale,con le quali in alto fi leua^ La potentia diuina poi (la qual non può in al:^ <un modo fallire ) tiene quefta regola, che cia:^ felina animaja quale mentre che gli iddii ac:$compagnaua.C6mpagnaua,puotc ucdèrc qualche fcintiTIa del la uerità,quefta tale dico, uuolc che per fin che un'altra uolta non fia dalla circunferentia aggi^ rata (come ho detto difopra ) fia fuor del perb xólo di perder le ale, òdi riceuere danno alcu» no:fiC fe Tempre potefle girando quella uerità uc •dere,non farebbe mai in parte alcuna offefa,Ma fe non potendogli iddii Seguitare, non fi fuffc potuta condurre i uedere quel fommo bene,flC per qualche cafo contrario ripiena d' ebliuione, ce di malignità fuffe dalli uitii al baffo aggraua:^ ta,flC in queftoabbaffarfi.a deprimcrfi rompete fi le ale, fiC cefi rouinando in terra cafcafre,al2s rhora la diuina legge uieta,che quefta tale anb ma la prima uolta, che qua giù à forma alcuna -s accoda, fi uada ad accompagnare con la natus ra di beftia alcuna fenza ragione, ma uuolc, che •quella anima, che molte cole fa in cielo habbia uedute^uadaà trouare lageneratione d'un huo tno,che habbia da effer Filofofo,ò uero defiders rofo di belleza,ò uero Mufico,ò uero d' un huo modato alle ccfe d'amore. C^ell'altra, che non ^quanto la prima habbia ueduto, ma nel fecon:5 do luogo fu pofta, comanda quefta legge, che difcendainuncorpo,chehabbia da effereRc per legge, fiC ragioneuolmete.ò uero in un bua iao dato alle guerre, flC atto ad efferc Impera^s <lore,ò Capitano ♦Quelle poi, che nel terzo Iuoj: go fi fruouano.ordjna che fi mettino jn un huomo.chc habbia da efTere gouernatore d'una Rcpubhca^òuero in uno, che debba difpenfa^ re,ft diftribuire la robba.ft hauer cura della fajs miglia, ò in uno,chefia dato al guadagno. Quel k.chcpiugiu tengono il quarto luogo, fe ne uarino in un huov(}o,Ql}€ hsihbìà da durar ùth.ca,òaeroin uno, che fi habbia daefercitare in^: torno alla Medicina, fif alla cura de i corpi.Quel Ic,che più di foltonel quinto luogo fon pofte, é s'accoftanoà coloro, che debbono fare l'arte di indouinarc,òuero di augurare per uia di facrb jficii,ò d'altri mifteri, Quelle, che la fefta fede tengono,defcendono in un'huomo,che hab:s bia da diuentare pQeta,ò ucro in uno di coloro, che fono nati ad imitare altrui. Quelle, che fono le feftime dalle prime, uanno;fn uno.che habs biada efTere òartefii^e^ò agricoltore. Le ottauc in un fofifta,òucro in una perfona plebea.flC iiile. Quelle finalmente, che nel nono, flfultis: mo luogo fi ritruouano.fc ne uanno a diuentare uno, che debbia efTer tiranno. Et in tutti quefli •fiati di Ulta qualunque giuftamente haràmes». -fiato i giorni fuoi.dopo la morte harà miglior forte, clic quelli, che friftamcnte fono uirtuH: flf quelli, che ingiufti fono flafi,uannOÌ pcg:^ |fóré fl'a(o,che colore), che fono ftafi buòni: pei d'oche non ritoma Tiinimatn quel medefimo luogo,dcnde prima fi partì. più preflo che ih fpatio di dieci hhirlia anni.Per ciò che auanti i queftofpatiodifefnponon può racquiflare le àie, fuor che l'anima di coluj,che uitiendo hà fenzauitio alcuno atfefo alla Filofofia,òuer«5: mcnfeha amato la helleza^fiC infieme grande^ ifnente defiderafo la fapienfia: per ciò che quei ftefali arfime/enza dubio alcuno, dipoi che ^treuolte fono paiTate mille anni (purché efs Icno^ uoglino dopo la prima morte, tre uolte tornare in quefta uita ) all' bora hauendo rac» quiftate le ale dopo tre milia anni,al cicl uo^ landò fi partono. MoHé altre aniine, morte che fono, la prima uolta fono da Iddio gJu^ dicate, a dannate r ttcofi giudicate, altre an^- dando fh^un'iù'ògo,il qaaTé ne! cèntro dcU la terra è porta per punit»one delle anime cgitti tiue.quiui patono del fallir loro meritcnoli pe:» he. Altre pòi dal giudicio dìuino innalzai te, in certo luogo del cielo forio in quel modo trattate, che fi hannoqnagiu in terra uiucns do meritato: flf poi tra mille anni qucfte due- forti d'anime, ritornando al mondo fi eleggono una feconda uita,ec ciafcuna può pigli^rfi queU la forma, che uuole. Quindi uienc, che l'anima humaha pafTa alla uita d'una beftia^flC dipoi dunabeftiadiuenta di nuouo huomo,pur che quella anima fia (lata un'altra iiolta in un'huo mo. Per ciò che quella anima, che non harà mai ucdutaìauerità,òpoco,b a(rai,non potrà mai pigliare la humana figura: per che bifogna che quello, che l'huomo mtende, l'intenda per me:s zo delle fpetie delle cofe,che dauanti gli ii ap:5 prefentano.a quefte fpetie per uia di molte, ÒC uarie cognitioni nella mente noftra raccolte, fo^ ijoalfine con difcorfo infieme pofte,eCc9m5s prefe. Et quefta cofa altro non è, che la rimems: branza di quelle cofe,che già Y anima noftra in C4elouidde,air bora che infieme con iddio era perfetta.-a quando ella fprezaua quelle cofe,che noi fcioccamente diciamo che fono,riuolta fola:? mente allcontemplatione di colui, che è uera^ mente. Per la qual cofa l'anima folo del Filofoss fo meritamente racquifta le ale.per ciòchequan to p-r un'huomo è poflibile,fempre con la mera móna fi riflringe,flC fi accofta à quelle cofe^allc quali accoftandofi,(5f riftrfngendofi iddio, è di^ uino» Colui adunque, che farà quefta confide^, ratione din'ttamenfe,& ragioneuoImente,flC cefe cherà fempre di nempirfi la mente di qucfti cofi pcrfet(i,fi£ fanti mifteri, quefto folo diucnterà perfetto. Et cefi diiiifo dalli ftu di, che fanno gli altri huomini,flf accoftandofi alla diuinità,è th prcfo,flC morfo dal uolgo,comc fe egli fufle ufci to di fe. Ma egli ripieno, flC ebbro della contem plationc di Dio, non fi lafcia cònofcere alla mol titudine. Per quefto adunque ho fatto io qùc^ fto mio ragionamento, il quale è porto intorno alla quarta forte di furore-peri! qual furore quan do alle uolte uno di quefti tali nel uederequa giù qualche belleza, fi ricorda di quella uera, che gii uìde in cielo,rimettc fubito ralc,fiC cofi rimelTe che V ha, fi sforza,quanto puo,uolando al cielo inalzarfi. Ma non potendo ciò fare^coje me gli uccelli po(rono,guarda,flC confiderà pur uerfo il cielo, fprezando qucfte cofe bade «onde ne è biafimato fiC ne riporta uergogna,dicendo:j gli ciafcuno,che egli è poco fauio,flC ripieno di furore. Per la qual cofa quefta diuina feparatio:^ • ne dell'anima dal corpo è fopra tutte le altre, che interuehire ne poffano migliori, Et da ca:^ gioni ottime nata,d: non folo è gioueuole à chi in tuttolapo(riede,ma à chi qualche poco ne participa. Et coiui,che di quefto iurore fanto.tt |>uotio è ripiano, con ciò fia clic egli afmrla bel:? ilcxa.quefìo ueramente fi può dire arhantc. Per ciò che, fi come ho difbpra detto.ogni anis ma huroana già ha iieduto quelle cofe, che ue^ ramente fono: per ciò che fe non le haueffe uc jàiite, non farebbe difcefa in quefto animale hu mano: & non, è f^c^le i tutte le anime ricor:i darfidclfecòfedilàfù.per uedere quelle/cbc qui fono. Et prima lo poflono mal fare quelle; che per breue fpatto di tempo fù in ciclo gli fu conceffo uederic: dipoi non è conccfTo anchora ^ quelle, che nel mondo uenendofono fiate ina felici, ce Ila nno hauto mala fortuna: di modo che corrotte da alcuni coftumi cattiui.che qui pjgliano/ifccrdano in tutto di molte cofe (st^ gre,©: buone, nelle quali in cielo erano gii ammacftrate. Perii che poche anime fi ritruor? uano,che àbaflan2a delle cofe celefti fi ricors dino. Ma quelle poche quando tal'hora qua giù- fcorgono qualche iomiglianza di quelle cofe^^ che in cielo gii urdderò, fi ftupifcono, ftquafi cfcono di fe. Et non di meno non fanno don^ de quefto lor mouimcnto proceda; per ciò che non conofcono in tutto la uerità.ne a baftanza fe ne ricordano. Ne pct/amonoi fcorgere,menp tKchcqyagiàftiaDoioin quelle fi^ure,« imaa gini,fplrndòrucro alcuno di giuflitia, di tfmp< ranza, fiC delle altre uirtù,che gl'animi npftji J)<^ norano.flC amano. Ma per certi inftruirenti,fiC fxìczi imperfetti ofcuri à pena pochiflimi huomini accoftandofi pure alle imagi ni> di iq^cl le uirtùcelefti,che nel mondo fi ritruQuano, tifguardanoin qaelle imagini quella forte, di uirtù,che fimile imagine gli. rapprefej?ta. ali' hora ci era lecitc,<X conceffo uedere una chi^ riflima^flC pmiflìma belleza, quando con quel beato choro fegiutando noi quella felice uìGq:» ne, 6: quella fanti/Tjma contemplatione. della quale dianzi fi ragionai, noi infiemc conGio:^ ut,& ìt aìttc 2nitrìc inficmecon qualche altro iddio, fecodo che era ordinato, pQtcmo con teni:^ piare la diuiniti: flC quando à quelli miftcri,fl£ cofc fagre dauamo opera, li quali potiamo ragio iicuolmentc dire efTer più di tutti gli altri miftc ri fagri,flC beati, alli quali all'hora noi poteuamq attendere, quando anchora immaculati. flC nò of fefi da mille mali efauamo,che poi habbianio in quefto modo prouati.Onde confiderando all'ho ra quelli celeftì fpcttacoli cafti,femplici,durabi li^tt beafi^poteuamo beniflìmoà tal fanto efcr^l tic fcruirc ftado noiin una luce pura pun^ttfen M machia alcuaa,Iib^ri,&fciolti da c^uedo^chcWtor chiamiamo <;orpo,il qiul crbifogna ì torno portarci noftro mal grado, efTendo à quello le:5 gati,6f in quello rinchmfi à guifa d'oftnchej ce quefte cofc non fi fanno, feno per uia di mc^: nicria,per che noi ci ueniamo à ricordare delle cofe padatecdallaqual ricordaza hora io fon fpin to: ce efortato perii defiderio) che ho di quelle xofe.che già ho altre uolteuedute, ti ho fàtto queflo ragionamento, Hora la belleza(come ti ho detto ) quando già erano le anime in cielo,^ Infieme con loro caminando rifplcndeua,fiC di poi, chequi fumouenuti.rhahbiamo riconos fciuta, per ciò che ella chiariffimamente rifplen:? de,& fi moftraà quel fenfo dellj noftri,che più •di tutii gli altri ha in noi forza, flC quefto é il feri fo del uedere: per ciò che quello é il più acuto di tutti gl'altri noftri fenfi^che permezo del tòVpo fon cagionati, col qual corpo, flC con li quali fenfi non fi può cognofcere.nc uedcria fapientia: per ciò che ella farebbe nafcere in noi ìun'ardentiffimp amore di po(rcderla,fe un qual chcfimulachro,òimagine di ki dauanti à gli occhi manjfefìamcnte ci fi pofgefTe: fiC il medefi mò potiamo dire di tutte l'altre cofe,che fono degne de/Tere amate. Non dimenolabellezsi fok ha jpiu dellaltre haute quella preminentfa^^ che ella più;d- ogni altra ci fi fa uederc,& piu che ogni altra cofa ad amarla ci muoue. Et però colui, che dianzi non atteie à quelli fagri miftc;? ri, ch'io ti difli,anzi più tofto e, dando qua gm^ corrotto da quefte cofe bafle^non cofi preftofi inuoue,fiC leua ranimo all' amor di quella bels: Ieza,anchor che qui uegga una certa fc^iglian za di quella, che da quella eterna il^ nome pi:^ ghando.pur belleza fi chiama. £t per quello nel uederla non l'ha in ueneratione,flC non l'ha nora,maà guifa d' una beftia.dato folamente al piacere, uorrebbe pure à quella belleza acco:5 ftarfi, flC generare, & produrre figliuoli: fiC cofi importunamente afTaltandola, non teme punto fargli difpiacere.ne.fi ucrgogna dandofi in prc:? dai quel fuo difordinato appetito, pafTar gli or^s dini della natura, Ma colui, che alli detti mifte;^ ri poco fa diede opera, fiC che già in ciclo con^ tempio, molte cofe degne, flC (ante, quando egli uede un uolto ben fatto,ft di belleza diuina ot^ nato, il quale perfettamente quella diuina, & uc ra belleza rapprefenta,ò uero quando contems? pia nò pure il uolto, ma qualche altra parte ben fatta del corpo, primieramente fi empie dihorrs rore,fiC tofto teme di lui, come fe fufleunacofa (ckfte già dalui pa altri tempi u^duta: quindi più minutamente rifguarclandolò come Iddio lifaonora.flC fé egli non temefTc di edere accuiaj«; to per matto, ti dico che egli non altrimenti aUj l amato fuo facrifìcarebbe^chc farebbe à una fta^r tua di iddio. Et mentre che egli pure il contem pla/ifentequcU'hprrore. del quale era pieno, in fudore,fl(in ardore conuertire, dal quale in brcuc tempo tutto fi truoua occupato. Per ciqr che air hora,che egli per gli occhi beue quclU bcllcia Cubito tutto dentro fi riicalda: dal qual caldo la natura delle penne della lua anima é co me matfiata,a dipoi che egli è bene infuocai^ to,fi intcncnkono quelle parti delle ale,clic pullular doueuano.ac che dalla dureza riftrctte, metano alle penne il poter gernpogliare. Qjiianp do poi per gli occhi e ben penetrato il nutrìs; nicnto di queftc alenali' hora il germoghar delle penne, che prima comincia dalla radice i ingrof (àfC,ìmpetuo{amente per tutta 1 anima moftrarfi (i sterza per ciò che Tcinima era già tutta dalle pcnne copcita.fif da quelle io alto foftenuta} tak^^ in quello tempo ci anima tutta in grao dèiiìmo leiuore^tt uonebbe pure inaizarii: flC non aitranrti che làccino ifanciuUt. quali allW u che pruni mcttoiìo i depti^t^no da on certo iociOiC iMfitfi, aiiiciué dà un dolore delie gicQ gfc moleftatì.cofi l anima iicl meffere le penne tutta fi commuoucflffi riempie in un tempo dj piacere,» di moleftia. Per il che mentre che eia la uede un giouane bello, beucndo per gli ocs chi quel piacere, «quel defiderio.chc da lu|'t uiene,airhora inaflìata.come ho detto, fi rifcalr da,flC all'hora nó fi duole. ma fi rallegra cifra mo do. Ma quando poi egli s allontana.flC che quefcl li meati fi rifeccano.per li quali l'ala uoleua ufcir fuon.allliora andi.fif riftretti.uiefano il gcrmoa gliare delleale: di modo che quefta ala infieme2i con quello amorofo defiderio, parendogli elTcr dentro rinchiufa, uolendo pur' "faltar fuori dai (e flcfTa, richiude quei meati.donde ufcìr po* trcbbe.fif fa che di nuouo ne nafce ali anirra nó poco dolore. Et pe^quéfto è tutta l'anima da ogni banda oii'efa,fiC grandemente dimoiata,» mal trattata Ma ricordandofi poi di nuouo del? la ueduta belleza,in quello fi diletta.» di quel Io folo fi rallegra. Et cofi da ambe due queftc paffioni infiemc mefcolate.ciò è da quello sfor* zamento.ec impeto di rimettere le ale. & dalU maraiiiglia della piacciuta belleza è in un fems po moleftata.Onde piena di anfietà,<urio(à d/» licnfa flCè daqucftofuror in tal modo condotta, che ne la notfc può dormire, ne il giorno in lue go alcuno fermarfi, ma quinci, 6f quindi fi ags gira,fiC fi fbatte,mofra pure dal defidcrio di riue dcre quella bcUeza, la quale di nuououedcn^ tìo,& beuendoquel defiderioamorofo per gli occhi, CQmc ti ho detto, all' hora di nuouo apre, & ageuola quelle parti delle fue penne, che prtp ma erano infieme riftrette.fic chiù fé: fiC cefi àh poiché ella ha cominciato à rifpirare,fiCriha2: uerfi,à poco à poco fi hbera da quelli ftimoli'i ft da quelli dolori, dalli quali prùr^a era offef^é Tale che da quefto foaui/Tjmo piacere 6nto è in quei tempo uinta,che mai per fe da quelli allet^: tamenti non fi partirebbe, ne altra perfona più appreza,chc l'amato, ma fi fcorda del padre, CC della madre, de i fratelli, fif di tutti gli amici ' fuoirttfe tal' bora (come interuiene ) manda in quefto amoremale.ft confuma il fuo,non fe ne cura punto. Oltra di quefto fpreza tutte le '.amicitie,flC dignità, che haueua fuo padre, delle quali gli fi farebbe tra gli altri gloriato,^ fole fi contenta di feruire^fiC diefler foggietto àogni ''«olontà dell' amato, pur cbe egli pofTa efferaps: prefTo al fuo fuoco • Per ciò che non folo honoi^ ra,ficha in ueneratione quefto b^llo,chc tgli ama^ma anchora Io truoua ottimo medico d' gni fiu grauifTima paflionc. Quefto afFetto adun qac,2(quefl:o mouimento,b giouane gentile, gìihuomini l'hanno chiamafc ef^SiDC cioè amore. Et fe io ti dicelTe in che modo quefto amore è chiamato fu in cielo dalli dei, certamen te,che per cfTer tu giouane, harefli ragione di ridere. Et che fi^il uero, certi imitatori d' Hos: fnero compofero già due iierfi fopra quefto amo re.cauati (come penfo ) dalli fecreti.flC mifteri diuini,delliquali unoèin uenti affai goffo,flC poco elega n te, flC dicono cofi, Chiamano amor uolatore i mortali. Li dei alato, per che à forza uola., ^ A quefti uerfi in ^arte fi può credere, in parte non: ma fia come (ì uoglia,un tratto quefta^ che io di fopra ho detta, è la aera cagione damo rc,fiC lo affetto, flC la paffione de gli amanti; Ci però tutti quelli, che ameranno, h quali già fe^ guitarono Gioue,po(fono più fauiaméte,fiC più conftanfemente portare il pefodi quello alato, che io ti ho detto. Ma coloro, che già honoraro^ no Marte, Ce fu in cielo infieme con lui andoro^ no intorno, poi che dall' amore allacciati fi truo^ uano,fe mai penfano di riceuere dall' amato in^ giuria alcuna, facilmente corrono à far dei ma^ lc,fi£ à uccidere; cefi furiofamente ò fe ftefli, è gTi amati loro priuano uifa/SimìImfnfc eia fcuno honoraquel roedefimo iddio, col quale già andò in fchicra: flC quello cerca fcmprc quan to più può, in Ulta fua di imitare, fin che egli non fi lafda da i uifii corrompere. & in quefto modo mena i giorni della prima fua uita,t3C cofi fafto a gli amati fuoi^flC à gli altri Tempre fi mos: ftra, Et però cfaicu nò, fecondo i coltumi fuci.fi elegge à amare uno, che à lui paia bello. Qujns: di,comc fé quello fufTe il fuo iddio, fe ne labri^ ca una imagine.fiC quellaorna & fa bella in quel modp,che fe à quclla,flC non ad altro idolo ha:? uedeà dare honcri,flCà facrificare» Onde co:5 loro.che di GiòUe furono feguaci,flf che quello honorarono, cercano d'amare uno. che Simiù mente habbia T animo giouiale: fiC per quefto / confiderano, prima che l'amino, molto bc5: nc,fe quefto tale è atto per naturatila FìIoì: fofia, òueramente al regnare, alle quali cofe Gioue inclina. Et poi che conofcmto(o,fiC ri:^ truouatolo tale, lo amano, fi sforzano con ogni ftudiodi farlo diuentare fimile al fuo iddio. Et fe forfè eglino non fapeffero per loro quel, che à gli altri uogliono inregnare,airhora ol:? tra modo fi sforzano, flC cercano di imparar fem:5 pre qualche co(à per qualunque uia gli è con:s cef?o: flf coli infiemtf con gli amati à queftrf coli honcfta.flclodeuole opera fi mettono, (alt che diligentemente ricercando, fif in fc fteffi inue^ ftjgando la natura di quello iddiojl quale ad honorarc fono inclinati tanto fanno. che al fu: re pur uengono a capo di quefto loro honc;^ ftodcfiderio. Etnon'c ciòmarauiglia,per ciò che eglino fono dall' angore sforzati à dirizarc la mente, ftconfiderare con intentione gran^ dilTjnia à quel fuo iddio: di modo che pur al fine ricordandofene, fono fubito di undiuino fpiiito ripieni: il quale fpirito fa, che eglino pt^.glino coftumi, fif ftudi tali, che in brcuc tem^s pofi fanno participi della cognitione di Dio, tanto però, quanto à un'huomo è lecito. Et per che di tutte quefte cofe fanno che ne è cas: gione l'amato, ogni giorno più ardentemente nel fuo amore fi accendono. Et fe cclloro th ceuono quefta diuinità da Giouc (come anchoss ra le Sacerdoti di Baccho,cheda lui di furor fono ripiene ) infondendola tutta ncir animo dell'amante, in breuefpatio di tempo, quanto poffono.à Gioue lor proprio iddio, fimilifTimo Io rendono. Tutti quelli poi, che già in cielo feguitarono Giunone, cercano per amato loro un giouane d'animo regio: ilqual poi che han^ ìfìo frbuato.dfucntano Cmili à *q!iclli\che di fos prati ho detto.fiC uerfo di quello operano in quel mcdefimo modo» Oltra di quefto, quelli, che honorano Apollo, ò qualunque altro iddio, ciafcuno il fuo proprio iddio, imitando, cercano ' tutti un giouanc.che per natura habbi il medcsi fimoanimq^chc loro: il quale poi che hanno trouato, prima il lor proprio iddio imitando, poi alli giouani pcrfuadendo,che li medehmo faccino,flC moderandogli in ogni loro cperatio:? ne, fecondo il lor fine, quanto le forze loro com portano, di condurlo fi sforzano alla imitatione del proprio loro iddio, fiC alle loro fimili operai troni «Non portano coftoro alli fuoi giouani ìnis uidia,òmaleuolentia alcuna, ma con ogniftu^ dio fi sforzano di conformarli alla loro perfetta Ulta, ùmilmente a quella di quello iddio^ che ambe due naturalmente honorano. La cura ' adunque, & il fine di quelli, che ueramente fo5 no amanti (pur che eglino fi conducano à poÉs federe quel,che io ti ho detto, che defidcrano ) fenza dubio alcuno altra non è, che qucftachc io ti ho defcritta. Et è quefto fine per cagion del Tamtete per amor furiofo in ultimo all'amato lodeuole, 2C feliciflìmo.fe quefto amato farifi^ inamente prefo d'amore, £t per che tu fappu irCome un amafo fi conofce dallamor uinto.te Io;:dirò. In quefto inodo adunque qualunque ama ^(ofarà d'amor prelo,fi conolceri. Nel prii ci pio di quefta noftr^. fintione diuidemmo ogni anima in tre parti, flfdimoftrammo li caualli di;due lorti.ò: cofi ppncmo^fpiDjC due parti dell'ai fili ma, li Rettore fu poi la terza parte. Quefte me;defime cofe ci fa di bifogno cònfiderare al pre:? rfente,Già tu fai, che di quelli caualli uno ne è buono, flc uno trjrto; ma qual.uirtù habbia quel ivjibuon cauallo,fi(qual fia la malignità del trifto non Thabbiamo ar)chor detto^flf però bora deb biamo dirlo. Il caual buono è di perfonapiu ^ j.grande,(Sf più ben formato, ben compofto,flCà »^artei parte tutto ben fatto, con la tefta alta, le narici affai bene aperte, come quelle dell' Aqui^ 'la, di color bianchifTimo.coJi gli occhi negri,. defiderofo folamente di honore, fiC ripieno di temperantia,fiC di uergcgna, & amiciffimo del { aero; non ha bifogno di ftimulc^òdifprone al:» ccuno^ma folamente fi regge, fl£ guida con l' efor.Catione, & con la ragione. L'altro poi è torto, uario,CC malifTimo fatto, di una oftinata "oglia, }{b col collo bado, ha il modaccio fpàanato,^^ fchiaciato di color fuko,cò gl'occhi brutti,flC di color fanguigno macchiatile garofo^bcftiale, con le orecchie pelofe OC forde^flf à pena ubedi> fcc alle battiture, fiCalli ftimoli.Oliando adun^ quc il Rettore uede un uolfo degno defTer ama to.fiC infiamma tutta I anima del piacere, che ne fente,è fubito da una certa allegreza commofc fo, flC da certi ftimoli di defiderio. all'hora quel cauallo, che delìi due è al rettore ubedienfe,co me è fuo coftume, dalla uergogna raffrenato da fe fte/To indietro fi ritin per non andar' ali amac (oàd doflo. Ma l'altro non fi può far reftare ne con gli ftimoli.ne con le battiture, anzi auanti fi fcaglia,ft per forza il cauailo,che è feco con^s giunto, ac il rettore infiemc rcompigIia,flCà/cit mal grado li tira à uoler fentire il piacere, che da Venere fi caua. Ma quelli due nel principio no l'ubidifcono,fdegnati che dal rio cauallo à cofc indegne & ingiufte fieno à forza tratti.finalmefc lìoncefTando quello importuno diùxcil peg^: g/o, che j può, sforzati purfilafciano portare, flC cofi gli cedono, & Io contentano di fare quello^ che à lui piace; (ale che in qucfto modo fi ucn^i gono ad accodare al piaciuto bello, flC uaghegs.giano tutti infiemc il charo afpetto di quella, Ilqualpoiche ha bene il Rettorconfiderato, a poco à poco della uera natura di quella bclleza Ti uien ricordando^& cofi un' altra uolta^come già in del fece, col pènderò riiiede.mà u^clc quella nera dalla temper^ntia accompagnata, fiC ftabilita nel fermo fondamenfo della caftjia: però parendogli pur iiedcre quella uera,& diui na t'elfeza, comincia di lei riucrentcmente à tc^r mere; flc dairhonoiT.che gli porta uintojn tcx^ ra hufnilmente fi lalcia andare.-fiC facèdo qucfto, c sforzato di tal forfè tirare le briglie delli due ca ual!(,che bifogna che k forra dieno dellegropsc pe in ferrala uno di quelli per fe flelfc,ptf ciò che non fa ali' incontro sforzo alcuno, ft l' altro, che è tiif(o,fiC beftiale,C! na al tatto contrafua fcogliartì ariojifanandod poi da quella belleza^ iìV dì quelli per la uergogna,d marauiglia grafi che hahauta,tuttaranifnadi fudor lafcial^a gnatafiC laltro libero da quel' dolore, di che il tia rar del freno,5C il cafcar in terra Thaiiea ripieno,i fatica può tr^it* il fiato.-ma poi eli e tn fe r itornaK)', tutto da fdtgno comoffo il Rettore, & il cauallo feco congiunto riprede, che per paura, fiC da po^ cagine di là fi fieno pattiti, doue egli tirati gl'ha ue*i.Quindi non uolcdo però eglino ritornargli, di nuouo sforzadcglf,pur al fine à fatica gli con cede, che con preghi da lui impetrino, che per fino all'altro giorno fi indugi à ntornare!il quale ordinato tempo'uentndo, fingono di non (e nt ricordare;.ma egli con tutto cicgh el rammcna ta,ftdi nuouo sforzandoli, 2f gridandoli, flf df nuouo à forza feco tiradoli, pur li conduce à uo Icr dire all'amato le medefime parole, che hieri gli differo. Ma dipoi che più appre/Tati fi fono, egli torcendofi.flCabbafTandofi (tendendo la co da,ftringeil freno, flCcofi furiofamcntc feco li tira. Ma il Rettore. che l'altra uolta affai mags giormentehaueua lemedefimc forze fofFerto. pur in altra parìe uoltandofi, molto più forte,. che dianzi, le briglie ritirala: cofi sforza la dura bocca del triftocaiiallo, flC bagnandoli in que^s fto modo la brutta linguacce le mafcelle di fan^i gue,lo butta al fuo difpetto di nuouo à ferra, fiC còfi del fuo errore gli fa patir le pene, il che poi the più uolte hail trifto cauallo fofFerto,lafcia pur al fine la fua pazia,fif cofi horamai diuenu:^ to piaceuoIe,ubidifce alla prouidentia del Ret^ tore.flCinfiemecon lui, quando l'amato bello rifguarda, tutto per la paura trema: di modo che affai fpeffoauuienc, che egli feguiti le pe:^ date dell'amante con reuerentia, flC honorc.flC quelle dell'amato con timore. L amato aduns que connfcendo efTer dall'amante fuo, come fe à iddio fufTc uguale, ubbedito, flCofreruatò,fl£ ucdendo che egli no finge, ma è à ciò fare dalla inore sfor2ato(ac maffime che ogni perfona ho^ fiorata, per natura pare che fia amica di colui,' che r honora ) al fine fi diTpone hauer la mcdc^ fima uoiontà,che l'amante. Et ben che pnipai tt dalli amici fuoi,CC da quelli, che infieme feco ftudiauano,flC da gli altri, forfè per dargli biafis ino,fufli flato ingannato, elTendcgli da quei tali detto efTercofa brutta, che un giouane appreffo al fuo amante fia ueduto, fl£ per quefto forfè habbia già l'amante da fe fcacciato,non di me^ no air ultimo per fpatio di tempo &' la età, fiC r ordine debito delia natura del fuo amante lo rendono amico: per ciò che non fi trouò mai, che un trifto non fufTe amico d' un trifto,flC un buono d' un buono. Et però poi che un gioua-* ne comincia à praticare col fuo amante, & afcoU ta i fuoi ragionamenti, airhora facendo lamanar te ogni giorno più il fuo amore conofcere,sfor:j za ramato à marauigliarfenc nel confiderare: che fe la beneuolentia de i parenti, flC di tutti gli altri amici à paragon fi metterà di quella di un' amante ripieno di furore, a di fpirito diui:? no, farà per certo di pochifTimo,© di nefTuno momento. Et fe quello huomo di più età, che (ara amante, feguiterà in queftaguifa per quaU che tempora: fempre « nelle fchuole,ft in fijs miìi altri luoghi apprefTo all' amato cercherà ri^ frcnaifi,alI*hora il fonte di quel liquore f quale già G ione, quando dall'amor di Ganimede fu prefo, dicono che chiamò inf]ufroarDororo)qua le nell amante dall'amato belìo. più abbondanti temente, che nell'amafo è infufo, parte nelTarJ mante fi uùz^Ct parte di fuor traboccndo fi fpar ge.flC cofi in quel modo,che fapiamo fare laerc. ^ flC quella ucce,ché chiamiamo Eccho,qua!e da qualche corpo c)heue,òfòIfdo percoda/tn quel luogo, donde prjma fi partì, ritorna: cofi quello influffo amcrcfo ritornando per uia de gli rechi i in quel bello. donde già fi lcuò,p€r li quah egli hacoftume di penetrare alTanima noftra,di tali) forte inaffia,& bagna i meati delle penne della anima delTamafo/che facilmente po/Tono.fiC co minciano à germcgliare: flc cofi T amante lanist model fuo amato ikmpie d'un corntpondentc ^ amore. Et di qui uiene, che egli ama, ma non fa certo quel,che egli ami, ne conofce quefta fua paflicne.ne la può, ò (a dire. Ma;ion altrimenti che fe perlagiiaLdafLU-i d'uno, che hauc/Tegli cechi mal fàni, fi fei] ti ffe hmiimcnte gli occhi fuoiguafti, cofi non fa.dire ia cagione di quella Uia infirmiti, ne fi accorge, che egli uede.a ua4 gbeggia fe ftcfTo nell'amante. come in uno fpec «hia*Oi:ide cientre.che gli ci amante prcfente^ fcnfc anch' egli mancare il dolore: fic quan dog, poi r ha lontano, in quel modo, che egli é defi^ dèrato, altrui defidera: flC cofi in fe haiiendo unt ìmaginfe ucra d' un cortifpon dente amore, non- più amore, ma amicitia la chiama, flc cofi penfa^ chefia* Defidera adunque quafi quanto Ta^ mante (hen che alquanto più moderatamente) uederlo, goder (empre deirefTer con lui,fiC femprechegli è concelTo» cerca, flcfj sforza di farlo. Per jl che durando quella pratica tra co:$ ftoro,iI cauallo trifto dell'amante al Rettore ri* uolto, domanda per tante fue fatiche un breue, flCinhonefto piacere. Il cauallo all'incontro del giouane non fa quello,che fi habbia à dire, ma tutto anfio^fiC nell'amor commoflo,ama raman te tanto,quanto egli é amato.à: fi gode di luti uer uno ritruouato^che tanto lo ami,£C di qucU io con lui fa fefta,&fi rallegra. Et ftando iti quefta conuerfatione.è paratiiTimo quanto à lui è poiTibile à ogni defideno dell' amante fcdif^ fare: ma l'altro cauallo col Rettore inficroe.dalis la uergogna,à: dalla ragione ammaefiirati/ems pre in fimili cofe gli tono contrani. Per la qual cofa fe coftoro, fecondo un giuftomodo di uiuerc, fi: fecondo li ftudi della Filofofia^ fi empieranno di buom^belii^ft Unti pcijiien^^.meneranno la uita loro feliciffima, flcbeata^con concordia grandiffima.di loro fteflì padronf;^K in ogni loro affare modefti. Hauendo quella parte foggiogata, OC uinta, nella quale fta tutto il ultio dell anima noftra,a: per il contrario quel là altra libera, alla quale la prudentia,& la bon^ tà fi appartiene. Et cofi al fine di quefla uita ha^s '^uejidogià le ale racquifl.ate,ueloci al cielo uo^ landò fe n'anderanno, con ciò fia che habbino uinto un combattimento delli tre, nelli quali fi fono ri{rouatì,come hai innanzi udito, quale bc ne fi può dire efTere della maniera, che fon quel li, che olimpici fi domandano; del quale bene nefTuno più degno può à gli huomini arrecare l'humana temperantia,ò uero quel diuino furo^ re,chehabbiamo detto. MafeqMeftì tali fegui^; fcranno nell'amor loro una uita brutta. fiC in tut lo di Filofofia priua,& non di meno piena d am bitione,gli potrà auuenire,che li intemperati cauallj asfalteranno le poco auucrtite anime lo^: ro,nnientre che ò à qualche difordinato defideno fodisfaranno,ò mentre che in qualche altra ma:: -niera licentiolamente perderanno tempo:& con ^ducendoli pure à delettarfi di quelli piaceri^ nel liquali gli hanno troaati (ommerfi^lj sforzerano ri fejguitare qudk forte di follazo^chc è dal uoU go perfettifTimo giudicato. Tale che poi femprc fi daranno inuol(i,flf occupati nella fantafia fodjsfare à quel trifto defidcrio. Ma haranno queftafodisfattione,che cercano di rado: per ciò che il penfiero deir animo non confente tutto à far qucfto, & però quefti fimili amici anchora f ben che manco amicitia fia la loro che quella, che di fopra ho detto) fiC mentre che 1 amor loro bolle, fiC poi che egli è eftinto infieme amrche^ uolmente uiuono; per ciò che tengono per cer^j to di hauerfi lun 1 altro data una ftabiliffima ks de: flC però giudicano eder cpfa ingiufta quel^ la fede rompere, flc doue già erano amici, inimiss ci diuenìre. Finalmente quando poi alla natura cedono, fiC dal mondo fi partono, non hauendo anchor mefTe le ale, ma folo hauendo cominciai to à mettere le penne, non riportano poco pre^t.mio del loro amorofo furore. P^r, ciò. che la diui^ na legge non uuole,che coloro, che già haueua no cominciato à caminare per quel uiaggio,chc al ciel può condurre,difcendino nelle tenebre fottola terra.Ma quelli, che qualche lodeuolc uita fanno, mentre che infiemc uiuono amore^ uolmente, ac infieme rimettono le ale.comanda (}ue(U legge.che fieno beati: di queflo ne c folo cagione amoVe. Tante adunquc^fl: fi fatte utilità giouancmio gentile, dall' amicitia d'u^» fio amante, come da cofa diuina ti faranno dars t2,Ma la compagnia di coluiche non ama,con:s / giunta folamente con la temperantia del mons: do,fiC non con la diuina, come è lamicitia d uno amante, & data in tutto ad atti,ft operationi mortali, fiC uili, genererà nell'animo del fuo ami co quella licentia di parlare, che pare al uolgo uirtù:fiC farà fi che dopo la fua morte preftamens: teanderànoue miliaanni intorno allaterra,fiC fotto aggirandon,& errando. Quefta nuoua can zona,ò amatiflimo amore, flc contraria in tutto à quella, che prima detta haueua. quanto più dottamente, fif in quel migliore modo, che ho U puto,con paroIe,flC figure poetiche, pereforta:/ (ione di Fedro in tuo honore ho cantato; per il che perdona à quelle parole,che prima diffu, Etqqefte cofc afcoltan do, dette da me con gra^s to ànimo^ benigno, flcfauoreuole mi ti moftra^ fiC non mi priuare per qualche fdegno dell' arte damare, la quale già m'hai conceffa, ne manco punto fcemar la uogli.anzi più tofto fammi gra tia,che per Tauuenire io fia per que(la cofa più apprezato^chc per 1 adictro ftato non fono.oUra eli qucflo fe io.ò Fedro co/à alcuna foco degna del tue bel nome habbiamo det(o,accofa di ciò lifia.il quale fu primo autore del noftro ragios namento.acfa.che egli per lo auueiiire più di fimili cofc non patii: JC riuoltalo alla Filorofia, ' ^ome il fuo fratello Polemarco.acciò che Fes dro.chcfommamentc io ama, non habbia da tenere bora una opinione, fic bora un' altra, co* me fino à hoggi ha fatfo,ma più torto nello ftu dio dell'amore. & della Filofofia meni / giorni della Ulta fua. F E£>. Ioanchora.fe gh è il •meglio, prego Iddio, che ciò mi conceda. Ma io ti dico benejl uero. che io flupifco del ragios Bar, che hai fatto, ucdendo di quanto babbiauanzato quel di piima: tale che io comincio à dubitare.che il parlare di Xifia non mi babbi à parer ba(ro,«humile.fe forfè un nuouo ragios mmento facendo, à qucfto tuo lo uorrà aiToes oiigliare, Et uoglio che tu fappi,che pochiffB mi giorni fono, che un certo noftro cittadino lo uituperò grandemente, folamente per qucs fto fuo fcriuere.* in tutu la fua accufationc lo chiamaua, per largii ingiuria. Scrittore d'oratio* ili. Tale che per qucfto potrebbe forfe,fe egli c punto defidcrqib di. hpnore.per lo aiuenire •fteocriidircriucrc, $ 0 C R. Fedro que» Ha tua opinione c degna certamente di rifo, ficfarcftimolto lontano dalla fàn(afia, & dals la mente di Lifia.fe tu pcnfafli. chc eglifufs fc cofi timido. Ma forfè che tu credi, che quel fuo accufatore dicefli il nero in tutte quelleco* fe;checon(raLifiadiflc. FED. Certamente Socrate che à me parue cofi.ne anchora à te è oc culto, che gl'huomini grandi, flC nobili delia no (Ira Republica temono, fiC fi guardano di coms porre orationi.flC no uogliono.chc fieno uedutc fcritte,per non moftrarc à quelli, che uerranno, dcÀTcr flati fofifti.effcndocofa facile lo fcriuerc ttnaOratione. SOCR. A quefto modo ò Fedro tu non intendi il prouerbio del gombito dolce, ilqual prouerbioc tratto dal lungo, fiC trifto gombito del Nilo.flC debbi pen fare, che ^, dicendofi dolce, fia facile, come pare che tu cress da, anchora che il fare Orationi fia di poca fiti* ca.eiTtndo però di grandi (Ti ma. Et ne folamens te iiò fai quefta cofa.ma anchora penfo che non ti fia noto.che quelli cittadini. li quali per pruss dcntia fono eccellenti, attendono grandemente à fcriuerc Orationi.CC à fare che quelli, che uers ranno,le po/Tino uedere. Etqueftì tali di mo* do amano quelle perfone, che lodano le compo iitioni loro,che la prima cofa di quelli fanno mentione.meutione.che hano ufanza dir bene delli fcrifs ti daltrui.douc 11 truouano. F E D. Come dici tu queftoJ'Io non ti intendo a mio modo •r. SOCR, Non fai tu,chc nel principio d'un libro, che da qualche huomociuile fia corapo^ fto.fi fa fempre mentione di colui, che l'ha lo^ dato? FED, Inchcmodof* SOCR* La primacofa,che,dicono,cquefta. La opinione noftra,òuerolanofl:rafcrittura fu appruouafa dal Senato, ò dal popolo, ò da ambe duerquindi con una certa ambitiofa ricordatone di loro ftef fi, mettono per ordine tutte quelle parole, che quei tali in fauor loro hanno dette, fempre dando colui, à cui è il lor parere piaciuto.Dopo quefto dicono quello, che intendono di fcriucj^ re; fempre faccendo moftra del lor faperc à cos^ loro, che li lodano, flC quefto lo fanno affai uol^s te: ce non folo nel principio, ma anchora dipoi che una lunghiffima Orationc haranno detta. Parti egli quefto altro, che uno fcriuerc Oratici ni? FED. Ccrtamentcnon. SOGR. Ho rafe queftò dir loro è approuato,fubitOj d' allc:s greza ripieni, fi partono dal Senato,comc fareb bc un Poeta dal Teatro, fe la fua Comedia fuffe ^ piaciuta. Ma fe per forte fuffe riprouato,ò rifiu^s Wo^ac il lor configlio non fuffe ammeffo, ne ri:s pìlfafo dfgfiò di cffere fcritfò con gTi àlfrf /non foJofi cnvpfono di triftitìaqufi tali, ma li loro amici anchora. F E D. Sitrattnftano certa:* in rn te non pòco. SOCR. In queflo mo^ do adunque dimcftrànò,chc eglino non fanno poco conto di qnefto efercitio di fcriuerc,anzi diapprczirloafTai. FED. Grandemente cer toloftimano. S OC Dimmi un poco, Se qualche grande Oratore, ò ucro uu Re/i haueCs feacquiftata t^nta facultà,a: tanta fcientia nel dire, che come Ligurgo, Solonc.o Dario, pote& fe degnamente nella fna città efTer tenuto Scritii tore perfettifllmo^flC immortale, non gli parria f/Tcre, mentre che anchor qua giù uinefTe quafl fimile^ò uguale à Iddio / Et quelli, che dopo luiuengono,conriderandoIeccfe,che egli ha lafciato Tcritto, non hanno di lui quel medefi^ mocrcderer' FED. CertifTimo. SOCR. Pcnfi tu adunque, che alcuno (fia pur quanto fi lioglia trillo, ft inuidicfo) Uituperi quefto flu dio dì fcriuerc? E E D. Per quelle core,chc tu hai dette, non par conucniente: per che eia:» {cuno,pare à me,uituperarcbbc quelle cofe,del le quah egli fi diletta. SO CR. Etperòque^ fto può efferc à ciafcuno chiaro, che alcuno non c daelTerc uituperato folamentc per che egli i • fciiua. fcriua. F E D. Per che adunque f SOCR. Ma quello c bene, come io penfo, brutto, par:^ lare, a fcriuere cofe brutte, ftcattìuc. T E D. Quefto è ccrtiflimo. S O C R, Qual farà adun qtie la ragione dj fciiuerc benc,tt male f Non penfi tu Fedro, che ci facci di bifogno di firoili cofe domandarne Lifia^ò qualunque altri, che ò nero habbia à qualche tempo fcritto qualche cofa.ò uerohabbiada fcriueie ò qualche fatto publico d una citta, ò qualche faccéda priuata, quefto lo facci in uerfi, come Pceia,ò uero in profa come perfona priuata f E E D. Mi doman di fe io penfo,chc facci di bifogno domandare, & cercar di fapere quefla Cofaf' Dimmi un pocd, nó fono alcuni, che uiucndo ad altri piaceri non, attcdono,che à quelli di domandare K di uoler da ciafcuno fapere la ragioe delle cofef Et quefti tali come faui, nò attendono nella loruitaà quel li piaceri,]^ quali di ncceflltà hanno prima quaU chedifpiacere,altrimeti il piacere no fi potrebbe godere.il quale effetto interuiene quafi à tutti li piaceri del corpciflfp quello ragioneuolmetc fo no chiamati piaceri uili H di poco momcio. Soc. Noi habbiamo tepo ÓC cfio aliai, & ancora mi par ueder,che quefte cicaie,<:he fopr'il Capo noftro,.cantano^com'è ufan«Joio:ncl caJdo,att^ndar^o à quefta noftra difputa. Se adunque elleno ci uedefTcro addormentati, come fpeffo molti altri fanno, li quali nel mezo giorno non difputan:: do, ma più prefto dormendo, fono al fonno per poca anuertenza loro da quelle allettati, merita^ mente fi potrebbono ridere di noi,confideran2: do,fl£uedendo che dal fonno uinti fuffimo. Ma fe elleno ci uedranno difputare,fiC conofce^: tanno, che noi non fiamo flati uinti dà loro(co:5 me fono alcuni dalle Serene, per il che non pof fono pigliar porto ) forfè che uolentieri ci donc fanno quel premio, del quale per gratia de gli iddii poffono à gli huomini fare dono. F E Chedonoèquefto? A me non pare hauerlo mai intefo. SOCR. Non fi conuiene,che uno huomoftudiofo,flC amico delle Mufe, come fci tu, non fappi una fimil cqfa. Si narra che quc^: (le cicale inanzi che fuffero le mufe, crono huo mini: ma nate che furono le Mufe,fiC poi che il canto hebbero moftrafo,fi dice che ad alcuni di quelli tanto quel canto piacque, che per cantare non fi curauano di mangiare, ne di bere: £C cofi imprudentemente fi lafciarono mancare la uita: delti quali nacque la fpetie delle cicale, le quali hanno dalle Mufe quefta gratia,che non han bi fogno di nutrimento alcuno.ma mentre che ui iooà uono, foci lO'lOOf IfìOt Sì nono, ftmprc cantando fi mantengono fcnza mangiare,flC fenza bere, Dipoi finiti i lor gior^ ni, (e ne uanno à trouar le U iife per dargli no^ titia,fl: informare quali fieno quegli huoniini^ che qua giù amano più una Mufa,che un'altra» Per il che dimoftrando. à^.Tcrficore quelli, che ^iu che in altro, ne i canti, flC nelle fefte femprc fi ritruouano, gliela rendono propitia, OC fauo^ reuole, A Erato poi moftrano tutti coloro, che ne i càfi amorofi Vitrouandofi, hanno il fuo ftu:: dio&ìmitato,6Chonorato.Et cofi fimilraentc fanno con le altre Mufe,flC gli mettono in gratia coloro, che più che h altri lamano.Rapportano anchoraà Calliope, OC à Vrania,che fippreflogli ua,la uita.flC i fitti di coh)ro,che nella Filofofia fi efercitano;fiC honorano la loro fcientia.Lc qua li oltra tutte le altre Mufe*hanno cura della cojs - gnitione del cielo, ficfi efercitano in ragionai menti cofi diuini, come humani con uocifoa^ uiflime* Et però per molte cagioni dobbiamo dir qualche cofa,ne in modo alcuno habbiamo nel mezo dì a dormire. F E D, Habbiamo à dire per certo. S.O C R. E adunque hormai tempo di dichiarare quello, di che poco fa ordisi nammo di difputare,ciò è in che modo un'huo inofcriua,ò parli bene, fiC non bene, £ £ Qocfto c propfo quello, fopra il qnalf ha da eù: fere il noflro ragionamento. S O C R. Non pcnfi turche fia neceffario^chc colui, che habx^ fcia da dire qualche cofa/e ne uorrà ragionare a pieno, fiC bene, habbiapiena^flCuera cognitio:: ne^flCintelIigcntia di quella coia, della quale pirlaf' F ED. Io c Socrate, ho udito dire, che a uno, che debbi diuentare Oratore, non e nes: ceflario il fapcre quali fieno quelle cofe.che ue^s ramentc fieno giufte, ma debba folamente quel le conofcerc,che al giudicio del uolgo parran:: no cofi: ne manco debba fapere quelle cofe^ che ueramente fono buone, « hcnefte,nia quel Ie,chc compaiono. Perciò che dicono quefti tali, che per uia di quefte cofe non uere^fi può più facilmente perfuadere.che ccn la uerità, ^. OCR. Mai òf fdromio,non fi hanno da iprezare li detti de gli huomini faui,anzi fi deedil/gentemente considerare quel, che fignifichi:?:iio. Et però à me non pare di iafciar pacare quel le parole,che hai poco fa dette, F E D. Tu parli bene, S o C R. Confideriamo adunque quefta cola in quefte modo • T ED. Cowtf S O C R. Cefi, Se io per cafo fi uolefFi perfuasi dcre,che tu fuffiper uinceregli tuoi inimici.;quando tu haueffi un buon cauallo,nc alcuno Ai noi f^ipein che coA Me quefto cauallo,m4'tb fohtfìtnìt tkpm:chc kù ndtì fai gii come uh tJiaalfo fia fatto, ma che tu penfi,ch'C egli fià ti*» ànimale domefì/co con gì Wcxhi gridi. F E Dv Sequeftofu/fe/ceftameinte farebbe cofa da rr* <ìere. S O C R, N òn ^t^u cfto non bafta. Ma quando io con ogni sforzo nìi?ngegfìaffi di pet fuaderti (non f^pendo nt tu^nfc io àltfC ) chè quello anÌTTidefurti^ un cauàlJo/a per quefto iò liaue^S compóflÀ nna Òrationeìn lode dell'Afiis no, chiamando quello anrm^lè càuàilo, afferà mando efTere animale pérfètdfTinìo, utile per ca fa, perle facccnde/tSc prontiiTimo/fiiore aib battaglia, atto à p citar fome.'fiC à molte altre cofe tommodiffiiT>o> f ED. CJi^^efto fi /che farebì be fuòrd^* pfopofitóalpònTjble. S |0 C K. Kon è egli meglio, che un'amico fia ficetó,fit piaceuò!e,5Cche faccia ridere, che ftrano,ttdi malanimof F '£ O.Cofi par à me. S OG.Qnan do adunque un oratore ignorate del male,tt deì bene perfuade i una città fimilmenre ignoranti non con una oratione compofta in lodxr d'uno Afino, penfando che fia un Caudillo, ma ragion Dando. flC difputado del male,cr€dedo che quel lo fia bcnetflC cofi tirando à Tua diiiotionc le opf n oni del uolgo, metta in quella citta tìn'ufanzà dì far male in cambio dì b'efie,che ricolta pcnfi tu che un fimile oratore facci della fua (cmtiìUi FED. Non troppo buona. SOCR. Non confeffihoratu,chc noi habbiamo uitupcrato l'arte dell'orare un. poco più fcioccamcnte.chc non fi conueniuai' Et fc per cafo ella ci haucfle fentifo, flf bora fiuoltafTc à noi, «ci dicertr* Seteuoiimpazati Socrate, fiC Fedro mici cari^ 10 n5 sforzo alcuno à orare, che prima non hab bia cognitione del uero: ma fé gli huomini fa;? ranno à mio modo,airhora mi imparerano quan do la ueriti haranno cpnofciufa.fiC io ui pofTo af fermare quefto con uerifà (il che è certamente gran co(à)che anchor fenza l'aiuto mio, pur che uno fappi render ragione delle cofe.flC le cono:? fca,harà in fe ogni modo l'arte del perfuadcre 5, Se coftei dicerte cofi,non harebbe ella ragione-^ F ED. Io te'lconfertb^purche molte ragion ni, che io ho intefo, faccino teftimonio,che il fa per folamente fia arte; per che è mi pare hauer^ udito certe ragioni, che prouano^che l'arte del dfre fenza il fapere dicendo d'eflèr l'arte, nò dice 11 uero: per cièche altro non è, che un' ufo fen za arte. Et Lacone difre,che la uera arte del dire fenza la uerità trouar non fi può, ne mai fi tro^s uerà. Qtjefte ragioni ò Socrate fanno hor di bi? fogno, flC però adducendole moftrami un po^ coqucl,checoftoro dicano, flCin qual modot^ S O C R, Soccorrlnmi adunque, ft ucngano -in mio faiiore tutti gli animali generofi.fiC pcrsx iiiadinoà Fedro, che fc egli non attenderà alla Filofofia^non faperà mai di cofa alcuna à baftan ■ za ragionare, flC Fedro mi rifponda ogniuolta, che io lo domanderò. F E D. Domandami adunque • S O C Dimmi un poco,la Ret^ torica non diremo noi, che (la una arte, che per mezo delle parole alletti gli animi de gli huos mini^ Et queflo lo fa non folamcnte dauanti al li giudici, flC nelk altre publiche raunate di huo mini.maanchoraquefta medefima arte difpu^.terà nelli priuati ragionamenti Mi ciafcunacofa cofi d'importantia,comc non. Per ciò che nien^ te è più honoreuoie,ò più degno il parlare con arte nelle materie grandi,che fia nelle piccole* Hai tu mai udito dire quefto.^ F E D. Non io certamente,anzi ho intefo,che quefta arte fola^ mente (ì efercita nelli giudicii,flC nelle Orationi al populo,ne ho mai udito, che ella fi di^lenda più in la. S O C R • Hai tu mai intefo ragion tiare della grande arte del dire, che Neftore,fiC VlifTe efercitauano, mentre che erano à Troia? Hai intefo quella di Palamede 1* F E D. Non io,fe gii tu nò uoleffe dire che Gorgia fuffe Nes ilore,£C Kimilmente che Trafimaco^ Teodoro fttfléio \Wc. $ O C R. forfè che io !o pos» ♦rei dire. Ma Ufciamo andate ccfloro.fiC rifpon» aiini à quefto, ISe i gindicii gliauuerfani^cb* liàtaftcìoi «gUno r Non cercheranno feinprc dt cònfradire à tutto quello ^che dice la parfc con;* frariac Puoi tu dire,che.faccino altro;' F E I>. Quefto ianno.ft non altro. SOCR. Non contendono, & djfputano fempre cjual fia il giù ftoi,« qua! fu k) iingiiifto f f E D. Cofi è, j^P C R. Colui.che faprà fare quefta cofa con jirtc,i.ion potrà fare anchora che a quelli mede» fin^i pai» uni cola ficflahora giufta.fthora in;s giufta,.^ f E I>. lo potrà fare per certa» / S O C R.. Ijtfuwlmeute egli orerà in pu*» l>ljco,potrà fàre,cheaHi fuoi cittadini le medes fitBCCQf? parranno Upra buone, <SC hora triftc;* F E, Cerfaaiente. SOCR. Et quefta nonèsnarauigliofo.perchc noi habbiamo rn* tefo.ehe.i^aUiBede Eleaf€,eol fuo artificio del dire era fclito far fi che à chi,!f)..udÀua.pareflero ie noe defw«.<pfe bora fimili.Sf bofa'diuerfe,ho ta una c.o{a,iibU,ft hor» wp] te-, bora che ogni cq. fafufreiaiwobile.&hora che i'ufliuerfa fcms: pre fteffe i,n moto, f E D. l' ho intefo ans ^' io pei certQ. S Q C R, Adunque quefta jppteftUa, di confradiKiik fiofe d^tte innanzi^. non folo è porta nélli giud/di, ft nelle pubfi^' che radunate, ma anchora^come ti ho moflratoj fi truoua in ogni ragionamenfo,che fi fa: per ciò che dò che fi dice tutto è un'arte, con la qui le ciafcuno potrà fingere, flc dare ad intendere à ogni perfona, che tutte le cofe fieno fimih'^ac faperi trouare i nìodi di moftrare quefta cofa,fl(intenderà come habbia a fare, chiare quefte. fo:*. miglianze. F E D. In che modouuoi tu,' che fi facci quefto.^ S O C R. In quefto* Dimmi un poco,rngannanfi gii huomini in quelle cofe, che fono tra loró molto differenti, ò in quelle. che fono poco? F E D. Inquelle^ che poco fono diffimili, S Ò C R, Bene ha(rifpofto. Hora fe tua poco i poco pafferaida un fimile all' altro, più facilmente potrai inganni naregli auditori,che fe in un tratto dfalterai^* F E D. Chi dubita di queftof' S O C.Adunquc bifogna.che ogniuno,che uorrà ingannare un* altro, facci prima in modo, che no fia ingannata egli. Et però farà necefrario,'che conofca beijiJ(fi ino le fomigliaze flf le diffomigllanze delle cofe* F E D, Quefto è neceffario, S O C R. Potrà adunque uno che fia ignorate della uerftà di eia fcuna cofa dar giuditio della fimilif udine ò gran de^ò piccola di quella cofa eh egli non cooofcc/ FED. Qnéftocimpofribile. SOCR. Et però c cofa chiara, che coloro, che hanno qual^s che opinione fuor del naturale, ò credono il fal^ fó di qualunche 'cofa, non per altra cagione fo^ no in quella fantafia, flCin quel falfo parere, che per qualche finiilitudine,che gif ha ingan^ mti. FED. Cofi interuiene. SOCR. Potrai tu dire adunque che alcuno, fé farà di quellocheuorriadifputare ignorante, pofTa con con arte,flC aftutamente à poco à poco rimuoue^ re uno dal uero,fiC fargli credere il falfo per uia di qualche firnilitudinej'ò crederai, che quefto tale poffa fardi non cafcarc nell'errore, nel qua^? Ic'cerca gli altri condurre FED. Certo che io noi crederò mai. SOCR. Et per quefta cagione qùàlutìque perfona farà ignorante della uerità dolina cofa, & folo dairopinione fi lafirie* rà guidare, coftui dimoftrerà di hauere un'arte di dire fciocca.flC più da fare altrui ridere, che buona ad altro, FED. Cefi mi pare certe. S D C R. V noi tu hora uedere, ft confiderare flC neiroratione di Ljfia,che hai in mano,& nel feritire il mio ragionamento, douc fi parli artifi^t. ciofamentc,a: doue fénza arte^" FED. Que^i fto uorrei io più che altra cofa ♦ Per ciò che al prefcnU noi ragioniamo troppo feccamcnte.no potendo pofendo dimoftrarc ercnopi chiari di quelle co* fc. che diciamo. SOCR. Si.ma ionogho, che tu fappia.chc la maggior parte delle Ora* tioni fon dette à cafo.come è manifefto: le quaxs li ci moftrano chiaramente, che un' huomo.chc appia bene.flc conofca la uerità delle cofe.men tre che egli con parole fcherza, ec fenza punto penfarci.ragiona.conduce l'audifore à quello, che uuole. Et io certamente Fedro, penfo che gliiddìi di quello luogo habbiano hoggi cagio nato in me quefto effetto di perfuaderti.ft forfè potrei anchor dire.che le cicale interpreti delle Mufe.le quali fopra di noi cantano,mi habbias no fatto quefta gratia. per che in foma in me nó è arte alcuna di dire. F E D. Sia come tu uuoi. pur che tu mi moftri qucl.che mi hai promelfo. SOCR. Leggi adunque il proemio dell' Os catione di Lifia. FED. «■ IN Q^V E S T O (lato certamente fi truouano le cofe mierflC quefto.come hai poco fa intefo da me, penfo che mi babbi à gjouarc affai. Hcra io uoglio che fappia.chc io ftimo,a: giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò.doucrs la da te per quefta cagione impetrare: per ciò che 10 nó fon prefo del tuo amore. Et che ciò fu iluero,tu fai che gli amanti, come prima han*; 1)0 la !or libidine faflata/i pentono de i benefis ci.che t'hanno mai fatti. S O C R. Non legge/ pili. Bifogna bora dire in che cofa coftm erri.flC quel, che dica fenza artt. Nò ti par cofi:' F E D. Certamente. SOCR. Dimmi un poco, non è quefto chiaro à ciafcuno.che in molte cofe ne i ragionamenti noftri tutti crediamo à un modo, fi(in molte altre non habbiamo il medefimo ere derei? F E D. Ben che mi paia intendere quel, che tu dici, però io uorrei che lo diceffi più chia ro. SOCR. Quando unofa mentione del fer ro,ò dell' argento, tutti fubito intendiamo una incdefima cofa. F E D. Certo. SOCR. Inter uiene egli cofi.quado fentiamo il nome del giù fto.ò del buono, nò crede all' bora ciafcuno dis uerfamente? Et non pure non ci accordiamo con l'opinione de gli altri.ma anchora fiamo in dubio della noflra. F E D. Cofi ua. S O C R. tt però in molte cofe acconfentiamo tutti à un inedefimo.flC in molte fiamo di uarie opinioni. 5 E D. Cofi è., S 0 C R. Doue potiamo noi più facilméte effere ingannati. « in qual d,i que ftc cofe ha la Rettorica più forza:* F E D. E cofa chiara, che in. quelle. delle quali più dubis(iamo.piu ha forza l'arte del dire. S O C R, Et per quefto fa di bifognoi colui, che uuolc ini*. parare. jwirare, R atrquiflare la Retorica, prima di uederc quefte cofe tutte ordinatamente, & feparare Tuss na dair altra, & gli è neccflàrio ccnofcere di quaf forte fieno le cofe tatte,intorno alle quali fi può. ragionare, ò uero della forte delle dubitò pero delle certe:fiC fapere doue maggiormete il uolgo poffi elTere ingannato,fiC doue nà, J^Jf. U. Ccf tamente Socrate che colui, che col penfiero ^ja^ piffe quefta cofa,che tu dici,harel)l>c una bella cognitione. SOCR» Dipoi io penfo, che quc fto tale debbia fapere la natura diciafcunacofa, acciò che dj quella quado gh' farà bifognOjpofFa render ragione: fiC uoglioche ingegnofamente intenda di qual forte, fiC di che genere fia quella cofa, intorno alla quale fi debba ragionare ò delle dùbie,Q delle certe. F E D. Perche noni S O C R. Diremo noi, che 1 amore fia poftq tra le cofe certe, ò tra le dubiei' F E D.Trale dùbiecertamente. S O C, Penfi tu ch'egli fi conceda.maliche tu dica di lui quelle cofe, che poco, fa.hai dettecelo è eh egli fia noceuole all' amato, flC ali amante Et dipoi ch'egli fia il maggior bene chefitruoui:'' F ED, Tu parli bene. SOC, (Ma dimmi un poco anchora quefta cofa, per cheÀdirti il uerojo non mene ricordo troppo bene Ì>er effer ^ato io nel ragionamcto mioi occupato a uinto da quella diuinifà,clic fu (af. Ho io nel principio della mia difpufa difBnifo^chc cofa fia amore? F E D. Si hai,flC beniflimo. S O C O quanto tu dimoftri (dicendo che io fi bene rho diffinito ) che le Ninfe d' Acheloo.flC Pan figliuolo di Mercurio, fono più ingegnofi al comporre Orationi, che no fu Lifu,per ciò che quefti mi hanno fatto dire. Non ti pare egli, che iodica il ueroi' Ma Lifiaanchora nel principio della fua Oratione ci sforzò ad intendere, che la more (come egli uoleua ) era un non fo che po fto fra le cofe dubbie, flC incerte; flC cefi accom:^ modando a quefta cofa tutto il feguente fuo ra^ gionamento,fini la fua Oratione • Vuoi tu, che un'altra uolta leggiamo il fuo principio.'' F ED. Come tu uuoi,ben che quel,che tu cerchi, ih efTo non ci fia • S O C R. Leggi, acciò che io loda. F ED^ I N Q^V E S T O flato certamente fi truouano le cofe mie: ft quefto,come hai po:s co fa intefoda me^penfo che mi babbi à gioua^ re affai. Hora io uoglio, che fappi,che io iiimo, ce giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò, do:s uerla da te per quefta cagione impetrarerper ciò che io non fon prefo del tuo amore ♦ Et che ciò fu il uero^tu fai che gì' amanti^come prima haa DO la lor libidine fatiata,fì pentono de i bcnes: fìci, che ti hanno mai fatti. S O C R • Egli c molto lontano, fecondo me, da quello, che noi cerchiamo r perciò che egli pare, che fi sforza di ordinare il fuo ragionamento, non cominciando dal principio, ma dal fine, con un certo modo à contrari0,ac fotto fopra» Et che fu il ucro,uedi che comincia da quelle cofe,che l'amante rin^j fàccia al l' amato, dipoi che T ancore è eftinto, "N 5 tifare egli.che 10 habbia detto il uero^ F E D. Senza dubio che quello, di che egli nel princirs pio ragiona,è.il fine. SOCR. Che diremo noi delle altre cofer Non ti pare egli, che tutte le parti di qiiefla Oratione fieno fparfe confufa:? mente Pcnfi tu che quello, ch^ egli nel fecon;? do luogo ha detto della fua Oratione, egli V hab bia congiunto con la prima parte, conofcendo cheneceffariamentegli bifognaffefàrlor Et fi:: milmentc le altre cofe,che^egIi ha dette, credi tu, che le habbia con ordinc,flC con modo difpo fte^ Per ciò chea me, che fono dbgp.i cofa igne rante.pare che tutte le cofe,che da uno fcrittore fono dette, non debbano cfler dette, flC ordinate fenza cagione. £ t però uedi, fe tu fapefli truo;? uare qualche cagione nectffaria^per la quale noi potiamo.dirc,che egli fi fia mcflo à ordinare,flC H ili djTporrc il fuo ragionamento nel moclo,chc hib biamo ucdiifo. FED, Troppofareblfc ò So crafe,fe io cefi fcttilmente fapeffi dare giudicio dellifcritti d'altrui* SOCR. Io penfopu:^ rechebjTogneri,che al meno tu dica,a:con5: fe/Tj quefio^cbe tutta un'Orationc debbia ciictc come Ufi animale, fiC debbia bauete il fuo corpo, i\ quale non fia fenza capone non gli manchi:^ no li piedi, ma che gli babb/a ciafcuna fua parJe conuemente,a: coirifpondente al tutto. F ED. Che uuoitu dire per qucfto?' SOCR. Cons: fiderà ti prego, fc TOratione del tuo amico Ga fatta cofi,c) altrimcnte,truouerai che ella none punto difterenfe da quello Epigramma Jl^ua^s le alcuni dicono,che fu fatto (opra il fepolcro diMida Frigio. F E Che Epigramma è ques fto,ftdicheforte/ SOCR, Odilo,egli di^ ccuacofi, Son fu' 1 fepolcro una Vergìn di Mida/ Fin ch'andran T acque, & fien le piante ucrdi. Qui dando, ammonirò cialcun che pafTj, Che nel mefto fepolcro Mida giace. tìora 10 penfo, che per te fteffo beniffimo co nofca, che non importa qua! parte di quello •ponghi prima^flC qual dopo^ ^F E D. A ques: fto modo ò Socrate^ tu bufimi,fi£ mordi la no^ ftra Oràtiòìiè S O C R. Lafciamo adunque àhdare.acciòche tu non (i corrucci meco, ben che in efTa fi potrebberotroirarcmolti efempi, li qaali confidcrati^ci uerrebbe quefta utilità, che non imitafiTimofinrili modìdi dire. Ma pafe fiamo alle Orationi di certi altri, le quali certa:^ irierife hanno in fe qualche ccfa degna d' cfTerc offeruata da coloro, che di quefta arte fono fturs dioG. F E D. Che cofa è quella, che in que:s fte Orafionifj pnoofTeruarer S D C R. Queftc' Oratfoni erano tra loro contrarie, per c òchc una irfFernnaua,cbe un giouane aniato fi douefle ac:? coftare alTamante: <3C un'altra à uno, che non amafTe. F E D. Beniflimo certamefc. S O C R: Io penraua,chc tu rifpondeflj con più uerità,flC che tu diceffi non bcniflimo^ma pazamente,flC furiofamenfe certifTimo/non di meno quel, che 10 uoglio dire flC che io cercaua,che tu diccffi nò può efTerc alfritnenti^come fi ixìoftrerò. Nò hab biamo noi detto che lanDore abro non è, che un certo furerei' ÌF E D.Cofl hàbbiam detto. Soc; Horaio pogo due forti di furore J'una delle qua 11 èda mancamèto humano cagionata, lai tra prò cede da una diuina alienatone dr menfe^per la quale è l'huomo rapifoflC leuato d^lla fu a ordina Ila uita. F BD. Cofi è per certo. Soc. le parti adunque di qucfto furor diuino fon quattro, aU le quali anchora quattro iddii fono propoftjrpcr dò che noi diciamo, che Apollo fia di quella inrs fpiratione cagione, che à quelli Sacerdoti uiene, che poi indouinano quel, che debbe efTere nel tempo auuenire, Dionifio della cognitione di quelli mifteri,che fono più occulti, flC delle co^ fe, che s appartengono al culto diuino. Le Mu fc della Poefia, Venere, & Amore dell'amorofo furore affai migliore di tutti gli altri, £C io non fo in che modo,metre che dianzi uolfi con imagi^ fìijflC fimilitudini moftrar l'effetto d' amore /orfc può cffcre che io habbia detto qualche uerità,flC forfè anchora ho trapaffati li termini del uero. Et perqueflomefcolandocofi quelle cofe,chc hora ho dette, quel mioragionamento, il quale non fu al tutto da efler biafimato,tu fai, ch'io or dinai,flC compofi quella mia fabulofa diceria, flC quafi fcherzando,fiC per giuoco, modeflamentc lodai il tuo, ce mio Signore Amore, protettore de giouani gentil* & belli, come fei tu, F E D. Qiiefle cofc l'odo molto uolentieri. S O C Et però bora da quella mia Oratione potremmo cauare,fiCfapereinchemodo la noftra difputa uenifTe dal biafimo,onde la cominciamo, alle iodi* F E Etcomeuuoitu fare queflof SÒCR, A mccertamchff pare, che fin qui habbiamo parlato per burla. Ma fe farà alcuno, che artificiofamente conofca la forza delle due forti, flc delli due modi di difpufare, nelle quali bora fiamo à cafo incorfi,coftui certo harà fatto un'opera degna. & bella* F E D. Che forti, fiC che modi di dire fono qriefl:i,che tu dkii S O C La prima è qucfta. Che colui, che uuol dirputare,facendofi nella mVnte un'idea di tutte le cofe,che uuol dire:& hauendo à quel [a folamente l'occhio, metta infieme tutte le co^ fe,che fono fparfe fif diuife, acciò che uedendole tutte raccolte, dando poi la uera dìffinitione di ciafcuna.quello facci chiaro,& manifeftp,intor:3 no al quale fi difputerà: come al prefente hab:* biamo fatto noi, che habbiamo diffinito che cofa fia amore, flC ò bene, ò male, che Thabbiamo fat^ to,hai pure hauuto la noftra difputa,per quefta cagione una chiareza, flC una concordanza in tutte le cofe,che dipoi fi fono dette. F E Le altre forti di direnò modi, quali iiuoi tu che Heno ò Socrate.'' S O C R. L altro modo é quc fto. Che come egli ha tutte le cofe raunatein uno, di nuouo parte per parte, fecondo la natu^ ra loro, le diuida,flC parta, flf non fpezi,ògua{|ti membro alcuno del fuo ragionamento, come farhora li cuocKi mài pratichi fogliono farc,rna faccia quel medefimo.che habbiamo fatto noi ne i ragionamenti pafTati; nelli quali habbiamo tntefo quella mutati6e,ò alienatione della mtrte generalmente, ac con parola commane, anchora che fia buona,& cattiua, Ma fi come in un cot^ po quelle membra, che fono doppie, fi chiama:? nocol medefimo nome. ma uno é detto dcftro; raltrofiniftro",ccfi qiicfta forma della aliena:: tione deliamente noftra,la quale è dall'amor cagionata, è per natura fua in noi una foIa;flC cefi babbiamo detto nel ragionamento noftro. Et pero quel pripio parlare,che facemmo, diuij dendola parte finiftra di quella alienatione, ò mouimento della mente, fiC di nuouo poi pars: fèndola,non fi reftò,fin che egli ritruouò unais mor finiflro.il quale conofciuto come cofa non conueneuolfe, uìtuperò. L'altro ragionamene: fo/he dipoi habbiamo fatto, ci con du (Te à co:s nofcere la deftra parte di qucfto furore, doue un amor ritruouando inquanto al nome fimile al fJrimo, inquanto à gh effetti diuinojo lodò, & ingrandì con parole, come cagione di gran^s diffimi noftri beni. F ED. Tu dici il uero. SiÒGR. Io certamente o Fedro fon molfo. imito di quefle dmifioni, fiC diquefti raccogli:?* tendere quel, che io ucgl/o più facilmente;Ò[ meglio ne polfa ragionare. Et fé mai io ueggo alcuno, che fo penfi^ che egh* fia atto a confide^ ' fare bene prima quella idea unfueifale,chc io fi ho detto, pei particolarmente la moltrfudinc delle cofe fecondo la Datura tero di coftai io feguito le. pedate, ftgli uo dietm mn altrias menti, che fi fuffe diuino: & colcrO;che tal eoa: fa fono atti à fare, io gli cKiiimo Dialettici, fc io li chiamoo bene,o male. Iddio lo fa lui.. Ho:* ra dimmi tu di grafia in che modo /fecondo il parer tuo, ò di Lifia,tu chiamavcfti coftoro. pare à te quefta q^iella'^arte del dire, che ufb Trafi^ maco,'flC molti altri faui, li quali per il dir lo? ìfo furono fenzadubio fiut,coiiìeho detto, flC anchora fecero gli altris" Talmente che q^ielli^ che da loro impaiono, uorrehbero o'fterirgli do:? *)i,come fi fuol fare à grvndifTimi Re • F E t), Certamente che cometudici.qucUi tali huo* mini fonodiqncllo honore meriteucli,chealli Re darfi uediamo,ma non per qaeflo fon dotti in quelle cofe, delle quali hoxa tu domandi. Ma à me pare, che qnefto fìuouo modo di ragiò nare,tt di difputare^che hai truccato, il quale tu chiami Dialettica Jo chiami cofi r^ioneuob mcntc.manon per qucdo fappiamo anchora;' ihccofafialaRettorica.ma fi bene la Dialets fica. S O C R. Come dici tu quefto !" Penfi tu che cofa alcuna bella,ò ben detta pofli efTerc giudicata, che quefti miei ordini non feguitf, quantunque con arte fi impari i Hora per ciò che queftofolononbafta.non uoglio che noi lafciamo à dietro quello.che oltra ciò nella Ret torica faccia di bifogno. F E D. Molte cofe ò Socrate fonoftate lafciafe fcritte ne i libri, che dell'arte del dire fono flati compofti. S O C R. Hai detto beniflimo, Pcnfo aduque.che il proc mio fi debbi dire la prima parte della Oratione^ Non domandi tu quefte fimili cofe gli orna* menti iieri di quefta arte;' F E D. Senza diibs tio. S O C R. Seguita nel fecondo luogo la fiarrationé.flC infieme il produrre de i teftimos ni, nel terzo ucngono le conietture.flC nel quar to gli argomenti, cauati da cofe uerifimili. Et pa re à mecche un gran compofitor d'Orationi.chc fu da Bizantio,ci mettelTe anchora le pruoue,CC le ragioni, che faceuanoper colui, chcoraua. F E D; Tu uuoi dire Teodoro, che fu fi eccels lente, è ucro;" S O G R. Si certamente. Coftui anchora trojiò nella accufatione,fiC nella difens fione^i argomèti raddoppiati, £t per che non faciamo fìoi ricordanza di Euano Parìo? il qùàfc prima à tuffigli altri frouò le dichiarafioni: flC cifra di quefto fu inucntorc delle Oratiohi.chc in lode d'altrui fi fanno, fiC non mancano molti che dicano, che egli per meglio à memoria ntc^ nerlc,tramezaua le fuc Orationi con certe uifua pcrationi fatte in uerfi. Et di ciò non è da mara^ uigliarfi^per che egli è un huomo fauio.Lafcia^ mo pur andare Tifia,flC Gorgia, li quali propone gonoil uerifiHiile al aero, flc con la forza delle Orationi fanno le cofe grandi parer piccole, flC le piccole grandi,* fimilmcnte che le cofe uec:s chic moftrino effcr nuoue,& le nuouc uecchie, hanno trouato una breuità di parlare moza, ft poi per il contrario una infinita lunghcza di parole ♦ Le quali cofe gii fentendomi raccontare Prodico,fe ne rife,a moftromi.chc egli folo ha:^ ucua trouafo, quali parole à quella arte (àceffe;* ro di bifogno; & mi difTe^chc ella 'non haucua di bifogno di molte, ne di pochc^ma fi gouer^ naua in quel mezo. F E D. Sauiamentc difTcProdico. SO CR. Non fa di bifogno ricor^s dare Hippia,per che io penfo,chc con lui s'ac* cordi anchora il noftro hoftc Helienfe. F E Non bifogna per certo ♦ SOCR, Che dirc^ mo noi della confonante concordanza.che ha rif rollato Toh? il q irate In qu arte introcìufjs le repllcationi delle parole Je fent?tie,le com paratìoni Je fi m i li fri di ni, & Tufo de i nomi con. elegantia in quel n5odo,che egli da Lidmnionc l'apprefTe.F D D. Dimmi un poco Socrate^ li (critti di Protcìgora non erano quafi fimilià Èjuefti.^ S O C R. f^edro mio, il parlar di Pros rtagora è buono, fif propio,££ nel luo ftilc fi truo uaJiomoltecofcnurauigliofe.tTia nel niuouerc à pietà, fiC a milericordia^ccl ricorJfe41i iiecchie za^ò la pouerfà lorafore di Calccdonia fù cccel:r Jente, & aiicliora ikH' incitare,fl£ mitigare l' ira ^cra potentifiìnio^fii non altrimenti placaua una.ifato^che fe egli liane/Te adoperato li incanti: fa anchcra fopia tutti gl'altri nel difendeifri,fif pur garfi dalle calumnie dateli, & nel darle ad aU tri ogni uolta,che gli bilognaua. Ip forno al fi:? ne delloratione pare a mecche tutti s accordino infieme^ma-ino^ti chiamano quello fìne,Repe;{ titione,5(molti Ju altro modo. F F D. Voi tU che li fine fu il ridurre nella memoria alli audi:^ toribrtuemente tutte k cofe^che difopra fono fiate detter S O C R. Q^ieflo uoglio che fia^, Ci fe tu inforno à ciò fapeifi qualche altra ccfa; dillà,cheiouolentieri ti. afcolfo» F ED. Io certamente non fo fenoa cofe di poco moipens! to,ac non degne d'efTer rfcordafe. SO CR.^ le cofe di poca importanza lafciamole andare;' flC pm predo attendiamo à dichiarare che forza habbia qiiefta arte quando quefta arte fi pot ficonofccre. F E Grande certamente, fes; condo me,è.la forza della oratoria apprefTo alla moltitudine, flf al uolgo, S O C R. Grande per certo. Ma confiderà un poco di gratia,co^ me fo io, come queftì Oratori, uanno con tutu quefta loroarte.non di meno male in ordine, flC mefchinamente, FED. Dimmi un poco^ quefta cofacome uaf' S O C R. Stammià udì:: te, Se fuffe unoxhe trouando il tuo amico Lifi:^ inaco,gli djccfli in quefto modo (o uero a fuo padre Acumeno ) Io ui dico, che io fo beniffi;: 8ìo,flC conofco quelle cofe, che accoftate à nn corposo uero da un corpo adoperate ufate,fa rò chea mio fenno quel corpo fi rifcalderà^flC raffredderà.oltra di quefto io fo prouocare il uo mito,fo fare reuacuatione,fo ordinare lepurga^. tioni,& intedo molte altre cofe funili: per il che io fo profeffione di Medico, flC dico di poter fare diuetare Medico ciafcuno che uprrà. Se uno gli parlalTi cofi,che penfi tu che gli rifpondeffero^ •Ped.Che uuoi tu ch'io dica altro, fenó ch'eglino i'^auefferoàdomadareje anco egli fa à quali per fonc.in che fempi.ft fin quanto queftc tali co* fe.chc egli dice fapere.fic conofcere/i hauefles ro à operare, fif ordinare. SOC'R. Seaduns quc colui gli rifpondeflé.che egli di qucfto nó (àpe/Tj render ragione. ma che faccfTc di bifos gno.che colui che hauelTe imparato da lui quel le cofe che egli fa/apeffe per fe fteflo.fiC potcfle fare il rcfto.fiC conofcefle i tempi, £t le perfonc, uerfo di chi.fic quando fi haucfTerà à mandare à effetto. Se quefto tale gli dicelTe cofi.che penfi tu.che eglino gli rifpondelTero.'' FED. Cers tamente che altro non potrebbono dire.fenon che quefto (al'huomo fiifTe fuor di fe, con ciò fia.che hauendo folamente da qualche libro di Medicina udito una pocp cofa.ft elfendogli nel leggere uenutoalle mani qualche modo di mes dicare, & non di meno non intendendo di quel la arte cofa alcuna, penfi per quefto effere diuen tato Medico. S O C R. Ma che diretti tu.fe fulfe uno,che.andaffe à dite a Sofocle, flf à Èus ripide.che egli fa i -una piccola cofa fare un lungo parlamento, ec per il contrario fopra una grande parlar breuemeute.'' Oltra di quefto che ogni yolta.ehe uuole.fa commouerc gli audis tori à mifericordia; flC fimilmentc all'ira.che è fua centuria, fa far nafcere horrore.ec fpauento/ fa minacciarci fa fare fimili altre còfc, fiCchc fieli' infegnarle egli penia faper moftrare Tartc, ce la Poefia Tragica • F E D. Io penfo, che co ftoro fimilmcnte fi riderebbero di lui,uedendo che egli teneffe per fernìO,che la Tragedia folas niente fi conteneffe nel far quelle cofc^chc egli dice fapere.CC non peniaffe^chc la uera Trage:? dia uuole tutte quefte cofe bene infieme compo fte,a ordinate, fic uuole hauere tutte le parti tra loro corrifpondenti.flC conuenicnti alla materia, CCalfubiettodellacofa* SOCR. Etnopea fo io, che per quefto eglino lo riprendeffero uiU lanefcamentc, ma farebbero come un Mufico, che fi abbatteffe in un'huomo,che fi pcnfafTe d'efTer Mufico folo per fapere in che modo le corde fi faccino fonare, hor bafre,hor alte.Que^ fto Mufico, che fi deffe in coftui,non gli direb^: be con un mal uolto, O pouero \ te, tu impazi (iome ogn' altro forfè farebbe ) ma come Mu^i fico.h quali fono tutti piaceuoli.cofi più amo$ reuolmente lo ammonirebbe. O huomo da be^ ne,colui che debba effer Mufico, bifogna che fappia quelle cofe, che fo io: £C colui, che fa deU la Mufica quello^che fai tu/i può dire, che non ne fappia cofa alcuna: per ciò che tu folamente conofci quelle cofe, che dauanti all'armonìa fof^ no nfceffaric^ma della armonia ne fefignoranfc; F E D, Beniflimo, S O C R. Similmcnfe potrebbe Sofocle dire à colui, che gli fi facciTe incontro, come io ti ho detto, ciò è, che egli più predo fapcfTe quelle cofe,che uanno innanzi alla Tragedia, che eghconofceffe, che cofa fuflc Tragedia. Et fimilmente Acunieno Medico po trebbe dire à quello altro, che egli fapcffe queU le cofe,che uanno innanzi alia Medicina, ma che la Medicina non la intendere • F E Cofièper certo. SOCR, Ma fe lo clegans: tifljmo Adraflo,flC Pericle udifTero quelle parole fcelte, ftartificiofe, quelli parlari mozi, quelle fimilitudini,fi£ quelle altre cofe,chepocol'arac contauamo,fiC narrandole giudicauamo effer da confiderare^ penfiamo noi, che eglino (come forfè faremo noi ) fi adiraffero con coloro, che tal cofc infegnando,penfafrero infegnare l'arte ora^ toria,òpure uogliamo dire, che eglino, come più faui di noi,in quefto modo dicendo ci ris: prendefferoi'O Socrate, Fedro Je fonoalcu:? tti.che elTendo ignoranti dell' arte della Diale t^ tica non pofrono,ne fanno diffinireche cofafia Rcttorica,con coftoronon dobbiamo adirarci, ma più tofto hauergh compaflione, ££ perdos: nargli • Et fono aUuni^chc ftandofi in quella lo ro fgnorantia, mentre ch'eglino folamenfepof^s^^ggono,fiCfanno gli amniacftramcnfi, che quel lecofe inlegnano, che uanno innanzi all'arte della Rettorica,fi uantano,fiC gloriano di hauer troua(a,ec di faper perfettanìente la Rettorica! ce infegnando folamente quelle cofe che fanno, ^penfano,tt dicono di infegnare l'arte dell'orai fc perfettamente. Ma poi il modo di teffeie in^j Cerne, 6f commettere tutte quelle cofe in un cor po,in tal modo, che à chi rafcoIta,po(rano per:? fuadere, dicono che fa di bifogno,che lo fcho;s lare fe lo guadagni, fiC per fe ftelTo Timpari^cois me le à ciò non fi facelle di bifogno il maeftro, F £ D. Tale certamente, fecondo me,èquellaarte, che coftoro in cambio di Rettorica infegna no,a: fcriuono; & mi pare, che tu habbia detto il uero. Ma dirami un poco in che modo,flC per che uia potremmo noi acquiftare l'arte d'uno Oratore.flCd'unperfuaforeuero S O C Egh è cofa conueniente Fedro, & forfè neceffa^ ria, che fi come in ogni altra cofa,cori in quefta un'huomochclauuole acquifl:are,fia in ogni parte perfetto. Per ciò che fe la natura ti incih nera à effere oratore, fc poi ci aggiugnerai la dot trina,a la efercitatione,diuenterai un'oratore ec celiente, Ma fe una di quelle due cofe,prarte,ò la natura tì nianclicri.noii farai perfetto. Hora quanto quefta arte fia grande, non fi puojecod do me, per quella uia fapere,chc Gorgia.A Tra:s fimaco feguifarono.ma per altra. F E D. Per qualef' SOCR, Non fenza cagione Pericle è flato giudicato il più perfetto Oratore,che mai fufTe/FED. Perches' SOCR. Tutte le arti granxij hanno di bifogno della efercitatione nella Dialettica, & della contemplatione delle cofe celefti,fiC della cognitione della natura del le cofe: per ciò che quella alfeza^che nella men te noftra fi uede,flC quella efficace forza di po^: tereciafcunaimprefa cominciata condurre à ne, pare che nafchi in noi per Io ftimolo^chc quefte cofe baffe^fiC terrene ci danno, il che Pe^^ ride congiunfe con la fottiglieza del fuo inge^ gno: per ciò che fidatofi nella domefticheza,CC amicitia di AnafCigora ritrouafore di fimili cofe, n de in tutto alla contemplatione,tt cofi com^ prefe^^ imparò la natura della mente noflra^flC anchora del mancamento di quella, il quale •Anaffagora copiofamente dichiarò,flC di quiui ca uò tutto quello, che à lui parue,che fuffe al prp porito,flC utile per l'arte della Rettorica. F E D. Come andò queftacofa^ SOCR. 'Tu fai, <he il modo di medicafe^flC di orare è quafi il medefimo» Hiedefimo. FED. ìnchcmodo^ SÒCR. In ambe due ijfticftc arti fcifogha diuidcrc la na tura, ma in una fi parte la naturi del corpo, nek l'altra quella della anima. Pur che non fole per uia di efercitio^flC di far buona, & moderata ui^ fa.maanchora con Tarte habbia un Medico à dare à un corpo & medicine, ÓCcibi, di forte che Io faccia fano, ac rcbufto diuentare.Et fimik niente,pur che fi habbia à metteré in una anà ma la urrtii.flf la perfùafione per ragioni, flC per giufte,fiC legittime ordinatiorri. F E Cofi ò Socrate fi dee credere che fia. S O C R • Uo^ ra penfi tn,chefi pòfll conofcere la natura di djuefta stnitn^t bafteuolmente,fenza là cognitiòij ne di tutto quefto noftro compofto.il quald chiamiamo huomor F E t). Se fi debba crcs^ dcre a Hippocratc fucceffore di AfcIepo,non fo lamenfe diremo che non fi pofla conofcere la n* turi! della a'tìima fenza quella cognittónc,che ta dici,maalnchorache non fi poffa fapcre queib del corpo. S O G R. Dottamente parlò Hip:^ pocrate. Hòra è bifògria^ eòrifiderare,fe quefta cofa,ché io t'ho detto, fa al propofito della no^ ftradifputa. FED. Faccificome tu uuoi. S O C R. Attendi adunque qitello,che non iblo Hipjpocrate^i^ia anchora la uera ragione di^cario di qucftainucftfgationc della na(uta,cli€ IO t'ho detto. Cofi adunque la natura di ciafcurs nacofa fi ha da confiderare* Principalmentehabbiamo da uederc.fe quella cora,,della quale noi uorremmo fapere 1 attera: ad altri ifegnarla, èYcn)plice,flC d'una loia natura, ò pure di molte forti. Dipoi cafo che fia fempUce,fi ha da confi derare, che natura fia la Tua neiradoperarri,ac nel fare, conìe anchora nell'effere adcperata,fiC nel patire.Mafequefta cola harà più capi,diui dendoh* prima tutti;& raccontandoh ordinata^ mente, in ciafcuno habbiamo à cercare particors larmcnte quella fua natura, & intorno al farc,flC intorno al patire. F E D. Cofi pare, che s'hab bia da fare. S O C Et fenza far quefto fasi fi il procedere di colui, come il caminó d' un cieco. Ma colui, che qualche cofa tratta con ar^, non fi harà adafTomigliare à un decorò à un Tordo, anzi bifognerà dire, che qualunque farà, che con arte parli à un altro, prima cercherà chia ramente moftrarc la natura di colui, al quale parlerà, flC quefto altro no è che lanima. F E D,; Senza dubbio* S O C R, Dimmi un poco, • Vno che parli ccaarte ad un' altro, non fi sforss za egli fopra ogni altra cofa perfuadergli tutto ^ fluello,che auolei* F E D. Certamente, S O C.'Et péro c cola chiara.che Trafimaco.Cf qualuns que altro attende à infegnare la Reftorica, prima donerà con (omnia dilic;entia defcriuere.ìBC di^ chiarare fe l'anima è per natura Tua una cofi fo^ la^ficfimile tutta afe fl:e(Ta,òuero fe à fimilitu^ dine del corpo, fia di pia forti. Per ciò che qtian do 10 dico, che fi debba moftrare la natura della anima, non uogiio intendere altro, che quefto# F E U. Cofi douerà fare certamente. S O C Patto che farà quello, bifognerà che egli dimo^: ftri che potentia fia la fua,fiCuerfo che cofc la polTi ufare,C(à che paffioni ella fia fottopofta^ r E D. Certamente. S O C R. Dipoi ha:^ ucndo già diftinte,CC diuife tutte le forti degli affetti dell'animala de li difcorfi, & ragionai menti fuoi,gli farà di bifogno raccontare tutte le cagioni, per le quali tali affretti in lei nafcono, accommodando fempre le cagioni a gli affetti fuoi,& infegnando le qualità dell'anima, Cf che difcorfi fiano I fuoi,fiCper che cagione qucfta ftia fcmprcin confideratione,flC in nioto,flC quel la mal à contemplatione alcuna ne fi leui,flC fem pre fi ftia ferma. F E D • Quefta farebbe una cofa ingegnofiHima.Soc.Et perciò ti dico, che no fi potrìmai dire, che uno fratti, ò ragioni bene di cofa alcuna, non pur di quefta, di che t'ho ragio mtòjc alfrimcti procccJèrà.Ma li fcritfbri Ai qut fta arte de i noftri tepidi quali tu anchora puoi haucre uditi, fono aftuti.flC conofccndo beniffi^: mo quefta natura deiranima,chc io dico, non di meno ce la afcondono,flC non ce la uoglionomoftrare. Et io ti dico, che fé eglino non parler ranno^flCnon fcriueranno.feguitando il modo mio, non dirò maliche con arte, ò bene fcriua^ no. FED Qual modo dici tu SOCR. Io non ti potrei cofi facilmente dire le parole, che ci uanno,ma in che modo ci bifognaffe feri ucre,fe l'hauefTemo à fare,te'l dichiareiò in quel miglior modo, che mi farà poffibile. FED* Dillódì grafia, SOCR. Poi che noi hab:s biamo ueduto^che la fcientia del dire altro non è, che un tirare à fegP animi, flC un dikttarfi,bi^ fogna che colui, che debba effere Oratore, cono^j (ca quante parti habbia quefto animo. Hora quc fte fono affai, flC di molte, flC uarie qualità, fiC for^ ti,per le quali gli huomini uengono anch' efli diucrfi.ft di molte qualità. Confiderate quefte cofCiCjpuiamo dire, che fieno tante forti di Oras: ' tioni,fl(di parlari, di quante forti fono le qua:: • liti delle anime noftre.Etperò quelli animi, che peir le qualità loro fono à qualche lor parti:? «olar dcfiderio difpofti/fàcilmente con quellimodi di dire fi perfuadono, che alla natura loro fieno fimili: doue che fe tu in un modo parler rai,a; 1 anime di chi ti ode, fia altrimenti difpo:? fto,non lo perfuaderai mai. Et però à colui, che harà bene quefte cofc confiderato,poi che hariueduto,flf conofciuto la natura d'uno, flC le ope:: re,fif le attioni comprefe.farà di bifogno potere in un fubito nel Tuo ragionamento a{regnare,flC dimoftrare ijuefte Tue attieni, flc dimeftrare di conofcerle: ft fe altrimenti farà, potrà dire di no Tapere altro che quelle core,che già dalli maeftri gli furono infegnafe. Ma colui, che può con uc rità dire,flCconofcecon qual forte di parole fi può ciafcuno huomo perruadere,flC ingegnofa^ mente auuertifce,checolui,che gli è dauanti,c di quello ingegno, flc di quella natura, della qua le egli ha dimoftrato,flC fapendo fimilmentc, che un tale huomo ha bifogno di parole tali^ quale egli è ^per uolerlo condurre à far quelle co fe,alle quali egli è dalla fua natura inchnato^co^ ftui dico, che cefi farà ammae (Irato, all' hora po trà u erame n te affermare di poffedere qneftaarte del dire. Quando aggiugneràà quefte cofe,che iotihodettedifopra,ilfapere quando fi habs bia à tacere, ce quando à parlare, quando fi habsj bia à effer breue nel direna quando non^Oltca di qucfto quando conofccrà, quando fi haràda -uCire una Commiferatione, & qciando una uehe mcntia di parlare più afpra, quando s'habbia da fare una Amplificaticnc,flC qtiando in fomma fa, prà in quefto fimil modo uiarc tutte le altre par ti della Oratione,che fono dalli maeftn (late in:5 degnate: flf prima che tal cofa non fappia^non potrà in modo alcuno e(Ter detto Oratore. flC co^ lui^al quale una di quelle cofe.qual fi fia^mans; cheràònel dire,ò nello rcriucrè.òhello infe:? gnare,flC non di meno affermerà parlare con ar:? tc.airiioraquel tale, che tenia eller perfuafo fi partirà da lui, fi potrà dire uincitore. Ma forfè qualcuno di queftì Sciittoridi Rcttorica ci po^ trebbe direnò Socrate, & Fedro. peniate uoi che l'arte del dire fi habbiaa imparare in quefto mo do.flC non in altroi' FED. Socrate à me pare impoffibiìe/he fi pcffi intendere altiimcnti, quantunque quefta dimodri eflere una opera, & una fatica gianiffima, SOCR. Tu dici il acro, per ciò che ella è, come tu dici.dilfi:: Cile. bifogna parlando, & ri£arlando di quefta. cala più uolte,ceicare,tt confiderare fe forfè po teffjmo ntrouare una uia,che più facilmente, fl£ in più breue tempo iui ci pofc/Ie menare, acciò che noi noli ^iidiaaioinconfideratamente er;i rando ' ranJo per ufa lunga, d: difficile, pofendo noi ca minare per una piana, & breue: per il che fé a qucfta cofa tu mi pcteffi dare qualche aiuto coiji quelle cofe^che hai ò da Iifia,ò da altri imparai te,uedi di ricordartene, & dichiaramele» F ED. Potrei forre, per prnnare k mi riufcifle/arquci; che tu dici, ma non in queflo tempo. S O C Vuoi adunque,che io ti racconti un ragionai irento^che io gii non fo quando, udì intorno a queftacofaf FÉD, Digratia, SOCR. E fi dice.che egh ègiufto iddio quello, che uno ha neir animo, come coloro, che pagano quelli danari alla fiatuii di Lupo, come (ai, F E D. Cefi uoglio che ^cci, S O C R. Dicono ^diin qne coftoro,clie non fa di bilbgno tanfo con pa role inalzare (e cofe,che un dice, ne con lunga Oratione ingrandirle, come fare fi fuole: perciò che uogliono quefti tali (come habbiamo det^s to nel pnijcipio del ncftfo ragionam.ento)chc à uno,che habbia da eHere Oratori, non faccia di bifogno ccncfcere la uerifà delle ccfe giufte, & buone A dicendo quefto, intendono cofi/dcl le cofe,come de gli hucmini òper naturalo pcf ufo giudi. Et allegganoquefla ragione à prora uare che non bifognjfapere,che cofa Ca il gitH &o: per che ueJii gmcUcu h Oiatori nò fogliono hauer cura dimoftrarc la uerità,ma pia prefto at fendono à pcrfuaderc l'opinioni Io. C£ pero dico. Ilo, che è cofa uerifimile à credere che ia perfuac iìone fola fia quella, alla quale debba indrizar la mete colui, che con arte uorrà faper dire. Et che» fii il ucro, dicono cofloro che nefTuna cofa fi ere àttì mai che fia (lata fatta, fé prima non farà mo ftrato effer cofa probabile fiC aerifimile,che pcfTì <ffercaccaduta. Ma pure uogliono coftoro,chc -jpiu tofto fi habbino à addurre le cofe uerifimili neiraccufare.che nel difendere: flC cofi afferma- no, che un' Oratore fa poco conto della uerità, & che folo feguita il uerifimile^flC uogliono che fe quello loro Oratore feruerà in tutte le fue Ora tioni quefto ordine di moftrare il uerifimile,fi pofli dire, che egli moftri di faperc l' arte orato^ ria beniflimo • F £ D. Socrate tu hai raccon^ fato quelle cofe, che fogliono dire coloro, che fanno profeffione di infegnare la Rettorica.Et io mi ricordo.che nel ragionamento noftro po^ co fa toccammo un poco di quella cofa*& quel, che haidetto,foche debba parere cofa troppo grande à coloro, che in quella arte fi efercitano. Ma io ti fo dire, che tu hai dato una buona ba^ donata à Tifia. S O C R • Poi che tu mi hai ticordatoTifia^uorrei che egli mi dice/Te, fe e pcnfa.chcii probabile, flC il ucrifimilc fia alfro;^ che quello, che pare al uolgo. F ED, Che uuoi fu che riaaltrof* S O C R. Trono olxra di quefto, fecondo me, Tifia qucfta altra cofabeU la,& degna di lui, & la fcrifle anchora. Et que:* fto è, che fé per cafo un'huomo debole, ma au^ dace.che hauc/Te battuto, flC fpogiiatouD'huoi^ mo forte, flC timido^fafTe menato in giudicio,, uiiole TiTia che nefTuno dicoftoro habbia à con fefTare il uero,ma uuole che il timido dica.chc egli non è (lato battuto folamente dall'audace, & 1 audace l'ha à negare,* moftrare d effer ft^ (0 folo,flC pigliare quefto argomento. Come uo^ leteuoi,chcio,chefon debole, habbia aflalita coftni,che è gagliardo^Ma quel timido no coraj fefTerà per quefto la fua timidità, ma penfando, ritruouando qualche falfità,cercherà di accu^ fare Tanuerfario, Et cofi fimilmcntc in molte altre cofe accafcono fimili cafi, nclli quali(dicc^ ua Tifia ) bifogna haucrc quella arte. Non ti p;i re egli cofi FedroJ' F E D, Cofi certo. S O O quanto aftutamente dimoftra TifiadihauejCieritruouata un'arte afcofa,* diffìcile, ò ueroqua^ lunche altro (ìa (lato, che habbia tenuta quefta Tua opinione, ft habbia nonfe^comc £i uoglU»! Ma uuoi tu, ch'io dica quefta coiàio od^ JF £ p« ' Chccofaèqucfla.clicfu uuofdìre^ SOCR. 'Io uoglio parlare un pcco con Tifia.O Tifia ih» «anzi che tu ueniffi con quefta tua atte, noi tes ncuamo per certo, che quefto probabile,fiC ucris fimile.nonfipotefii al uolgo per altro iTiodo moftrarc.checonlafomiglianza della ucrità.fiC pcnfauamo.che quelle fomiglianie del uero fos lo da colui potefTero cfTer trouate,chc peifettas niente la uerif a ccnofceffi. Per il che fé tu cidi'raiintorno àqiicfta arte qualche altra cofa.uo* lentieri ti afcol faremo: ma Te non dirai altro, noi ci ftarenso à quello, che poco fa habbiamo defcs to.ft^ 9^*^^*^ crederemo. Et quefto è.chc fe • uno non conofcerà bene gli ingegni delli audfe tori.ft fe quelli l'un da l'ahro non. diftinguerà, a fe non diuiderà le cofe.di che egli ha da pars lare nelle fue parti fe quindi di tutte un'idea fola facendo, in quel modo non le comprendes rà auefto tale nó potri mai acqui{lar*e quella ars te del dire. che può hauere un'huonrto. Etques > fta cofa non la può imparare fenza,un lungo uu, dio. Nella qua! cofa un' huomo prudente nófo lamentc fi affaticherà per poter dùe.a orare in modo, che piaccia a gi'huomini, ma anchora ut cherà di poter djre.a tare quelle cofc.chc habs jj^j^jano da e(ftr gxate a Dio. Per cièche io uoglioche tu fappia Tifia/he quelli Iiuomini,chc fors no flati più faui di noi, bino detto che un'huo mo fauio non debba follmente penfare di (om^ piacere à tutte le bore à quelli, che feco fono fa un niedefimo fcruitio, ma fi ha da cercar di ubi dire à buoni Signori. Per il che non ti maraui^: gliarc.fe io ufoquefta lunghcza di parole, per ciò che gh è neceffario che io fia lungo^efTcndo le cofc,che io tratto, di importanza, il che forfè tu non credi.Etfappi,che (come fi fuol dire ) che dalle cofe buone ne nafcono le buone, cofi anchor dalle uere pofTono uenirne le uerifimili. F E D. Qyefta cofa pare à me che fia beniffimo detta. SOCR. Egli è certo difficile, ma egl'è anchora cofa hoaorata,flf degna lo sforzaifi (em predi aitiuare air acquifto di cofe eccellenti, fl(degnerà patire tutti quelli difagi,che in tale sforzo ne interuengcno. F E Tu hai ragio ne. SOCR, Habbiamo horaà baftanza ra^ gionato della arte j ce del trifto modo del comrs porre Orationi. F E D • A baftanza per certo* SOCR. Ci refla bora à ragionare intorno alla bclleza dello fcnuere^flC à dire onde nafca labru teza dell'orare, F E D. Quefto ci refla. S O C. Sai tu in che modo ò ragionandolo orando lì f offa nelle parole piacere a Iddio f' F £ D, Non ccrfo^ft tu? Spc. Io ho udito dire no fo che cog. fc, le quali già furono infegnate dalli noflri anti chiamala uerità di qucfta cofa la fanno cffi^fif ilo io. Hora fe noi ritrouaffemo modo di piacer nel parlate a iddio, pefi tu che ci bifognafTe più haucre cura di quello,che gl'hucmini intorno a ciò fciocamente pcnfanor F E D. Qnefla tua do ìiiada è da ridere. Ma raccontami un poco quellecofe^chc tu dici hauere udite • S O C lo - ho udito, che là prefTo al Naucrato di Egitto; fu già un certo iddio de gli antichi. al quale e dedicato quello uccello, che chiamano Ibin^flC quefto iddio é detto Theute. Quefto dicono, che fu il primo^che trouòii numerosa la com:? putatione,flf raccpglimento de i numeri, non folo uogliono che fuffi ritrouatore di quefta co::^ fa, ma anchora della Geometria, & della Aftrono miarritrouò anchora- fecondo loro, Tufo de i das di.fiCil mododi fare le forti, flC finalmente fu inuenfore delle lettere. Era in quel tempo Re di tutto r Egitto Tamo,2C ftaua in quella granr: di/Tima, CL nobilifTima Città, che chiamano li Greci Thebe di'Egitto; flC queftì popoli hannp po(]:o nome à Iddio Ammone. A quello Reue nendo Theute, gli moflrb le fue arti, flf gli diC^ (e.che farebbe flato buono, che egli à poco à pp co le diftribuifcc à tuffi li popoli dì Egitto. Ma egli domandò a Thcute,che utilità ciafcuna di quelle arti à gli huomini apportai » Il che di^ chiarandoli Thcute,Tamo approuaua quello,) che gli pareua ben detto: quello poi, che non gli piaceua.lo biafimaua.fiC all' hora fi dice.che Tamo dichiarò^a moftrò à Theute intorno à eia fcuna arte molte cofe,flC per una parte^ & per la altra; le quali fe io tutte uolcffi nan-arti/arei trop po lungo. Ma poi che uennero al ragionar dcU le lettere^ di/Te Theute, Sappi Re.chequeftadifciphnafaràdiuentaregli Egitfii più faui^flC di maggior memoria: per ciò che ella è ftata tro:j uata per rimedio della fapientia^ft della memo:^ riamai che egli rifpofe, Aftutiflimo Theute uo:s glio che (àppia,che fono alcuni^che fono atti k ^ fabricare gli inftrumentijchc per una arte fono neceflarii,ac buoni; alcuni altri faranno poi più pronti à giudicare che dannoso che utile quelli arte debba an:ecare. Matu,chefci padre delle lettere, forfè perla troppa bcneuoIcntia,che gli porti,haidimofl:ratodi conofcer poco la forza loro,hauendo affermato che elle cagionano in noi quello efFetto,del quale niente é uero,anzi fanno il contrario. Per ciò che T ufo delle lettere facendo che noi poco ci curiamo di tenere à me moria co(aa!cuna,pàrtoriTcfnciram eli chi fe impara^obliaionc di ciafcuna cofa • Et qiìefto ne auuicne,pcr db che confidati nelli fcritti dal tri,non uogliamo cercare di rauuoUarci troppo ncir animo le cofe: per il che tu non puoi dire d'haucr troiiato il rimedio della memoria, tna più tofto d' un rammentarfi delle cofe già fapuis (e.Oltra di quefto à me pare, che tu più preda infegni alli tuoi fcholari una opinioe della Icien ha, che la uerità: per ciò che hauendo quelli fen za la dottrina del maeftro lette, flC imparate mol:^ te cofe^parràal uolgo.anchor che fieno ignors ranfi,che non di meno molte cofe fappiano,oU fra di queflo diueterànno nel praticarli più mos: lefti,flcfafl;idiofi,ne ciòauuerrà fenza cagione: per ciò che efFi non pofTederanno la ucra fapien tiajfhapiutofto feranno ripieni d' un" opiniors ne di hauerla. ¥ ED. O Socrate, tu con po^ ca fatica fingi, che li Egittii parlano, ft qualunis que altro più ti piace, pur che ti uenga bene^ S O C Qaefta non è gran cofa, per che an:^ chora quelli, che ftanno nel Tempio di Giouc Dodoneo, affermano che le prime parole del fufuro indouine, che effi udirtera,ufcirono d'una Querele: li che à quelli popoli del tempo anti^ co (per CIÒ che eghno non erano cofi faui.co^ TOC fetc uot del dì d'^hoggi ) baftaua pci fr disfare alla loro fcioccheza udire ie^.pktrf ^i) k Qucrcie.pur che elle gli diceflero il uero* Ma (i5 peni! che importi qualche cofa chi fia.ò d'onde lia qucllo,ckc parlj. Et ciò ti auuiene,pcr >ch^ tu non confideri folo fe qucUo.che parla, dice il uero,ò non, ma uuoi udire parlare i p^erfone à tuo modo, F E P. Ragion^uolmcntc finii h«ii riprefo • fif à me certamente pare, che nelle letiP tere interaenga quello, che fecondo il tuo dire, diceua Tama;chc à coloro accadeua.chc U (ape tiano* S O C R.- Et pero qualunque perfona penfa fcriuendo intorno à quefta arte, 6 quelle cofc imparando. che da gli altri di lei fono itatc fcritte, per queftoche dalli fuoi fcritti fi habs» bla certeza alcuna i cauare.ò uero per il fuo im^ parare,douer faper cofa ucra.coftui certamente c fciocco,a: di poco ceruello.flc fi può dire, che egli fia in tutto ignorante dello Oracu lo di Gìq ue Ammonio, con ciò fia che egli penfi^che le Orationi fcritte pifi poffuio,che non potrà uno chcdafe fteffo fappia quelle cole, delle quali Quelle Orationi ragionano. F £ BeùiSì^, tno. S O C Queftoo Fedro ha la fcnttura piena di grauità,& dignità, che ella è fimihdl^ ina alla pittura: per ciò cIk ie^opere della pittUiP ra pare clic fìcno ufue^ma fc tu gli domanderai qualche cofa, uergognofam ente fi taceranno. Hon altrinienti delle Orationi potrai dire,fif ti parrà, che elleno intendendo qualche cola, U polfano anchora dire,ft moftrarc. Ma fe poi for^ (e di laperdefiderofo, gli domanderai di quaU che fuo detto la cagione^ femprc ti diranno una cofa, & ^<^»^pre ti lignificheranno il medefimo: <3CogniOratione,comeellaè feritta una uolta, Tempre. flf in ogni luogo la medéfima lì ritruo^ ua,fiC moftra le cofe fue à quelli, che fanno,* à gh' altri,'alli quali forfè niente importa, flC non faella,o puo dire à chi bifogni manifeftarfi, 6 àchi nonb]fogni,2(fe mai gh è ingiulla:^ mente fatto ingiuria,© detto mal di lei,femprc ha bifogno dell'aiuto di fuo padre, ciò è di chi rha fcritta,per ciò che ella al.nemico non rcpu? gna,ne à fe fteffa può dare aiuto. • F E D.Quc Ite còfc anchora pare à me, che fieno ueriffimc,. S O C R. Ma che dirai tu à quello? Credi tu, che fi polU uedere un'altra forte di parlare fras: tello di i^ueftof Et che fi polfa concfcere come quello, che io ti dico,fia legittimo, fiC quello del quale habbumo ragionato badando, & quanto migliore, flC più potente nafcai' F E D. Che parlare è queltof CC come uuoi tu che fi facciaf^ tu' ' Soc* S O G R. Qucfto parlare è queIIo,chc fi kwt ncir animo di chi impara per mezo della fcipnjs tia,flC è migliore, per che quefto può aiutare à fc flefro,fif conofce co qua] forte di p<rfonc fi bia a parlare., flC con quale à tacere. F E D. Xji uuoi dire il parlare d' un dotto, che fia uiuo,flC che habbia fpirito,deI quale una Oratione fcri(» ta ragioneuolmente potremo chiamare un fimu^s lacro. S O C R. Quefto dico fenza dubbio. Ma dimmi anchora quefta altra cofa, Vno agr(^ culflcre che fia fauio^ credi tu che uorrà fpargerc^ ft gettare nel tempo della ftate quelli femi.chc egli bara più cari.ft delti quali egli afpetta con defiderioil frutto, ne gli horti d'Adone, cor» ogni ftudio,fiC diligentia,acciòche perfpatio di otto giorni ne pQ)[fi uedcre i fiorii (comelai^chc miracolofamenfe in quel terreno ìnteruiene) ò nero dirai, che fe egli pure il farà, Io farà per pat fac tempo in qualche giorno di fefta.fif per darfi piacere, fiC no per cauarne utile alcuno^Ma quan do egli farà da uero, ce che uorrà "attendere alla agricuItura,non li feminerà in quelli horti,ma in terreni conueneuoli,flC gli parrà hauere affair fc con interuallo di otto meli, flC non d otto gior ni la fuafementafi maturerà. F E D. Certas mente Socrate, che come tu dici, quel tale femi;? fi^^è gfi WrH (!• AcJdftc pft btirla.ft per foU lazt),^ nel terreno buono da uero^ S O C R. t>^jf nfaremo noi, che un^huomo. ch^ (appia xke toù'fu il giudo, Ce il buono, ft« rhonefl-o, fi^ iiello fj^argere la fua fementa pia fciocco d u fio-agricultorer F B In neffuno modo, O C R Ef pero egli no femmerà i (noi detti ftudiòfamente con la penna nell'acqua negra, ^órtmietten doli alle fcritturc,fapendo egli che ft'mai poi portaflero pericolo alcuno non gli po tra dare aiuto: flC conofcendo anchora^che con lèfcriuere non fi può moftrare à pieno la ueri:? ti. F E D. Certo ch^ il feminare^come hai dctfe,è fuor di propofifo. S O C R^ Certo, ma prahìerà beh coilui gli horti delle lettere per darfi in quella follazo,fiC per pafTarc il tempo/ ce in quelli feminerà^ftcofi fcriuerà qualche co Éi^t'Af pofcia che fi uederà hauerc fcritto,terrà qùéli fuoi (catti per mcmoria,&' gli harà cari, come fe fu (fero tefori atti à fargli fcordaie gli afi^ tìnni/che gli ha da arrecare la futura uecchieza. Etnonfelopenferà,chcgli habbino à cagioni rtàrecjUefto in lui^ma in tutti coloro'^che feguis teranno le fue pedate, ecinfieme fi rallegrerà di tiedere già nati i fuoi teneri frutti: fif mentre che Ili altri huomini uanno pur altri piaceri fegui» tando. tando,cclebràndo conuit?,& fimili altri cU;:»*ti% egli lafciate quefte cofe folamcntc attenderà a ui nere nclli piaceri^ che danno li piaceuolj,& "dotti ragionamenti* FED, Socrate tu mi nioftli un trattenimento molto più degno di molti altri,cheà me paiono nili, narrandomi quei di co^ lui, che può Tempre hauer piacere ne i ragionamenti, a disputare della giuftitia,«di quelle altre cofe, che tu dici • SO CR* Cofièccrtamente Fedro mie caro, ma molto più degno ftio c quello di quefti tali (fecondo me ) quan^ do alcuno, poi che ha ritrouata un animala quel locheegh intende infegnarli afta, ufaudo Tarlc della Dialettica, piantala: femina in quella ani^; male fue parole con la fcienfia: le quali parol^c fonobafteuoliàgiouarà fe ftefre,& à colui, che le pianta: per ciò che non folamentc portano fc co grandilTinìO frutto, ma anchoia il if me doa^s de nuoui frutti pedano nalcetc.Onclt^ pafTando poi quefte paroÌe,6: quefte fcientie <A]ixn hixf:^ mo in un' altro, mantengono qucftft.gtiecic^ dono immortale: colui, che Ila in fe tal do:? no, pongono in qdello ftato di beatitudine, che è ^oflibile à un'huomo. F E D, Qaxtlh è an^ chora molto più degno, & honoreuole* S o Hormaio Fedro hauendg noi le cofe^ che Labe L un biamo dette diTopra conceflc, potiamo beniflirs- ino confiderarc quelle cofe,che^tu fai. F E D. Quali S O C Qijelle, che per conofccrlc fin giù habbiamo ragionato, ilqual ragionamen tb non habbianìo per altro fatto, che per poter ^ confxderare il modo di uitupcrare Lifia tuo in^ quanto all'arte dello fcriuere: non folamcte Liria,ma anchora tutte quelle Orationi.che con arte.ò fenza arte fi fcriuono.Età me pare, che già à baftanza habbiamo dichiarato, chi fia colui,cheartificiofofipofli dire, ficchi quello, che fia priuo d' arte • F E D. Cofi pare à me • SOC R. Et però bifogna di nuouo ricor^ darfi,che alcuno non può perfettamente faperc l'arte del dire,ò uoglila faperc per perfuaderc Viltrni,òper infegnarla (fi come le ragioni di fo |)ra ci hanno dichiarato )fc prima non conors fcerà la uerità di quelle cofe.ch' egli dice,òfcri^: uc t ce fe non faprà diffinire tutta la materia deU la cofa,che tratta: fl£ fatta qùeftà diffinitione,di nuouó diuidere tutte le parti, tenendo alle co:s fc particolari, ftindiuidue,fl£cofi contemplanti do,flC confiderando in quefto modo un'anima, alla quale habbia da perfuadere qual fi uogli co • fa,ac haucdo quelle cofc ritrouate,che con ogni forte di ingegni fi accompagnano, flC fono con:: ' uenienti. 'ucjjJenti.cofi fopra fu«o ordini^ fi: acconci il fuo parlare, che co un' anima uaria.fi: di diuerle fantafie.accommodi parole, & modi di dire uas rii.flC di molte forti.flt con una anima femplice, fi£ di un fol uolere ufi parole femplici.fl£ pure. FED. Cofifièdetto. SOCR. Chedires mo hora noi di quella queftionc, che di fopra habbiamotocco.ciòè feegli è cofa honefta.ò bratta il comporre Orationi.fi: in che modo qucfto ftudio fi poffi ragioneuolmente uituperarc, a in che modo non. Non ti pare egli,che le ras gioni dette di fopra ci habbiano dichiarato ques fto paHb i baftanza ^ P E D. QjaaU ragioni? SOCR. Quefte.che fe Lifia.ò altri.Ccfiachi uuole ignorante della uerità fcyfTe mai.ò ucro ■fcnue al prefente.ò fcriuerà cofa alcuna priuatas rmcnte.ò ucro che fi appartenga al publico.cos me farebbeno certe ordinationi ciuili.ó fimili cofe,flC che coftui penfi.che di quefti fuoi fcritti fe ne poffa cauare unacerteza.flC una fermiflima ftabilità.quefta tal cofa T uno fcrittore fe fi ha da giudicare che fia^brutta.Dichinlo le perfonc.ò noi dichino.chequefto imparta poco:|> ciò che il non fapere,che cofa fia il uero.ne il falfo intot no alle cofe giufte.fiC ingiufte, buone, CCtriftc, (anchora che il uolgo tutto lodoiTe quefta igno.twifia}non può pero effefc.che confidcrarK^o il uero non fu bruttiflima. F E D. Bruftiflima pcrccrfo. SOCR. Perii contrario poi. colui che penfa che fu neceflàrio qualche uolta per trattenimento, fif per fcherzo fcriuere^at nó giù <ljca che Oratione alcuna oin profa.o iq ucrfi mcrti^che fi perdi un gran tempo nel comporta '{come fanno quelh. che fenza confidcratione al tuna.CC fcnza dottrina, folamentc per daxad ins tendere una cola.fogliono alle uolte recitare ucr fi)ma terrà per certo.chc li fcritti,che buoni fi poflono dirc.fieno flaticompofti folo à quelli, chefanno.ma faprà che nelli ragionamenti, che fi &nno per cagione di imparare.fif di infegnarc adaltri.fifchc jicrauientc fi fcriuono.fiCimpria: ^tnono nell'animo d' uno.li quali trattano delle cofe gi"uftc,hcnefte.abuone,in quelli folas mente è ia uera chiareza flC la pcrfettione. A quc ragionamenti foli tienc^che mcntino ftudio, ttquefti/olifuoi figliuoli legittimi chiama.dt di queftl ragionamenti primieramente appr/za quello.chc m fe ftefTo efler conofcc(pur che in fe h ntroui}dipoi tutti quelji,che di quel fuo parto.comc %lmoli,Cf fratelli,© nel fuo ania wo.ó nell'altrui menti fono nati: fic. tutti gl'als tri difpreza, a difcaccia, quefto tale, dico, pare 4 me mt telile fia tale,qualc <3a noi fi potrcì>fyé^8drK!*« rare. F E D. lo acmi ò S cerate, efièr conife t:olui,cIic ttì ilici di queflo ne priego Aìhàtas mente Iddio. SOCR. Ma fia detto aflai^cl r^rte del dire per qaefta uolta^iiauendo noiparr lato più per{ratteiiimtnto,-clTe per altra cagioine. E t però tu potrarf dire à Lifia, ciré ncrtlTenfi do andati doue è il fonte delle Ninfe, ideile Mufe,habi>iaino uditi certi ragion ameti, li cpali hanno comandato, che noi dtcfatno A à itif » ^(à tutti gli altri Scrittori d' Orat foni: ol tra dì quefto à Honicro,ò;fe altri è (lato che c qualche ftuda,CC bada Poefia babbi compofl:o,ó pùre or nata, fiC niimerofa,ul{irnaoien(e à Solone/fiCi tutti gii altri^che delle ordinationi tiiiili hanno fcritto,che fe eglino tali<cofe <:onìpofero con faji peucli della ue<ità,flC col difputarc, pofTono dì: difendere le cofe^cbe eglino hanno trattato,iÓC con ragioni fa^r fi,chc li fcritti dinioftrano c{{ctc dainanco,ft pia uili delle parole loio,fif dclU noce uiua,fe quefto che io dico, faranno • Farei ine,<he habbiano à pigliare il nome ne da quel le cofe,che con la penna fcrifTero^twa pio prcftat da quello, che doftamete ccnfiderarono.F E U. Etchc cognome lata quefto, <££ in the modelli lo darai tui' S O C il gran ccgncMM ài piente folo à iddio/ccondo me, fi conufener flC pero à qucfti tali huomi ni, ch'io tlio difopradc^ fcritti,gli porrci più conucnicntemete il cogno:: medi Filofofo,ò di qualche altra uoce fimile. F E D, Certo che quefto no fi difconuerrebbc. S OCR. Et pero dimmi un poco, chiamerai tu ragioneuolmcnte Poeta, ò vero fcritfore d'Os: rationi.òdi leggi colui, che in fé cofa alcuna no habbia migliore di quelle, che ha fcrittof' Et che lungo tempo rauuollendofi, fiC aggirandofi il ceruelIo,con una affidua emendafione finalmen te habbia fatto una compofitionef F E D. Che uuoitudircperquefto? SOCR. Voglio di re,chetudica tutte quefte cofe al tuoLifia. F ED^ Et tu non farai il medefimo col tua amico. ^ per che in uero non mi pare da lafciarlo andare. SOCR. Q^ale amico dici tu^ F E Dico Tfocratcgiouanc perfetto. Che dirai tu à coftui Socrate Chi diremo noi, che egli fia (SOCR. Ifocrate ò Fedro, è anchora giouanetto^ma io non uoglio lafciarc di dire quek lo,cheioindouinodilui, FED. Che cofa f S O C R. A me pare, che egli fia di migliore ingegno,chenon dimoftra d'eflcrLifia per li fuoi Sritti, & oltra di quello di più gencrcfi cofiumi ornato» Per il che io non mi marauigliarci punto. punto,fccrcfcendoinIuigIi anni, egli diuens tafTc più eccellente nelTarte del dire, nella qua le hora fi efercita di quànti mai à quella fi fono dati: flC credo, che egli non contento di queftc cofe per un certoinftintodiuino,cheè in lui, fi inalzerà ad imprefe maggiori; per ciò che io uo glio che fappi,che nel fuo ingegno è (lata daU la natura poftain un' certo modo la Filofofia, Quefte cofe adunque, che da quefti iddìi hofa^ pute,manife(leròal mio amicilTimo irocrate,& tu dirai al tuo cariffimo Lifia quelle altre cofe. F E D. Cofì farò. Ma partiamoci di qui,con ciò fia che il caldo fu hormai calatto à fatto* S O C« InnanziportajrCjò trarre feco,fen6colui,che fia t» perato, Penfi tu che fi debba domandare altro ò Fedro ^ A me par hauerc con preghi domandato uclfo,cbefaceuadi fxifognó, F E Pieg afichoia,che quel trcdcfmio conccdinoa me: pei* ciò che tra gli amici cani cola è conh SOCR* Partiamoci Adunque.  Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei Lingua Segui Modifica Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376.jpg Ganimede e l’aquila, III secolo d.C.(?) Nome orig.Γανυμήδης SessoMaschio Luogo di nascitaDardania Professionedio dell'amore omosessuale e Principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης, Ganymḕdēs) è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico[1].»  In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite,[2] indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo.  Genealogia                                          Modifica Figlio di Troo[3][4][5] e di Calliroe[3] (o di Acallaride[6]).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte[7], Tzetzes che sia figlio di Ilo[8], per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio[10] oppure Assarco[11].  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia             Modifica  Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro[12]: il padre si consolò pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli Dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo portò quindi sull'Olimpo dove ne fece il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano.  Walter Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila[13]. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia[14].  Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (sec. II d.C.) (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziaticoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale.[15]  Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. [16]  FilosofiaModifica Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti[17].  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo[18][19].  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe del 1774.   Damiano Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede, sec. XVI (National Gallery, Londra) PoesiaModifica In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Publio Ovidio Nasone nella sua opera Le metamorfosi[20], poi Publio Virgilio Marone nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio[21] e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso.  Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo[22]. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio[23].  Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di William Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale.   Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana AstronomiaModifica Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius[24]. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide scoperto nel 1925, 1036 Ganymed.  Nelle artiModifica Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare del IV secolo a.C. (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: «Leocare [ha realizzato] un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste.» Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale.  La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica).   Il ratto di Ganimede (circa 1650), di Eustache Le Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Michelangelo Buonarroti, Benvenuto Cellini e Antonio Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma(1509-1514 circa), i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese nel 1635, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede (1700), di Anton Domenico Gabbiani Gli esempi di Ganimede nel XVIII secolo in Francia sono stati studiati da Michael Preston Worley[25]. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Jean-Baptiste Marie Pierre, Charles-Joseph Natoire, Guillaume II Coustou, Pierre Julien, Jean-Baptiste Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di José Álvarez Cubero, eseguita a Parigi nel 1804, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo[26].  L'artista danese Bertel Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito nel 1817 una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale.   Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse, ca. 500-490 a.C. (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia, 1522)   Illustrazione gli Emblemata di Andrea Alciati del 1534. Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo (1505-1566), Giove bacia Ganimede (1550 ca.) (Ashmolean Museum, Oxford)   Cherubino Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede" (1804), di José Álvarez Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina (1817), di Bertel Thorvaldsen Albero genealogico                          ModificaAtlantePleioneScamandroIdeaElettraZeusTeucroDardanoBatea ErittonioIlo TrooCalliroe Euridice IloAssarco IeromneneGanimedeLaomedonte Strimo(o"Leukyppe")TemisteCapi PriamoEcubaAnchiseAfroditeLatino EttoreParideCreusaEnea Lavinia AscanioSilvio SilviusEnea Silvio Bruto di TroiaLatino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca NumitoreAmulio MarteRea Silvia ErsiliaRomoloRemo Età regia di RomaShe-wolf suckles Romulus and Remus.jpg NoteModifica ^ Paolo Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore 2005, pag. 25 ^ Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language", 2000), catamite, p. 291. ^ a b ( EN ) Apollodoro, Biblioteca III, 12.2, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Omero, Iliade XX, 213 e seguenti, su theoi.com. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ ( EN ) Diodoro Siculo, Biblioteca Historica IV, 75.3 e 4 e 5, su theoi.com. URL consultato il 10 giugno 2019. ^ ( EN ) Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane I, 62, su penelope.uchicago.edu. URL consultato l'8 giugno 2019. ^ Marco Tullio Cicerone, Tusculanae disputationes, 1. 26 ^ Tzetzes a Licofrone 34 ^ ( EN ) Clemente Alessandrino, 22, su theoi.com. URL consultato il 3 giugno 2019. ^ Igino, Fabulae 224 ^ Igino, Fabulae 227 ^ Iliade, 5.265ff. ^ Burkert, p. 122; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. ^ Veckenstedt. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 835. ^ Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi 2009, p. 836. ^ Platone, Leggi, 636D. ^ Platone, Fedro, 255. ^ Platone, Simposio, 8,29-3. ^ Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, 6,15; 6,24. ^ Publio Virgilio Marone, Eneide, V 256-7. ^ Stazio, Tebaide, 1.549. ^ Marius/Schlör, Mundus Iovialis, p. 78 f. ^ Worley, The Image of Ganymede in France, 1730-1820: The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, n. 76, dicembre 1994, pp. 630-643. ^ ( EN ) Hugh Chisholm (a cura di), Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press, 1911. BibliografiaModifica  "Ganimede" (1874), di Gabriel Ferrier Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, 1821. Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda.  Christian Wilhelm Allers (1857-1915), Giove rapisce Ganimede Fonti moderne ( DE ) Edmund Veckenstedt, Ganymedes, Libau, 1881. ( EN ) James Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society, New Haven (Connecticut), Yale University Press, 1986, ISBN 0-300-04199-3. ( EN ) Walter Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1992, ISBN 0-674-64364-X. Robert Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano, Longanesi, 1995, ISBN 88-304-0923-5. 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Giulio Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, 1 (Gli dèi), 2009, ISBN 978-88-04-58347-9, SBN IT\ICCU\URB\0846664.  Particolare di Zeus accanto a Ganimede (1878), di Christian Griepenkerl Voci correlateModifica Icona gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ganimede Collegamenti esterniModifica (EN)  The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. (EN)  Peter R. Griffith, Visual arts: Gaymede. ( DE ,  IT )  "Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). (EN) Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive.. Controllo di autoritàVIAF ( EN ) 3262256 · CERL cnp00549963 ·LCCN ( EN ) sh85053046 · GND( DE ) 118537520 · BNF ( FR ) cb11941971x(data) · WorldCat Identities ( EN ) viaf-3262256   Portale LGBT   Portale Mitologia greca Ultima modifica 22 giorni fa di Ptolemaios PAGINE CORRELATE Troo re di Troia nella mitologia greca, figlio di Erittonio  Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo  Wikipedia Il contenuto è disponibile. Grice: “While some Englishmen would use euphemysms when subtitling Phaedrus, “a dialogue on love and beauty”, Figliucci contradicts Diogenes for whom Phaidros is ‘peri ton erotes’ – and has it as ‘il fedro o vero dialogo del bello’ – del bello is neuter in Italian (kalon), but also masculine – hence Figliucci’s reference to Giove and Ganimede. Felice Figliucci. Figliucci. Keywords: Giove e Ganimede, il bello, bei, kalos, kaloi, kaloskagathos, kalon, eros, to kalon, to kalos, eros.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Figliucci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760037737/in/photolist-2mRRHVK

 

Grice e Filangieri – lo stato secondo ragione – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Sebastiano). Filosofo. Grice: “The importance of Filangieri is in the concept of ‘ragione retorica;’ indeed, on the footsteps of Vico, Filangeri ‘posseduto della ragione,’ shows that illuminism is incompatible with the ancien regime!” Dei principi di Arianello, figlio di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del duca di Fragnito, nacque in Villa Filangieri, nel Casale di San Sebastiano di Napoli. Nella medesima villa Filangeri morì Giovan Gaetano Filangieri: il nonno dell'illuminista. Da una delle famiglie più antiche della nobiltà partenopea: lo zio arcivescovo era Serafino Filangieri.  Riceve un'educazione severa che si svolse privatamente nel Palazzo Filangieri di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino, e soprattutto Luca. Si dedica alla filosofia. Si laurea. A seguito della carica di gentiluomo di camera presso Ferdinando IV, si dedica al progetto della riforma di giustizia e divenne ufficiale di marina.  Il suo illuminismo è considerato napoletano in quanto non assimilato dall'esterno. Si tratta di un illuminismo prodotto nella Napoli. La città partenopea si era dimostrata sì come uno dei maggiori laboratori di idee d'Italia, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e il lusso sfrenato di nobiltà, mentre la massa plebea continua a vivere nell'ignoranza.  Si parla a questo proposito di "questione meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva in discussione anche l'esistenza di una civiltà, dato che il tessuto sociale era ridotto a brandelli. In tale contesto rappresenta la voce riformatrice, la cui efficacia e tuttavia limitata dalla precoce morte, prima delle vicende rivoluzionarie. Scrisse un saggio, “Morale de' legislatori”, nel quale dichiara di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in discussione le tesi di Beccaria. Afferma infatti che nello “stato di natura” – non lo stato civile -- ciascuno ha il diritto di togliere la vita a tutti per proteggere la propria ingiustamente minacciata". Tali temi vengono poi ripresi e trattati ne “La scienza della legislazione”. Stampa a Napoli le riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano. Le riflessioni riguardano la riforma dell'amministrazione della giustizia. In particolare afferma la necessità, per il magistrato, di motivare la propria sentenza in base alla legislazione scritta nel regno, permettendo in questo modo di eliminare gli abusi e i privilegi per il  giudice.  L'Illuminismo napoletano di Filangieri emerge in particolar modo in “La Scienza della Legislazione”.  Analizza le linee sistematiche di una scienza pratica destinata a essere guida delle riforme legislative e basata sulla *felicità individuale* del cittadino come premessa *utilitaristica* allo stato buono. Filosofi come d'Alembert e Montesquieu, con il loro spirito di classici dell'Illuminismo, contribuirono a influenzare Filangieri.  Ottenuta la dispensa dal servizio di corte, si trasferì a La Cava, poco lontano da Napoli. Qui si dedica interamente alla filosofia. Arrivano le prime condanne da parte dell'Inquisizione, anche se la Chiesa romana non contesta la legittimità dei provvedimenti assunti dal governo borbonico sulla scorta delle proposte contenute in “La scienza della legislazione”. Divene capitano di fanteria. Consigliere del Supremo Consiglio delle Finanze e, preso dagli impegni politici, non riusce “La Scienza”.  Si ritira a Vico Equense. Essendo stato iniziato in massoneria in una loggia napoletana, ebbe solenni funerali massonici, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le logge napoletane. A Filangieri e intitolato il carcere minorile di Napoli. A Milano è intitolata la piazza antistante il carcere di San Vittore. Composta da otto libri, “La Scienza della legislazione” è un'opera di alto e innovativo valore in materia di filosofia. E così apprezzata per la sobrietà della critica e per la concreta esposizione sul piano giuridico. Espose una filosofia frutto della grande cultura napoletana antecedente all'Unità d'Italia, rappresentata in particolare da Vico e  Giannone, che interpola con Montesquieu e Rousseau.  Porta alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano Napoli, pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di aristocrazia, sfruttatori del popolo. Al tempo stesso essa chiede alla Corona di farsi portatrice di una rivoluzione pacifica, una sorta di modello di monarchia illuminata, secondo i canoni illuministici, da conseguire attraverso una seria azione riformatrice da attuarsi sugli strumenti giuridici.  Importanti l'affermazione dell'esigenza di attuare una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale, la necessità di operare un'equa ripartizione delle proprietà terriere e anche un miglioramento qualitativo dell'educazione pubblica oltre ad un suo rafforzamento su quella privata.    Per ciò che attiene al diritto criminale dà un'innovativa definizione di delitto. Una azione A puo essere contraria alla legge L ma non un ‘delitto’. Un agente che commette A (non delitto) non e un ‘delinquente’. Un’azione A disgiunta dalla volontà V non è imputabile dallo stato civile. La volontà V disgiunta dall'azione A non è punibile dallo stato civile. Un delitto consiste dunque in una azione che viola la legge L, accompagnata dalla *volontà* dell’agente ‘delinquente’ di violar la legge L. Tratta le principali proposte di riforma, nel campo politico-economico (abolizione del privilegio feudale, ecc.), penale, dei rapporti tra religione e legislazione, e, in modo particolare, nel campo educativo. Essa comprende il Libro I, dedicato a  “Le regole generali” della scienza legislativa, il Libro II a “Leggi politiche ed economiche”; Libro III, “Leggi criminali (procedura; delitto e  pena), Libro IV, “Leggi che riguardano l'educazione, i costumi – Kant ‘zitte’ Varrone, mos, ethos --  e l'opinione pubblica), Libro V, “Leggi che riguardano la religione”; Libro VI, “Leggi relative alla proprietà, rimase abbozzato (ne fu steso soltanto il sommario), e Libro VII, (Leggi sulla famiglia). Tra le varie tesi esposte in questo libro emerge la considerazione che ha dell'agricoltura. Sotto l'influenza di Genovesi, di Verri e dei fisiocratici, la considera un settore importante del sistema economico e propose la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e alla libertà del commercio dei suoi prodotti, sostenendo altresì l'imposta unica sul prodotto della terra.  Il trattato fu messa all'Indice dalla Chiesa romana per le sue idee giacobine. Infatti critica l'atteggiamento di Roma, ritenendo appunto che questa pesasse sulla società e si avvalesse di privilegi. Ha messo in campo proposte (giustizia sociale e giuridica, uguaglianza, pubblica istruzione, espropriazione dei beni ecclesiastici donati dai fedeli, ecc.) miranti al progresso in senso rivoluzionario attraverso un'azione legislativa fondata sulla ragione (non la fede) e rivolta ad un altrettanto presunto sviluppo della realtà di Napoli, ma con i metodi tipicamente giacobini basato su coercizione e sentimento massonico e anti-romano.  Stampa altri due saggi, i quali ebbero grande successo, con elogi entusiastici rivolti all'autore, come quello di Franklin, il quale avviò una corrispondenza con Filangieri e lo tenne presente per la stesura della Costituzione.  Suscita interesse e discussioni anche grazie all'attenzione dedicatagli da Constant. Altre opere: “Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell'amministrazione della giustizia” (Napoli); “La scienza della legislazione” (Napoli); “Il mondo nuovo e le virtù civili: l'epistolario” (Napoli. Ricca); “Discorso genealogico dei Filangieri estratto dall'istoria del feudo di Lapio” (Napoli, Bernardo Cozzolino); “San Sebastiano: un itinerario storico artistico e un ricordo” (Poseidon Editore, Napoli); “Signore di Lapio, Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio di Capuana, fu decorato con diploma imperiale di Carlo VI d'Asburgo, col titolo di principe di Arianello. Vittorio Gnocchini, “L'Italia dei liberi muratori. Brevi biografie di massoni famosi” (Roma-Milano, Erasmo Editore-Mimesis); Giampiero Buonomo, Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!, BECCHI, PAOLO. De Luca, S. Il Pensiero Politico di Gaetano Filangieri. Un'Analisi Critica. Il Pensiero Politico; Firenze, Seelmann, Kurt. La proporzionalità fra reato e pena. Imputazione e prevenzione nella filosofia penale dell'Illuminismo” (Società editrice il Mulino); Trampus, Antonio, Diritti e costituzione” (n.p.: Soc. Ed. Il Mulino,  Domenico Valente,"Poliorama Pittoresco", Conferenza tenuta dal comm. Giovanni Masucci al Circolo giuridico di Napoli, n.p.: Napoli, Tip. gazz. Diritto e giurisprudenza,  Gerardo Ruggiero, Un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Alfredo Guida Editore Pecora Gaetano, Il pensiero politico. Una analisi critica, Rubbettino Editore, Ferrone Vincenzo, La società giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo, Roma-Bari, Laterza, Cozzolino Bernardo, San Sebastiano: Un itinerario storico artistico e un ricordo” (Edizioni Poseidon, Napoli Giancarlo Piccolo, “Cappella Filangieri. Indagini sulla Parrocchia Immacolata e Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS Edizioni, Cercola  F.S. Salfi, Franco Crispini, Elogio, Cosenza, Pellegrini, "Frontiera d'Europa" (Rivista storica semestrale, Esi editore Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), intitolato “Studi filangieriani” Berti, F., Il repubblicanesimo, Pensiero politico Mongardini, C., Politica e sociologia, Giuffrè, Trampus, A. e Scola, M., Diritti e costituzione. Pensiero politico. Ascione Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella di San Vito Martire a San Domenico: Il restauro del dipinto della Madonna del Carmelo di Giovanni Antonio d’Amato, Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San Sebastiano. Filangieri Illuminismo in Italia. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. Il pensiero politico di.Una analisi critica, su politica magazine.  Fu detto, e ^giustamente, che G. F.  I lerbarth è stato il creatore della Pedagogia scien-  tifica, (i) perchè alla costruzione empirica delle  teorie educative sostituisce « un sistema organi-  co di proposizioni derivanti le une dalle altre, co-  me conseguenze da verità fondamentali e come veri-  tà fondamentali da principi, laddove prima era piut-  tosto una raccolta di ammaestramenti per le di-  verse contingenze che si presentavano nella pra-  tica educativa, (juasi una raccolta di ricette pe-     li) X. ¥()RXK\ JA - La Peda^^oo^ìa secondo Herharth  r la sua scuola - liologna, 1890. Pag". 3.     lOI     dagogiche; (i) e perchè pone a fondamento del-  la nuova scienza educativa la conoscenza dell'e-  ducando e delle leggi del suo sviluppo psichico,  oftrendo, come bene scrive il Romano, (2) i ger-  mi preziosissimi e fecondi di ogni ulteriore svi-  luppo della psicologia pedagogica.   Ma non si deve dimenticare che, prima del-  l'Herbarth, il nostro Filangieri, pur non essendo  un pedagogista sistematico, né preoccupandosi,  come il primo, di organizzare un sistema scien-  tifico di Pedagogia, abbia studiato il fatto del-  l'educazione umana come acquisto lento e gra-  duato della psiche, svolgentesi e sviluppantesi  per gradi, sino alla consapevolezza e libertà del  volere.   Tanto l'Herbarth (|uanto il Filangieri parto-  no dal principio Lockiano della tabula rasa, che  con le masse apperccpicnti del primo, e la pci'-  ce^ione e la inenioria del secondo si svolge in in-  telligenza operante; e dall'amoralità del neonato,  per via dell'istruzione educativa e delle casuali  contingenze della vita, all'acquisto del carattere  morale e della felicità.   Ottimisti entrambi, come tutti i filosofi e  pedagogisti del secolo XVIII, . all'istruzione asse-     (i) L. CREUARO - A<7 Pedagogia di (r. F. Ilcrbarth  -Torino, 1909. Pag. 293.   (2) r. ROMAXO - Psicologia Pedagogica - T(^rino.   1900. Pag. xvm. ' ' .,     I02     Limano un pou^rr illimitato, essendo a l'uno e a l'al-  tro ii^note le \e\:^\J!;'i dell'eredità psicologica   Come vedremo in seguito, più d'un princi-  pio fondamentale della pedagogia Herbartiana  troveremo, in germe, in i|uella del Filangieri; e ciò  varrà anche a convincerci che le leggi del vero non  sono il prod(ìtto geniale di un solo intelletto,  ma per via di lenta elaborazione e di successi-  ve integrazioni, si vanno svolgendo e rivelando; (i)  se pure non ci farà sospettare che l'Herbarth abbia  letta anche lui, come i pedagogisti della Rivolu-  zione, la Scienza della Legislazione.   Il Filangieri non è psicologo, nel senso che i  l)roblemi della psiche lo abbiano spinto a ricer-  che, a critiche, alla formulazione di teorie pro-  jjrie; egli segue le idee sensistiche dominanti al-  lora, e diffuse in Napoli, specialmente per opera  del Genovesi, che ebbe una forte schiera di se-  guaci, tanto e maggiormente nel campo degli  studi economici, quanto in quello dei filosofici. (2)   Così il Nostro si ricongiunge al Locke, da  cui il Genovesi trasse il suo criticismo, che con-  fina spesso coU'agnosticismo; e al Rousseau che,  come tutti i pubblicisti francesi del secolo, si rifa  dal filosofo inglese.     (i) V. G. A. COLOZZA - L'immaginazione nella Scien-  za -'Yoùno, 1900. Spcc. pag. 65 e S^&g"-   (2) /'. (t. Gentile- Z>a/ Genovesi al Galliippi-y,-^.-  poli, 1903. Pag. i6     I03     L'uomo non ha idee innate, nasce nell'igno-  ranza di tutto, non é né buono né cattivo: le  circostanze fortuite, o deliberate mercè l'educa-  zione intenzionale e metodica, lo piegheranno al  bene o al male, lo renderanno colto o incapace  di guidarsi nelle vicende della vita. L'errore è  acquisito; e poiché l'infanzia é l'età della curio-  sità e della imperfezione della ragione, é ordi-  nariamente l'epoca di questo fatale acquisto. 11  Filangieri segue la teoria delle facoltà, efificace-  mente combattuta dall' Herbart, (i) e dalla psi-  cologia contemporanea, che vede in essa il mas-  simo grado d'imperfezione della scienza e il se-  polcro della ricerca. (2)   Ma, pur affermando che le facoltà di scn'irc,  di pensare, di z'olcrc, sono nell'uomo appena na-  to, non le considera <; entità reali, personifica-  zioni di tante e diverse forze a sé e trascenden-  ti, » (3) ma semplicemente attitudini, potenze  della mente, che trovano fuori dell'uomo le cau-  se del loro sviluppo. Queste cause sono le cir-  costanze nelle quali viene a trovarsi l'uomo; e  l'oggetto dell'educazione é appunto di sommini-  strare un concorso di circostanze il più atto a  sviluppare queste facoltà, secondo la destinazio-     (1) V. CREDARO - Op: cit. Pag. 46-47.   (2) G. DANDOLO - Appunti di filosofia - Messina,  1903. Voi. I. Pag. 37.   (3) COLOZZA - Op. cit. - Pag. 1 79.     — I04 —   ne dell'individuo e gl'interessi della società del-  la (juale è membro. {\)   Poiché l'anima è una talutla rasa, senza pen-  sieri e senza desiderii, come acquisterà essa le  conoscenze e perverrà agli atti volontari?   La prima operazione dell'intelletto è la per-  cezione, ossia l'impressione che si fa nell'animo  all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi.  Come e perchè si produce questa impressione,  l'autore non dice, forse perche accoglie le idee  critiche del Genovesi, il (juale, come fa vedere  il Gentile, (2) confessava d'ignorare la natura e  l'origine della percezione e delle idee e la natu-  ra dell'anima: conoscenze inaccessibili alla capa-  cità degli uomini.   Anche il Locke aveva affermato che noi  non possiamo niente sapere di certo né sul cor-  po né sullo spirito; (3) e, riducendo alla sensa-  zione (da cui derivano le idee semplici) e alla  riflessione (idee composte) l'origine di tutte le o-  perazioni intellettuali, non indaga, neanche lui,  il come e il perchè. (4)   Per lo stesso Rousseau, benché egli abbia.     (1) FILANGIERI - A/7;r^ IV. Cap. XXIV.   (2) GENTILE - Op. cit. Pag. I - 2 - I I.   (3) LOCkE - Saggio siiirintendimcìito nmano - IV. 3,  26 e segg. Citato da G. M. Ferrari in Locke - Roma,  1906 - Pag. 69.   (4) FERRARI - LocA-c - Cit. Pag. 70 - I IO.     — I05 —   come il nostro Filang-ieri, intuizione d'una nuo-  va psicologia da porre a fondamento dell'educazio-  ne, le funzioni psicologiche, come scrive lo Stop-  poloni, (i) sono sempre quelle immaginate dagli  aristotelici medioevali, tutte belle e formate, inca-  stonate l'una dopo l'altra, l'una sopra l'altra.   Il Filangieri però riconosce che le facoltà  intellettMali, quattro, secondo lui, si annunziano  sollecitamente e contemporaneamente, e si svilup-  pano gradatamente. V Non confondiamo l'annunzio  delle facoltà intellettuali, col loro sviluppo. Il pri-  mo é sollecito e quasi contemporaneo, ma l'ul-  timo è lento e progressivo. > (2)   Ripudiate le idee innate, ammesse le facol-  tà che si svolgono gradatamente, secondo l'età  del bambino e le speciali circostanze in cui que-  sti sarà posto, deriva che l'opera educativa non  potrà che seguire il processo naturale, offrendo  a queste potenze intellettuali i mezzi per isvolger-  si e svilupparsi. Ed ecco la Psicologia in ser-  vigio della Pedagogia.   Il Filangieri ammette dunque quattro facoltà,  che si annunziano quasi contemporaneamente,  ma progressivamente si sviluppano: percezione,  memoria, immagimizione, raziocinio.   \jò. percezione è «l'impressione che si fa nel-     (i) STOPPOLONI- Rousseau -Roma, 1906 -Pag. 163.  (2) FILANGIERI - Libro IV. Gap. XXIV.     — io6 —   l'animo all'occasione di un oggetto che agisce  sui sensi. Senza di essa gli oggetti agirebbero  inutilmente sui nostri sensi, e l'anima non ne  acquisterebbe cognizione alcuna.   Per mezzo della mciuoria, le cognizioni  accjuistate per via delle percezioni, si conservano,  si riproducono, si riconoscono. Adoperata ap-  pena è annunziata sarebbe l'istesso che impedirne  lo sviluppo.   Bisogna aspettare che sia nel suo vigore  per profittarne, e nel suo vigore non é prima  che il bambino abbia nove anni, dopo che la sua  intelligenza, per via dell'istruzione fornita con le  percezioni, abbia acquistato vigore.   Si potrebbe domandare al Filangieri come  potrà essere nel suo vigore una facoltà che non  sia stata esercitata; ma ai suoi tempi erano igno-  te le leggi dello sviluppo sincrono delle attività  psichiche, che in Herbart, con la teoria della  imiltilarità dell'interesse e della concentrazione del-  ristrìLzione, trovarono il genio precursore.   Avute le immagini e le rappresentazioni de-  gli oggetti reali per mezzo deWa. />ercezione e del-  ia memoria, l'uomo le compone e le combina  per mezzo deW immaginazione (terza facoltà), la  ([uale, per isvilupparsi richiede un lungo lavoro  intellettuale percettivo e memorativo.   L'ultima a svilupparsi é la facoltà di ragio-  nare, che combina e compone, non già le idee  degli esseri reali, opera questa dell'immaginazio-     IO'     ne, ma le idee di già generalizzate, cioè quelle  delle qualità, delle proprietà, dei rapporti di esseri  che non hanno cosa alcuna di reale, e non sono  altro che nostri modi di vedere e di pensare, e  pure astrazioni.   La divisione Lockiana in idee semplici, pro-  dotte dalle sensazioni, e in complesse, prodotte  dalla riflessione, è in Filangieri ancora più com-  plessa. Tutte le idee semplici sono anche astrat-  te; ma alcune si acquistano immediatamente, per  mezzo dei sensi (colore, freddo, caldo) e sono  quindi idee astratte e semplici ma dirette; altre  non riconoscono nei sensi la loro remota origi-  ne, e si formano per successive e combinate o-  perazioni dell'intelletto (idea dell'esistenza, del-  l'essere) e sono astratte e semplici ma indirette.  Altre idee, in line, hanno, come le seconde, la  loro remota origine dai sensi, si formano per  combinate e successive operazioni dell'intelletto,  ma si rendono quindi di nuovo sensibili coi mez-  zi immaginati dall'uomo. Tali, per esempio, in  geometria le idee di linea retta, di superhcie  piana, che costituiscono una terza specie di idee:  le astratte e semplici ma indirette e figurate.  Queste tre specie di idee semplici si acquistano:  le prime, coU'associare la parola che esprime  l'idea (es. rosso) con la sensazione del colore; le  seconde, con operazioni successive dell'intelletto  di astrazioni e di sintesi; le terze, col primo  procedimento e col secondo.     iO(S     Altre idee sono composte, (costituite da idee  semplici) (juali: corpo, sostanza, albero, animale,  ecc., che hanno subita una considerevole progres-  sione di operazioni intellettuali.   Il Filan^-ieri offre un saggio del procedimento  mentale per l'actiuisto dell'idea astratta di ciuer-  cia, albero, vegetale, corpo, sostanza, che è una  bellissima pagina di psicologia, giudicata dal Ni-  sio il più bel tratto che abbiamo nella letteratu-  ra filosofica, (i)   Stabilito che le facoltà intellettuali si svilup-  pano progressivamente, consegue che il savio e-  ducatore debba saper con quali esercizi comin-  ciare e dove pervenire; e il periodo educativo  sappia dividere in tanti gradi, quanti sono quel-  li dello sviluppo intellettuale.   Così, nella prima età, quando padroneggia-  no le sensazioni che ci ventrono dal mondo e-  sterno, devesi secondare tale disposizione natura-  le, offrendo per pascolo all'intelligenza materie  di studio che trovino nella percezione sensibile  il loro fondamento. Tali sono, oltre della lettura,  della scrittura, dall'aritmetica, l'osservazione sul-  le produzioni e sui fenomeni della natura, il di-  segno e l'esercizio diretto dei sensi.   L'uso della seconda facoltà, la nienioria, é as-     (i) Filangieri- Libro IV. Cap. XXV; cirt. VII;  Kisio - Op. cit. - Pag. 3 1 5.     — I09 —   segnato al quinto anno d'istruzioni. Di questa  facoltà non bisogna abusare, (i) perchè é un  pregiudizio considerare la memoria una macchi-  na « le ruote della quale diventano altrettanto  più facili, quanto più sono state usate e le di  cui molle acquistano maggior vigore, a misura  che vengono con maggior forza e con minore  intermissione compresse; > (2) ed é assurdo il  metodo <v che imprime nella memoria vocaboli  e nomi invece d'idee, che riduce il sapere dei fan-  ciulli ad efimeri sforzi, che produce l'abito di  apprendere e d'obliare colla stessa celerità, e che  favorisce tanto la vanità dei fanciulli. »   Per conservare ed aumentare il vig-ore di  questa facoltà é necessario non impegnare la me-  moria in sforzi inutili; facilitare il lerame fra le  idee, in maniera che la riproduzione d'una, ri-  svegli immediatamente l'altra (3); rinfrescare soven-  te le tracce delle idee. (4)   In questo secondo periodo di sviluppo in-     (i) Cfr. Credaro - (9/. r//. -Pag. 109.   (2) Filangieri - Libro IV. Gap. XXV.   (3) ^f^- HERBART, che per via AqXY appercezione,  vuole che ogni nuova serie di cognizioni trovi nell'in-  terno del fanciullo una serie vecchia appercepiente,  ossia che il nuovo s'innesti organicamente sul vecchio,  e che Y appercezione segua con facilità e piacere e sod-  disfi un bisogno interiore fortemente sentito (credaro-  Op. cit. - Pag. 108 - 109.)   (4) C/r. DE BOMINICIS - Lince di Pedagogia, cit.  Pag. 133. Parte prima^     I IO     tellettuale, che dura tre anni, vanno continuati  ;^li esercizi di osservazione dei prodotti e dei  fenomeni naturali; il disegno, esteso allo studio  della i^eoo^ratìa, cominciato lo studio della sto-  ria e della lingua latina.   All'ottavo anno d'istruzione e tredicesimo  d'età, il bambino ha acquistato quel grado di  sviluppo e quella quantità necessaria di cogni-  zioni atte a fornirgli l'elemento per l'esercizio  della terza facoltà, r immaginazione, che si edu-  cherà senza precetti e regole, e solo che il vero,  il bello, il grande, il sublime sia nello spirito  del fanciullo, nei suoi occhi, nelle sue orecchie  e nella sua memoria, (i)   Dopo un anno, il Filangieri avvia l'alunno  x\q\V ai'ic di ragionare, coltivando la corrisponden-  te quarta facoltà, ed avviandolo allo studio della  geometria, dell'aritmetica e dell'algebra, della  grammatica e della legislazione, che apprestano  ampio materiale per l'esercizio e lo sviluppo del  raziocinio.   Questi principii di psicologia pedagogica il  nostro Autore applica quindi nell'educazione spe-  ciale di avviamento alle varie professioni, con la  certezza che, con tale sistema, gli allievi « non     (i) FILANGIERI - A/<^/-^ //', Cap. XXV.- l'. il bel  lavoro del COLOZZA.- L'Immaginazione nella Scienza -  cit; concordante in parecchi punti con le idee del  nostro Autore.     1 1 1     si lasceranno imporre dagli immensi volumi che  si sono scritti sopra ciascheduna scienza, ricono-  sceranno il vero stato dei progressi che in essa  si son fatti, (i) e invece di cominciare da dove  han cominciato i loro predecessori, essi comin-  ceranno da dove quelli han fmito, seguendo nel-  l'ordine progressivo delle istituzioni il disegno  indicato dalla natura nel progressivo sviluppo  delle facoltà intellettuali.   Il sistema proposto non regge certo alla  critica della psicologia contemporanea, né ai po-  stulati più accettati della pedagogia scientifica,  specialmente quando, oltre allo stabilire delle>-  coltà preesistenti all'attività psichica, artihziosa-  mente, seguendo l'indirizzo allora comune e dif-  fuso, conseguenza necessaria, come bene afferma  il De Dominicis, della teoria delle facoltà, asse-  o-na date età, con nette demarcazioni, per il lo-  ro sviluppo e la loro educazione. Nell'istesso er-  rore era caduto il Rousseau.   Oggi si farebbe compiangere il pedagogista  che vofesse scindere così l'unità della psiche, e che  credesse incapaci i bambini di ragionamenti e di  astrazioni, prima che fossero passati attraverso  all'educazione speciale della percezione e della  memoria; poiché, come scrive l' Angiulli, una del-     (lUl Filangieri vuole pervenire 2\X autonomia men-  tale, che dev'essere il fine ultimo di ogni educazione  intellettuale.     I I 2     le conquiste più importanti dei moderni studi  psicologici consiste nella scoperta dell'unità di  composizione della mente. Le operazioni più al-  te dell'analisi e della sintesi, della astrazione,  del raziocinio, ci chiariscon modi difìerenti e più  complessi di ([uel processo della discriminazione  e dell'assimilazione che si rivela anche nella for-  ma più bassa dell'esperienza e della sensazione :>(i)   Anche tra gli Herbartiani, il Lindner (2)  distingue tre gradi o periodi di sviluppo intellet-  tivo, che sono: i quello à^VC accoglimento (pcì'cc-  zione)- periodo dell'infanzia, periodo dell'impara-  re; 2 (juello del raccogliere ed ordinare - perio-  do dell'adoloscenza- periodo dell'imparare; 3 quel-  lo déW elaborazione (apercctio)i) - periodo della gio-  ventù - periodo della formazione dei pensieri.   Anche la Pedagogia scientifica ammette dif-  ferenze relative alle diverse età del discente; ep-  però vuole che i gradi dello sviluppo psichico si  corrispondano con quelli dello sviluppo fisiologi-  co, e distingue l'infanzia dall'adolescenza; e que-  ste, dalla gioventù e dalla maturità: periodo in     (i) AXGIULLI - La Filosofia e la Scuola - Nap>oli,  1888. Pag. 180. V. ORESTANO - An^irùilli - Roma,  1907. Pag. 60 - 74; COLOZZA - Ani^iiiìli - Diz. di Pe-  dag. cit; DE DOMlNiCIS, che in - IJnce di Pedagogia.  cit. Pag. 180 - I, formula la legge della simultaneità  della cultura psichica.   {2) FORNELLI- La Pedagogia secondo Herbart, ecc.  cit. Pag. 16.     I I     cui sensazioni e percezioni sono prevalenti, l'im-  pulsività vince il potere d'inibizione; e periodo  dell'attività memorativa e immaginativa, dei sen-  timenti sociali ed estetici, e via; e appresta va-  ria coltura, tendente a rispettare la legge del  tempo educativo, così formulata dal De Dominicis.(i)  Però, mentre il sistema del Filangieri e del-  la vecchia Pedagogia empirica delle facoltà si e-  saurisce in una serie di educazioni parziali, quel-  lo dei pedagogisti contemporanei, pur riconoscen-  do delle prevalen^-e nei gradi dello sviluppo, non  circoscrive l'azione educativa, ora alla sola perce-  zione, o alla sola memoria, o alla sola immagi-  nazione; ma, accettando il principio Herbartiano  della tmUtilarità deir interesse, anche nella più ele-  mentare lezione cerca di sviluppare, tanto l'attività  percettiva, quanto l'appercettiva, e pervenire,  dalle più semplici impressioni , al sentimento  estetico e morale. (2)   2 — Come si è più volte accennato, il  Filangieri, tanto nell'esplicazione del suo si-     (i) DE DOMINICIS - IJ)iee di Pedagogia - cit. Par-  te I. Pag. 177 e segg.   (2) Per gli stadi dello sviluppo intellettuale del  bambino, V. CESCA - Principii di Pedagogia Generale -  cit. Pag. 74-79; DE DOMINICIS - Zz;ì(?(? di Pedagogia -  cit. Pag. 117 e seg. - Antropologia Pedagogica - cit;  VY.^y:l -\.2l Psycologie de t'en/a?ii -Paris, 1882-86; SULLY  - Etudes sur Venfance -Vtxx'x's,, igoo; T\\\£X - Psicologia  deir infanzia - Trad. it. Messina, 1903.     — 114 —   stema sociologico e giuridico, (juanto in quello  educativo, è ottimista; e assegna all'educazione  un potere illimitato, sia perchè parte dal princi-  pio della bontà originaria della natura umana,  come dalla convinzione che la buona educazione  e i buoni costumi tutto possano. È ottimista, co-  me lo erano stati Leibniz e Locke, Rousseau e  Pestalozzi, e quasi tutti i grandi filosofi antichi e  moderni, (i)   Per far vedere i prodigi dell'educazione, il  Filangieri ricorda i Greci e i Romani, che egli però  non intende imitare quando non rispettano le  leggi di natura.   « Se il fiero Licurgo, col soccorso dell'edu-  cazione, potè formare un popolo di guerrieri  fanatici, insuperabili nella destrezza, nella forza  e nel coraggio, per qual motivo un legislatore  più uma.no e più saggio, non potrebbe egli for-  mare un popolo di cittadini guerrieri, virtuosi e ra-  gionevoli? » (2)   L'istruzione diminuisce i tristi effetti della  corruzione e si oppone ai progressi del dispoti-  smo e della tirannide: ecco il principio direttivo  del Filangieri; ed ecco l'aiuto che l'educazione  porge alle altre parti della legislazione, perchè si     (i) V. DE DOSnKlClS - Soc/o/ogi a Pedagogica - cit.  Pag. 1,59- 172/ C¥.^CK - Aniinowic psicologiche e socia-  li delV Educazione -W.Q^s\wai, igoò. Pag. 1-37.   (2) FILANGIERI - Z.//^;-^ IV Cap. I.     1 i.S     raggiunga il fine supremo di essa: la felicità, col  benessere di tutti e la libertà.   E come la mano dell'uomo ha soggiogato la  natura, creando anche nuove specie di vegetali e  di animali, cosi può trasformare, mercè l'educa-  zione, anche il mondo morale; e, dirigendo il  corso dello spirito umano, distraendolo dalle  vane speculazioni, richiamandolo agli oggetti che  interessano la prosperità dei popoli, perpetuare  il benessere e la virtiì.   Dalla suprema importanza del problema  educativo, deriva la necessità che lo Stato, co-  me nel campo degli interessi economici e giuri-  dici esercita il proprio potere, dirigendo ed  integrando l'azione dei singoli, così in quello edu-  cativo, che offre maggiori difficoltà, si sostituisca  senz'altro all'opera della famiglia, per più rispet-  ti disadatta ad apprestare le occasioni utili e  necessarie per la formazione del cittadino ope-  roso e morale.   La teoria socialista del Filangieri si oppone  recisamente alla individualista del Rousseau, e in  parte, dell' Herbart, il quale però, come bene fan-  no notare il Credaro, il Fornelli e l'istesso Ora-  no, (i) tende al fine etico- sociale, apprestando  una somma di cognizioni che diventano attività     (l) CREDARO- Op. cit. - Pag. 69-277; FORNELLI Op.  d'i. 6-13; ORANO - Herbarl -l^oxn-A., IQ06, Pag. 46 - 48.  62, 120 e seg.     - - 1 1 f) —   operanti e concorrenti al benessere della col-  lettività.   Il socialismo del Filangieri e l'individualismo  dell' Herbart, (che è tutt'altra cosa di quello del  Locke e del Rousseau, tendenti a formare, il  primo il gcntilnovio; l'altro, riiovid) divergenti  nei mezzi, si congiungono nel fine, che è di for-  mare l'uomo socievole morale, (i)   Partendo il Rousseau dal principio: tutto  ciò che è in natura é buono e diventa cattivo nel  le mani dell'uomo, perviene alla negazione di  qualsiasi azione positiva dell'educatore sull'edu-  cando, cosi che il suo é piuttosto nichilismo peda-  gogico, che individualismo: né famiglia, né socie-  tà debbono intervenire nell'educazione umana; se  mai l'educatore, anzi il pedagogo, nel significato  greco, non deve che seguire, vigilare attivamente,  mai sostituirsi all'opera educatrice, progressiva  della natura, al lavoro spontaneo dei germi in-  tellettuali e morali latenti nella personalità del-  l'educando.   L' Herbart ammette l'opera dell'uomo sull'uo-  mo; e della scuola, per assoluta necessità, essendo  impossibile assegnare un maestro per ogni edu-  cando; ma, potendosi per la prima educazio-  ne farne a meno, la famiglia lo sostituisce;     (i) Sulle questioni dell'indirizzo individualista e  socialista in Educazione V. CESCA -Antinomie, ecc. - cit.  Pag. 11 -71; STRATICÒ - Pedagogia socia/e - Pag. 63 - 95.     — 117 —   e crede nulla l'ingerenza dello vStato nella pub-  blica educazione, perchè esso « non si prende  cura della massa dei cittadini, che svolgono la  loro esistenza senza compiere alcuna importante  e pubblica funzione. Esso bisogna di soldati, a-  gricoltori, operai, impiegati, professionisti, eccle-  siastici. Allo Stato importa ciò che fanno tutti  costoro, ma non ciò che sono, (i) Esso non ha  modo di conoscere né di migliorare l'intimo del-  l'animo. (2)   Cosi l'Herbert sconosce, ne prevede quale  alta funzione educativa lo Stato potrà e dovrà,  direttamente e indirettamente esercitare (3); e  stabilendo un'opposizione tra l'opera dello Stato  e quella della famiglia, che mal risponde alla  realtà delle cose, sconfessa quasi, come scrive il  Credaro, l'alto concetto che informa tutta la sua  pedagogia.   Il Filangieri copre le lacune, completa le  deticienze del Rousseau e dell'Herbart, con una  visione precisa delle esigenze della personalità  dell'alunno, dei diritti e dei doveri della famio-Ha  e dello Stato, dell'efìficacia e della necessità del-     (i) É facile l'obiezione: Se allo Stato importa  ciò che fanno i cittadini, deve parimenti, anzi primie-  ramente importargli ciò che sono, poiché l'uomo agi-  sce, opera secondo che è.   (2) CREDARO - Op. cit. - Pag. 264   (3) STRATICÙ Pedagogia sociale. OV. -Pag. 161 - 235.     1 i<S     l'educazione sociale.   <•. Per formare un uomo io preferisco la do-  mestica educazione; per formare un popolo io  preferisco la pubblica. L'allievo del magistrato  e della legge non sarà mai un lunilio; ma sen-  za l'educazione del magistrato e della legge, vi  sarà forse un Emilio, ma non vi saranno citta-  dini. -- (i)   E poiché il nostro Autore si propone di  formare individui sociidi, cittadini operanti per  il proprio benessere e per quello della collettivi-  tà, educazione famigliare e sociale s'integrano e  si armonizzano ed operano di conserva per la.  conformazione psichica e morale del bambino,,  sino alla piena consapevolezza degli atti ed al-  l'autonomia.   Vero è che allo Stato il Filangieri assegna  un'azione di gran lunga superiore a quella delia-  famiglia; ma bisogna esaminare la questione sen-  za preconcetti sentimentali o politici per convin-  cersi che, dove le famiglie, come purtroppo ai  nostri giorni, e più ai tempi dell'Autore, sono  in gran parte, anzi nella (juasi totalità, incapaci  ad apprestare ai piccoli una conveniente educa-  zione, è necessario che la scuola, organo dello  Stato, si sostituisca a quelle, per la conservazio-  ne del patrimonio di coltura tramandatoci dalle     (i) FILANGIERI- Libro IV Caf). II.     — 119 —   generazioni passate, per la diffusione della mo-  ralità e per la difesa contro i nemici interni ed  esterni.   L'Autore enumera i motivi che lo determi-  nano per l'educazione pubblica, fra cui l'ignoran-  za e la miseria del popolo, la perdita dei paren-  ti e l'abbandono dei genitori negli orfani e negli  esposti, la mancanza di tempo, le dissipazioni e  i piaceri negl'industriali e nei ricchi, i pregiudi-  zi e gli errori diffusi; l'effetto dell'amor male in-  teso e della debolezza così frequente nei genito-  ri; la cura eccessiva della conservazione fisica,  che produce pusillanimità e debolezza d'animo  e che distrugge la confidenza nelle proprie for-  ze; e sopra tutto la corruzione dei costumi in  tutte le classi sociali.   Anche l'Herbart, pur essendo fautore del-  l'educazione famigliare, riconosce che « in pra-  tica le condizioni della massima parte delle fa-  miglie sono tutt'altro che propizie per l'esecu-  zione del programma educativo » e riconosce  pure che la spinta dell'emulazione si trova nelle  scuole pubbliche; ma crede che le nature gagliar-  de non abbiano bisogno dell'impulso dell'emula-  zione; e per esse, in difetto dell'educazione fa-  migliare, consiglia gl'istituti privati, dove l'istru-  zione può svolgersi rapidamente e meglio adat-  tarsi all'individualità dell'alunno, (i)     (l) CREDARO- Op. cit. Pag. 265     I 2     Si potrebbe domandare all'I lerbart quali e  (juante sono le nature gagliarde, che non abbia-  no bisogno della spinta dell'emulazione; e se non  sia in vece nel vero il Filangieri, il quale é con-  vinto che l'educazione sia quasi interamente fon-  data sull'imitazione.   Tra i vantaggi dell'educazione pubblica, il  Filangieri dà grandissima importanza al fatto che,  solo per mezzo di essa può formarsi il carattere  nazionale, appunto per effetto dell'imitazione, (i)   I fattori dell'educazione sono la natura, Var-  ie, le circostanze . Così il nostro pedagogista mo-  stra di avere una visione precisa della natura del  fatto educativo, che involge tre fondamentali  (questioni: eredità psico-fìsica, azione dell'ambien-  te sociale, azione deliberata del docente sul di-  scente. Lo stesso triplice fattore nel processo e-  ducativo rileva il De Dominicis: (i) <; E indu-     (i) Cfr. THOMAS -(9/. «V. - Pag. 33 « Nella ma-  niera di parlare, di camminare, di ragionare, proprio  di ognuno di noi, facilmente si ritroverebbe tracce delle  influenze che abbiamo subite, perchè insensibilmen-  te ci modelliamo su quelli che ci circondano, come in-  sensibilmente essi si modellano su noi. In tal modo si  spiega in parte quel che si é giustamente chiamato carat-  tere ìiazioìiate, le somiglianze generali cioè che esistono  fra i cittadini di uno stesso Stato, come le rassomiglian-  ze che esistono fra gli uomini di una stessa epoca e  d'una medesima civiltà » V. anche: LEVY - Op. cit.  Pag. 66 - 80. Per V educazione nazionate: FORNELLI - E-  ducazione Moderna - Napoli, 1905. Pa^. 319 - 327.   ( I ) DE DOMINICIS - Sociotogia Ped. cìt. Pag. 1336 seg.     I 21     bitato quindi nel processo educativo umano un  triplice fattore: il fattore fisiologico o dell'eredi-  tà dello sviluppo organico e dell'azione estrinse-  ca della natura fisica; il fattore sociologico e sto-  rico, o dell'azione dell'ambiente sociale e delle  sue varie forme; il fattore dell'azione diretta, de-  liberata, voluta della g-enerazione adulta sulla  generazione adolescente »   Il Filangieri non ci ha lasciato una sua de-  finizione dell'educazione, considerata in senso  largo; ma da quello che s'è detto si comprende  com'egli, prima d'ogni altro pedagogista anterio-  re a lui e dei posteriori, fino al De Dominicis e  al Cesca, (i) che presentano definizioni eccellen-     ( I ) DE DOMINICIS - O/». cit. Pag. 154; «L'Educa-  zione é fatto universale di necessiiria e naturale soli-  darietà tra esseri formati ed esseri in formazione, per  cui l'uomo sul fondamento della sua spontaneità e  dei suoi bisogni, nel periodo di suo sviluppo, perfe-  ziona se stesso secondo l'azione dell'ambiente fisico  sociale e l'azione diretta e deliberata degli adulti, in  ordine al fine individuale e collettivo della lotta per  l'esistenza, alle idealità d'un popolo e della specie  umana e alla propria personalità e vocazione. » CESCA  - Principii di Pedagogia Generale - cit. Pag. 26; «L'e-  ducazione è l'insieme delle azioni che si esercitano su  un individuo ancora immaturo per affrettare e miglio-  rare il suo sviluppo organico e psichico e per render-  lo meglio atto a vivere nell'ambiente fisico in cui si  trova e della società di cui fa parte. » Chi abbia va-  ghezza di conoscer le varie definizioni A>è\V Educazione ,  date dai più noti filosofi e pedagogisti antichi e mo-  derni, veda: G. TAURO - Introduzione alla Pédagogia Ge-  nerale - ^oma., igo6. Pag. 226-235.     I 22     ti, si sia di più avvicinato al più completo con-  cetto del fatto dell'educazione; e più chiaramen-  te manifesta il suo acume quando determina che  « l'oggetto dell'educazione morale è di sommi-  nistrare un concorso di circostanze il più atto a  sviluppare le facoltà di sentire, di pensare, di vo-  lere, a seconda della destinazione dell'individuo  e degl'interessi della società. :> (i)   Confrontando questa definizione con quelle  del De Dominicis e del Cesca, si osservano delle  somiglianze, specialmente per ciò che si rife-  risce alla coordinazione dei mezzi tendenti a  integrare le esigenze individuali con le sociali.   Bisogna anche considerare che la definizio-  ne del Filangieri si riferisce alla sola Educazio-  ne inorale, e perciò trascura gli elementi tenden-  ti a porre in luce altri fattori, che l'Autore va  rivelando quando si occupa particolarmente di  istruzione, educazione fisica, ecc.   E importante notare che il Filangieri, anche  per l'educazione morale, vuole lo sviluppo della  facoltà di sentire, di pensare, cioè Xistritzione,  propriamente detta, che per ciò è istruzione edu-  cativa; cosa che, per altro, egli fa vedere in tut-  ta l'opera, e specialmente dove si occupa dell'i-  struzione pubblica.   Egli é il primo a porre in rilievo Xeduca-     (i) Filangieri - Libro IV. Cap. X.     — 123 —   zione delle circostanze; (i) e afferma giustamente  che un sol uomo malvagio e stupido, a contatto  col fanciullo, può distruggere il lavoro di più an-  ni; e vuole che egli viva in un ambiente di at-  tività e di moralità, qual'è la casa à^\ custode.   Il Filangieri divide l'educazione in fisica,  morale, scientifica (intellettuale): tripartizione re-  spinta dagli Herbartiani, i quali escludono dal cam-  po educativo le leggi dello sviluppo fisico, che  assegnano alla Medicina e all'Igiene; (2) ma ge-  neralmente adottata, se non per significare tre  ordini di fatti irriducibili, che l'unità psicofisica  è ormai dimostrata ed accettata dalla Pedagogia  positiva, (3) per comodità di trattazione, e per  porre in rilievo i tre aspetti o momenti del fatto  educativo, inteso nella sua più larga significa-  zione.   L'una di queste tre educazioni deve preva-  lere sull'altra, secondo la destinazione sociale del  bambino; perchè, mentre per la classe degli ar-  tigiani dev'esser prevalente l'educazione fisica,  come quella che pone l'operaio in condizione di  affrontare le fatiche e i disagi del lavoro mate-  riale, per la classe dei cittadini che saranno av-     (i) V. CESCA- Op. cit. Pag. 56-58.   (2) V. CREDARO - op. cit. Pag. 197 - 8; CESCA- Op.  Ht. - Gap. I - II; BAIN - La Scienza de//' Educazione - To-  rino igog. Cap. IL   ,(2) F. MARTIXAZZOLI - Educazione - in Dizionario  di Pedagogia Martinazzo/i e Credaro - Cit.     — 124 —   viati alle professioni, sarà mai^o-iormente curata  l'educazione scientilica; e parimenti sarà appre-  stata una speciale educazione morale, giustificata  dall'ambiente sociale in cui gli educandi verran-  no a trovarsi.   E, a mio avviso, se è vero che l'uomo è  e fa, in massima parte, ciò che le persone con  cui si trova più spesso a contatto, le proprie oc-  cupazioni, le impressioni della fanciullezza rela-  tive all'ambiente famigliare, lo fanno essere e  gli fanno fare, l'educazione uniforme, date le at-  tuali differenze sociali, intellettuali, morali, non  è soltanto un'utopia, ma anche un principio non  rispondente alle leggi di evoluzione. Per perve-  nire all'uguaglianza ideale degli uomini, dato che  ciò possa costituire un bene, é necessario par-  tire dalle disuguaglianze attuali, e adattare istitu-  zioni legislative, economiche, educative ai vari  gruppi o classi che costituiscono gli strati socia-  li. Considerare il figlio del contadino, dell'ope-  raio, del minatore, suscettibile della stessa edu-  cazione da apprestare al bambino ricco e, in ge-  nerale, più sviluppato fisicamente, intellettualmen-  te, moralmente, (i) è un'illusione, retaggio d'un  falso concetto di democrazia.   La pedagogia scientifica, come rispetta l'in-     (i) y. A. 'ìilCEFO'RO - Afdropologia delie c/assi pove-  re - Milano. Spec. pag. 57 - 119; M. MONTESSORI - A)i~  tropologia Pedagogica - Milano.     12=;     dividualità del bambino, tende alla divisione del-  le scolaresche in gruppi, che presentano varia-  zioni fisiopsichiche e morali, (i) in armonia coi  principii della psicologia collettiva. Come bene  scrive il Ferri: « Ogni maestro che abbia  qualche attitudine all' osservazione psicologica,  distingue sempre in tre categorie la sua scola-  resca. Quella dei discepoli volenterosi e diligen-  ti, che lavorano per propria iniziativa e senza  bisogno di rigori disciplinari; quella dei disco-  li ignoranti e svogliati (nevrastenici o degenera-  ti) dai quali né la dolcezza né i castighi possono  ottenere qualche cosa di buono; quella infine dì  coloro, che non sono né troppo volenterosi, né del  tutto discoli, e pei quali può riuscire veramente effi-  cace una disciplina fondata sulle leggi psicologi-  che. Così avviene delle soldatesche, così dei pri-  gionieri, così di ogni associazione d'uomini e co-  sì anche dell'intera società. I gruppi d'individui,  stretti da relazioni costanti, che ne fanno altret-  tanti organismi parziali nell'organismo collettivo  della società, riproducono in questo la società  stessa, come un frammento di cristallo riprodu-  ce i caratteri mineralogici del cristallo intero. »  Ed in Nota : <; Vi é tuttavia qualche differen-  za nelle manifestazioni dell'attività di un gruppo  di uomini e di tutta una società. Per questo io     (i) V. VSyìslK^O - Psicologìa Podagogica - cit. pag.  ^43 - 285: MONTESSORI- Antropologia Pedagogica - cit.     12 6   credo che tra la psicologia, che studia l'indivi-  duo, e la sociologia, che studia una società in-  tera, vi debba essere un anello di congiunzione  in ciò che si potrebbe chìamdLve psi'co/oo-m collet-  tiva. I fenomeni propri di certi aggruppamenti  d'individui, sono regolati da leggi analoghe, ma  non identiche a quelle della sociologia, e varia-  no a seconda che i gruppi stessi sono una riu-  nione accidentale o permanente d'individui. Co-  sì la psicologia collettiva ha il suo campo d'os-  servazione in tutte le riunioni di uomini, più o  meno avventizie: le vie pubbliche, i mercati, le  borse, gli opifici, i teatri, i comizi, le assemblee,  i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni, ecc. (i)  La tesi del Filangieri si riassume dunque  in questo concetto: educazione universale, ma  non uniforme; pubblica, ma non comune. Egli fon-  da questo principio sulla divisione dei cittadini in  due grandi classi: in quella di coloro che servono o  potrebbero servire la società colle loro braccia, ed  in ([uella di coloro che la servono o potrebbero ser-  virla con l'intelletto; a ciascuna di esse intende for-  nire una speciale educazione. Il nostro Autore     (i) FERRI- Op. cit.-Fcig. 374. Il Ferri espresse  questo concetto geniale nella prima edizione (1881)  della sua forte opera. - Soa'o/o£-ia Cri»! ifia/e - Quindi se-  guirono gli studi speciali pregevolissimi di:SlGHELE-  Lm. folla delinquente -boxino, 1895: LE BON - Z,a Psyco-  logie des foules - Paris, 1895; ROSSI - L'animo della folla  -Cosenza, 1898; 'àTlWTlCÒ - Psicologia Collettiva, -Paler-  mo, 1905.     127 —   non propone la ferrea distinzione delle classi in-  diane; ma una pratica, utile, necessaria distinzio-  ne educativa, che avvii, senza perturbamenti e  spostamenti, allo sviluppo graduale ed armonico,  fisico, intellettuale e morale, delle varie classi di  cittadini che speciali circostanze e attitudini de-  terminano a seguire una via piuttosto che un'al-  tra. Il Filangieri parte poi dal concetto, forse  non errato, che il figlio del contadino, il quale  abbandona la zappa per correre alle Università  o alle Accademie, priva la classe produttiva d'un  individuo, per aggiungerlo alla classe sterile, la  quale è utile sia meno numerosa che sia pos-  sibile. Lo Stato perde un colono per acquistare  per lo più un infelice architetto, un pessimo pit^  tore o un semidotto, (i)   3 — La preparazione del cittadino, sia che  debba attendere a un mestiere o a professione libe-  rale, è opera dello Stato, per le ragioni già esposte.  (2) A tal fine in ogni provincia è un magistrato     (i) FILANGIERI - Libro IV Gap. XVII.   (2) Su l'ingerenza dello Stato in materia di pub-  blica istruzione, vedi l'importante volume di G. M. de  FRANCESCO - Rapporti tra to Stato, Comune ed altri enti  locali in materia di Pubblica Istruzione - Athenaeum. Ro-  ma MCMXII. Spec. Gap. I: « Posto, tra i fini dello  Stato, quello dell'istruzione, si presenta logicamente  il problema se, per il raggiungimento di tale fine, sia  necessaria l'azione della pubblica amministrazione, in-  tesa come una forma di attività statuale, e precisamen-     -- 128 —   supremo, rappresentante del governo, incaricato  della pubblica educazione, e in ogni comune 7ìia-  j^i^i>-atì iìifcìiori e custodi.   Poiché sarebbe impossibile fondare tanti  colles^i quanti fossero necessari per contenere  tutti i fanciulli della prima classe, dai cinque ai  diciotto anni, l'Autore vuole solo per i fanciulli  della seconda classe, gli agiati (plebei o nobili  non importa, anzi tanto meglio per l'educazione  sociale) la fondazione di collegi; e aftìda i bam-  bini poveri, a gruppi di quindici o meno, ai ai-  stodi, scelti dal magistrato comunale fra gli ar-  tigiani più probi e virtuosi del Comune, i qua-  li vengono istruiti e vigilati dal magistrato co-  munale. Ciascun custode veglia sui fanciulli a  lui affidati, li dirige, li nutrisce, li veste, secon-  do le istruzioni del magistrato comunale; li ac-  compagna alla scuola, che dura due ore e mez-  zo, e li tiene quindi con se per avviarli nell'ap-  j)rendimento del suo mestiere.   Il piano di educazione generale, riguardan-     te come quell'attività concreta e pratica, con cui lo  Stato, nei limiti del diritto obbiettivo, persegue i pro-  pri scopi: problema che lo Stato moderno ha risoluto  nel senso affermativo non solo, ma anche in modo  cosi ampio, così comprensivo ed efficace, e, sopratut-  to così uniforme « da fiir arguire l'esistenza di una  legge storica, che ottiene nel secolo nostro il suo  esplicamento » Lo Stato i)uò dirsi oggi, presso tutte  le nazioni civili, il più grande e poderoso organo per  lo sviluppo della vita intellettuale del popolo. »     129 —   te lo sviluppo fisico, il morale, l'intellettuale è  stabilito dalla legge. Il padre, appena il figliuo-  lo ha compiuto cinque anni lo affida al magistra-  to comunale d'educazione pubblica.   Il Filangieri discute due gravi questioni, che  risolve con fine accorgimento: l'istruzione è ob-  bligatoria? come rispettare la vocazione indivi-  duale e il diritto del padre nella scelta del me-  stiere?   L'Autore, come poi i pedagogisti della Ri-  voluzione, non vuole l'obbligo dell'istruzione; per-  chè è inutile obbligare le famiglie quando i van-  taggi sono tali che nessun padre é possibile pos-  sa volontariamente rinunziarvi. E' anche mia con-  vinzione che quando noi sapessimo attuare, con  le necessarie difierenze volute dal tempo, un'or-  ganizzazione scolastica rispondente all'ideale del  Filangieri, apprestando ai piccoli il pane e la  cultura dello spirito ed avviandoli ai mestieri,  e le famiglie cosi vedessero i vantaggi, anzi la  necessità della scuola, sarebbe superfluo ogni  costringimento, (i)   Nelle nostre istituzioni scolastiche si va ora  afìermando il principio dell'operosità, con la pre-  parazione manuale alle arti ed ai mestieri, prin-  cipio fattivo genialmente intuito dal Pestalozzi     ( I ) V. G. SERGI - Come la scuola può educare - Nuo-  va Antologia - i marzo i g i o.     — I30 —   perchè l'istruzione sia educativa (i)   Il movimento, partito dalla Svezia, si è pro-  pagato rapidamente negli Stati civili; ma, in Ita-  lia specialmente, la tendenza conservatrice si é  opposta fortemente alla innovatrice, e l'idea del-  la scuola operativa e fattiva incontra ostacoli in  coloro che ne credono assolto il compito con l'inse-  gnamento e l'educazione morale. (2)   Di pedagogisti anteriori al Filangieri, nes-  suno aveva proposto, come il Nostro, un ordi-  namento scolastico che fosse suftìciente a se stesso,  dando modo di provvedersi all'avvenire dei fan-  ciulli. Che se Rabelais vuole che Gargantua spac-  chi le legna nei giorni piovosi e sappia costrui-  re strumenti e figure geometriche; (3) se il geyi-  tiluoiuo del Montaigne dev'essere esperto nel ca-  valcare, nel danzare, correre, maneggiare le ar-  mi, e deve aver muscoli di acciaio; (4) se quel-     (i) PESTALOZZI - Come Geltriide istruisce i suoi figli  -Milano, 1886. Spec. pag. 127 e seg.   (2) V. SERGI- Ar/ico/o citato in N. Antologia: ElAh.  e DI ROSA - Coordinazione della scuola Popolare alla Me-  dia - Roma, 1907.   (3) V. STOPPOLONr - Francesco Rabelais - cit. Pag.  98 - 106.   {4) MONTAIGNE - Essais-Tovi\Q premier- Paris. Pag.  187. E' nota la frase del Montaigne: « Ce n'est pas  une ame, ce n'est pas un corps qu'on dresse, c'est  un hommc, il n'en faut pas faire à deux. Et comme  dit Platon, il ne faut pas les exercer l'un sans l'au-  tre, mais les conduire ègallement, comme un couple  de chevaux attelez à un mesme timon > (pag. 187).     — 131 —   lo del Locke è addestrato al lavoro; (i) se Emi-  lio apprende un mestiere; (2) se Pestalozzi vuo-  le l' attività e la fattività; (3) sono tutti ben lon-  tani dalla concezione del Filangieri; perché i  pedagogisti citati, ed altri, che attingono nei pri-  mi, quali Basedow, Salzmann, Froebel, Herbart  « avevano vagheggiato il lavoro, come scrive il  De Dominicis, (4) come mezzo adatto per tem-  perare il lavoro della mente; come utile eserci-  zio per temperare l'irrequietezza dell'età giova-  nile; come atto a rendere utili alle moltitudini  le scuole e a dar loro sembianze democratiche;  come mezzo per offrire a tutti, in certe evenien-  ze, modo di vivere esercitando un mestiere; e  anche per rendere sotto alcuni aspetti, attivo e     (1) V. FERRARI - Zc^/(-<? - cit. Pag. 185.   (2) ROUSSEAU - Èmile - cit. Pag. 136-158- 172.  Rousseau proclama che l'uomo veramente libero è  l'artigiano: «Or, de toutes les occupations qui peuvent  fornir la substance à Thomme, celle qui le rapproche  le plus de l'ètat de nature est le travail des mains;  de toutes les conditions la plus indèpendente de la  fortune et des hommes est celle de l'artisan.   {3) PESTALOZZI- Op. «V. -Pag. 127 e seg. F. an-  che: S. RACCUGLIA - Il lavoro manuale secondo Rabelais,  Montaigne, Locke - e II lavoro mammle nel sistema edu-  cativo di G. G. Rousseau- ^2i\Q.rvao. 1907. \n- Risveglio  Magistrale - Nello studio del Raccuglia, come da altri  per altre questioni, il nostro Filangieri non vien ricor-  dato.   (4) DE DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola in  Scienza Comparata delV Educazione - Cit. Pag. 245.     — 132 —   concreto l'esercizio del pensiero, (i)   Quello che nei citati pedagogisti è, o può  essere, espediente educativo, o anche necessità in-  dividuale, come in Rousseau; in Filangieri è ne-  cessità, istituzione sociale, diritto e dovere di o-  jjni cittadino e dello Stato.     (i) Anche oggi i nostri pedagogisti, accettando  il lavoro manuale nelle scuole, lo fanno più, anzi  quasi esclusixamente, per esigenze didattiche, che per  utilità pratiche. Lo stesso De Dominicis lo crede sussi-  diario di altri insegnamenti, che miri a rendere sen-  sibili idee ed applicazioni scientifiche e sia mezzo d'in-  tuizione e di fattività; {Vi'/a /n/ema.Pa.g. 245) e pensa  che il lavoro industriale nelle scuole non debba esse-  re la preparazione a questo o a quel mestiere; le scuo-  le altrimenti creerebbero delle vocazioni forzate; (pag.  251) sì che, prendendo la scuola aspetto di un picco-  lo laboratorio, d'una piccola officina, dovrebbe anche  variare da luogo a luogo, (pag. 249)   Il Sergi invece, in un lucidissimo e importante  articolo (A'^. Antologia, i marzo 1910, cit.) vuole una  scuola di cultura mentale per coloro che sono desti-  nati a professioni liberali, e una scuola « per la ini-  ziale cultura mentale e per alcune cognizioni utili ele-  mentari pratiche per la vita e nel tempo stesso scuo-  la di lavoro, di lavoro elementare che avvii al lavoro  completo delle arti e dei mestieri » . Chiama giusta-  mente il lavoro manuale, com'è introdotto nelle scuo-  le « un simbolo o giuoco rappresentativo » . Invece di un  simbolo di lavoro bisogna introdurre il lavoro reale; ver-  rebbero così assicurate le sorti della scuola e dell'educazio-  ne, poiché, fra l'altro, il lavoro educa incosciamente,  sviluppa e affina il sentimento dell'ordine. « A mio av-  viso — scrive — la scuola di questo tipo, che io deno-  mino attivo, dovrebbe aver circa una metà di ore, siano  due o tre, consacrate all'insegnamento della lingua e  o delle cognizioni utili elementari; le altre dovrebbero     — ^33 —   Il Filangieri discute e risolve così la seconda  questione, cioè — se la scelta del mestiere debba  essere fatta dal padre — : < Limitare l'arbitrio  del magistrato e del padre, dare all'uno e all'al-  tro una parte nella scelta. Il padre aver dovreb-  be il solo diritto di pretendere che il tìglio fos-  se iniziato nella stessa sua professione. Il magi-  strato dovrebbe aver quello d'indicare il custo-  de o della stessa professione del padre, quando  questi volesse far uso del suo diritto, o di quella  professione che vuole, quando il padre rinunziar  volesse a questo diritto » (i)   Come rispettare la vocazione dei fanciulli? (2)  « Una delle cure del magistrato particola-  re di ciascheduna comunità esser dovrebbe di  osservare nel corso dell'educazione, se tra' fan-  ciulli per le classi secondarie ripartiti, ve ne sia-  no alcuni che sembrano negati a quell'arte alla     essere consacrate al lavoro, chiamiamolo pure manuale,  di mestiere e secondo la tendenza di ciascun fanciul-  lo. Proclama la scuola col lavoro scuola dclV avvenire e  afferma che i nostri ordinamenti scolastici sono invec-  chiati e in essi facciamo invecchiare i nostri figliuoli,  mentre si attenta alla loro salute e si dà loro un'abi-  tudine di pigrizia e di passività che nuoce a loro e  a tutta la vita della nazione. Ecco l'ideale del Filan-  gieri rivivere in uno dei più illustri scienziati con-  temporanei.   (1) FILANGIERI - Z,/«5;-^ IV Cap. Vili   (2) V. in proposito un interessante studio del CO-  LOZZA - Errori e pericoli degli studi elettivi - in Questio-  ni di Pedao^gia- ~R.orm., 191 1. Pag. 119- 155.     — 134 —   «jualc sono stati destinati, e ve ne siano degli  altri, che manifestino le più sicure disposizioni  o per riuscire in un'altr'arte, o per risplendere  nella classe di coloro che si destinano per ser-  vir la società coi loro talenti :> (i)   Ma come può lo Stato sopperire alle spese  ingenti pel mantenimento di tutti i fanciulli, me-  no degli agiati ?   Bisogna destinare alla pubblica educazione  gl'immensi tesori che lo Stato spende pel man-  tenimento delle truppe perpetue. Quando il pro-  posto provvedimento non fosse sufficiente, si do-  vrebbero impiegare i capitali ottenuti dalla ven-  dita dei demani, destinarvi le rendite del sacer-  dozio, sopprimere le casse di misericordia e de-  stinare le maggiori entrate del pubblico erario,  secondo il sistema tributario proposto nel Li-  bro li. (2)   Per la seconda classe, le spese dell'educa-  zione e del mantenimento sono sostenute dalle  famiglie. Che se si oppone: son poche le fami-  glie che possono andare incontro a tali spese,  il Filangieri risponde che anche ciò è un bene,  perchè « se uno mi domandasse qual'è il pae-  se che più abbonda in errori, io gli risponderei  che è quello ove costa meno l'avviarsi nella car-  riera delle lettere. L'uomo che ha minori errori     (1) FILANGIERI - /./<5r^ /V. Cap. Vili.   (2) FILANGIERI - Libro IV Cap. XVI, XVII.     — 135 —   è il vero dotto. Ma la i^ran sede detrli errori  non è in colui che non sa, ma in colui che sa  male Il paese più culto, a creder mio, sareb-  be quello ove vi fossero meno errori e più ve-  rità diffuse nel volgo e meno semidotti tra gli  scienziati. »   Col sistema proposto si libera il pubblico  da un peso che dev'essere portato da quelli che  profittano ; e s'ottiene, senza escludere nessuna  condizione dal diritto di poter partecipare alla  educazione superiore, che il numero sia giusto  e moderato.   Bisogna notare che gli studi generali, tan-  to dei futuri magistrati, come dei futuri artisti,  guerrieri, o letterati, ecc, sono gli stessi, meno  opportune e necessarie istruzioni speciali.   Il nostro Autore vagheggia un tipo di scuo-  la unica, che è tuttavia problema insoluto, e to-  glie alle Università il carattere professionale,  per darlo agli istituti d'istruzione media.   La vita in collegio e la relativa istruzione  dura 14 anni, dai 5 ai 19. Al 19° anno il gio-  vane, con le solennità stabilite anche per gli ar-  tigiani, è emancipato, e può, a suo agio, frequen-  tare l'Università o darsi all'esercizio della pro-  fessione.   Le Università sono di coltura generale e  speciale superiore, di ricerca scientifica e filoso-  fica, destinate per i pochi che hanno doti spe-  ciali per eccellere nei più alti rami del sapere.     — 136 —   Così costituite esse non possono essere che  libere.   4 — Quello che in Rabelais, Locke, Kant,  (i) costituiva un insieme di consigli sul nutri-  mento, sul sonno, sulle vesti, ecc, nel Libro IV  della Scienza della Legislazione, diventa Educazio-  ne fisica, cioè parte ed importantissima dell'Edu-  cazione Generale.   Dopo il Filangieri, le (juestioni dello svi-  luppo fisico dell'educando, o più propriamente,  •dell'educazione fisiologica, andarono abbraccian-  do molti altri problemi, sì da costituire una scien-  za a parte, derivata dalla Medicina e dalla Pe-  dagogia : l'Igiene Pedagogica o Scolastica. (2)   Le vecchie leggi empiriche sullo sviluppo  fisico, sono andate, man mano, trasformandosi  quando non sono state del tutto abbandonate,  in principii scientifici, che partono dallo studio  anatomico e fisiologico del bambino, involgendo  anche questioni speciali relative al periodo ute-  rino e dei primi giorni della nascita (3)   Si é venuto anche affermando un diritto sa-     li) V. STOPrOLONI - Rabelais - cit.; FERRARI - Lo-  cke - cit.;VALDARNlNI - La Pedagogia di E. Kant, - Trad.  it. Torino. 1887.   (2) V .\. LUSTIG - Igiene della Scuola - Milano, 1907.   (3) V. V. DALLA DEA - La Guida della madre - Mi-  lano, 1907.     — 137 —   nitario scolastico, che abbraccia le c[uestioni re-  lative all'editicio scolastico, alle malattie della  scuola, all'orario e ai programmi, al materiale di-  dattico, agli esami, alle vacanze, ecc. (i)   In Gaetano Filangieri l'educazione fisica, co-  me poi nello Spencer, (2) è questione capitale  per la felicità degli uomini.   Partendo dal principio generale : — come  l'uomo ha perfezionato tutto e si è reso padro-  ne della natura, così può migliorare e perfezio-  nare la propria specie — l'Autore presenta un  piano di educazione fisica che, se naturalmente  è stato sorpassato dalle regole mediche ed igie-  niche moderne, pure rivela la maturità dei suoi  studi e della sua intelligenza.   ì^éX Educazione fisica il Filangieri compren-  de cinque oggetti principali: nutrimento, sonno,  vestimenta e nettezza, esercizi, vaccinazio7ie. Egli  si rifa dal Montaigne, dal Locke, dal Rousseau;  ma correggendo e migliorando dove crede sia  più consono ai dettami della scienza e alla pra-  tica della vita. Propone certe differenze di edu-  cazione fisica tra i fanciulli della prima e quelli  della seconda classe. Segue la dottrina greco - ro-     (i) F. DE DOMINICIS - Linee di Pedagogia- cit. p. i*  pag. 87-105; e- Sociologia Pedagogica - cìt. pag. 485-   (2) SPENCER - Dell'educazione int. mor. e fisica  Cap. IV.     — i3« —   mana, fatta propria dal Locke, ^q\X indurimento^  Dà grande importanza agli esercizi, (ginnastica)  attribuendo ad essi, non la sola azione tendente  a fortificare ed abbellire il corpo, con la conseguen-  te vigoria intellettuale, ma anche un'utilità pra-  tica, specialmente col nuoto e con le passeggia-  te notturne ;ed un'utilità nazionale, con gli eser-  cizi militari.   E' compreso ormai da tutti, come bene scri-  ve il Colozza, (i) che « la ginnastica, se non ò  la disciplina migliore per promuovere il funziona-  mento organico, è senza dubbio utilissima pel  perfezionamento morale > specialmente per i  giuochi, con cui si educa il non volere, che è  gran parte della disciplina morale. (2)   Ormai la ginnastica, nel piano delle disci-  pline scolastiche é assurta a materia importan-  tissima, specialmente in Francia, dove é anche  preparazione pel futuro soldato, e dove, svolgen-  dosi e perfezionandosi, potrà avviare, secondo  l'ideale del Filangieri, la nazione alla diminuzio-  ne rilevante, se non alla scomparsa deiresercito-  permanente.   Il Filangieri, in relazione alle proposte del  Libro II Cap. XII, sull'abolizione delle truppe  perpetue, ha interesse che i giovani si rendano     (i) COl^OZZK - Del potere d' inibizione - Q\\.. Pag. 80.  (2) COLOZZA - Il giuoco nella Psicologia e nella Peda--  gogia - Cit. Pag. 268.     — 139 —   forti per sopportare le fatiche degli esercizi mi-  litari proposti negli ultimi anni d'istruzione, e  quelli della guerra, qualora la patria richiedesse  l'aiuto dei cittadini per la propria difesa.   Il Filangieri segue l'indirizzo di cjuella che  ora va sotto il nome di ginnastica inglese, (i)   Come il Locke e il Rousseau, consiglia il  nuoto, oltre che per utilità pratica, per la net-  tezza e la vigoria del corpo. Suggerisce le escur-  sioni notturne, attingendo l'idea rxeWEinilio. Lo  -abituare i fanciulli all'oscurità, egli dice, signi-  fica frenare la loro immaginazione, estirpare mol-  ti errori ed abituarli ad essere coraggiosi.   Io credo gli esercizi notturni utilissimi anche  per l'educazione del potere inibitorio, e per lo  -sviluppo della riflessione e dello spirito critico ;  poiché i fanciulli, alle eccitazioni del mondo ester-  no, che l'abitudine dell'osserv^azione dimostra lo-  ro non sempre prodotte dalle apparenti cause,  ma effetto d'illusioni, specialmente ottiche ed acu-  stiche, non reagiranno prima che tra percezione  •e deliberazione non sia intervenuta una sosta,  un periodo di concentrazione, per quanto fuga-  cissimo. L'attenzione, da involontaria si trasfor-  ma in volontaria ad ogni nuova immagine, met-  tendo in moto l'osservazione attenta e la rifles-  sione. Li credo altresì utili per l'educazione dei     (i) DE DOMINICIS - La Vita Interna della Scuola- Cit.  Pag. 237 -242.     — I40 —   sentimenti sociali, perché l'uomo, e specialmen-  te il bambino, mai é tanto proclive alla simpa-  tia, quanto allorché teme. Allora si sentono più  forti i vincoli di solidarietà fra l'uomo e la spe-  cie. Il Filangieri propone che a siffatti esercizi  sieno dedicate tutte le sere delle vigilie delle  feste; io credo più opportune, per ovvie ragio-  ni igieniche ed educative, le ultime ore della  notte, prima dell'alba.   11 Filangieri fa rientrare r\é\V Ediicazione fi-  sica l'innesto del vaiuolo ; ed è merito suo aver-  ne proposto l'obbligo per tutti i fanciulli, quan-  do esso era contrastato da diffidenze molte e da  pregiudizi popolari, (i)   5 — Come abbiamo avuto agio di vedere^  il sistema educativo del Filangieri differisce essen-  zialmente da quello dei pedagogisti anteriori a  lui, co' (juali abbiamo spesso stabilito dei con-  fronti, e da cui egli deriva qualche principio ge-     (i) Rousseau, dominato dall'idea di lasciar fare la  natura in tutto (si notino i versi di vSeneca, posti in  principio dell'Emilio « Sanabilibus aegrotavius malis\  ipsaqnc nos in rectum Goiitos natura, si cmeìidari veli-  ìuus, Jiival > (De Ira, lib. Il, cap. XIII) è contrario  all'innesto; o meglio <' Il sera inoculò, ou il ne le se-  ra pas, sclon les temps, les lieux, les circonstances:  cela est presque indifFérent pour lui. Si on lui donne  la petite vérole, on aura l'avantage de prévoir et con-  noìtre son mal d'avance: c'est quelque chose: mais s'il  la prend naturellement, nous l'auron preservò du mé-^  docili » {Op. cii. Pag. loi.)     — 141 —   nerale : Locke e Rousseau.   La morale del gentihwmo e quella di Emi-  lio non può certamente esser quella del cittadi-  no del Filangieri. Per Rousseau la morale è un  acquisto fatale nel fanciullo : solo la società de-  gli uomini potrebbe renderlo tristo, pervertirlo.  Niente azione deliberata, metodica, per promuo-  verla : il bambino farà da sé, e saprà com-  portarsi nella vita perchè saprà giudicare, e di-  scernere il vero dal falso, il bene dal male.   Locke mette avanti la disciplina dell'esem-  pio e la molla potente del sentimento di digni-  tà personale. Ma quali i mezzi ? La sola azio-  ne della famiglia e del precettore.   La morale del Filangieri nasce dalla fusio-  ne delle disposizioni e degli acquisti individua-  li con l'azione sociale.   Il sistema del Locke si esaurisce in un in-  sieme di precetti e di esempi, e nella convin-  zione che il sentimento dell'onore tutto può;  quello del Rousseau, nel sentimento egoistico  dell'utile personale : - ad bono ? - ', il sistema del  Filangieri è la coordinazione del bene individua-  le e del collettivo, nasce dai rapporti tra indivi-  duo e società, e si sviluppa con e per la socie-  tà, in mezzo a cui e per cui si vive.   La morale diventa cosi sociale, non è più  individuale; e i mezzi per lo svolgimento di es-  sa non possono essere forniti che dalla società,  tenuta presente la natura dell'educando, la sua     — 142 —   destinazione, il line cui si tende.   Come la psicologia metafisica, individualista,  si evolve in psicologia collettiva e sociale, sban-  dite le facoltà e i sentimenti innati, così la mo-  rale singola, individuale, effetto spontaneo della  moralità innata, si trasforma in morale sociale,  derivante dalle contingenze e dai rapporti sociali.  Giustamente il Ferri afferma che « dicesi coscien-  za vioi'ii/c, ma dovrebbe più esattamente chia-  marsi coscienza sociale » (i)   L'intervento dello Stato diventa necessario  perchè la famiglia non può, per le sue condizio-  ni morali, intellettuali, economiche, apprestare  quel concorso di circostanze atte allo sviluppo  della moralità; e perchè, per se stesso, l'ambien-  te famigliare é insufficiente, mancando in esso  gli stimoli: l'azione cioè dell'imitazione e del-  l'esempio, che sono condizioni essenziali.   Il Rousseau, come nega l'azione della socie-  tà e il non intervento di essa in educazione, ne-  ga conseguentemente che lo Stato possa o deb-  ba intervenire nell'educazione morale del cittadi-  no, nella sua conformazione ad un dato ideale eti-  co. Questo principio è accettato dal Tolstòi, il  (luale, come abbiamo accennato, é seguace del-  la dottrina del Ginevrino ; e l'intervento in edu-  cazione morale contesta anche alla scuola, per-     (i) - FERRI - Op. cit. - Pag. 543. V. G, VIDARI - Ele-  menti di Etica -ÌA\\,\x\o, 1902. Pag. 119- 139.     — 143 —   che: « i" Essa non deve intervenire nella forma-  zione del carattere e delle credenze di colui che  viene istruito, al quale si deve lasciare assoluta  libertà di ricevere, secondo meglio gli aggrada,  l'insegnamento che pare meglio corrisponda ai  suoi principii ; 2° Non si può teoricamente prova-  re la possibilità del non intervento della scuola in  educazione. La sola cosa che lo conferma è l'os-  servazione che dimostra come le persone che  non hanno ricevuto educazione alcuna, (i) cioè  che sono state esposte alle sole influenze istrut-  tive libere, le persone del popolo, sono più fre-  sche, più potenti, più indipendenti, più giudizio-  se, più umane, più necessarie delle altre. 3° La  scuola deve avere un solo scopo: la trasmissio-  ne del sapere, dell'istruzione, senza cercare pe-  rò dì penetrare nel dominio morale delle con-  vinzioni, della fede, del carattere. » (2)   Io credo che la ragione dei principii nega-  tivi del Tolstòi sull'ingerenza dello Stato e della  -scuola in educazione morale, va trovata nel sen-  timento di ribellione ch'egli intende trasfondere  contro il governo del suo paese, che esercita sul  popolo una doppia oppressione, politico -religio-  sa, anche per mezzo della scuola. La scuola di  Jasnaia Poliana non vuol essere dunque conside-     ( I ) Qui la parola educazione il Tolstòi adopera nel  senso ristretto di ammaestramento.   (2) G. POLITO - Il pensiero pedagogico di Leone  Tolstòi - CU. Pag. 64-75     — 144 —   rata che quale aperta ribellione a ogni domma  politico, religioso e anche pedagogico, ma sopra-  tutto religioso, (i)   La Key, altra illustre seguace della dottri-  na del Rousseau, proclama il principio della pie-  na libertà in educazione morale, perchè : « les-  interventions de l'éducateur d 'aujourd'hui, qu'el-  les soient tendres ou rudes, détournent ces efFets  (gli efìetti dell'evoluzione naturale e dell'adatta-  mento) au lieu de les laisser agir avec toute  leur rigueur » (2); per modo che « le plus grand  crime que commette contre l'enfant l'éducation  actuelle, c'est de ne pas le laisser en paix. Le  but de l'èducation future sera, au contraire, de  creer un monde de beaut^, au sens propre et  au sens figure, dans lequel laisserait l'enfant se  dévellopper et se mouvoir librement jusqu'au  moment ou il se heurterait à la frontière iné-  branlable du droit des autres » . (3) Cosi che  « Laisser la nature elle méme agir tranquillement  et lentement, et veiller soulement à ce que les  conditions envirronnantes soutiennent le travail  de la nature; Voila réducation » (4)   Che lo Stato e la scuola debbano interve-     ( I ) V. CESCA - Religiosità e Pedagogia moderna - CU.  Pag. 143 -4; e -Religione morale deW umanità - Bologna,.  1902. Pag. 204 - 6.   (2) KEY - Op. cit. Trad. frane. Pag. 96.   (3) Ivi -Pag. 87.   (4) Ivi - Pag. 84.     — H5 —   nire nell'educazione morale, meno le esagerazio-  ni individualistiche di pochi, ora non è chi con-  trasti. Giustamente osserva il De Dominicis che,  sopprimere nell'educazione l'ambiente é quanto  sopprimerlo in biologia, (i)   Stabilita la natura dell'educazione morale,  la sua necessità, quale il fine ? « La destinazio-  ne degli individui della prima classe è di servi-  re la società colle loro braccia. Gl'interessi della  società sono di trovare in essi tanti cittadini la-  boriosi ed industfiosi in tempo di pace, e tanti  difensori intrepidi in tempo di guerra ; buoni  coniugi e migliori padri, istruiti dei loro doveri,  come dei loro diritti ; dominati da quelle passio-  ni che alla virtù conducono, penetrati dal rispet-  to per le leggi e dall'idea della propria digni-  tà. -•> (2) Per i fanciulli della seconda classe, al-  cuni fini speciali debbono adattarsi alla diversa  loro destinazione sociale, e quindi variare i mez-  zi educativi.   Nel piano del Filangieri l'educazione mo-  rale, specialmente per i fanciulli della prima  classe, ha il primo posto.   Essendo riservata al custode la cura di av-  viare i fanciulli al mestiere; dlV istruttore quella  di fornire le cognizioni elementari indispensabi-     ( I ) DE DO:minicis - Antropologia Pedagogica - Cìt.  Pag. 173-4.   (2) FILANGIERI- Libro IV, Cap. X.     — I4<^^ —   li anche all'esercizio dell'arte, l'ufticio più impor-  tante nelTeducazione pubblica non poteva esser  che quello deW /sù'ué/orc viorale, che il Filan-  gieri, con ra<^ionc, vuole affidato a chi possa e-  sercitare un'azione «grande nell'animo dei fanciulli,  ,sia per la sua posizione sociale, come per le do-  ti intellettuali e morali: cioè al viagistrato che  presiede all'educazione del comune.   11 Filani^ieri distingue le istruzioìii dai di-  scorsi morali. Le istruzioni durano un anno; i  discorsi vanno continuati per tutto il tempo del-  l'educazione. Le prime hanno un ordine stabili-  to dal legislatore e si ripetono ogni anno, le se-  conde sono ad arbitrio del magistrato.   Le istruzioni costituiscono un corso di mo-  rale umana e civile che si svolge in un anno;  però il Filangieri propone che sia ripetuto un  ^secondo anno, in maniera che, ogni giorno, ter-  minata la lezione, il magistrato proponga dei  dubbi da risolvere (problemi morali e sociali)  specialmente agli alunni del secondo anno.   Terminato il secondo corso delle istruzioni  morali, i fanciulli sono ammessi ai discorsi ino-  rali, tenuti dallo stesso magistrato. Vi assistono  tutti i fanciulli lino al termine della loro edu-  cazione.   La legge, mentre stabilisce gli oggetti ge-  nerali delle istruzioni, che sono le due massime  le fjuali contengono tutti i principii di giustizia  -e di virtù umana: <; — non fare agli altri ciò che     — 147 —   non vuoi si faccia a te; — « — procura di fare  agli altri tutto quel bene che puoi >, lascia a  discrezione del ma_yistrato la forma, lo svolgimen-  to, la materia dei discorsi. Stabilisce però alcu-  ni oggetti da svolgersi, riguardanti: la virtù, la  patria, la verità opposta agli errori della pub-  blica opinione, la dignità umana, il lavoro, il ma-  trimonio, (i)   Ma le istnizioni e i discorsi debbono essere  vivificati dall'esempio, fornito specialmente dal  ^magistrato e dal custode.   Il nostro Autore propone la lettura di ro-  mansi per i fanciulli che possono assistere ai  discorsi morali; cioè specie di biografie di uomi-  ni eccellenti nei rami dell'attività umana e del  sapere: dalla storia del fabbro, del marinaio, del  contadino, che si sono distinti, a ciucila del ma-  gistrato, del filosofo, ecc.   Il desiderio del Filangieri, in tanto fiorire  di letteratura scolastica, ò rimasto inascoltato.  Meno qualche lavoro eccellente, di azione poten-  temente educativa, nei nostri libri per i fanciulli  facilmente si scorgono contrasti vivi e stridenti  tra il mondo vissuto dai piccoli, e che vedono  vivere, e quello che loro si presenta; tra i loro  bisogni, e la pesante, contorta mole di morale  e di scienza che s'intende loro apprestare, senz'or-  dine e senza misura. Diventano maggiori i con-     (l) FILANGIERI - Z/^rd7 IV Cap. X Art. I.     14^     trasti, più sciocche le pretese nei libri di lettura,  \ (inali, perchè siano, come si vuole, il punto  di concentrazione dell'insegnamento etico ed ar-  tistico, dovrebbero guadagnar subito l'interesse  e la benevolenza dei piccoli. L'arte di scrivere  codesti libri è divenuta facile occupazione, sì  che la lettura, noiosa ed arida per il maestro,  è per il discente, vuota, tediosa, nociva.   La nostra coltura ed educazione scientifica  non si rispecchia affatto nell'educazione scolasti-  ca pel tramite del libro di lettura, come se la  scienza si svolgesse per esigenze dialettiche e  vivesse lontana dalla vita, nelle aule delle Uni-  versità e nelle riviste. Mentre, specialmente ne-  gli Stati Uniti e in Francia, la scienza pedago-  gica ha una profonda ripercussione nei sistemi  l)ratici educativi, e i libri scolastici tendono a  rispecchiare le nuove tendenze, da noi trionfa  ancora il catechismo rimodernato e la filosofia  del buon Candido del \'oltaire.   E allora? Bisogna creare una nuova lettera-  tura scolastica infantile, il contenuto della quale  trovi fondamento nella scienza contemporanea e  si espanda nei contrasti, nelle lotte, nei dolori,  nelle gioie vere della vita che i piccoli vivono  e che vivranno adulti, e nell'etica nuova attinga  ispirazione e materia, (i)     (i) Sui libri di lettura è un volumetto di L. \^5•  C\TTlKl- / t/óri sco/as/ùi - San Remo, 1909; il quale     — 149 —   Oltre i ro7na7iz{, il Filangieri consiglia la  compilazione di un notiziario di avvenimenti che  possano esercitare azione educativa.   In questi ultimi tempi, s'è venuta afferman-  do l'idea, credo manifestata primieramente dal  Ciralli, (ispettore scolastico, perito nel disastro  di Messina) d'introdurre nelle scuole la lettura  del giornale, che il De Dominicis reputa effica-  ce, specialmente per l'educazione del sentimen-  to di nazionalità e per i progressi della cultura (i)   Si debbono premiare le buone azioni, la  buona condotta, la diligenza, lo studio, le buo-  ne maniere? Gli antichi, legislatori e scrittori,  ammettevano, senza restrizioni e limitazioni, tan-  to i premi, quanto i castighi; e i Gesuiti spe-  cialmente, ne fecero poi mezzo esclusivo per il  governo della scuola: sistema al quale s'informò  in gran parte la pedagogia moderna.   Lo stesso Locke, il quale ammette i pub-  blici premi, (2) e, in certi casi, cioè per ostiìia-  zione o ribellione, anche la fnista, a somiglianza     svolge una critica ricca di richiami psicologici e ma-  teriata di fatti, sulla forma, sul contenuto, sul fine dei  nostri libri scolastici, pervenendo alla stessa mia con-  clusione, cioè che manca ancora da noi il libro adatto  alla psiche del bambino e alle esigenze della morale  sociale.   (i) DE DOMINICIS - Z« Vita Interna della Scuola -  -CU. Pag. 172.   (2) V. G. M. FERRARI - A(?c/r - OV. Pag. 174.     — I50 —   di (juanto praticavano i Gesuiti, (i) consiglia che  il frustatore (corrector mormn dei Gesuiti) sia un  servo. Locke vuole così perchè il figlio non sen-  ta avversione verso il padre. (2)   Locke sconsiglia le ricompense materiali. I  fanciulli mostrano viva compiacenza per una pa-  rola d'incitamento, per un semplice sguardo di  approvazione, e si rattristano e soffrono all'in-  differenza della madre, ad uno sguardo severo del  padre. (3) I fanciulli debbono essere trattati da  uomini: ecco il principio direttivo della pedago-  ofia morale del Locke.   Mentre così la dottrina del governo del fan-  ciullo è fondata per il Locke sull'esercizio e sul-  l'abitudine; per il Rousseau, il quale vuole che  « la seule habitude qu'on doit laisser prendre  à l'enfant est de n'en contracter aucune » , tan-  to che consiglia « qu'on ne la porte pas plus  sur un « bras que sur l'autre » (4)^ il governo, cioè  l'azione deliberata del docente sul discente per  avviare questi secondo un fine, è assolutamente  nulla. Bisogna lasciar completamente libero il  fanciullo, perché il solo che sia padrone della sua  volontà é colui che non ha bisogno di stendere  le sue braccia verso quelle di un altro: niente     ( I ) V. COMPAYRÉ - Op. cii. - Pag. I 1 6   (2) P'ERRARI - Op. cit. Pag. 175 - 177.   (3) FERRARI - Ivi -   (4) ROUSSEAU - Émile - Cit. Pag. 31     151     premi, niente castighi: le ingiunzioni e i constrin-  gimenti sono contrari alla formazione del carat-  tere. Questi sono i capisaldi della dottrina delle  conseguenze naturali, che lo Spencer dovrà quin-  di maggiormente illustrare e diffondere.   Il Pestalozzi trascura di dare speciali sug-  gerimenti sull'educazione morale, cui crede di  poter pervenire con l'amore alla madre e Vistm-  zione religiosa, (i) Sono il Filangieri prima, l'Her-  bart poi che ne fanno speciale ed importante og-  getto, indipendentemente dall'azione dell'insegna-  mento religioso. E la pedagogia del governo del-  l'Herbart ha molti punti di somiglianza con la  disciplina morale del Filangieri, specialmente per  ciò che riguarda i castighi.   L'Herbart, seguendo il Pestalozzi e il Kant  nella teoria del bene per il bene, non ammette  premi; e segue anche, facendola propria, la dot-  trina delle punizioni del Kant. (2)   Cosa curiosa, scrive il De Dominicis, (3)  « molti vorrebbero nelle scuole castighi e non  premi. Ma perchè si dovrebbe prescindere nel-  l'educare l'uomo in formazione, l'uomo piccolo,  da quello da cui non sanno fare a meno gli uo-  mini formati, gli uomini adulti? Scopo supremo     (i) PESTALOZZI - Come Gdtìude istruisce i suoi figli  Cit. Pag. 141 - 149.   (2) KANT-ZdT Pedagogia -TxzA. it. Torino, 1887.   (3) DE DOMINICIS -Za vita Interna- Cit. Pag. 291.     — 152 —   dell'educazione ó di certo, il condurre gli alun-  ni ad amare il bene per sé. Ma se nessuna socie-  tà ha saputo finora prescindere da distinzioni, da  ricompense e da lodi, se uno sterminato numero  di uomini adulti vi è stato e vi é tanto sensibi-  le, perchè si dovrebbe rinunciare alle distinzio-  ni, alle lodi e ai premi nella società scolastica?  Non è anche il premio un mezzo adatto, non  solo per punir meno, ma per guidare, colle lu-  singhe di soddisfazioni immediate, gli alunni de-  boli a potersi compiacere in seguito del bene e  della virtù per se? >> E il Filangieri: (i) « Due  passioni, l'una piccola, l'altra grande; l'una per-  niciosa, l'altra utile; l'una incompatibile colla  grandezza dell'animo e l'altra a questa costan-  temente associata, procedono entrambe dall'istes-  sa origine. La vanità e l'amor della gloì'ia sono  queste due passioni, e il desiderio di distinguersi  ne è la madre comune. Questo desiderio di di-  stinguersi, indizio ed effetto della sociabilità; que-  sto desiderio che si manifesta nel barbaro e nel  civile, nello stolto e nel saggio, nell'empio e  nell'eroe, questo desiderio che si annuncia fin  dall'adoloscenza, e che accompagna l'uomo fino  alla tomba; questo desiderio, io dico, produce  l'una e l'altra passione, a seconda che é male o  bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanità  negli uni, amor della (gloria neofli altri, »     (i) FILANGIERI- Libro IV Cap. X Art. IV.     — 153 —   Ammessi i premi, fondati sulla pubblica o-  pinione, vuole siano assegnati con solennità, e  che il giudizio sia dato dagli stessi fanciulli, (i)   Il Filangieri proscrive l'uso del bastone. Non  bisogna mai battere i fanciulli, per nessun mo-  tivo, perchè non si deve permettere che i mezzi  ■destinati a risvegliare l'idea della dignità, ven-  gano combinati con quelli che avviliscono e che  degradano. (2)   I fanciulli abituati alle pene corporali, per-  dono la sensibilità e diventano vili, ipocriti, ven-  dicativi, crudeli. Tanto il magistrato, quanto il  custode, così nel correggere, come nel punire,  dovrebbero serbare quella freddezza che dipen-  de dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel ca-     (i) Per tutto quanto ha rapporto con la discipli-  na scolastica e la formazione del carattere, benché af-  fidi alla religiosità, come la più parte dei- pedagogisti  tedeschi, un'azione preponderante, vedi: FORSTER- Se leo/a  € Carattere - Tvdid. it. Torino, igo8; spec. pag. 183-208,  dove riferisce il sistema americano e svizzero del self-  governeìiimeìit e dello school - city - system, che affida ap-  punto d\\di public - opinion l'assegnazione dei premi e  delle ricompense. F. anche: BAIN - C^/>. f/V- Pag. 119,  il quale scrive: « Il principio di Bentham del giurì  della scolaresca, benché non riconosciuto formalmente  nei metodi moderni, vige sempre tacitamente. L'opi-  nione della scuola, nel massimo suo d'efficienza, é il  giudizio riunito del capo e dei membri, del maestro  e della massa; ogni qualunque altro stato di cose è  guerra, benché anche questa non si possa evitare. »   (2) FILANGIERI - Libro IV Gap. X Art. V.     — 154 —   lore e a (luei trasporti che indicano passione, (i)  Nel piano di educazione morale tracciato  dal Filangieri, entra poco l'insegnamento reli-  gioso, ed entra in quanto costituisce un omag-  gio al Creatore, al di fuori di qualsiasi credo  religioso, perché i princii)ii di morale non deri-     (i) Dal Locke, al Kant, all'IIerbart, al Filangieri,  tutti in ciò sono d'accordo, ma in pratica non riesce  molto facile.   Sul sistema punitivo scolastico, come sul sociale,  non può certo essere detta ancora l'ultima parola; è  necessario prima determinare con certa precisione gli  impulsi, i moventi psicologici e sociali dell'azione, de-  finire le basi della responsabilità, sfrondare la mente  di legislatori e di maestri da molti pregiudizi psico-  logici, religiosi, sociali. La questione del libero arbìtrio  é d'importanza primaria; e il Ferri giustamente scri-  ve: « La negazione del libero arbitrio può soltanto e  deve avere influenza nel sentimento che accompagna  questa reazione difensiva; poiché così nelle punizioni  famigliari, come in quelle scolastiche, come in quelle  sociali, chi crede al libero arbitrio reprime gli autori  di un atto sconveniente o dannoso con sentimenti di  rancore, o per lo meno con ciò che dicesi <' risentimen-  to » in quanto attribuisce il fatto alla malvagia volon-  tà (anche nei bambini!). Il determinista invece si di-  fende o reprime per quanto è necessario, ma senza  rancore e colla persuasione, togliendo le occasioni al  mal fare o distraendo per vie meno dannose le ten-  denze individuali. Piuttosto che abbandonare i bambi-  ni o gli scolari alla propria espansività fisio - psicolo-  gica per reprimere gl'inevitabili eccessi, limitandosi  tutt'al più all'inutile tentativo di prevenirli con le mi-  sure o le imposizioni, vai meglio incanalare la loro  attività per vie utili, distraendola con occupazioni a-  datte e sopratutto togliendole gl'incentivi degli urti  e quindi delle .sopraffazioni » (C^/>. cit. Pag. 583.)     -- I.S5 —   vano dalle pratiche del culto.   Il Filangieri affida la cura dell'istruzione re-  ligiosa allo stesso magistrato. '-^ Se mi si oppor-  rà che questa cura dovrebbe essere affidata ai  ministri dell'altare, piuttosto che al magistrato  educatore, io risponderò che, siccome niuna re-  ligione proibisce ai padri d'istruire nei loro dommi  i figli, molto meno potrà proibirlo al magistrato  che dalla pubblica autorità viene scelto per far-  ne le veci; dirò che non si deve mai inutilmen-  te moltiplicare il numero degli istruttori, dirò  che il magistrato si dee supporre più istruito  nell'arte d'istruire i fanciulli, di quello che lo  può essere un uomo, che a tutt'altro oggetto ha  rivolte le sue cure, dirò finalmente che, finché  non si combinino perfettamente gl'interessi del  sacerdozio con quelli della società e dell'impero,  è sempre pericoloso il metterlo a parte della  pubblica educazione :> (i)   Egli assegna alla religione l'ultimo posto nel  suo piano di educazione morale, e vi spende po-  che parole, sperando che il lettore non lo accu-  si per ciò di riconoscervi poca importanza. Gli  è che, si giustifica l'Autore, se non scrivesse per  tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tem-  pi; se l'universale e il perenne non fossero l'og-  getto della scienza; o pure se uno fosse il tem-     (i) FILANGIERI- Libro IV Gap. X Art. VI.     — 156 —   pio, una l'ara ed uno il nume; se comune fosse  il culto, uniformi i dogmi e la fede uniforme  presso tutti i popoli ed in tutti i tempi, (i) po-  trebbe entrare in dettagli che allo stato delle co-  se è conveniente evitare.   La ragione dell'esclusione dell'elemento re-  ligioso in educazione morale va anche ricercata  nell'intima convinzione dell'Autore che la morale  é al di sopra di (jualunque religione. Però, nel-  la preoccupazione costante di rendere accetto a  tutti il suo piano educativo, egli tempera con  certa forma il suo pensiero ardito, e, (questa vol-  ta eretico.   Ecco perchè non accoglie l'idea del Rous-  seau, che non vuol si parli di religione ad Emi-  lio, se non quando sarà in grado di comprende-  re la divinità, senza farne oggetto d'idolatria. (2)  Il nostro Autore dichiara che non ammette né  contrasta tale teoria; però, pur suggerendo che  l'insegnamento religioso cominci quando i bam-  bini sono ammessi ai discorsi morali, (9- 10 an-  ni) scrive che « se non si vogliono fare dei fanciul-  li tanti idolatri, o almeno tanti antroponiorfiti, il  magistrato non risparmierà alcuno dei mezzi at-  ti a comunicar loro la più semplice e la più au-  gusta idea della Divinità, allontanando dalle sue     (i) FILANGIERI - Libro IV Gap. X Art. VI.  (2) ROUSSEAU - Èmi/e - CiL Pag. 228 e seg.     — 157 —   espressioni tutto ciò che potrebbe associarla alle  materiali immagini, alle quali l'uomo è purtroppo  inclinato a rappresentarla, (i)   Mira del magistrato, nell'educazione del sen-  timento religioso, dev'esser di prevenire il fa-  natismo e le false massime di morale; pernicio-  se, specialmente nel popolo. Poche preghiere,  semplici e brevi, ma piene di luminosi principii  di morale universale. (2) Epperò nessuna diffe-  renza tra le istruzioni morali dei fanciulli della  prima e della seconda classe. Qualche difierenza  solo nei discorsi morali.   Poiché i fanciulli della prima classe sono  più esposti alla viltà, e quelli della seconda al-  l'orgoglio, per la loro diversa condizione sociale,  bisogna fare in modo che tali due opposti sen-  timenti scompaiano negli uni e negli altri, espo-     (i) Sulla tendenza antropomorfa del bambino e su  quello che il Cesca chiama secondo momento del compi-  to negativo deW istruzione , cioè lo sradicamento della  tendenza antropomorfa, vedi lo stesso - Coltura e Istru-  zione - Cit. Pag. 125-132. V. anche: SPENXER - /*;-/;/-  cipii di Sociologia - Cit. Pag. 87 - 92; e a pag. 306 il  curioso brano di poesia in francese arcaico, narrante  come Domeneddio sia andato in Arras, ad imparare  le canzoni del paese, come vi cadde malato e come  fa curato da un trovatore, che lo fece ridere. Si ri-  cordi che tutta la poesia prov^enzale e la prcvenzaleg-  giante italiana, fino alla scuola del dolce stil novo, sog-  giace alla tendenza animistica, con la personificazione  del sentimento dell'amore.   (2) FILANGIERI - Libro IV Cap. X Art. VI.     — 158 —   nendo loro i principii « deirumana eguaglianza,  del rispetto che si deve all'uomo; dell'ingiusti-  zia di quello che si cerca nella sola condizione;  dell'insania, dell'orgoglio e della piccolezza della  vanità. » (i) Nei bambini della seconda classe  bisogna specialmente sviluppare il sentimento del-  l'umanità e della compassione. « Per divenir com-  passionevole un fanciullo, bisogna ch'egli sappia  •che ci son degli esseri simili a lui, che soffrono  ciò che egli ha sofferto, che sentono i dolori  ch'egli ha intesi e ch'egli sa di poter sentire ;  bisogna finalmente che la sua immaginazione sia  attiva a segno da potergli presentare e compor-  re queste dolorose immagini, allorché vede sof-  frire, e da trasportarlo, per così dire, fuori di se  medesimo per identificarlo coU'essere che sof-  fre. » (2)   E sopratutto bisogna rinvigorire, stringere i  vincoli sociali, che l'inevitabile disuguaglianza  delle condizioni tende purtroppo a indebolire; e  promuovere la civiltà delle maniere, con l'esem-  pio fornito da tutti coloro che circondano il bam-  bino. Per i fanciulli della seconda classe il Fi-  langieri consiglia la lettura de Le Vite di Plu-  tarco, seguendo il consiglio del Montaigne, ac-  colto dal Rousseau. (3)     (i) FILANGIERI- Libro IV Gap. XXIII Art. I   (2) Ivi.   (3) MONTAIGNE - i^^^a/V - OV. Pag. 176; ROUSSEAU  Evi il e - Cit. Pag. 211.     — 159 —   In conclusione, il sistema morale del Filan-  o-ieri, partendo dal principio dell'utilità sociale,  principio tanto combattuto dal Rousseau, tende  a coordinare gl'interessi dell'individuo con quelli  della collettività, per raggiungere il fine della  diffusione della morale sociale: é l'azione armo-  nica di tutti i cittadini onde raggiungersi il trion-  fo della giustizia, con la libertà, l'uguaglianza,  la fratellanza.   Credo inutile aggiungere che l'educazione  morale del Filangieri, educazione della scuola e  della vita, è essenzialmente laica, umana, tanto  nel contenuto, quanto nella forma.   E' questo uno dei meriti grandissimi del  filosofo napoletano, che ha potentemente contri-  buito a indirizzare le istituzioni scolastiche ver-  so il tipo ancor tanto contrastato dai fautori della  vecchia filosofia della vita, in opposizione recisa  coi fautori della filosofia della scienza, (i)     (i) V. l'aureo libro del CESCA -/.a filosofia della  i///a - Messina, 1903. L'Autore, sul contrasto da noi ac-  cennato scrive: « La perduranza della lotta si deve a  parecchie ragioni, non soltanto intellettuali, ma anche  morali e più specialmente sociali. La concezione teo-  logica é sempre viva, non solo perchè è il prodotto  dell'eredità di una lunga serie di secoli e perché sod-  disfa il bisogno di quiete e la tendenza misoneistica  cotanto diffusa in tutte le classi, ma anche perchè è  legata tenacemente lA principio di autoritcà, e quindi  è sì il riflesso che la base dello spirito di conservazio-  ne del passato nell'ordine economico e nell'ordine po-  litico. Tutti coloro che temono di perdere qualche cos Ci è differenza tra una nazione  che nasce, ed una nazione adulta.  Romolo e Ninna seppero trovar la  moneta onde comprar l’opinione  dal popolo nascente , e i loro suc¬  cessori seppero mutarla, allorché si  doveva comprare da un popolo a-  didto . Ed in fatti ne’ tempi più  illuminati fu stabilito tra i Ro¬  mani che j consoli, i tribuni del    (i) EJiano Far. Histor. lift. a. c. 37. e /. ij.  ctp. 24*   (*) Plut. nella vita di Licurgo. DEL PRIMO TOMO.    Introduzione -   Piano ragionato dell'Opera.    \   Libro P ri ih o .    P* 7   2J0    Belle regole generali della Scienza  della Legislazione.    Cjp. I. Oggetto unico ed univer¬  sale della Legislazione } dedot¬  to dall ’ origine delle società ci¬  vili . 19   Cap. IL. Di ciò che si comprende  sotto il principio generale della  tranquillità e della conservazio¬  ne^ e dei risultati che ne deri¬  vano. $9   Cap. III. La Legislazione , non al¬  tramente che tutte ie altre fa¬  coltà j deve avere le sue rego¬  le, e i suol errori sono sempre            34 * ^   i più gravi flagelli delle na¬  zioni .   Cat. IV. Della bontà assoluta delle   Leggi •   Cat. V. Della bontà relativa delle   ; Leggi . j   Op. FI. Della decadenza dei Co¬  dici . j^   Cat. VII. Degli ostacoli che s’ in¬  contrano nel cambiamento della  Legislazione d un popolo, e dei-  mezzi per superarli. jg.o   Cat. Vili. Della necessita d’ un  Censore delle Leggi , e dei do¬  veri di questa nuova magistra¬  tura . ^ j-jj   Cat IX Della bontà relativa del-  le Leggi considerata riguardo  agli oggetti che costituiscono  questo rapporto. jfij   X Primo oggetto di questo  rapporto : la natura del Go¬  verno . y 6~2   Cat XL Proseguimento dell istes-  so oggetto , su d ’una specie di  Governo che chiamatisi misto .   J9°   Cat. XII. Secondo oggetto del rap -                          343 '   porto delle Leggi : il principio  che fa agire il cittadino nei  diversi Governi .   Cap. XIIL Terzo oggetto del rap¬  porto delle Leggi.- il genio , e  l'indole dei popoli. £>5l   Cap. XIV. Quarto oggetto del rap¬  porto delle Leggi : il clima. 2>19  Cap. XV. Quinta oggetto del rap¬  porto delle Leggi : la fertilità  o la- sterilita del terreno, gfo  Cap. XVI. Sesto oggetto del rap¬  porto delle Leggi: la situazio¬  ne e V estensione del paese. 3?3  Cap. XVII. Settimo oggetto del  rapporto delle Leggi: la religio¬  ne del paese.   Cap. XVIII. Ultimo oggetto del  rapporto delle Leggi : la matu¬  rità del popolo. 33& 

 INDICE   °EI  CAPITOLI   Compresi  nel  IH.  Volume.   libro  ih.   VELIE  LEGGI  CRI  MIN  All   PARTE  PRIMA   Bella  Procedura .    Cap.  I.  Introduzione .  pag  2  Cap.  IT  Prima  parte  della  criminale  procedura .   Dell1  accusa  giudiziaria  presso  gli  antichi.   Cap.  IH,  Dell ’  accusa  giudiziaria  presso  i  moderni .  r)f   Cap.  IV.  Nuovo  sistema  da  tenersi  ri‘  guardo  alV  accusa  giudizio  ria .  ^3  Cap,  V:  informa  da  farsi  nel  sistema  ^  della  procedura  inquisitoria .  %  Cap.  VI.  Seconda  parte  della  proce¬  dura  criminale.    5or   V  intimazione  all' accusalo,  eia  sicurézza  della  suapersona .  jog  Cap.  VII .  informa  da  farsi  in  que¬  sta  parte  della  criminale  proce¬  dura  .  ^9   Cap.  FUI.  Delle  condanne  per  con¬  tumacia  .  /5^   Cap.  IX  Terza  parte  della  crimi¬  nale  procedura .   Delle  pruove  c  degli  indizj  del   delitti .   Cap.  X  Trosegiiimenio  dell  istesso  soggetto .  Sulla  confessione  libera  ed  estorta .   Cap.  Xf.  Parallelo  tra r  Giudizi  di  Dio  de’  tempi  barbari  ,  e  la  tortu¬  ra.  -  .   Cap.  XII*  Principj  fondamentali,  dal  quali  dee  dipendere  la  teorìa  delle  pruo've  giudiziarie.  &39   Cap.  XIII-  Della  certezza  morale.  3>$5  Cap.  XIV.  Risultati  de  principj  che  si  sono  premessi .   Cap.Xv .  Canoni  di  giudicatura  che  determinar  dovrebbero  iZ  criterio  legale.   Cap.XVL  Quarta  parte  della  crimi¬  nale  procedura  ,    $01   'Bella  ripartizione  delle  Mudi,  zie  ne  funzioni,  e  della  shltadd  giudict  del  fatto.   "aP‘  XVIT.  Della  viziosa  ripartizio¬  ne  della  giudiziaria  autorità  in  una  gran  parte  delle  nazìoniàì   „  Eurol’a  •  m   <up.  XVIII.  Appendice  aW antece-  dente  capo  sulla  feudalità.  357  Cap.  XIX*  Piano  della  nuova  ripar¬  tizione  da  farsi  delle  giudiziarie  j  funzioni  per  gli  affavi  crimina¬  li'/  388   Articolo  y.  Divisione  dello  Stato,  ggs  Articolo  %  Scelta  de 9  presidi .  5041  Articolo  5,  Funzioni  di  questama-  gistratura .  '  '   Articolo  Durata  di  questa  Magi-  straiura e  suo  salario .  59#   -Articolo fj.  Be’  giudici  del  fatto.  «?oa  Articolo  6.  Requisiti  legali  che  ri-  cercar  si  dovrebbero  in  questi  giudici.  ^3   Articolo  7.  lunzìoni  di  questi  giu-   *  00 g   Articolo  Fumerò  di  questi  giudi¬  ci  in  ciascheduna  provincia ?  ed  in  ciaschedun  giudizio.  0o8    5°3   Artìcolo  9.  Delie  ripulse  di  questi  giudici  •  4°9   Articolo  xo.  De’  giudici  del  drit -   -  io .   Articolo  ir .  Numero  di  questi  giudi¬  ci  in  ciascheduna  provincia.  4/4  Artìcolo  tm  Funzioni  di  questi  giù*  dici ,  ‘  ;  475   Articolo  T5-  Delle  sessioni  ordinarie  di  giustizia .  4 2)0   Articolo  14.  Delle  sessioni  straordi¬  narie.  4%3   Articolo  j 5.  Magistratura  per  ogni  comunità .  437   Cap .  XX.  Quinta  parte  delia  crimi¬  nale  procedura.   La  difesa .  44$   Cap .  XXL  Sesta  parte  delia  crimi¬  nale  procedura.   La  sentenza *  4 58   Cap.XXIL  Appendici  della  senten¬  za  che  assolve  ,  0  5 i tr  cle/7a-  ripa¬  razione  del  danno ,  e  del  giudi¬  zio  di  calunnia .  473   Cap .  XXIIL  Altra  appendice  della  sentenza  che  assolve ,  edellasen -  zensa  che  sospende  il  giudi¬  zio.  -  480    aJ  R  |l  '   V'f  *   i  1    p  4  -  t  >.  *  r — ^  l  '   ilPM'   1  V 1   'tr\\  f   ,y  ■  .‘iv*.  *■  *  •{  -x  l   tlM'il#.:   tliS.::'  i'?”'   Hi,   kv.!r-  ■;  *   tiSi   '►L  v,  ***    XXIV.  Appendice  detta  seri*  tcnza  che  condanna ,  e  corichili-  5Ìone  del  piano  geii era Ze  diri/or-  nia  c'fre  si  è  proposta.  ^    léZmL   k'ù':   t   zì2  ^  La  Scienza  distoglierlo  dal  provvedersi  de    Legislazione,  215  del  destino  .  Per    Della    colorchecker    MSCCPPCC0613    ►I«x-rite 

Grice: “There are many references, but unsystematic, to the Romans, or to Roman Law, -- but not a systematic chronological thing. Romolo is cited twice, and there are passing comments on the Twelve Tables and its corrections, how the Romans were disallowed to sell their own children. There’s a critique to the dislike for the frugality that the Roman law enjoined. Also a praise for the ‘dittaura’ – there are references to Cicerone – but he just as well comments on the Greek law, and modern law from France and other European countries. His illuminism is based after all on Montesquieu! But the references to the Roman and the Roman law have been systematically studied. He refers to an ‘emering nation’ as Rome was under Romolo – and he makes passing comments on aristocracy, monarchy, mixed government, republic, and the question of citizenship – how the Romans bestowed Roman citizenship on habitants of cities other than Rome! Etc. -- Gaetano Filangieri. Filangieri. Keywords: lo stato secondo ragione,  ‘stato naturale’ ‘stato civile’ – costume – il romano – le costume dei romani – devere e volonta – implicatura deontica – passione e ragione – illuminismo – anti-clericalism – anti-Roman – Grice: “Catholicism gives a bad name to ‘Roman’!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Filangieri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716123341/in/photolist-2mRjtgo-2mQjVch-2mN35cA-2mMYDGZ-2mN113U-2mLQc9e-2mKEPgR

 

Grice e Filippis – implicatura metafisica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Tiriolo). Filosofo. Grice: “Fillippis is an interesting one, for one there is a Palazzo De Fillippis; for another he was into the philosophy of mathematics; he was executed, but not for this.”  Martire della Repubblica Napoletana. Nato in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, studia al Real Collegio di Catanzaro. Si recò a Napoli dove fu allievo del grande economista Genovesi. Ebbe modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in contatto fra gli altri Pagano. Proseguì in seguito gli studi in filosofia a Bologna sotto Canterzani. Insegna a Catanzaro. Fu fra i principali artefici della Repubblica Napoletana. Entra nel governo come ministro degli Interni. Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato. Scrisse importanti opere di filosofia, quali “Etica”; “Metafisica”, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino, Bocca); Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana; B. Croce, G. Ceci, M. D'Ayala, S. Di Giacomo, Napoli, Morano); La Repubblica napoletana” Roma, Newton), Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  L. Carini, V. De Filippis, Commutators with power central values on a Lie ideal, Pacific Journal of Mathematics 193(2) (2000), 296-278. 2. V. De Filippis, Left annihilators of commutators with derivation on right ideals, Communica- tions in Algebra 31(10) (2003), 5003-5010. 3. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Posner’s second theorem, multilinear polynomials and vanishing derivations, Journal of Australian Mathematical Society 76 (2004), 357-368. 4. V. De Filippis, An Engel condition with generalized derivations on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics 162 (2007), 93-108 5. E. Albas, N. Argac, V. De Filippis, Generalized derivations with Engel conditions on one-sided ideals, Communications in Algebra 36(6) (2008), 2063-2071. 3  6. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, C.Y. Pan, Quadratic central differential identities on a multilinear polynomial, Communications in Algebra 36(10) (2008), 3671-3681. 7. V. De Filippis,Generalized derivations with Engel condition on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics 171(1) (2009), 325-348. 8. V. De Filippis, Annihilators of power values of generalized derivations on multilinear polyno- mials, Bulletin Australian Math. Soc. 80 (2009), 217-232. 9. V. De Filippis, Generalized Derivations as Jordan Homomorphisms on Lie Ideals and Right Ideals, Acta Mathematica Sinica 25(12) (2009), 1965-1974. 10. V. De Filippis, Product of generalized derivations on polynomials in prime rings, Collectanea Mathematica 61(3) (2010), 303-322. 11. B. Dhara, V. De Filippis, R.K. 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De Filippis, A. Fosner, F. Wei, Identities with Generalized Skew Derivations on Lie Ideals, Algebras and Representations Theory 16(4) (2103), 1017-1038. 18. A. Ali, V. De Filippis, F. Shujat, On One Sided Ideals of a Semiprime Ring with Generalized Derivations, Aequationes Mathematicae 85(3) (2013), 529-537. 19. V. De Filippis, G. Scudo, Hypercommuting values in associative rings with unity, Journal of the Australian Math. Society 94(2) (2013), 181-188. 20. A. Ali, S. Ali, V. De Filippis, Generalized skew derivations with nilpotent values in prime rings, Communications in Algebra 42(4) (2014), 1606-1618. 21. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Hypercentralizing generalized skew derivations on left ideals in prime rings, Monatshefte fur Mathematik 173(3) (2014), 315-341. 22. A. Ali, V. De Filippis, F. Shujat, Commuting Values of Generalized Derivations on Multilinear Polynomials, Communications in Algebra 42(9) (2014), 3699-3707. 23. V. De Filippis, Generalized skew derivations as Jordan homomorphisms on multilinear poly- nomials, Journal of Korean Math. Soc. 52/1 (2015), 191-207. 24. V. De Filippis, O.M. Di Vincenzo, Generalized Skew Derivations on Semiprime Rings, Linear Multilinear Algebra 63/5 (2015), 927-939. 25. V. De Filippis, S. Huang, Power-commuting skew derivations on Lie ideals, Monatshefte fur Mathematik 177/3 (2015), 363-372. 4  26. V. De Filippis, L. Oukhtite, Generalized Jordan semiderivations in prime rings, Canadian Math. Bulletin 58 (2015), 263-270. 27. V. De Filippis, Annihilators and power values of generalized skew derivations on Lie ideals, Canadian Math. Bulletin 59/2 (2016), 258-270. 28. A. Ali, V. De Filippis and S. Khan, Power Values of Generalized derivations with annihilator conditions in prime rings, Communications in Algebra 44/7 (2016), 2887-2897. 29. L. Carini, V. De Filippis, G. Scudo, Identities with product of generalized skew derivations on multilinear polynomials, Communications Algebra 44/7 (2016), 3122-3138. 30. V. De Filippis, Engel-type conditions involving two generalized skew derivations in prime rings, Communications in Algebra 44/7 (2016), 3139-3152. 31. V. De Filippis, G. Scudo, Subsets with generalized derivations having nilpotent values on Lie ideals, Communications in Algebra 44/9 (2016), 4073-4087. 32. V. De Filippis, Rather large subsets and vanishing generalized derivations on multilinear poly- nomials, Communications in Algebra 45/6 (2017), 2377-2393. 33. L. Carini, V. De Filippis, F. Wei, Annihilating Co-commutators with Generalized Skew Deriva- tions on Multilinear Polynomials, Communications Algebra 45/12 (2017), 5384-5406. 34. N. Baydar Yarbil, V. De Filippis, A quadratic differential identity with skew derivations, Communications Algebra 46/1 (2018), 205-216. 35. L. Carini, V. De Filippis, G. Scudo, Vanishing and cocentralizing generalized derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46/10 (2018), 4292-4316. 36. E. Albas, N. Argac, V. De Filippis and C. Demir, An Engel condition with generalized skew derivations on multilinear polynomials, Linear Multilinear Algebra 66/10 (2018), 1925-1938. 37. V. De Filippis, F. Wei, An Engel condition with X-Generalized Skew Derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46(12) (2018), 5433-5446. 38. R. K. Sharma, B. Dhara, V. De Filippis, C. Garg, A result concerning nilpotent values with generalized skew derivations on Lie ideals, Communications Algebra 46/12 (2018), 5330-5341. 39. V. De Filippis, F. Wei, b-generalized skew derivations on Lie ideals, Mediterr. Journal of Math. 15/2 (2018), article number 65 (https://doi.org/10.1007/s00009-018-1103-2). 40. M. Ashraf, V. De Filippis, S.A. Pary, S.K. Tiwari, Derivations vanishing on commutator identity involving generalized derivation on multilinear polynomials in prime rings, Commu- nications Algebra 47/2 (2019), 800-813. 41. V. De Filippis, B. Dhara, Generalized Skew-Derivations and Generalization of Homomorphism Maps in Prime Rings, Comm. Algebra 47/8 (2019), 3154-3169. 42. V. De Filippis, F. Shujat, S. Khan, Generalized derivations with nilpotent, power-central and invertible values in prime and semiprime rings, Communications in Algebra 47/8 (2019), 3025- 3039. 43. B. Dhara, V. De Filippis, Engel conditions of generalized derivations on left ideals and Lie ideals in prime rings, Comm. Algebra 48/1 (2020), 154-167. 44. C. Demir, N. Argac, V. De Filippis, A quadratic generalized differential identity on Lie ideals in prime rings, Linear Multilinear Algebra 68(9) (2020), 1835-1847. 5  45. N. Argac, V. De Filippis, Power-central values and Engel conditions in prime rings with gen- eralized skew derivations, Mediterranean Journal of Math. 18/3 (2021), article number 82. 46. V. De Flippis, G. Scudo, F. Wei, b-Generalized Skew Derivations on multilinear polynomials in prime rings, Proceedings of INdAM Workshop ”Polynomial Identities in Algebras” Roma 16-20 settembre 2019, Springer Indam Series 44 (2021), 109-138.Vincenzo De Filippis. Filippis. Keywords: implicatura metafisica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Filippis” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51761688145/in/dateposted-public/

 

Grice e Filolao – l’arciere di Taranto – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Italian philosopher from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write a book. The surviving fragments of it are the earliest primary texts for Pythagoreanism, but numerous spurious fragments have also been preserved. Philolaus’s book begins with a cosmogony and includes astronomical, medical, and psychological doctrines. His major innovation was to argue that the cosmos and everything in it is a combination not just of unlimiteds what is structured and ordered, e.g. material elements but also of limiters structural and ordering elements, e.g. shapes. These elements are held together in a harmonia fitting together, which comes to be in accord with perspicuous mathematical relationships, such as the whole number ratios that correspond to the harmonic intervals e.g. octave % phenotext Philolaus 1: 2. He argued that secure knowledge is possible insofar as we grasp the number in accordance with which things are put together. His astronomical system is famous as the first to make the earth a planet. Along with the sun, moon, fixed stars, five planets, and counter-earth thus making the perfect number ten, the earth circles the central fire a combination of the limiter “center” and the unlimited “fire”. Philolaus’s influence is seen in Plato’s Philebus; he is the primary source for Aristotle’s account of Pythagoreanism.  DELI A DIALETTICA CONSIDERATA NELLE TRE SCUOLE  DI CROTONA, DI ELEA, E DI ALESSANDRIA.   Cousin avvertiva che la dialettica è lo strumento della  filosofia di Platone, ed ancora che la dialettica platonica  sta tutta nella definizione. Imperocché definire vuol dire  ricondurre una cosa particolare qualunque sotto un ge-  nere più o meno esteso (1). Ma egli non risaliva alle vere • •'  scaturigini della dialettica , le quali si trovano soltanto  nella scuola d'Italia, secondochè aveva osservato il Reid,  attribuendo a questa scuola la dottrina della definizio-  ne (2), nella quale la Dialettica si riduce e si assomma.   E valga il vero: definire vuol dire porre limiti , e non si  può limitare nessuna cosa senza il concetto del diastema  o dell’ intervallo, eh’ è peculiare della scuola pitagorica.   Il limite suppone qualche cosa di comune , e qual-  che altra di differente ; onde f una e f altra ricerca co-  stituiscono il vero ufficio della dialettica , la quale fu  .detta così da due parole greche ( Ai *— Uyu > ) , che si-  gnificano raccogliere attraverso , come se si dicesse tro-  vare l’uno per dentro il moltiplice. Da qui venne che  due concetti fondamentali costituissero il perno della  scuola italica, il conflitto dei contrari cioè, ed il loro ac-   (1) La dialectique est 1’instrument de la pliilosophie de Platon , et la  dialectique de Platon est loul entière dans la délìnition.Or, definir, c’e.st  généraliser, c’est à dire ramener à un genre quelconque, plus ou moins  olendo, Ielle ou Ielle cliose parliculière. Cousin Frag. Pini. Tom. /. Pla-  ton, I angue ile la théorie tlesiiléex.   (2) Telle est.., la doctrine d’ Aristote sur la définition , et probable-  mcnt l’invention de cette doctrine appartieni à Fècole pythagoricienne.   ( Reid , Analgxe de la log. d’ Ami. cliap. Il sect. I.)    Digitized by Google     — 18 —   coi do. Aristotile ci tramandò nella tavola delle dieci ca-  tegorie gli opposti riluttanti, che sono : il limile c l’ il-  limitato, l’ impari e il pari, il destro e il sinistro, il ma-  stino e la femmina, Io stabile c il mobile , il retto ed il  curvo, la luce e le tenebre, il bene ed il male, il quadra-  to e il rettangolo. Ei ci avvertì inoltre , che da un lato  stessero gli elementi positivi , dall’ altro i negativi. Il  numero poi che non era nè pensiero puro , nè cosa sen-  sibile, ma qualche cosa di mediano tra 1’ uno e 1' altra ,  serviva a stringere il moltiplice con l’uno, ed in questo  accordo appunto consisteva 1’ armonia (1).   Nella bella architettura del sistema pitagorico si pos-  sono però notare due gravi inconvenienti , che viziano  ed infermano la solidità della base. L’ infinito allogalo  tra i concetti negativi è il primo. In questo modo dibatti  al vero e saldo concetto dell’infinito se ne sostituisce un  altro tutto diverso, che n’è appena 1’ ombra, vale a dire  quello d’indefinito. Con ciò l’iiifmito si pareggia a tutti  gli altri opposti , che si debbono accordare, e però sup-  pongono un concetto superiore. La compiutezza dell’ in-  finito scompare totalmente.   L’ altro vizio , nè meno pregiudizievole del primo è ,  che il numero risultando dalla molliplicità delle Monadi,  le quali erano distinte dal diastema o dall’ intervallo ,  intanto avea consistenza c realtà , in quanto esso inter-  vallo avea capacità bastevole di discernerlo. Una volta,  però che l’ intervallo era il vuoto ; la realtà del molti-  plice tornava un bel nulla. L’ apeiron ed il renon, l’ in-  finito ed il vuoto adunque guastavano e magagnavano  l’ interna orditura del sistema pitagorico; apparecchia-  vano nuovi errori da scopi ire e da aggiungeie ai pensa-  tori susseguenti.   Ma vuoisi rendere una giustizia al filosofo di Samo ,    (1) Armonia viene da ap^os, che propriamente prima significava un te-  game materiale, commessura, compagine , articolo , e che poi si volse a  significare un accordo qualunque.    Digitized by Google    — 19 —    la quale consiste nel notare , eh’ egli non aveva confuso  la Monade con questo infinito, che attribuì esclusivamente  alla Diade. Plutarco esponendo il sistema di lui, dice (lj:  « Dei principi disse la Unità Dio, ed anco il bene , eh’ è  di natura un solo, e lo stesso intelletto : il due infinito,  e genio tristo , d’ intorno al qual due si sta la quantità  della materia ». Ora la Diade in mentre ch’era f inde-  finito, veniva detta eziandìo la ripetizione della Unità ,  onde forse posteriormente la sua natura si confuse con  quella della Monade. Sesto Empirico difatti espone cosi:  Dalla prima unità nasce 1’ uno: dall' unità, e dallo inter-  minato binario, il due; perchè due volte uno fa due (2):  Ma il binario è veramente la ripetizione della Monade ?  No; perchè 1' uno ripetendo sè medesimo dà sempre uno;  egli viene ad inlinitarsi , non a moltiplicarsi. Nella du-  plicazione ci è un altro elemento, che non era nell’Uno;  ci è la finitezza , e la successione. Venghiamo all’ inter-  vallo. Aristotile assevera, ch’esso non fosse altro nel si-  stema pitagorico che il vuoto , e però una semplice ne-  gazione. Codesta sua chiosa viene impugnala da altri, i  quali tengono che la parola vacuo fosse stata pigliata dai  Pitagorici in senso metaforico , dimodoché non signifi-  cava un semplice concetto negativo; ma una distinzione  reale (3). Accenno qui delle osservazioni , che mi sono  sforzato di rincalzare in un lavoro apposito su la storia  della nostra filosofia, la quale mi pare che sia stata più  pura nelle sorgive, e che nel corso siasi di poi rimesco-  lata, e falla torbida.   La scuola di Elea trasse i corollari dei principi o vi-  ziosi o viziati della scuola pitagorica. L'infinito era stato    (1) Delle cose naturali, lib. 1. cap. VII.   (2) Adv. Matlicra. lib. 10. « A prima quidem unitale , unum : ab uni-  tate autem, et interminato binario, duo. Bis enim unum, duo ».   (3) Il P. Silvestro Mauro commentando il cap 8. dui IV. lib. della Fisica  di Aristotile, osserva così : « Aliqui cum Phiiopono pulant Pjtbagoricos  locutos metaphorice, ac nomine vacui inlellcxisse distinctionem,_qua rcs  inviccm separantur, ac distinguuntur ».    Digìtìzed by Google     — 20 —    allogato fra i (ermini oppositi della serie alla quale so-  vrastava l’Unità, però ragionevolmente Senofane inferì,  die 1' Essere non fosse nè finito nè infinito, il qual con-  cetto vedremo rinnovato ed ampliato in Plotino (1). Il  diastema era stato chiamato il vacuo, però, ripigliò Par-  menide, la moltiplicità delle cose non è reale; è una vana  apparenza, è un nulla. II vero essere è l’Uno. Imperoc-  ché leva dal moltiplice l’intervallo, che discerne l’uria  cosa dall’altra, quel che ti rimarrà, è soltanto l’Uno.  Così la scuola elealica è intimamente e logicamente con-  nessa con la italica ; se non che ella ne continua la parte  negativa , ed in ultimo costrutto riesce nella sofistica ,  che rampollò da lei, e che chiuse il periodo della nostra  filosofia sì bene avviata da principio. La filosofia nostra  incominciò con la vera Dialettica, con 1’ armonia , e de-  generò nella medesimezza, che non era più accordo, ma  annullamento di un termine in grazia dell’ altro. Se odi  l’Hcgel, cotesto fu vero progresso, egli Eleati toccarono  il colmo della speculazione. Ognuno ha il suo modo di  vedere, o meglio di foggiarsi la storia. Gli Ionici, ei ti di-  ce, concepirono l’Assoluto sotto una forma naturale; i Pi-  tagorici come numero , che non è nè pensiero puro nè  cosa sensibile, e tramezza tra l’uno e l’altra, studiandosi  di accordarli insieme. Gli Elcaliei da ultimo sceverarono  il pensiero non che dalla forma sensibile degli Ionici, ma  eziandio dal numero dei Pitagorici, e lo considerarono  nella sua purezza, affermando che tuttoè Uno. Per quanto  slrana paia colesta medesimezza del pensiero e dell’ Es-  sere, ella è deduzione cavata a martello di logica daPar-  menidc. Ei difatti dice recisamente: Se 1’ Essere è uno,  il pensiero e la cosa pensata sono la medesima cosa , o  bisognerebbe dire che il pensiero non è. Ma per qual ra-  ti) Il (Xenophane) enseignait que Dicu n’est ni infini ni fini, puisque  l'infini n'est que la uon-existence, ear rimìni est ce qui n’a ni commen-  cement, ni milieu, ni fin, et que le fini est l’un par rapport à l’autre;  caractère de la nmltiplicité des clioses». Ritter, Ilist. de la phil. ancien.  T. I liv. V. eh 2.      — 21 —    gione l’Essere è uno, ed il nòn-enle è impossibile? Fin-  giamo Parmenide che mediti sui principi della scuola  pitagorica, e seguitiamone il processo.   Tutte cose si fanno dall’Uno; ma ciò che si fa dall'Uno  è Uno; adunque tutte le cose sono uno. Ma perchè si fanno  dall’ Uno ? Perchè la Monade è 1’ Essere; e dal non-ente  non si fa nulla. Se il non-ente non è , e l’ intervallo dei  Pitagorici è il non-ente; esso adunque non è. Ma il tempo  e lo spazio si fondano su l’ intervallo; adunque essi nem-  meno esistono. Ma il moto è la sintesi del discreto spa-  ziale e temporaneo ; adunque il movimento non esiste.  Ma i cangiamenti della natura sensibile si fanno per mo-  to, adunque le mutazioni non esistono, e sono illusorie.  Qui si vede una logica intrepida e franca. 11 mondo sen-  sibile se n’ è ito, ed il pensiero solo rimane , immedesi-  mato con 1’ Essere. Il pieno è il pensiero, conchiude in-  fine il rigoroso pensatore di Elea. ( Tò yAf «uà» «ari  vowx.) Pitagora avea chiamato il mondo ordine , Cos-  mo , facendo trovar luogo a tutto (1) ; Parmenide per  contra lo stremò ad una metà. Ma eglino si ponno dire  di aver tracciata fin da tempi remotissimi ogni via di fi-  losofare; nè di altre mi pare che se ne siano aperte, nè  che forse se ne possano aprire. Noi con tutta la nostra  ostinata insistenza non siamo usciti di Crotona e di Elea;  e le lotte che stanno agitando ora l’Italia e la Germania,  la filosofia della creazione e quella della identità , sono  rinnovazioni più o meno profonde di quegli antichi si-  stemi. Mi si dirà forse che la Germania abbia aggiunto  dippiù il movimento medesimo del pensiero , e che ne  abbia disegnato 1’ ordine ed il processo ; e questo pure  voglio vedere se sia schiettamente originale, o non anzi  accattalo d’ altronde. Nel provarmi a cercare coteste re-  lazioni, io non voglio detrarre nulla alla profondità dei  pensatori odierni, ma lo faccio con l'intendimento di ren-   (1) Pitagora primo di tutti nominò il mondo 1’ Unione di tutte le cose,  rispetto all’ ordine che si trova in lui. Plut. Delle cose nat. lib. II. c. 1.      — Digitized by Google     — 22 —    dere a me stesso ragione del cammino che ha percorso il  pensiero umano, e delle orme che passando ha lasciato.  Agli uomini mi giova anteporre la verità.   Se la filosofia eleatica aveva nelle sue sottili e spe-  ciose investigazioni raggiunto il concetto della medesi-  mezza, o l’Uno convertito in Tutto, ella avea trovato il  bandolo della scienza , ma non ne avea dipanato la ma-  tassa. « Ritrovare il punto di riunione non è il più gran-  de secreto ; ma sviluppare fuori dello stesso anche il suo  contrario, questo è proprio del più profondo secreto del-  l’arte (1) ». Come il Tutto rampolla dall’Uno, ecco quel-  lo che si sforzò di spiegare la scuola di Alessandria, che  toccò il colmo di sua perfezione in Plotino. L’Infinito  negativo dei Pitagorici , consideralo immobile da Par-  menide, piglia movimento in Plotino. Ed io credo far cosa  grata al lettore ponendogliene sott’ occhio la descrizione  che ne fa il famoso Ncoplatonico, allegando le sue mede-  sime parole. « E la infinità medesima , ei dice , in che  modo si può trovare colà (nell’ Uno;? Imperocché se ella  ha 1’ essere, già esiste in un ordine determinato di enti:  o certo se non sarà determinata, non vuoisi allogare nel  genere degli enti, ma forse parrà da noverare nell’ordine  di quelle cose, che diventano , siccome interviene altresì  nel tempo. Forse ancora se ella si definisce , per cote-  sto medesimo ella è infinita ; perocché non il termi-  ne , ma l' infinito è che si determina. Nè v’ è locata  nessun’altra cosa mediana tra l' infinito ed il termi-  ne , la quale subisca la natura di termine. Certamente  cotesto infinito sfugge all’idea di termine, ma viene com-  preso ed attorniato esteriormente. Sì che nel fuggire  non va da un luogo in un altro , chè luogo alcuno non  ha ; ma allorché ei v iene compreso, eccoti allora la pri-  ma volta aver esistenza il luogo. Il perchè non si ha da  stimare che il movimento, che nel parlare si attribuisce   \   (1) Platone nel Piloto cit. nel Dialogo dello Schelling intitolato il  Giordano bruno. Trad. della Florenzi p. 103.     — 23 —    all’ infinità , sia locale, nè che gliene avvenga alcun al-  tro di quelli che soglionsi nominare. Sicché non mai si  muove, nè mai permane. E dove volete che stia, se co-  testo medesimo che si chiama dove, nasce dopo? Pare  però che all’infinità si attribuisca il moto, perchè ella  non sta ferma. Forse che adunque ella sta così come se  fosse nel medesimo luogo sospesa in alto, e che si aggi-'  rasse? Od anzi, che là stia levata, e qua pure si agiti ?  no , che in nessun modo è così. Imperocché ambedue  queste cose sono giudicate al medesimo luogo , sì per-  chè s’innalza senza declinare dove appartiene allo stesso  luogo, sì ancora perché declina. Adunque altri andrà  pensando che cosa sia l’ infinità? Egli allora per fermo  la penserà, quando avrà separato la specie dalla intelli-  genza. Adunque che intenderà allora ? Forse intenderà  insieme i contrari, e i non contrari: perocché là inten-  derà il grande ed il parvo ; perché diviene l’ uno e 1’ al-  tro ; il permanente ed il mosso , perché queste cose  ivi diventano. Ma prima di diventare , è chiaro eh’ ella  non sia determinatamente nessuna delle due , chè al-  trimenti tu l'avresti già determinata. Se adunque quella  natura è infinita, e queste cose, come io diceva, infinita-  mente ed indeterminatamente sono ivi, così certamente  vi appariranno. Che se yi ti accosterai più da vicino, ed  adoprerai alcun termine, onde volessi irretirla , tosto ti  sfuggirà, nè vi troverai nulla, chè altrimenti già l’avre-  sti definita. Ed anzi se t’ imbatterai in alcuna , siccome  una, incontanente ti si porge come moltiplice. Se tu di-  rai: sei moltiplico, mentirai di nuovo; chè dove ciascuna  cosa non è una , nemmanco molte sono tutte. E questa  medesima è la natura della infinità, che secondo una im-  maginazione è movimento; e sin dove si aggiunge la fan-  tasia è stato. Inoltre cotesto medesimo , perchè tu non  puoi vederla per sé stessa, è un colai movimento, e caso  dalla mente. In quanto poi non può sfuggire , ma viene  costretta attorno esteriormente , tanto che non può pre-  terire i limiti , dee giudicarsi un certo stato. Di che si      Digitized by Google     — 24 —   pare, che non pure di Jei si possa affermare il movimento,  ma eziandio lo stato (1) ». La dottrina di Plotino si ri-  duce adunque in questi capi: 1. L’ infinito non è un es-  sere in atto; se fosse tale, sarebbe in un dato ordine, sa-  rebbe perciò medesimo finito. 2. L’ infìniludine si oc-  culta nel .termine che finisce qualche cosa. 3. Togli di  mezzo tutte le forme, tutt’i termini, tutl’ i fini, ed avrai  l’ infinitudine. 4. Quando l'apprendi, ella svanisce, per-  chè già l'hai terminata. 5. Ella non appartiene a nessun  genere di oppositi ; se avesse un contrario , sarebbe da  questo limitata. 6. Ma ella è o uno, o l’altro degli oppo-  sili, in quanto uno di essi nega 1’ altro.   Dalle quali cose conseguita che l'Infinito dei Neopla-  tonici non è nemmeno l’Essere, inteso come qualche cosa  di sussistente e di definito, ma è l’uno considerato come  principio dell’ Ente medesimo. Plotino assegna la ragio-  ne di ciò dicendo, che se l’Ente non fosse nell’ Uno, in-  contanente si dissiperebbe. Per contra l’Uno non si fon-  da nell'Ente, perchè altrimenti l’Uno sarebbe prima di  essere Uno (2). Or questo Uno diventa Primo nel pro-  durre il Secondo , o la Ragione , la quale è inferiore al  suo principio , perchè nella serie delle emanazioni pen-  savano gli Alessandrini, che il prodotto di tanto scemas-  se, di quanto dal principio si discostasse come lume va-  niente per l'aere, che ai più lontani giunge più pallido.  In ciò sta forse uno dei principali divari che corrono tra  la triade alessandrina, e la tricotomia hegelliana, perchè  dove in quella la perfezione si va scemando, e l’essere si  va dissipando , in questa al contrario la smilza e magra  natura dell’ Idea si va rimpolpando e rinsanguinando per  via, finché tocca in fine quel colmo di perfezione, in cui  la forma adegua perfettamente il contenuto. Il che mi  pare assai più logico del processo alessandrino, dove Tes-    ti) Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. III.  (2) Plotino, Enneade VI. lib. VI. cap. IV.    Digitized by Google    — 25 —    sere nè ti si porge molto dovizioso da principio, nè se ne  rifa più che tanto in ultimo.   Comunque però dal seno del Primo erompa la Ragio-  ne, egli rimane nondimeno immutato. Ciò perchè la ne-  cessità di cotesta manifestazione non gli è estrinseca ;  s’ egli non può rimanere solo, è perchè tale è la sua na-  tura, la quale rimane pur sempre libera. Il Secondo per  essere rampollato dal Primo abbiamo visto che gli deve  sottostare ; sicché 1’ unità e la semplicità del Primo non  si travasa intera nella Ragione. Questa però partecipa  alla moltiplicità. Ma v’ha dippiù. In che modo la Ra-  gione rassomiglia al Primo, postochè questo non sia Ra-  gione ? Plotino risponde alla difficoltà osservando, esser  proprio della natura del Secondo di rivolgersi verso il  Primo; però di vederlo, però di diventar Ragione, anco-  raché il Primo non sia tale. La Ragione non vede quindi  sè medesima ; e la cosa non dee parere strana , quando  si consideri , come fa il Ficino, eh’ ella opera nel movi-  mento, ed ogni moto tende verso un altro posto fuori di  sè (1).   La Ragione rassomiglia al Primo nell’inchiudere il du-  plice concetto di essere permanente e di moto; sicché in  essa si può distinguere l’energia e la facoltà, o, che tor-  na il medesimo , la possibilità e 1’ atto , la materia e la  forma. In quanto ella può diventare, contiene la materia  del mondo sovrasensibile; ed in quanto è, ne contiene la  specie o la forma. Yi ha dunque nel sistema di Plotino  una materia nel mondo sovrasensibile , come nel sensi-  bile , e noi vedremo che Giordano Bruno ha spiritualiz-  zalo ancora la materia sino a questo segno. La Ragione  è una perchè guarda al Principio, al Bene ; è moltiplice  perchè è forma delle cose.   Nel modo medesimo che 1’ Uno produce la Ragione ,   (1) Ficino sopra il 3." lib. della V. Enneade di Plotino dice: « Cum ra-  tionis proprium sii in molu agere, et motus tendat in aliud, merito ratio  communiter circa alia potius, quam circa seipsam se volutat, ideo non est  eius proprium se cognoscere # .    Digitized by Google     - 26 —    questa alla sua volta liglia e partorisce l’Anima, la  quale operosa com'ò, e resa feconda dalla Ragione estrin-  seca il mondo sensibile. E qui nota che la Ragione da  sè non opera nulla , ma contiene soltanto il germe del-  1‘ operazione , il quale diventa pratico nell’ Anima del  mondo. Plotino adunque concepisce cotesti tre termini  in un modo che si potrebbe rendere più chiaro, e quasi  sensato, rappresentandocelo così. Nel centro sta l’ Uno ,  attorno a cui la Ragione descrive quasi un cerchio immo-  bile, ed attorno a questo cerchio immobile 1’ Anima del  mondo circoscrive un nuovo cerchio, i! quale movendosi  produce i! mondo sensibile. Quest’ ultimo mondo , fat-  tura dell’Anima mondiale, è l’opposto dell'Uno; perocché  esiste nello stato di dissipamento , di disterminazione ,  di esteriorità. Onde la sua esistenza è apparente , non  vera, consistendo la verità in quello che nelle cose vi ha  di più intimo; e la Triade delle emanazioni, che si pos-  sono chiamare sovrasensibili, ha compimento con l’Ani-  ma. In questa avviene la cognizione di sè medesima, per-  chè il suo movimento è circolare , e però dee tornare al  punto medesimo onde si mosse. « Perchèil cielo si muove  rincirculando ? » Domanda Plotino ; « Perchè imita la  mente (1) ». Onde si può dire eh’ egli consideri prima  il pensiero in sè stesso, poi lo stesso pensiero come ob-  bietto ; finalmente l’ identità dell’ uno e dell’ altro , o la  compenetrazione nella quale sta il pensiero propriamente  detto, o il pensiero riflesso (2).   La nomenclatura medesima , non che la tripartizione   (1) Ennead. II. lib. 2.   (2) L’ itléc fondamentale de ce qu’on appelle philosophie néoplatoni-  cienne ou philosophie d’Alexandrie, était celle du vo’j? ayant pour objet  lui-méme. C’est d’abord la pensée comme Ielle , puis la pensée cornine  objet (vonrov), et enfin 1’idcntité de l'une et de l’autre: c’cst, selon He-  gel, la trinité chrétienne, et cette idée est Tètre en soi et pour soi. Dieu,  T esprit absolu et pur et son action en soi, le Dieu vivant, actif cn soi ,  tei est T objet de cette philosophie. WiUm. Hist. de la phil. Alleni.  Tom . 4, Phil. de Hegel, chap. 17.    Digitized by Google     — 27 —    dello sviluppamento posto dai Neoplatonici nell' Infinito,  ci dà subito a divedere eh’ eglino abbiano voluto immi-  schiare alle speculazioni greche ed orientali le tradizioni  cristiane intorno al dogma della Trinità. Hegel medesi-  mo P ha avvertito, ma il profondo pensatore di Germa-  nia non ha osservalo che la Scuola Neoplatonica aveva  non copiato, ma sformato e travisato il sublime concetto  cristiano. Imperocché nella nostra Trinità ci è gerarchia  ed uguaglianza ad un tempo, dove quel continuo digra-  dare delle emanazioni aggiunto dagli Alessandrini appaia  cose dell’ intutto contrarie. Plotino medesimo non sapea  come cavarsi d' impaccio nello spiegare in qual modo la  Ragione potesse rampollare da ciò che non era Ragione.  Nella Trinità cristiana l’Infinito compenetra sé medesi-  mo , ma sempre infinitamente , dove negli Alessandrini  tal compenetrazione diventa possibile soltanto a costo  di smettere la propria natura , e di diventare finito e  moltiplice. Nella Trinità degli Alessandrini il Principio  , o 1' Uno non ha notizia di sé medesimo , in mentre che  secondo i pronunziati cristiani il Padre , conoscendo sé  medesimo, genera il Verbo. K molte altre differenze si  potrebbero trovare, per le quali le due Trinità si riscon-  trano soltanto nel nome, che gli Alessandrini accattarono  dai Padri della Chiesa; ma nel fondo rimangono sempre  cose onninamente disparate. Di qualche cosa però la fi-  losofia si era avvantaggiata , riconoscendo un processo  nella Dialettica, per lo quale le esistenze non erano cose  morte , ma viventi. Imperocché nelle relazioni intime  dell’Infinito con sé medesimo si trova il concetto primi-  tivo e perfettissimo della Dialettica. L’ altra della crea-  zione non è , se non una copia finita di quella prima ed  interna. Onde se nella prima l’ Infinito si trova in rela-  zione con sé stesso , considerato sempre come attuale ;  nella seconda egli si trova in relazione , ma considerato  una volta come attuale , ed un’ altra volta come poten-  ziale.   Nella prima però ha luogo un processo estemporaneo.    Digitized by Google     — 28 —    nella seconda vi ha progresso effettivo, ed acquisto vera-  ce. Le due dialettiche confuse ed immischiate l’una con  P altra dagli Alessandrini, passarono in retaggio a tutt'i  panteisti. Se noi adunque ci siamo fermati a tratteggiare  per sommi capi il loro sistema , come venne fornito da  Plotino, non è stato senza motivo; che da Pitagora a Pio-  tino la scienza fece passi giganteschi, comunque spesso  sviandosi dal diritto sentiero. Il Conte Mamiani mede-  simo notò nella leggiadra prefazione al dialogo citato  dello Schelling , che le massime e le tradizioni dei filo-  sofi della Magna Grecia, e i libri dei Neoplatonici furo-  no al Bruno il semenzajo usuale e continuo onde trasse  i germi delle idee di maggior momento. Nella esposizio-  ne che faremo delle dottrine del Nolano cotesto riscontro  si parrà più chiaro. Filolao. Keywords: Crotona, Crotone, Metaponto, Aristoxenus of Tarentum. H. P. Grice, “Pythagoras: the written and the unwritten doctrines,” Luigi Speranza, “Grice e Filolao” -- “Grice a Crotone, ovvero, Filolao,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760343533/in/dateposted-public/

 

Grice e Fineschi – eroticologico, filologico – l’amore – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo. Grice: “Fineschi shows how COMPLEX Marx’s theory of cooperation is!” --  Grice: “I like Fineschi; when at Harvard I played with ‘cooperation’ I didn’t really know what I was talking about! Fineschi does! He calls me a Marxist – and that’s why I dubbed my ontological occam’s razor as ‘ontological marxism’!” Studia a Siena sotto Mazzone con “Marx rivisitato”. Per il suo dottorato, svoltosi sotto Domanico a Palermo, si occupa del rapporto Marx-Hegel. Ha vinto la prima edizione del premio David-Rjazanov-Preises. Altre opere: “Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici La Città del Sole, Napoli); “Marx: rivisitazioni e prospettive, Mimesis, Milano (Itinerari filosofici) “Marx e Hegel. Contributi a una relectura” (Carocci editore, Roma); “Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica” Carocci editore, Roma).  Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Sigmund Freud Lingua Segui Modifica Al di là del principio di piacere Titolo originale                                                      Jenseits des Lustprinzips Freud 1921 Jenseits des Lustprinzips.djvu AutoreSigmund Freud 1ª ed. originale1920 GenereSaggio SottogenerePsicoanalisi Lingua originaletedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips)[2] è un saggio di Sigmund Freudpubblicato nel 1920, incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).   Giuditta II di Gustav Klimt, 1909, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna.[1]  Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia).  «Empedocle di Agrigento, nato all'incirca nel 495 a.C., si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca [...] Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. [...] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»[3]  Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e «tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa).»[4] Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?"[5]  «Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones,[6] l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn.»[7]  Sabina Spielrein e Barbara LowModifica Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,[8] per Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido).  Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni (1899) e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del Nirvana proposto da Barbara Low:[11] le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà inanimata.[12][13][14]  La coazione a ripetereModifica Nel testo del '20 Freud sostiene che «nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere.»[15][16] Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte «demoniaca»:[17] "Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere "demoniaco".[18] La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti.  Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale».[19] Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro.  Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il rocchetto è di nuovo vicino.[20]  Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gli organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo.  Conclusione Modifica In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte [...]. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni.»[21]  ImplicazioniModifica Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «la vera psic[o]analisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psic[o]analisi. [...] [Essa] comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. [...] Il nuovo modello freudiano [...] individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie».[22]  Dal 1920 sino al 1939, anno della sua morte, Freud non cambierà più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale "inguaribilità'" del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario.  Wilhelm Reich, in La funzione dell'orgasmo (1927) e Analisi del carattere (1925), propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte.   La madre morta (1910), Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: SchieleModifica «Egon Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto del 1910: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode [Essere-per-la-morte] del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale.»  (Marco Vozza[23])  Agonia (1912), Egon Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.  Madre con i due bambini(1915-1917), Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non [...] medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia del 1912 [...], sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.»  (Marco Vozza[24]) «La Madre con i due bambini [...] esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. [...] Nessuno meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon.»  (Marco Vozza[25]) Note                            Modifica ^ Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza, 2002): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere(1920), in Opere di Sigmund Freud (OSF) vol. 9. L'Io e l'Es e altri scritti 1917-1923, Torino, Bollati Boringhieri, 1986. ISBN 978-88-339-0059-9. Ed. paperback 2006. ISBN 978-88-339-0479-5. ^ Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 527-529. ISBN 978-88-339-0115-2. Ed. paperback2009. ISBN 978-88-339-0481-8. ^ Umberto Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, 2001, p. 802. ISBN 88-115-0479-1. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.509. ^ Ernest Jones, Vita e opere di Freud, vol. 3: L'ultima fase (1919-1939), Milano, Garzanti, 1977. ISBN non esistente. ^ Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. 2, Bari-Roma, Laterza, voce Thanatos, 8ª ed. 2008. ISBN 978-88-420-4259-4. ( EN )  The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Anteprima disponibile, p. 447, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio del piacere, op. cit., p. 240. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 195. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 235. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 241. ^ Matteo Mugnani, Analisi del testo di S. Freud: "Il problema economico del masochismo". URL consultato il 6 febbraio 2011. ^ Leonardo Della Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza.URL consultato il 26 agosto 2009. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp. 272-3, su books.google.it. ^ Sigmund Freud, op. cit., p. 209. ^ Jean Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. ( EN ) Op. cit., Anteprima disponibile, pp. 78-80, su Google Libri. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 207, 221-2. Cf. anche Il perturbante (1919), OSF vol. 9, p. 99. ^ S. Freud Introduzione alla psicoanalisi, Edizioni Boringhieri 1978, p.508. ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, 1975, p. 39, ISBN 978-88-339-0055-1. ^ Cf. Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, op. cit., pp. 200-1. ^ Sigmund Freud, op. cit., pp. 248-9. ^ Antonello Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut 315 (2003), pp. 134-6. ^ Marco Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas 54 (5/1999), p. 884. ^ Marco Vozza, op. cit., p. 885. ^ Marco Vozza, ibidem. Voci correlate                                                 Modifica Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Collegamenti esterni       Modifica ( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata (EN) Jean Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Paperbacks, 1988. ISBN 0-946439-49-4; ISBN 978-0-946439-49-2. Thanatos, p. 447, Nirvana Principle, pp. 272-3 e Compulsion to Repeat, pp. 78-80. Controllo di autorità                                                  Thesaurus BNCF 6768 · LCCN( EN ) sh98005003 · BNF ( FR ) cb12125623j(data)   Portale Letteratura   Portale Psicologia Ultima modifica 1 anno fa di 79.52.113.137 PAGINE CORRELATE Psicoanalisi teoria dell'inconscio e relativa prassi psicoterapeutica che hanno preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud  Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza  Wikipedia Il contenuto. Grice: “The problem with erotico-logy is that eros allows for myth as much as it does for logos!” – Grice: “Philology can mean love for word as much as word for love, as philosophy can go from love of wisdom and wisdom of love. If we have eros instead we have erotosophia and erotologia, erotology, erotosophy – so there!” Grice: “It always irritated me that at Oxford a philologist was supposed to be a sort of scientist whereas the logist is what he loves (philein) – it’s a passion – unretrained even – for words!” – unfettered – loose --. Roberto Fineschi. Fineschi. Keywords: eroticologico, filologico, amore, Grice’s ontological Marxism, implicatura filologica – Kantotle, Plathegel, eros e Thanatos. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fineschi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760720949/in/dateposted-public/

 

Grice e Fioramonti – implicature economica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “Fioramonti, like Hart, and myself, has philosophised on human right, legal right, moral right.” Frequenta il liceo a Roma, situato nel quartiere di Tor Bella Monaca. Si laurea a Roma con una tesi in Storia della economia filosofica, incentrata sul ruolo dei diritti di proprietà ed individuali. Studia Politica comparata a Siena.  Insegna a Pretoria, ed è direttore del Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo. È inoltre membro del Center for Social Investment dell'Heidelberg, della Hertie School of Governance e dell'Università delle Nazioni Unite.  Si occupa di economia e integrazione economica europea. Per il Financial Times, sostiene che il PIL è "non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie sempre più complesse, ma anche un impedimento a costruire società migliori".  I suoi articoli sono inoltre apparsi su The New York Times, The Guardian, Harvard Business Review, Die Presse, Das Parlament, Der Freitag, Mail & Guardian, Foreign Policy e open democracy.net. Ha una rubrica mensile nel Business Day. È stato co-direttore della rivista scientifica The Journal of Common Market Studies. è inoltre coautore e co-editore di diversi libri. Oltre ai best seller Gross Domestic Problem: “La politica dietro il numero più potente del mondo e Il modo in cui i numeri governano il mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella politica globale, pubblica “Economia del benessere: successo in un mondo senza crescita, Presi per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo e Il mondo dopo il PIL: economia, politica e relazioni internazionali nell'era post-crescita.  Ha avuto un'esperienza come assistente parlamentare, collaborando a titolo gratuito con Antonio Di Pietro (IdV) a sviluppare politiche per i giovani nelle periferie.  Viene resa nota la sua candidatura col Movimento 5 Stelle alle imminenti elezioni politiche di marzo, risultando eletto alla Camera dei deputati nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela con il 36,65% dei voti.  è stato nominato sottosegretario presso il Ministero dell’istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte I. Nominato Dino Giarrusso suo segretario particolare, affidandogli l'incarico di coordinare la comunicazione del suo ufficio e curare le relazioni istituzionali. L'onorevole ha inoltre aggiunto di aver chiesto a Giarrusso di aiutarlo anche ad evadere le segnalazioni inviate al Ministero sulle presunte irregolarità che si verificano all'interno dei concorsi universitari.  Il 13 settembre  il Consiglio dei ministri, su proposta di Bussetti, lo ha nominato vice ministro all'istruzione, università e ricerca.  Proposto il 4 settembre  come ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte II, viene nominato ufficialmente. All'inizio del suo mandato ha istituito un comitato scientifico di consulenza, composto tra gli altri da Shiva.  Nel mese di ottobre  intervenendo ai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora ha affermato di "credere in una scuola laica" e di essere favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole, per sostituirlo piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, e criticato dalla Conferenza Episcopale Italiana. Annuncia l'introduzione in Italia, primo Paese al mondo, dello studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile come materia scolastica.  Dichiara di essere pronto a rassegnare le proprie dimissioni qualora nella Legge di bilancio  non fossero stati trovati fondi per 3 miliardi di euro da destinare all'istruzione. Invia al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte una lettera in cui annuncia le proprie dimissioni e dichiara che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere l'IVA al fine di incassare i fondi che chiedeva per il proprio ministero.  Comunica la propria uscita dal Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto alla Camera.  Annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco. Eco rappresenta un'ipotesi, un'idea guidata dalla volontà di costituire una entità in collaborazione tra società civile e parlamentari, ma la cui concretizzazione in una nuova realtà non è ancora certa.  Entra a far parte di Green Italia, insieme all'onorevole Rossella Muroni e Elly Schlein, vicepresidente dell'Emilia Romagna.  Dopo che il quotidiano il Giornale ha pubblicato alcune dichiarazioni fatte nel passato su Twitter da Fioramonti, ritenute inappropriate per la carica da ministro, diversi partiti (tra cui Lega, FI e FdI) chiedono le sue dimissioni dal dicastero, annunciando il deposito in Parlamento di una mozione di sfiducia È stata effettivamente depositata? Che ne è stato? Il ministro ha quindi dichiarato sui social che tali opinioni erano state scritte di getto e si è quindi scusato.  Nello stesso periodo suscita polemica il fatto che, secondo quanto riportato dalle chat di alcuni genitori, il ministro avrebbe scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese e di non fargli fare l'esame di italiano. A seguito di tale notizia, scrive un post sui social in cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia di voler presentare un esposto al garante della privacy.  Altre opere: Diritti umani 50 anni dopo. Aracne); “Fuori. Fermento,. Poteri emergenti nell'economia politica e internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica. ETS,. Presi per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo. L’Asino d’oro edizioni,. Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della post-crescita. Edizioni Ambiente,. Un'economia per stare bene. Dalla pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell'ambiente. Chiarelettere. Vincenzo Bisbiglia, chi è il candidato M5S: dalla laurea in Filosofia alla critica al pil. Con tappa alla Rockefeller foundationIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Professor Lorenzo Fioramonti, su up.ac.za. Has GDP become an impediment to a better society?, su Financial Times. 1World needs a new Bretton Woods with Africa in the lead, su bdlive.co.za, Business Day. Eligendo: Camera [Scrutini] Collegio uninominale 05 ROMA ZONA TORRE ANGELA (Italia) Camera dei Deputati Ministero dell'Interno, su Eligendo. F.Q., Governo, nominati 45 tra viceministri e sottosegretari: Castelli e Garavaglia al Mef. Crimi all'Editoria. Dentro anche SiriIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Università, dietrofront su Giarrusso. Fioramonti: "è solo il mio segretario, non un controllore", in Repubblica, Governo: Galli, Rixi e Fioramonti nominati viceministriTgcom24, in Tgcom24, Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il ministro Fioramonti che vorrebbe toglierlo dalle classi, su Repubblica, Fioramonti: da settembre il clima sarà materia di studio a scuola  Fioramonti: 3 miliardi per l'istruzione o confermo le mie dimissioni -, su Orizzonte Scuola, Il ministro dell’Istruzione Fioramonti ha dato le dimissioni, Corriere della sera, Fioramonti lascia il gruppo M5S: «C'è diffuso sentimento di delusione», Il Messaggero, 30 L’ex ministro Fioramonti: «Un altro governo non è un tabù. Ora un’area civica progressista», su Il Manifesto. Bufera su Fioramonti per alcuni tweet. Meloni chiede le dimissioni, per Lega e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, Bufera su Fioramonti per offese web, ministro si scusa Politica, su Agenzia ANSA, Chi è Lorenzo Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su theitaliantimes, Governo Conte II Ministri dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Openpolis, Associazione Openpolis.  Radio Radicale.  PredecessoreMinistro dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione. png Marco Bussett, Giuseppe Conte (ad interim) PredecessoreViceministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione. Anna Ascani.  Quarterly gross domestic product William Petty came up with a basic concept of GDP to attack landlords against unfair taxation during warfare between the Dutch and the English between 1654 and 1676.[10] Charles Davenant developed the method further in 1695.[11] The modern concept of GDP was first developed by Simon Kuznets for a 1934 US Congress report, where he warned against its use as a measure of welfare (see below under limitations and criticisms).[12] After the Bretton Woods conference in 1944, GDP became the main tool for measuring a country's economy.[13] At that time gross national product (GNP) was the preferred estimate, which differed from GDP in that it measured production by a country's citizens at home and abroad rather than its 'resident institutional units' (see OECD definition above). The switch from GNP to GDP in the US was in 1991, trailing behind most other nations. The role that measurements of GDP played in World War II was crucial to the subsequent political acceptance of GDP values as indicators of national development and progress.[14] A crucial role was played here by the US Department of Commerce under Milton Gilbert where ideas from Kuznets were embedded into institutions.  Wikipedia Ricerca Economico (Aristotele) opera attribuita ad Aristotele Lingua Segui Modifica Economico Titolo originale                                                      Οἰκονομικά Oikonomiká Aristotelesarp.jpg Autore                       Pseudo-Aristotele 1ª ed. originale                                   Genere                                                     trattato Sottogenere                                            economia Lingua originale                                       greco antico L'Economico (in greco antico: Οἰκονομικά, Oikonomiká; in latino: Oeconomica) è un'opera attribuita ad Aristotele. La maggior parte degli studiosi moderni lo attribuisce a un allievo di Aristotele o del suo successore Teofrasto.  Struttura       Modifica Il libro I è suddiviso in sei capitoli che iniziano a definire l'economia[1].   Esso, quindi, è un'introduzione che mostra la formazione di base di un'economia, ossia la famiglia. Il testo inizia affermando che l'economia e la politica differiscono in due modi principali, ossia nei soggetti con cui trattano e nel numero di governanti coinvolti. Come un proprietario di una casa, c'è solo una sentenza in un'economia, mentre la politica coinvolge molti sovrani. I praticanti di entrambe le scienze cercano di sfruttare al meglio ciò che hanno per prosperare.  Una famiglia è composta da un uomo e dalle sue proprietà e l'agricoltura è la forma più naturale di buon uso per questa proprietà. L'uomo dovrebbe quindi trovare una moglie, mentre i bambini dovrebbero venire dopo, perché saranno in grado di prendersi cura della casa man mano che l'uomo invecchia. Questi sono i capisaldi dell'argomento economico.  Il secondo libro[2] si sviluppa con l'idea che ci sono quattro diversi tipi di economieː l'economia reale, l'economia satrapica, l'economia politica e l'economia personale. Chiunque intenda partecipare con successo e solidarietà a un'economia deve conoscere ogni caratteristica della parte dell'economia in cui è coinvolto. Tutte le economie hanno un principio in comuneː indipendentemente da ciò che viene fatto, le spese non possono superare le entrate. Questa è una questione importante, fondamentale per la nozione di "economia". Il resto del secondo libro riguarda eventi storici che hanno creato importanti modi in cui le economie hanno iniziato a funzionare in modo più efficiente e danno le origini di alcuni termini ancora in uso all'epoca e l'argomento principale è il flusso di denaro attraverso qualsiasi economia ed eventi particolari.  Il terzo libro è noto solo dalle versioni latine dell'originale greco e tratta del rapporto tra marito e moglie. Il classicista tedesco Valentin Rose, nella sua classica edizione dei frammenti aristotelici del 1886, ha ipotizzato che questo libro non fosse altro che il Περὶ συμϐιώσεως ανδρὸς καὶ γυναικός e i Νόμοι ανδρὸς καὶ γαμετῆς indicati nel catalogo di opere di Aristotele che compaiono nella biografia attribuita a Esichio di Mileto, tradizionalmente chiamata Vita Menagiana.  Note                Modifica ^ 1343a-1345b. ^ 1345b-1353b. Bibliografia                    Modifica Aristote, Économique. Testo greco a cura di B. A. van Groningen e André Wartelle, traduzione e note di A. Wartelle, Paris, Les Belles Lettres, 2002 (edizione critica) Aristotele, Opere, vol. 8, Politica. Trattato sull'Economia, trad. di R. Laurenti, Roma-Bari, Laterza, 2019. Voci correlate                                    Modifica Aristotele Pseudo-Aristotele Controllo di autorità                VIAF ( EN ) 4465159521639733070006 · BAV492/10544 · LCCN ( EN ) n79099715 · GND( DE ) 4345428-8 · BNE ( ES ) XX2053358(data) · BNF ( FR ) cb12322850m (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007520683505171 (topic)   Portale Antica Grecia   Portale Filosofia Ultima modifica 8 mesi fa di Valepert PAGINE CORRELATE Pseudo-Aristotele autori sconosciuti di diverse opere antiche  Parva naturalia Topici opera di Aristotele  Wikipedia Il contenuto L'espressione filosofia dell'economia può riferirsi alla branca della filosofia che studia le questioni relative all'economia o, in alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle proprie fondamenta e del proprio status di scienza umana[1].  Note                            Modifica ^ D. Wade Hands, philosophy and economics, in The New Palgrave Dictionary of Economics, 2ª ed., 2008. Controllo di autorità                        LCCN ( EN ) sh2008102562 · GND( DE ) 4066489-2 · J9U( EN ,  HE ) 987007561739805171 (topic)   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 12 mesi fa di Nima Tayebian PAGINE CORRELATE Kenneth Boulding economista, pacifista e poeta inglese  Richard Bradley (filosofo)   PARTITO NAZIONALE FASCISTA   TESTI PER I CORSI Dl  PREPARAZIONE POLÍTICA   L’ECONOMIA  FASCISTA     Mod. 347    LA LIBRERIA DELLO STATO  AN NO XIV E. F.                        CONTENUTO    I. Concetti fondamentali * ♦ ♦ * * Pag* 7   II* Política economica e monetaria * * » 23   IIL V agricoltura italiana e la política   rurale dei Regime ****** 81   IV* Industria e artigianato * * ♦ * » 101   V* La política dei lavori pubblici * * » 1x9                        CONCETTI FONDAMENTALI                         I L PROFONDO, sostanziale contrasto che separa il Fascismo  dal liberalismo si riflette in forma vigorosa e tipica nel  campo economico.   In economia difatti lo Stato fascista si oppone nettamente  alio Stato liberale, perchè mentre questo non interviene nella  vita economica e si limita generalmente alia funzione di difesa  e di istruzione («Stato carabiniere » e «pedagogo »), quello  considera suo compito preciso il regolare e determinare lo  sviluppo materiale e spirituale delia collettività, negando che  dal libero e incomposto cozzo delle forze individuali possa  prendere origine la forma piú perfetta e piú alta di vita civile.  Lo Stato fascista non crede alie armonie economiche realiz-  zantisi con il totale assenteismo di uno Stato abúlico che si  limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli indi-  vidui; lo Stato fascista è Stato etico appunto perchè ha una sua  consapevolezza e una sua volontà da realizzare. È Stato che non  si estrania dai problemi deH’economia, ma li studia, li incita,  li guida, li frena, perchè non concepisce il divorzio fra politica  ed economia ma considera che questa discenda da quella.   Gli economisti e i politici che affermarono in maniera recisa  e perentória che lo Stato è specialmente utile quando si astiene  da qualsiasi intervento nel campo economico, — e furono  numerosissimi nel secolo scorso — oggi vanno scomparendo.  In tutti i paesi lo Stato giganteggia. Soltanto esso può risolvere  le drammatiche contraddizioni dei capitalismo; soltanto esso  può awiare verso una soluzione quel complesso di fenomeni  materiali e spirituali che si chiamano crisi e che possono essere  superati e vinti entro lo Stato.   Questo particolarissimo stato d'animo di fronte al libera¬  lismo disfatto fu definito dal Duce con la seguente domanda:  « Che cosa direbbe dinanzi ai continui, sollecitati, inevitabili  interventi dello Stato nelle vicende economiche, 1 ’inglese    9            Bentham, secondo il quale T industria avrebbe dovuto chiedere  alio Stato soltanto di essere lasciata in pace, o il tedesco  Humboldt, secondo il quale lo Stato ocioso doveva essere  considerato il migliore? »♦   Ma se anche la seconda ondata degli economisti liberali  fu meno estremista delia prima, perchè apriva già la porta agli  interventi dello Stato neireconomia, rimane pur sempre un  incolmabile abisso tra Stato liberale, anche, diremo cosí,  corretto, meno intransigente di quello concepito un tempo,  e lo Stato fascista*   Bisogna ricordare che chi dice liberalismo dice pur sempre  indivíduo; chi dice Fascismo dice Stato*   Con questo però lo Stato fascista non intende di solito  ingerirsi direttamente nel fatto economico, ma sopraintendervi,  affinchè esso si svolga secondo gli interessi delia collettività*  È da questa concecione política dello Stato che deriva la  concezione economica delia corporacione*   Lo Stato fascista che in política non è reacionário ma rivo-  lucionario, in quanto anticipa le solucioni di problemi comuni  a tutti i popoli, in economia dimostra in maniera inequivo-  cabile il suo carattere morale e storico perchè è proprio nella  disciplina dei fatti economici che si rivela la maturità di una  collettività organiccata e si dimostra la capacità creativa di  una nuova dottrina, che, come quella dei Fascismo, è pensiero  ed acione*   II Duce, il 16 ottobre deiranno X, innanci a migliaia di  gerarchi convenuti a Roma per la celebracione dei decennale  si domandò: « Questa crisi che ci attenaglia da quattro anni  è una crisi dei sistema o nel sistema?»* II 14 novembre XII,  data che segna Tinicio delia fase risolutiva delia politxca corpo¬  rativa dei Fascismo, il Capo rispose a quella grave domanda    10    con un fondamentale discorso al Consiglio Nazionale delle  Corporazioni, nel quale sono precisati i caratteri particolari  deli' Economia corporativa.   Egli in quella storica assemblea affermò in maniera recisa  che la crisi è penetrata cosi profondamente nel sistema da  diventare una crisi dei sistema . Non è piú un trauma, e una  malattia costituzionale, Egli disse.   Se meditiamo intorno aH'affermazione dei Capo per com-  prendere i motivi storici che 1'hanno determinata, riconosciamo  súbito che una profonda rivoluzione si è operata tanto nel  sistema di produzione quanto nelle organizzazioni politi-  che che hanno retto sino a pochi anni or sono i diversi  paesi civili.   Egli ha definito il capitalismo e ne ha tracciato la storia che  ha vissuto nel secolo scorso: la nascita, il culmine, il declino.   L/analisi che il Duce ne fece in quello storico discorso è cosi  perfetta che se ne trascrivono qui di seguito concetti e parole,  sostanza e forma.   «Giunto alia sua piü perfetta espressione — ha detto il  Duce — ü capitalismo è un modo di produzione di massa per un  consumo di massa, finanziato in massa attraverso Temissione  dei capitale anonimo nazionale e internazionale. II capitalismo  è quindi industriale e non ha avuto nel campo agricolo manife-  stazioni di grande portata ».   Nella storia dei capitalismo tre periodi si distinguono: il  periodo dell’ascesa; il periodo delia massima potenza; il per iodo  delia decadenza.   II primo periodo è quello che va dal 1830 al 1870. Coincide  con la introduzione dei telaio meccanico e con 1'apparire delia  locomotiva. Sorge la fabbrica. La fabbrica è la tipica manife-  stazione dei capitalismo industriale. È 1'epoca dei grandi mar-  gini e quindi la legge delia libera concorrenza e la lotta di tutti    ir      contro tutti può giuocare in pieno. È il período in cui un grande  fervore di attività pratica awince i popoli e in cui la scienza  che aveva saputo carpire alia natura i suoi gelosi segreti offre  aU'uomo mezzi formidabili di conquista e di dominio. In  Inghilterra, in Francia, in America, si disfrenano concorrenze  acerbe e si tentano imprese ardite.   In questi 40 anni vi sono dei caduti e dei morti, ma in  questo periodo le crisi sono crisi cicliche che si ripetono ad  intervalli di tempo, non sono nè lunghe nè universali.   II capitalismo è nel periodo migliore delia sua vita.   Ha ancora tale vitalità e tale forza di recupero che può  superare brillantemente e rapidamente le awersità delia con-  giuntura economica.   L'attività imprenditrice trova facilmente le condizioni favo-  revoli per il suo sviluppo, poichè grandi sono le possibilità dei  mercati di consumo mentre limitate sono ancora le capacità  delia produzione.   È 1'epoca in cui Turbanesimo si sviluppa e si inizia 1'esodo  rurale. Le città che divengono centro delia produzione capi-  talistica si accrescono vertiginosamente.   In questo primo periodo dei capitalismo — awerte il  Duce — la selezione è veramente operante. Ci sono anche  delle guerre, ma sono guerre brevi che non possono essere  paragonate alia guerra mondiale. Esse eccitano anzi, in un certo  senso, 1 ’economia delia Nazione.   In America comincia la faticosa e dura conquista delle  sterminate campagne dell'ovest, che ha avuto i suoi rischi ed i  suoi caduti come ogni grande conquista. Mentre si vengono  organizzando le formidabili aziende agricole degli Stati dei  sud, le città deli’Atlântico raggiungono un enorme sviluppo.   II ricordato periodo dei capitalismo che dura 40 anni e  potrebbe essere compreso tra 1'apparire delia macchina a    xa     vapore e il taglio deiristmo di Suez, è certamente tra i piü  dinamici che la storia ricordi* Esso è caratterizzato daSassenza  dello Stato nella vita economica*   II Duce ha detto che durante questi 40 anni lo Stato si limita  ad osservare* Esso è assente, e i teorici dei liberalismo dicono:  ((voi, Stato, avete un solo dovere, di far si che la vostra esi-  stenza non sia nemmeno awertita nel settore deireconomia*  Meglio governerete, quanto meno vi occuperete dei problemi  di ordine economico »♦   Con il 1870 ha inizio il secondo período* II Duce ha dimo-  strato che da quel momento si awertono i primi sintomi delia  stanchez^a e delia deviazione dei mondo capitalistico* La fer¬  vida e sana lotta per la vita, la libera concorrenza, la selezione  dei piú forte, non si esplicano piü col primitivo vigore, con  quella energia e anche con queirentusiasmo che si è riscontrato  nel período precedente*   Lo documentano i numerosi cartelli, sindacati, consorzh  Si inizia Tèra dei trust.   Si può dire che ormai non ci sia settore delia vita economica  dei paesi di Europa e di America dove queste forze che carat-  terizsano il capitalismo non si siano formate*   La conseguenza di questo stato di cose, che gli economisti  liberali, ossequienti ai dogmi fondamentali dei classici, non  awertirono, fu di una importanza grandíssima: la fine delia  libera concorrenza * Essa rimase una parola morta*   La capacità di assorbimento dei mercato non corre paralle-  lamente alia crescente capacità produttiva; il saggio desinte¬  resse e dei profitto, cioè il rapporto tra il guadagno ricavato e  la quantità di capitale impiegato neirimpresa, si riduce forte¬  mente* Essendosi ristretti i margini, Timpresa capitalistica  trova che anzichè lottare è piú conveniente accordarsi, fon-  dersi, dividersi i mercati ripartendo i profitti*    13           La stessa legge delia domanda e deirofferta sulla quale è  stata costruita la teoria economica dalla quale dipende il  sistema scientifico elaborato dai classici deireconomia, non può  piü agire con libertà nella nuova realtà economica che si è  venuta formando* Attraverso i cartelli e i trusts si può agire  sulla domanda di merci e specialmente suirofferta che di  queste può essere fatta in un determinato mercato*   Questa economia capitalistica coalizzata, trustizzata, sempre  meno idônea a vivere di vita própria, cerca di agire sullo Stato  onde ottenere favori leciti o illeciti* Essa chiede anzitutto la  protezione doganale*   II liberalismo viene colpito a morte, ma gli economisti non  se ne accorgono: continuano imperterriti la loro costruzione  astratta, avulsa dalla realtà economica, come se il mondo eco-  nomico da cui avevano pur tratto gli elementi delia loro costru¬  zione scientifica non li riguardasse piü* La dottrina economica  che aveva esaltata la libertà in ogni forma di attività e Tassen-  teismo dello Stato, viene ad essere colpita proprio da quelle  forze che erano cresciute nel periodo dei trionfo*   Gli Stati Uniti d'America, fra i primi, elevarono delle barriere  doganali quasi insormontabili; essi si giustificarono con 1'afferma-  zione che le loro industrie erano giovani e avevano bisogno di pro-  tezione e di difesa per poter crescere e prosperare* Come TAme-  rica, altri paesi hanno via via elevato barriere sempre piü estese  e piü alte: oggi la stessa Inghilterra, che per tanto tempo aveva  predicato e sostenuto il liberalismo economico, perchè tornava  tanto utile alia sua organizzazione economica, e agli interessi dei-  T Impero britannico, ha abbandonato il liberalismo, rinnegando  tutto ciò che ormai sembrava tradizionale nella sua vita polí¬  tica, economica, sociale, rinnegando una dottrina scientifica delia  quale si era fatta banditrice e tutrice* Ad Ottava fu varata la costi-  tuzione di un'economia chiusa fra la Madre Patria e i dominions*    14      i    Í 1 período che il Duce ha definito período statico e che  inizia col 1870, finisce con la guerra*   Dopo la guerra, e in conseguenza delia guerra, Fimpresa  capitalistica si inflaziona* Incomincia la decadenza* « L/ordine  di grandezza delFimpresa — ha detto il Duce — passa dal  milione al miliardo* Le cosidette costruzioni verticali, a vederle  da lontano, danno Fidea dei mostruoso e dei babelico* Le stesse  dimensioni delFimpresa superano la possibilità delFuomo.  Prima era lo spirito che ave va domina to la matéria, ora è la  matéria che piega e soggioga lo spirito* Quello che era fisio¬  logia diventa patologia, tutto diventa abnorme »*   II capitalismo giunto al parossismo, non sapendo piú come  giustificare la sua esistenza e trovare i mezzi di vita indispen-  sabili alFazione, non volendo riconoscere la nuova realtà delle  cose, crea una utopia: Futopia dei consumi illimitati* II Capo  ci ha detto che Fideale dei supercapitalismo sarebbe la stan-  dardizzazione dei genere umano dalla culla alia bara*  Questa esigenza è la lógica conseguenza delle cose, perchè sol-  tanto con la standardizzazione dei gusti il supercapitalismo pensa  di poter fare i suoi piani* L f impresa capitalistica cessa di essere  -*un fatto meramente economico per divenire un fatto sociale*  È questo il momento preciso nel quale F impresa capitalistica,  quando si trova in difficoltà, si getta nelle braccia dello Stato*  È questo il momento storico in cui nasce e si rende sempre  piú necessário Fintervento dello Stato*   Lo Stato ha il dovere di intervenire appunto perchè Fim¬  presa capitalistica di cui si discorre non è soltanto un # impresa  economica: essa interessa direttamente la collettività* Lo Stato  ha il diritto di intervenire per evitare che le sane energie delia  Nazione si disperdano e che la sacra forza dei lavoro dei popolo  si prodighi in forme che possono essere nocive alia stessa  vita e potenza delia Nazione*    15          Ormai il maggior numero di imprese economiche si vale  degli aiuti dello Stato; coloro che ignoravano il suo intervento  lo cercano affannosamente* II Duce ha detto che oggi siamo al  punto in cui se in tutte le Na^ioni di Europa lo Stato si addor-  mentasse per 24 ore, basterebbe tale parentesi per determinar e  un disastro.   « Questa è la crisi dei sistema capitalistico preso nel suo  significato universale »♦   Quanto alia Nasione italiana, che fonda la própria economia  prevalentemente sulFagricoltura e sulFartigianato, sulla piccola  e media industria, la vicenda capitalistica non ha avuto che  aspetti e conseguenze limitatu   II supercapitalismo degenerato e pernicioso da noi non esiste  e laddove esso è nato, già è moribondo: esiste invece una nume¬  rosíssima schiera di piccoli e medi produttori che vivono dei  quotidiano lavoro, che ignorano le awenture dei sedicenti  industriali e dei pseudo banchieri; i quali, sorti in numero  impressionante durante e dopo la conflagra^ione europea,  avrebbero preteso di continuare a pescare nel torbido che essi  avevano provocato e che poi tendevano a mantenere* Questi  awenturieri, che ebbero assicurati dalFinfla^ione e dalFau-  mento dei pressi elevati profitti, non furono, almeno nel nostro  Paese, che una sparuta minoran^a, la quale è stata duramente  punita dalle stesse vicende delFeconomia.   L/Italia non è una Nazione capitalistica nel senso or ora  ricordato* L/essenza delFeconomia italiana è stata precisamente  definita dal Duce nei termini seguenti: Fltalia deve rimanere  una Nazione ad economia mista, con una forte agricoltura  che è la base di tutto, una piccola o media industria sana, una  banca che non faceia delle speculasioni, un commercio che  adempia al suo insostituibile compito che è quello di portare  rapidamente e razionalmente le merci al consumatore*   16          Esaminato lo svolgimento attraverso il quale si è compiuto  il ciclo di vita dei liberalismo economico e dei supercapita-  lismo, sepolto ufficialmente il 14 novembre 1933, con lo storico  discorso dei Duce per lo Stato corporativo; dimostrata fallace  la creden^a neiruniversalità dei liberalismo a torto giudicato  e ritenuto método storico ed universale, è opportuno soffer-  marsi sulle profonde antitesi che differen^iano Fascismo e  socialismo*   La dottrina fascista nega quel materialismo storico sul quale  si imperniano la conce^ione política e quella economica dei  socialismo*   Secondo la dottrina marxiana le vicende delia società umana  si spiegano soltanto con la lotta d'interessi fra i diversi gruppi  sociali* Sono soltanto i fatti economici che hanno importan^a  nella vita delbuorno; soltanto essi sono capaci di promuovere  nuove forme di vita civile, di determinare aspetti e configura-  zioni diversi nella società* Nessun peso hanno invece i motivi  ideali, nessuna importanza la tradi^ione, il culto delia Patria  e degli Eroi, il desiderio di portare sempre piú in alto i destini  delia Na^ione*   In questo senso liberalismo e socialismo tradiscono una  comune origine dottrinale* Tanto che non è per mero caso  — come ha rilevato il Duce — che il tramonto delFuno  coincida col tramonto delFaltro*   Non è certo il Fascismo, che ha instaurato nella vita política  e sociale un senso virile delia realtà, che possa negare Timpor-  tanza delheconomia, come fattore delia vita dei popoli* Ma  il Fascismo crede ancora e sempre nella santità e nelheroismo,  cioè in atti nei quali nessun motivo economico lontano o vicino  agisce*   La lotta degli interessi è stata ed è un agente principale delle  trasformazioni sociali, ma non può essere concepita come    3-4    17         movente esclusivo delbevoluzione delia società. La fallacia dei  materialismo storico e dei determinismo economico sta appunto  in questa concezione, per cui gli uomini non sarebbero che com-  parse nella storia, incapaci di dirigerla o crearla, quasi fantocci  in balia dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano  le vere forze direttrici, che sarebbero le forze dell’economia.   Accettare una simile concezione delia vita significa annullare  qualsiasi forza morale e riconoscere 1'incapacità dell’uomo a  creare la sua storia.   II socialismo che si basa sul materialismo storico e sul con-  cetto delia lotta di classe e che mira attraverso questa a creare  forme di convivenza sociale nelle quali siano alleviate le sof-  ferenze degli umili, dimostra una singolare ingenuità dottri-  nale e una paurosa sterilità politica.   Esso voleva raggiungere un ideale, materialistico, massimo  benessere per tutti i componenti la collettività, credendo che  in siffatta maniera si sarebbe ottenuta la felicità. E la mèta  era da conquistare attraverso la socializzazione di tutti i mezzi  di produzione, l'annullamento dei diritto di proprietà, la  spersonalizzazione di ogni attività economica, il sacrifício delia  iniziativa individuale, la negazione di una funzione produttiva  al capitale. II difficile compito delia produzione dei beni eco-  nomici sarebbe stato lasciato ad un mastodontico Stato mate¬  rialistico, le cui delicate funzioni sarebbero esercitate da un  esercito di burocrati. A questo Stato socialista, accentratore e  déspota, padrone di ogni bene economico, si sarebbe dovuti  giungere, secondo la profezia di Cario Marx profezia  mancata — attraverso un processo di graduale e continuo  accentramento delia produzione industriale e dei capitale in  mano di pochi, a cui sarebbe stato assai facile il toglierlo per  trasferirlo in seno alio Stato e creare cosi, con 1’usurpazione,  la nuova realtà economica dei socialismo.    18    Le previsioni di Cario Marx non si sono verificate:  fra tutte la caduta dei saggio di interesse e dei profitto,  rappresenta il punto cruciale delia dottrina socialista* II saggio  d'interesse, che costituisce la retribuzione che si deve al capi-  tale, cioè il prezzo che si paga per Fuso dei medesimo, è un  dato di fatto che non si può smentire; le recenti esperienze  di economia socialista dimostrano che laddove ufficialmente il  saggio d'interesse si nega, si uccide anzitutto ogni stimolo  al risparmio e poi nella realtà delia vita economica esso risorge  per infinite vie diverse, e con estrema frequenza assume la  vecchia forma delFusura*   II socialismo come sistema economico e anche come sistema  politico-sociale ha quindi peccato di ingenuità per non dire  di viltà: esso non ha saputo guardare con occhio sereno e pene¬  trante nella realtà dei fatti economici per distinguere ciò che  era contingente e relativo a determinate situazioni di tempo  e d'ambiente, da ciò che è eterno e connaturato con lo spirito  deiruomo*   Al contrario il Fascismo, che ignora le snervanti logomachie  e gli oziosi e raffinati ragionamenti intessuti su premesse  metafisiche, e che invece ama Tosservazione delia realtà per  costruire su solide basi non solo la dottrina ma le opere  e gli istituti, ha da tempo affermata la sua fede nella inizia-  tiva privata, come fattore insopprimibile delia produzione  economica*    Ma questa iniziativa privata non è libera di svolgersi nelle  maniere piú diverse per dominare il campo economico; si  tratta di una iniziativa privata la quale deve essere regolata,  controllata, disciplinata dallo Stato che la ospita e la difende,  la tutela e Tincoraggia, non perchè essa formi solo la fortuna  personale di colui che la esercita, ma in quanto lo scopo  raggiunto coincida con le necessità e le finalità dello Stato*             La dottrina economica dei Fascismo riconosce inoltre una  funzione al capitale, il quale costituisce il frutto dei lavoro  deiruomo, risparmiato e impiegato nei nuovi processi produt-  tivi. In tal modo essa esalta la virtú dei risparmio, come mezzo  per aumentare la potenza economica delia Nazione e quindi  per dare vigore e sostanza all’azione política.   Riconosce la fondamentale funzione delia proprietà privata,  la quale non è piú intesa nel senso liberale, di diritto di godere  e disporre delle cose nella maniera piú assoluta, ma e intesa  come dovere sociale. II suo esercizio e quindi limitato da leggi  le quali subordinano 1'interesse deli’indivíduo a quello dello  Stato. In ogni caso però lo Stato fascista, pur giungendo anche  alia espropriazione, fa si che non si creino sperequa£ÍonÍ a  danno dí particolarí individui, poiche in esso il senso romano  dei diritto e delia equità è sempre vigile e operante,   Dovere sociale è anche Fesercizio delFimpresa, cioè 1 espli-  ca^ione delFini^iativa privata, II Fascismo, pero, se pur rifugge  dal concetto esclusivo di impresa statale, proprio dei socialismo,  non ripudia, come fa il liberalismo, la possibilita, anzi ammette  la necessita, che certe imprese che eserciscono pubblici servizi o  che rivestono generalissimi interessi, sieno esercitate dallo Stato,  Nel campo dei lavoro, poi, il Fascismo è Stato rivoluzionario  in maniera veramente superba, Esso, che ha sempre intesa  la storia, cioè il passato, come base dei presente dal quale si  diparte Fawenire, non ha mai sacrificato con leggetezzz e  superficialità, per amore di novità, quello che era il frutto delia  tradizione e la conquista delle passate generaçioni, II Fascismo  ha inserito sul tronco delia storia italiana le sue audaci inno-  vazioni rivolusionarie, Tra queste, principalissime quelle nel  campo dei lavoro.   Durante tutto Í 1 secolo XIX la posicione dei lavoratore  rispetto alF impresa, era in condizioni di soggezione, II lavoratore    20      era alia mercê deirimprenditore, il quale, avendo una netta  superiorità economica, poteva imporre le condizioni e gover-  nare il cosidetto mercato dei lavoro*   II Fascismo, superando il concetto delia lotta di classe,  dimostrando fallaci le dottrine che ad essa si ispirano, ha  anche posto in evidenza che il connubio tra il liberalismo e il  socialismo, proprio dei periodo storico in cui vi era il libero  sindacato degli operai che cocava contro il libero sindacato  dei datori di lavoro, poteva causare perdite gravissime per la  Nazione, la quale non otteneva da questa forma di libera con-  correnza tra sindacati quel massimo di utilità che le dottrine  dei classici delheconomia pronosticavano*   Inserendo il sindacato nello Stato, non ha attuato una forma  di socialismo di Stato, come era preconizzato dagli osservatori  superficiali e dai nemici irriducibili delia nuova Idea, ma ha  realizzato in maniera giuridica le vere e giuste aspirazioni dei  popolo senza sacrificare Timpresa, superando la lotta di classe,  sostituendo al diritto di sciopero e di serrata, il dovere nazionale  dei lavoratori e degli imprenditori*   Ha raggiunto un nuovo sistema di equilibrio senza cadere  in grossolane contraddizioni e senza fare una dolorosa espe-  rienza piena di inenarrabili sacrifici per le classi operaie,  quale hanno fatto coloro che vollero applicati gli schemi  marxisti*   II lavoro non è piú considerato una merce che si vende sul  mercato e il salario non è piú un prezso che si forma nel con¬  trasto fra merce offerta e merce domandata*   II lavoro è un diritto e non una concessione*   II Duce, infatti, ci ha detto che in tutte le società nazionali  c'è la miséria inevitabile; però quella che deve angustiare il  nostro spirito è la miséria degli uomini sani e validi che cer-  cano affannosamente e invano il lavoro*    21             Per questo il Fascismo considera il lavoro come un diritto.  E il Regime ha creato a questo scopo, come vedremo, Istituti  nuovi, non per dare forma ai suoi schemi dottrinali ma per  dare risultati positivi, concreti, tangibili alia sua azione: per  far si che il diritto al lavoro dei popolo italiano non rimanga  una mera affermazione dogmatica, ma possa estrinsecarsi nella  nuova realtà economica dei nostro Paese.     política economica e monetaria                            LA POLÍTICA DEL LAVORO   L A política dei lavoro ha le sue tavole fondamentali nella  Carta dei Lavoro*   Questa costituisce una dichiarasione política di basilare  importanza; insorge contro la concezione liberale che considera  il lavoro come merce, e afferma che «il lavoro sotto tutte le  sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche,  manuali, è un dovere sociale »♦   Lo strumento creato dal Fascismo per regolare le condidoni  di lavoro è il contratto collettivo, nel quale trova la sua espres-  sione concreta la solidarietà dei vari fattori delia produ zione,  mediante la conciliasáone degli opposti interessi dei datori  di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi  superiori delia produzione*   La solidarietà fra tutti i fattori delia produzione, e non  soltanto tra imprenditori e lavoratori delia stessa categoria, è  proclamata nella dichiarasione 4 a , la quale assegna al contratto  collettivo di lavoro la delicata e difficile funzione di concretarla*  La Carta dei Lavoro (dichiarazione 3 a ) afferma che la orga-  nizzasione professionale e sindacale è unica* II solo Sindacato  legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello Stato  ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di  datori di lavoro e di lavoratori per cui è costituito, di tutelarne  di fronte alio Stato o alie altre associazioni professionali gli  interessi, di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori  per tutti gli appartenenti alia categoria, di imporre loro contri-  buti ed esercitare rispetto ad essi funsioni delegate d'interesse  pubblico*   II Sindacato ha il compito di tutelare gli interessi delle  categorie, ma nello stesso tempo ha Fobbligo di promuovere    25             in tutti i modi Taumento e il perfezionamento delia produ-  zione e la riduzione dei costi; esso deve anche adoperarsi per  il conseguimento dei íini morali deirordinamento corporativo*   Nella Carta dei Lavoro come si reagisce alia concesione dei  lavoro come merce, si introduce il concetto di salario giusto ed  equo, che sarebbe il salario corporativo, in quanto esso deve  uniformarsi « alie esigenze normali di vita, alie possibilità delia  produzione e al rendimento dei lavoro»*   Aggettivi e condizioni, quelli e queste, che equivalgono ad  eresie per gli economisti classici, pei quali non esiste altra  giustizia in economia se non quella stabilita dal ptezzo di equi¬  líbrio, determinato dairincontro delhoíferta e delia domanda  di lavoro* Poichè — essi hanno sentenziato — il fatto econo-  mico è un fatto naturale, meccanico e perciò non può essere  nè giusto nè ingiusto, come una reazione chimica o la caduta  di un grave*   La Carta dei Lavoro risolve felicemente il problema delia  determinazione dei salario giusto, cioè di un salario che garan-  tisca al lavoratore un minimo di tenore di vita sen2;a che esso  incida sul giusto profitto delhimprenditore* E siccome questa  determinazione non è suscettibile di una solucione di carat-  tere generale, essa lascia un grado sufficiente di elasticità, che  permette al salario di essere il risultato di un accordo contrat-  tuale convenuto fra sindacati* Le ragioni economiche sono  perciò mirabilmente armoni^ate con quelle sociali e politiche;  il senso di alta umanità, cui si ispira il fondamentale docu¬  mento politico in matéria di lavoro, viene confermato nella  dichiara^ione 18 a , la quale assicura al lavoratore la continuità  dei salario anche in seguito al verificarsi di determinate  evenien2;e*   «Nelhimpresa a lavoro continuo, il trapasso delhazienda  non risolve il contratto di lavoro e il personale ad essa addetto    36     conserva i suoi diritti nei confronti dei nuovo titolare. Egual-  mente la malattia dei lavoratore, che non ecceda una deter-  minata durata, non risolve il contratto di lavoro. II richiamo  alie armi o il servizio delia M. V. S. N. non è causa di licen¬  ciamento ».   Ispirata alia stessa preoccupazione di tutelare il lavoratore è  la dichiaracione 14 a , la quale stabilisce che la retribucione deve  essere corrisposta nella forma piú consentânea alie esigence  dei lavoratore e dell'impresa.   Quando la retribucione sia stabilita a cottimo, e la liquida-  zione di cottimo sia fatta a periodi superiori alia quindicina,  sono dovuti adeguati acconti quindicinali o settimanali. II  lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici,  viene retribuito con una percentuale in piü rispetto al lavoro  diurno.   Ma la parte fondamentale relativa alia determinacione dei  salario, merita qualche consideracione.   Ancitutto va osservato che le condicioni di vita, a cui deve  uniformarsi il salario, non sono qualche cosa di astratto e di  costante, ma, essendo in stretta relacione con le condicioni  dell’economia nacionale, subiscono continue variacioni col  progresso generale di questa. Per esse non bisogna intendere  il minimo necessário per la vita fisica dell'individuo, ma un  livello sufficiente a consentire 1'elevacione dei lavoratore.   Questa concecione morale delia vita persegue anche finalità  di carattere economico. Le cattive condicioni dei lavoratori  non solo riducono la capacità di consumo dei mercato interno,  per il quale gran parte degli imprenditori producono, ma  ne menomano anche il rendimento, ostacolando il progresso  economico e civile.   II secondo elemento che bisogna tener presente nella deter-  minacione dei salario è dato dalle possibilità delia producione.    27              í   Si è detto che la Carta dei Lavoro ha sempre presente il rag-  giungimento di una finalità di carattere superiore e cioè quella  di aumentare la potenza política ed economica delia Nazione.  Si comprende, quindi, come sia stata sua preoccupazione  costante quella di far si che il salario venga stabilito in maniera  tale da non causare 1'annullamento dei giusto profitto che deve  percepire 1'imprenditore, perchè in tal caso si annullerebbe lo  spirito d'intrapresa, lo stimolo al risparmio e quindi si inaridi-  rebbero le fonti delia ricchezza, che sono le fonti dei lavoro.  Tale disposizíone non deve essere perciò interpretata soltanto  come difesa delPimpresa, perchè con 1’aumento delia potenza  economica si creano nuove fonti di lavoro.   È anche per questo motivo che la Carta dei Lavoro affida la  concreta determinazione dei salario ai liberi accordi contrattuali;  essa ha perfettamente inteso che questa matéria deve essere  disciplinata seguendo con grande accortezza le contingenze  economiche. Qualora non fosse consentita la indispensabile  elasticità, le ricordate disposizioni si risolverebbero in un danno  altrettanto grave per i lavoratori quanto per gli imprenditori.   I ricordati criteri non devono essere mai dimenticati nè dalle  associazioni sindacali nè dalla Magistratura dei Lavoro.   L’ultimo elemento fissato dalla Carta dei Lavoro per proce-  dere alia determinazione dei salario è il rendimento dei lavoro.  Con questa disposizione la Carta dei Lavoro ha voluto ricono-  scere in maniera esplicita che anche tra i lavoratori il concetto  di differenziamento, in relazione alie singole capacità, deve  essere tenuto presente onde evitare di agguagliare i singoli ed  eliminare le naturali diversità nelle attitudini e nella capacità  di lavoro. Ciò costituisce anche un vantaggio sociale che non  poteva essere trascurato dal Fascismo il quale cerca sopratutto  di ottenere che i singoli elevino loro stessi servendo la causa  dei Paese.    28      II salario non deve quindi essere necessariamente eguale per  tutti gli operai, nè per tutti i generi di lavoro* Esso varia inoltre  in relacione al luogo e al tempo*   II comune, piü generale e forse piü antico sistema di retri-  buzione è quello dei salario a tempo, corrisposto in base al  numero di ore o di giorni di lavoro prestato: forma che pre-  scinde dal rendimento perchè fa astrazione dalla quantità di  lavoro compiuto* Accanto a questo vecchio sistema, che alio  svantaggio di richiedere una assidua sorveglianza unisce quello  di mancare di sufficiente stimolo, si sono venute affermando  forme di retribuzione che vanno sotto il nome di salario a  incentivo * Questo va esente dai ricordati inconvenienti, ma anzi  stimola Tattività delboperaio e quindi la produttività dei lavoro*  Questi indiscutibili vantaggi possono però essere accompa-  gnati da svantaggi considerevoli, specie se considerati dal  punto di vista nazionale* E consistono appunto nella qualità  piú corrente o ordinaria delia produzione e specialmente nel  periodo di uno sforzo eccessivo dei lavoratore che, se lunga-  mente protratto, può essere nocivo per la salute deiroperaio.   I vantaggi che con questo sistema si conseguono sono però  tanto importanti da renderlo preferibile ogni qual volta sia  opportunamente regolato* Come fa la Carta dei Lavoro quando  si preoccupa delle conseguenze dei sistema a cottimo nei  riguardi dei lavoratori meno capaci, che non arrivano ad otte-  nere un reddito corrispondente alia paga base* Per la loro  tutela la Carta dei Lavoro dichiara che « quando il lavoro sia  retribuito a cottimo le tariffe di cottimo devono essere deter-  minate in modo che alPoperaio laborioso, di normale capacità  produttiva, sia consentito di conseguire un guadagno minimo  oltre la paga base»*   Lo scopo dei legislatore fascista, regolando questa matéria  dei salario a cottimo nel modo indicato, è stato quello di sti-                  molare attraverso di esso, nel lavoratore, la convenienza ad  incrementare la produzione, legandolo alia rnedesima, assi-  curando altresi un trattamento che non determini grandi  disparità di retribuzione tra i singoli lavoratori e nello stesso  tempo non sia motivo di logorio fisico delPoperaio.   Obbligando il lavoratore a una fatica superiore alie sue medie  possibilità, si crea un sistema di lavoro privo dei requisiti fon-  damentali dei lavoro fascista, che deve essere gioia creatrice  e non grigia fatica che stanca e non piace. Per questo il Fasci¬  smo non è mai stato molto entusiasta dei sistemi di paga  che hanno avuto tanto furore e cosi estesa applicazione nei  Paesi dei supercapitalismo e specialmente negli Stati Uniti  d’America. I sistemi basati sulla cosidetta organizzazione  scientifica dei lavoro e che fanno capo al taylorismo, spesso  fiaccano la fibra delPoperaio costringendolo ad un lavoro mec-  canico monotono e sempre eguale senza varietà e diversioni  capaci di sollevare lo spirito dei lavoratore.   I vari sistemi — Rowan, Halsey e Bedeaux — si ispi-  rano tutti in sostanza al concetto di fissare la paga in  relazione al rendimento dei singolo e indipendentemente o  quasi da certi minimi, che diremmo di carattere umanitario.  Lo Stato corporativo, pur stimolando la nobile e generosa  gara dei lavoratore non vuole che questo si trasformi in  una parte di macchina; questi razionalissimi sistemi, frutto  esclusivo delia ragione e dei calcolo, che fanno astrazione  da qualsiasi caratteristica individuale, trasformano invece il  lavoratore in una parte delia macchina di cui egli. diventa  il servo.   II problema non va quindi impostato da un punto di vista  meramente e prettamente economico e materiale, ma va con-  siderato anche da un punto di vista etico, sociale e político,  come lo ha considerato lo Stato corporativo che non opera    30     guardando solo il presente, ma con gli occhi e 1’anima tesi  sopratutto verso 1'awenire.   La determinazione dei salario rappresenta la parte piú  importante e delicata dei contratti di lavoro e va affrontata  con animo mondo da qualsiasi preoccupazione partigiana e  demagógica; va affrontata, cioè, con spirito fascista, con spirito  che armonizza in una perfetta unità i due maggiori fattori delia  produzione: il lavoro e il capitale.    LA CORPORAZIONE   L'idea centrale e fondamentale che caratterizza nel terreno  economico e sociale la Rivoluzione delle Camicie Nere, è la  Corporazione . II Corporativismo è espressione essenziale dei  Fascismo,   Che cosa siano le Corporazioni lo ha definito il Duce nello  storico discorso dei novembre XII, al Consiglio Nazionale  delle Corporazioni.   Le Corporazioni, secondo la definizione datane dal Duce,  sono «lo strumento che, sotto 1 'egida dello Stato, attua la  disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive,  in vista dello sviluppo delia ricchezza, delia potenza política  e dei benessere dei popolo italiano». II corporativismo — ha  ancora affermato il Duce — «è Teconomia disciplinata, e  quindi anche controllata, perchè non si può pensare ad una  disciplina che non abbia un controllo: il corporativismo supera  il socialismo e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi».  È cioè la sintesi dei contrastanti interessi di categoria e di gruppo  nel supremo interesse delia società nazionale.   II corporativismo implica quindi anzitutto una perfetta e  completa conoscenza dei vari settori deireconomia nazionale;    31                delia loro portata economica assoluta e relativa. Implica un  indirizzo di política economica conforme a certe finalità sociali  che lo Stato ritiene piú vantaggiose per la collettività nazionale.   Diciamo portata assoluta e relativa delle diverse attività  economiche delia Nazione, perchè non tutte hanno la stessa  importanza per gli interessi che rappresentano o per i fini che  lo Stato fascista persegue. Non mancano, nel campo agricolo  come in quello industriale, modeste attività in confronto di  larghi generali interessi economici. II liberalismo può atten-  dere dal cozzo la soluzione che pel solo suo trionfo ritiene  socialmente piú vantaggiosa; il corporativismo no. Deve appro-  fondire 1'importanza relativa di ogni branca dell'attività  economica e con una visione nazionale, organica quindi e inte-  grale, evítare che limitati interessi, anche se potenti, deprimano  interessi ben piú larghi anche se meno agguerriti o protetti.   Discende da ciò che lo Stato corporativo non può difendere  egualmente ogni settore economico, grande e piccolo. Vi sono  settori, attività, branche che ai fini nazionali vanno tutelati  e difesi, in confronto di altri che non meritano eguale tutela.  Una política economica corporativa non può non fare questa  cernita di interessi in armonia ai fini sociali che intende  raggiungere.   Questa è Tessenza dell'economia corporativa.   Vediamoun po' il suo sviluppo storico.   II Duce sin dall’anno I, parlando il 2 giugno ai lavoratori  dei Polesine, affermò il concetto fondamentale delia collabora-  zione: « La lotta di classe — Egli disse — può essere un epi¬  sódio nella vita di un popolo; non può essere sistema quoti¬  diano, perchè significherebbe la distruzione delia ricchezza  e quindi la miséria universale».   « Collaborazione, fra chi lavora e chi dà lavoro, fra chi dà  le braccia e chi dà il cervello — tutti gli elementi delia    32    produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie_*   attraverso a questo prpgramma voi arriverete al benessere, la  Nâsione arriverà alia prosperità e alia grandeza».   E il 32 maggio deiranno II, al Consiglio Nazionale dei  bmdacati fasdsti, il Duce rivolgeva alFassemblea il seguente  richiamo: « La collaborazione di classe deve essere praticata  m due; 1 datori di lavoro non deVono approfittare dello stato  attuale restaurato dal Fascismo, che ha dato un senso di  disciplina alia Nazione, per soddisfare i loro egoismi; essi  devono considerare gli operai come elementi essenziali delia  produzione; devono fare il loro interesse in quanto coin¬  cida con quello delia Nazione e non invece il contrario.  Solo in questo modo si potrà avere una massa realmente   disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alie fortune delia  Patria »*   Nello stesso anno, mviando un messaggio al Congresso delle  Corporazioni Smdacali Fasciste, rilevava che in molte zone la  mtelligente collaborazione di classe era stata realizzata e la  pace era mantenuta. Ciò dimostrava che quando le due parti  sanno mettersi sul concreto terreno delia produzione, la colla-  bora2;ione di classe è possibile*   Nd maggio dell'anno III il Duce, pubblicando in Gerarchia  un articolo su «Fascismo e Sindacalismo» ricordava che sin  al dicembre dei 1921 il programma dei Partito affermava  clie le Corporazioni vanno promosse secondo due obiettivi  rondamentali: e cioè come espressione delia solidarietà nazio-  nale e come mezzo di sviluppo delia produzione.   Le Corporazioni non debbono tendere ad annegare l'indi-  yiduo nella collettività, e a livellare arbitrariamente la capacità e  le torze dei singoli, ma debbono anzi valorizzarle e svilupparle.   In questa schematica dichiarazione vi sono i fondamenti  delia nuova dottrina corporativa*           II Fascismo, conquistato il potere, si dedico con rara energia  a consolidare le istituzioni, a risolvere gli impellenti problemi  posti dalla vita economica dei Paese, senza però dimenticàre  lo sviluppo orgânico delia legislazione corporativa che doveva  portare alia legge fondamentale dei 5 febbraio 1934.   Da un punto di vista dottrinale, e se si vuole anche storico,  lo sviluppo delia Corporazione è contrassegnato da tre fasi o  momenti di importanza fondamentale: la legge dei 3 aprile  1926, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di la-  voro; la legge 20 marzo 1930 sul Consiglio Nazionale delle  Corporazioni; la legge 5 febbraio 1934 sulla costituzione e sulle  funzioni delle Corporazioni.   II legislatore fascista già nella legge dei 1926 forni i primi  elementi giuridici dei nuovo istituto delia Corporazione, e si  può anzi affermare che tutte le disposizioni di quel documento  fossero ispirate a questo concetto fondamentale.   Era 1’idea nuoVa che animava e giustificava Tordinamento  instaurato dalla legge.   Secondo la legge ricordata, 1 * Istituto delia Corporazione  aveva anzitutto lo scopo di attuare la completa collaborazione  tra le categorie, collegando le rappresentanze sindacali dei  lavoratori e dei datori di laVoro dei ramo di produzioni per  cui la corporazione è costituita; di rappresentare in maniera  unitaria gli interessi economici dei proprio settore produttivo  di fronte alie altre categorie.   La delicatissima funzione dei collegamento era esercitata  dallo Stato.   La legge dei 1926 prevedeva, accanto alia organizzazione  sindacale a carattere verticale, una organizzazione corporativa  a carattere orizzontale: la prima serviva per tutelare gli interessi  dei singoli elementi delia produzione, la seconda per la difesa  degli interessi comuni a ogni singolo ramo delia produzione.       Già in questa legge agli organi corporativi fu attribuita la  facoltà di emanare norme generali sulle condizioni di lavor o,  di conciliare le controversie collettive tra le associazioni colle-  gate,di promuovere, incoraggiare e sussidiare tutte le inizia-  tive intese a coordinare e meglio organizzare la produzione,  di istituire uffici di collocamento, di regolare il tirocínio e Í1  garzonato con norme obbligatorie.   II secondo passo di carattere fondamentale sulla via che  doveva condurre alia Corporazione fu fatto con la legge  20 tnarzo 1930, sul Consigho Nazionale délle Corporazioni , la  quale non solo forniva un nuovo strumento giuridico per disci-  plmare i rapporti economici collettivi, ma attribuiva nuovi  compiti e funzioni alie associazioni sindacali. Queste estesero  il loro campo di attività dalla disciplina dei rapporti di lavoro,  al regolamento collettivo dei rapporti economici tra le diverse  categorie delia produzione.   Ma è con la legge dei 5 febbraio 1934 che si dovevano realiz-  sare in maniera definitiva le Corporazioni.   Sin dal 22 aprile delFanno VIII il Capo aveva detto: «il  sindacalismo non può essere fine a se stesso: o si esaurisce nel  socialismo político, o nella corporazione fascista. È solo nella  corporazione che si realizza 1 idea economica nei suoi diversi  elementi: capitale, lavoro, técnica; è solo attraverso la corpo¬  razione, cioe attraverso la collaborazione di tutte le forze conver-  genti ad un solo fine, che la vitalità dei sindacalismo è assi-  curata. È solo, cioe, con un aumento delia produzione e quindi  delia ricchezza, che il contratto collettivo può garantire condi-  zioni sempre migliori alie categorie lavorative. In altri termini,  sindacalismo e corporazione sono indipendenti e si condizio-  nano a vicenda; senza sindacalismo non è pensabile la corpora¬  zione; ma senza corporazione il sindacalismo stesso viene, dopo  le prime fasi, a esaurirsi in un*azione di dettaglio, estranea al    35             processo produttivo; spettatrice non attrice; statica e non  dinamica».   Parlando al popolo di Bari il Duce disse come 1 'obiettivo dei  Regime nel campo economico fosse la realizzazione di una piú  alta giustizia sociale per tutto il popolo italiano. La quale  cosa significa lavoro garantito, salario equo, casa decorosa:  significa la possibilità di evolversi e di migliorarsi incessante¬  mente: significa che gli operai, i lavoratori debbono entrare  sempre piú intimamente a conoscere il processo produttivo  e a partecipare alia sua necessária disciplina.   La fusione di tutte le energie economiche e spirituali  delia Patria doveva awenire in maniera definitiva con la  promulgazione delia legge dei 5 febbraio 1934, che crea su di  un piano orgânico le Corporazioni.   Insediando i Consigli delle Corporazioni, il Capo ne poneva  in rilievo il carattere rivoluzionano, perchè il suo compito  è quello di determinare negli istituti, nelle leggi e nei costumi,  le trasformazioni politiche e sociali che sono necessarie alia  vita di un popolo.   In quell’occasione il Capo si domandava: « occorre ripetere  ancora una volta che le Corporazioni non sono fine a se stesse  ma strumenti di determinati scopi? Ormai questo è un dato  comune.   « Quali sono gli scopi?   « Airinterno una organizzazione che raccorci con gradua-  lità ed inflessibilità le distanze tra le possibilità massime e  quelle minime o nulle delia vita. È ciò che io chiamo una piú  alta giustizia sociale. In questo secolo non si può ammettere  la inevitabilità delia miséria materiale, si può accettare sol-  tanto la triste fatalità di quella fisiológica. Non può durare  l’assurdo delle carestie artificiosamente provocate. Esse denun-  ciano la clamorosa deficienza dei sistema. II secolo scorso    36         proclamo Tuguaglian^a dei cittadini davanti alia legge — e fu  conquista di portata formidabile — il secolo fascista mantiene,  an2;i consolida, questo principio, ma ve ne aggiunge un altro,  non meno fondamentale: Teguaglianza degli uomini dinan^i  al lavoro, inteso come dovere e come diritto, come gioia crea-  trice che deve dilatare e nobilitare Tesisten^a, non mortificaria  o deprimerla.   « Di fronte alhesterno la corpora^ione ha lo scopo di aumen-  tare senza sosta la poten^a globale delia na^ione per i fini  delia sua espansione nel mondo »♦   Col io novembre delbanno XII la grande macchina creata  dal genio dei Duce doveva mettersi in moto. II Capo ammoniva  che non bisogna attendersi immediati miracolL Anzi i miracoli  non bisogna attenderli affatto, perchè il miracolo non appar-  tiene alPeconomia.   La legge attribuisce alie Corporadoni funzioni normative  in matéria economica. Inoltre esse sono chiamate a dar pareri  (compito consultivo) su tutte le questioni che interessano il  ramo di attività per cui sono costituite, tutte le volte sia richie-  sto da organi competenti, nonchè a esercitare la concilia^ione  delle controversie collettive di lavoro.   L'attività delle Corpora^ioni è incominciata neiranno XIII  e molte di esse hanno già lavorato con successo.   Le ventidue corporazioni istituite dal Capo dei Governo  sono elencate qui di seguito e per ciascuna riportiamo la compo-  sizione numérica delle categorie economiche.   Si ricorda che nelle Corporazioni vi è sempre rappresen-  tato il Partito, il quale porta in seno a questo nuovo organismo  la continuità dello spirito rivolu^ionario e la voce delia massa  dei consumatori.    37           PRIMO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con decreto dei Capo dei Governo dei 29 maggio 1934-XII)   1* - CORPORAZIONE DEI CEREALI i>   Produzione dei cereali ♦ * * ♦ * ♦ 7 datori di lavoro e 7 lavoratori   Industria delia trebbiatura ♦ ♦ . * 1 » » » 1 »   Industria molitoria, risiera, dolciaria  e delle paste » » » 3 »   Panificazione ♦ ♦ ..* 1 » » » 1 »   Commercio dei cereali e degli altri  prodotti sopra indica ti ♦ ♦ ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3 »   Cooperative di consumo ♦ * • * « 1 rappresentante   Tecnici agricoli ..♦ 1 »   Artigianato * ♦.♦ ♦ ♦ ♦ 1 »   2. - CORPORAZIONE  DELLA ORTO-FLORO-FRUTTICOLTURA   Orto-floro-frutticoltura ♦♦♦♦♦♦ 6 datori di lavoro e 6 lavoratori   Industria delle conserve aümentari  vegetali ♦*♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 » » » 2 »   Industria dei derivati agrumari e  delle essenze . ♦ * * ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Commercio dei prodotti orto-floro-  frutticoli e loro derivati ♦ ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3 »   Tecnici agricoli 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦ * ♦ ♦.♦ i »   Cooperative di esportatori orto-floro-  frutticoli * ^ ♦ ♦♦♦*♦♦. ♦ i »   3. - CORPORAZIONE VITIVINICOLA   Viticoltura ♦ * ♦ ♦..♦♦♦♦ * 6 datori di lavoro e 6 lavoratori   Industrie enologiche (vini, aceto,  liquori) ♦ ♦♦♦♦♦♦.♦♦♦ 2 » » » 2 »   1) Ogni Corporazione ha tre rappresentanti dei Partito.    38        Industrie delia birra ed affrni ♦ * ♦ 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Produzione delPalcool di seconda   categoria » » » 1 »   Commercio dei prodotti sopra eien-   cati ♦ ♦.. * ♦ ♦ ♦ 3 » » » 3 »   Tecniciagricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ....i »   Cantine sociali ♦ ♦♦♦*♦♦♦♦ 1 . »   4- - CORPORAZIONE OLEARIA   Coltura delPolivo e di altre piante da  olio ♦.♦♦♦♦♦♦♦**♦♦ 5 datori di lavoro e 5 lavoratori   Industria delia spremitura e delia  rafíinazione delPolio di oliva ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Industria delia spremitura e delia  raffinasione delPolio di semi ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Industria delPolio al solfuro ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti oleari ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Tecnici agricoli ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i »   5. - CORPORAZIONE DELLE BIETOLE  E DELLO ZUCCHERO   Bieticoltura ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Industria dello zucchero.1 » » » 1 »   Industria delPalcool di prima cate¬  goria ♦ » » )> i »   Commercio dei prodotti sopra indi-   cati » » » i »   Tecnici agricoli ♦ ♦♦♦♦*♦♦♦ 1 rappresentante   Chimici ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ i »    39                 6 * - CORPORAZIONE DELLA ZOOTECNIA  E DELLA PESCA    Praticoltura e allevamento dei be-  stiame e delia selvaggina . * * ♦  Industria delia pesca marittima e di  acque interne e delia lavorazione  dei pesce * * ♦ * * * * * * * *  Industria dei latte per consumo  diretto **♦♦**♦*♦***  Industria dei derivati dei latte * * ♦  Industria delle carni insaccate e delle  conserve aümentari animali * ♦ *  Commercio dei bestiame * * ♦ ♦  Commercio dei latte e dei derivati *  Tecnici agricoli ***♦♦.*.*  Mediei veterinari *♦♦♦♦*♦*   Latterie sociali.* * ♦   Cooperative di pescatori* *****    8 datori di lavoro e 8 lavoratori    2    2 »    1 » » »   2 » » »    1   2    2 » » » 2   1 » » » I   2 » » » 2   i rappresentante   i )>   i »   i »    »   D    ))    7 * - CORPORAZIONE DEL LEGNO    Produzione dei legno, industria fore-  stale e prima lavorazione dei legno    Fabbricazione dei mobiíio e di oggetti  vari di arredamento domestico * ♦  Produzione degli infissi e dei pavi-  menti ♦******♦**.♦  Produzione dei sughero *****  Lavorazioni varie ********  Commercio dei prodotti sopraelen-  cati *************  Tecnici agricoli e forestali * * * *  Artisti *************  Artigianato * * * *.    2 datori di lavoro agricolo e 2  lavoratori agricoli  2 datori di lavoro industriale e  2 lavoratori industriali   2 datori di lavoro e 2 lavoratori   i )> » » i »   1 » » » i »   2 » » » 2 »   3 » » » 3 »   i rappresentante   i »   i »    40      8 * - CORPORAZIONE DEI PRODOTTI TESSILI    Industria dei cotone ******* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Produzione delia lana ****** 1 » » » 1 »   Industria delia lana* .*♦♦*♦♦* 2 » » » 2 »   Industria dei seme-bachi ***** 1 » » » 1 »   Gelsi-bachicoltura *♦*.***♦ 1 » » » 1 »   Industria delia trattura e delia torci-  tura delia seta ********* 1 datore di lavoro e 1 lavoratore   Industria dei rayon ♦*♦♦♦♦* 2 » » » 2 »   Industria delia tessitura delia seta e  dei rayon **♦*♦♦♦♦♦♦* 2 » » » 2 »   Coltivazione dei lino e delia canapa 2 » » » 2 »   Industria dei lino e delia canapa * * 1 » » » 1 »   Industria delia juta * ******* 1 » » »' 1 »   Industria delia tintoria e delia stampa   dei tessuti. ***** 2 » » » 2 »   Industrie tessili varie * * * * * * * 2 » » » 2 »   Commercio dei cotone, delia lana,  delia seta, dei rayon e degli altri  prodotti tessili; commercio al   dettaglio dei prodotti stessi * * * 3 » » » 3 »   Tecnici agricoli ♦♦*♦*.*** 1 rappresentante   Chimici ♦♦**♦♦*♦**** i »   Periti industriali ********* 1 »   Artisti *♦♦*♦***♦♦♦** i »   Artigiani *♦♦♦***.**** 1 »   Essiccatoi cooperativi ******* 1 »    41    ir           SECONDO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo dei 9 giugno 1934-XII)   9. - CORPORAZIONE DELLA METALLURGIA  E DELLA MECCANICA   Industria siderúrgica ♦ ♦♦♦♦♦* 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Altre industrie metallurgiche ♦ ♦ * 2 » » » 2 »   Industria delia costruzione di mezzi  di trasporto (automobili, moto-  cicli, aeroplani, materiale ferro-   tranviario, costruzioni navali) ♦ . 5 » » » 5 »   Industria delia costruzione delle  macchine ed apparecchi per la  radio e per la generazione, tra-  sformazione e utilizzazione dell f e-   nergia elet trica ♦ 2 » » » 2 »   Industria delia costruzione di mac¬  chine ed apparecchi per uso indu-   striale e agricolo ♦♦♦.♦♦♦* 3 » » » 3 »   Industria delle costruzioni e lavo-  razioni metal liche, fonderie e   impianti » » » 4 »   Industria delia costruzione di stru-  menti ottici e di misura e delia   meccanica di precisione e di armi 2 » » » 2 »   Industria dei prodotti di gomma per   uso industriale ♦ ♦ * * ♦ * * ♦ 1 » » » 1 »   Industria dei cavi e cordoni isolanti 1 » » » 1 »   Oraíi e argentieri » » » 1 »   Commercio dei prodotti sopra indi-   cati ♦♦♦♦*♦♦,♦**.♦5 » » » 5 »   Ingegneri ♦ ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Artigianato ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 »   Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »    42     lo* - CORPORAZIONE DELLA CHIMICA    Industrie degli acidi inorganici,  degli alcali, dei cloro, dei gas  compressi e degli altri prodotti   chimici inorganici ♦ ♦♦♦♦♦♦ 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Industria dei prodotti chimici per  Tagricoltura * ♦ * * * ♦ * * * * 3 » » » 3 »   Industria degli acidi organici e dei  prodotti chimici organici ♦ ♦ ♦ * 3 » » » 3 »   Industria degli esplosivi ♦ ♦ 1 » - » » 1 »   Industria dei fosforo e dei fiammiferi 1 » » » 1 »   Industria dei materiali plastici ♦ **!»»» 1 »   Industria dei coloranti sintetici e dei  prodotti sensibili per fotografie * 2 » » » 2 »   Industrie dei colori mineraH, delle  vernici, delle creme e dei lucidi   per calzature e pellami ♦ * * * * 2 » » » 2 »   Industria saponiera e dei detersivi  in genere, industria stearica e delia   glicerina ♦**♦♦♦♦ ♦ * * ♦ 2 » » » 2 »   Industria degli estratti concianti * 1 » » » x »   Industria conciaria 1 » » » 1 »   Industria degli olii essenziali e sinte¬  tici e delle profumerie . * ♦ * ♦ 2 » » » 2 »   Industria degli olii minerali *.4*2» » » 2 »   Industria delia distillazione dei car-  bone e dei catrame; industria delle   emulsioni bituminose ♦ ♦ ♦ * ♦ * 1 » » » 1 »   Industrie farmaceutiche ♦ ♦ * ♦ ♦ 2 » » » 2 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra indicate * ♦ ♦ * * ♦ ♦ 4 » » » 4 »   Chimici * ♦ * * * • ♦ ♦ ♦ ♦ * * i rappresentante  Farmacisti *♦♦***♦♦♦♦♦ 1 »   Consorzi agrari cooperativi * ♦ ♦ ♦ 1 »    43             ii. - CORPORAZIONE DELL'ABBXGLIAMENTO    Industria deirabbigliamento (con-  fezioni d*abiti, biancheria, ecc.) *  Industria delia pellicceria * * * *  Industria dei cappello ******  Industria delle calzature e di altri  oggetti di pelle per uso personale*  Industria dei guanti *******  Produzione di oggetti vari di gomma  per uso di abbigliamento . * * *  Magliíici e calzifici ********  Produzione di pizzi, ricami, nastri,  tessuti elastici e passamanerie * *  Industria dei bottoni *******  Produsioni varie per Tabbigliamento  Ombrellifici ***********  Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra indicate *******   Artigianato *. *****   Artisti *************    3 datori di lavoro e 3 lavoratori   1 » » » i »   2 » » » 2 , »    2 » » »   I » )) ))    2 »   I »    1 » » )>   2 » » »    1 »   2 »    2 » )) ))   I » » »   I » » ))   I » » »    2 »   I »   I »   I »    4 » » » 4 »   i rappresentante   i »    12* - CORPORAZIONE DELLA CARTA E DELLA STAMPA    Industria delia carta *******  Cartotecnica **********  Industrie poligrafiche ed affini * * *   Industrie editoriali.* *   Industrie editoriali giornalistiche .   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopra elencate ******  Artisti (autori e scrittori, musicisti,  belle arti, giornalisti) ******  Artigianato ***********    2 datori di lavoro e 2 lavoratori   1 » » » i »   2 » » )> 2 »   2 » » » 2 »   2 » » » 2 »   di cui uno giornalista    2 » » » 2 »   4 rappresentanti   i »    44                 13* - CORPORAZIONE DELLE COSTRUZIONI EDILI    Industrie delle costruzioni (costru¬  zioni edilizie e opere pubbliche) ♦  Industria dei laterizi ♦.♦♦♦♦♦  Industria dei manufatti di cemento*  Industria dei cementi, delia calce e  dei gesso ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦.  Industria dei materiali refrattari ♦  Commercio dei materiali da costru-  zione ************  Proprietà edilizia ♦ ♦♦♦♦.♦♦  Ingegneri ♦   Architetti ♦ ♦♦♦♦♦♦ .   Geometri ♦♦*♦♦♦♦♦♦♦♦♦  Periti industriali edili ♦ *.♦♦♦  Artigianato ♦   Cooperative edili ♦♦♦♦♦♦♦.„    4   datori di lavoro   e 4   lavoratori   i   » )> »   ■i   »   i   )> » »   i   »   i   » » »   i   »   i   » » »   i   »   2   » » ))   2   »   I   » M »   i   y>   I   rappresentante     I   »     I      I   »     I   »     I   »      14* - CORPORAZIONE DELL'ACQUA, DEL GAS  E DELLA ELETTRICITÀ    Industria degli acquedotti * * * * 3 datori di lavoro, dei quali un   rappresentante delle aziende mu-  nicipali e 3 lavoratori, dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalú   Industria dei gas ♦♦♦♦♦♦•♦ 3 datori di lavoro, dei quali un   rappresentante delle aziende mu-  nicipali, e 3 lavoratori dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalú   Industrie elettriche.4 datori di lavoro, dei quali un rap¬   presentante delle aziende munici-  palizzate e 4 lavoratori dei quali  un rappresentante dei dipendenti  delle aziende municipalizzate»  Ingegneri 1 rappresentante   Consorzi e cooperative ♦*♦♦♦♦! »         45                15 * - CORPORAZIONE DELLE INDUSTRIE ESTRATTIVE    Industria dei mínerali metaílici * . 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Industria dello zolfo e delle piriti * 2 » » » 2 »   Industria dei combustibili fossili * * 1 » » » 1 »   Industria delle cave (marmo, granito,  pietre ed affini) *♦♦♦♦♦♦♦ 2 » » » 2 »   Lavora^ione dei marmo e delia pietra 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie sopraelencate * 2 » » » 2 »   Ingegneri minerari ♦♦♦♦♦♦♦♦ 1 rappresentante   Periti industriali minerari . ♦ * * 1 »   Artigianato 1 »   16* - CORPORAZIONE DEL VETRO E DELLA CERAMICA   Industrie delle ceramiche artistiche,  porcellane, terraglie forti, semi-   forti, e dolci, grès, abrasivi . • ♦ 4 datori di lavoro e 4 lavoratori   Industrie delle bottiglie * * * . * * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro bianco * ♦ * , 1 » » » 1 »   Industria delle lastre ♦*,■*..* 1 » » » 1 »   Industria degli specchi e cristalli ♦ * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro scientifico (com-  preso quello di ottica) * ♦ * «. * * 1 » » » 1 »   Industria dei vetro artistico e con-  terie ♦ ♦♦♦♦♦♦♦♦***♦ 1 » » » 1 »   Industria delle lampade elettriche ♦ 1 » » » 1 »   Commercio dei prodotti delle indu¬  strie elencate ♦♦*♦♦♦*,, 2 » » » 2 »   Artigianato ♦ 2 rappresentanti   Cooperative 1 »   Artisti ♦ i »    46        TERZO GRUPPO Dl CORPORAZIONI   (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo dei 23 giugno 1934-XII)   17. - CORPORAZIONE  DELLE PROFESSIONI E DELLE ARTI   Sezione dei Professionisti legali:   Awocati e Procuratori ****** 3 rappresentanti (due per gli   awocati e uno per i procuratori)  Dottori in economia ******* 1 rappresentante   Notai ************* i »   Patrocinatori legali ******** 1 »   Periti commerciali ♦ ♦***♦♦* 1 »   Ragionieri ***** .* 1 »   Sezione delle professioni sanitarie:   Mediei ************* 3 rappresentanti   Farmacisti *********** 1 »   Veterinari *********** 1 »   Xnfermiere diplomate ******* 1 »   Levatrici ************ 1 »   Sezione delle professioni tecniche:   Ingegneri ************ 2 rappresentanti   Architetti ************ 2 »   Tecnici agricoli ********* 3 » (uno per i dot¬   tori in agraria e uno per i periti  agrari)   Geometri * * * *.* * * 1 rappresentante   Periti industriali ********* 1 »   Chimici ************ i »   Sezione delle arti:    Autori e scrittori ********* 2 rappresentanti   Belle arti * . *.* * 2 »   Architetti *.♦*•♦****♦♦ 1 »    47                    Giornalisti ♦♦♦♦♦*♦♦♦♦*   Musicisti..   Istituti privati di educazione e istru-  Zione ♦♦♦44»* + *****   Insegnanti privati * ..   Attività industriali ed artigiane di  arte applicata 4444***44   Commercio delParte antica e mo¬  derna ..    i rappresentante   i »   i »   i »   i datore di lavoro e 1 lavoratore  delPindustria; 2 artigiani   i datore di lavoro e 1 lavoratore    i8* - CORPORAZIONE  DELLA PREVIDENZA E DEL CREDITO   Sezione delle Banche:   II Governatore delia Banca dTtalia*   II Presidente delPAssociazione tra le Società Italiane per azioni*  II Presidente dellTstituto di ricostruzione industriale*   II Presidente dellTstituto mobiüare italiano*    Istituti di credito ordinário ♦ ♦ * ♦ 2 rappresentanti   Banche di provincia .. 1 »   Istituti finanziari ♦ *. 1 »   Banchieri privati ♦ * ♦ ♦ * * ♦ , * 1 »   Agenti di cambio 44*4444*1 »   Ditte commissionarie di borsa e   cambiavalute 4444.44** 1 »   Dirigenti di aziende bancarie * * * 1 »   Dipendenti delle aziende bancarie * 7 »   Dipendenti da agenti di cambio * * 1 »    Sezione degli Istituti di diritto pubblico:   I membri di diritto delia Sezione delle Banche  Casse di Risparmio ordinarie» * ♦ * 4 rappresentanti   Istituti di credito di diritto pubblico  soggetti alia vigilanza dei Ministero  delle Finanze ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦ ♦ ♦ 2 »    48            Istituti speciali di credito agrario * i rappresentante   Monti di Pietà ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti dei quali uno   per i Monti di Pietà di I a cat* ed  uno per quelli di 2 a cat*   Istituti di credito di diritto pubblico 3 rappresentanti  Banche popolari cooperative ♦ ♦ * ♦ 1 rappresentante   Casse rurali ♦ 1 »   Dipendenti da Banche popolari e da   Casse rurali *♦.♦♦♦♦♦♦♦ 2 rappresentanti   Sezione deile assicurazioni:   II Presidente deiristituto Nazionale delle Assicurazioni,   II Presidente dellTstituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro  gli Infortuni*   II Presidente deiristituto Nazionale Fascista delia Previdenza Sociale,  Imprese private autorizzate alPeser-  cizio delle assicurazioni ♦ * ♦ ♦ * 2 rappresentanti   Dirigenti delle imprese di assicura-   210116 ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦ X )>   Dipendenti delle imprese di assicu-   razione * ♦ ♦ * *.3 »   Agenzie di assicurazione ♦ ♦♦,♦! »   Dipendenti da agenzie di assicura¬  zione *** + *•»*. + + , + + i )>   Dipendenti da istituti di assicura-  zione di diritto pubblico ♦ ♦ ♦ ♦ x »   Mutue di assicurazione ♦ »    19, - CORPORAZIONE  DELLE COMUNICAZIONI INTERNE   Sezione delle ferrovie, delle tramvie e delia navigazione interna:   Ferrovie e tramvie extra-urbane * 3 datori di lavoro e 3 lavoratori   Tramvie urbane.. ♦ ♦ ♦ 1 » » » 1 »   Funivie, funicolari, ascensori e íilovie 2 » » » 2 »   Navigazione interna 2 » » » 2 »    4 ~ 4    49          Sezione dei trasporti automobilistici;    Autoservizi di linea ♦ ♦♦♦*♦*   2 datori di lavoro e 2   lavoratori   Servizi di noleggio .♦♦♦♦*♦♦   i » » » i   »   Servizio taxistico ♦ ♦♦♦♦♦♦♦   i » » » i   »   Servizio camionistico ♦.   i » » » i   »   Sezione degli ausiliari dei traffico:     Spedizionieri ♦   2 datori di lavoro e 2   lavoratori   Attività portuali ♦ ♦♦.♦♦♦♦♦   i » » » i   »   Trasporti ippici ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦  Attività complementari dei traffico   i » » » i   )>   su rotaia e su strada *♦♦♦*♦   2 » » » 2   »   Sezione delle comunicazioni telefoniche, radiotelefoniche   e cablo-   grafiche:     Comunicazioni telefoniche, radiote-    lavoratori   lefoniche e cablografiche ♦ ♦ ♦ ♦   2 datori di lavoro e 2   20. - CORPORAZIONE DEL MARE E DELL’ARIA   Marina da passeggeri ♦   4 datori di lavoro e 4   lavoratori   Marina da carico ♦ ♦.♦♦♦♦♦♦   3 » » » 3   »   Marina velica   i » » » i   »   Trasporti aerei   2 , » » » 2   »   Cooperative ♦   i rappresentante     2 i. - CORPORAZIONE DELLO SPETTACOLO   Imprese di gestione dei teatri e dei   cinematografi . ♦.. . 2 datori di lavoro e 2 lavoratori   Teatri gestiti da enti pubblici, im¬  prese liriche (artisti di canto, artisti  di prosa, concertisti, orchestrali,  registi e scenotecnici) e di operette,  enti di concerti, capocomici, radio-   trasmissioni 5 * yy )} 5 »    50            Industrie affini (scenografia, case di  costumi e di attr ezzi teatrali, edi-   zioni fotomeccaniche).i datore di lavoro e i lavoratore   Imprese di produzione cinemato¬  gráfica *♦♦•♦♦*♦**** I )) )) » J) X »   Case di noleggio, di films . .... i » » » » j »   Imprese di spettacoli sportivi * * * i » » » » x »   Editori ♦ .♦♦♦*♦♦♦**** 2 rappresentanti   Musicisti ♦ * * * * * *. 3 »   Autori dei teatro drammatico e dei  cinematógrafo ♦ ♦♦.♦♦ ♦ ♦ ♦ 2 rappresentanti   II Presidente delia Società Italiana Autori ed Editori ♦  lí Presidente delPIstituto Nasionale L* U, C. E.   II Presidente delPO* N. D«    22. - CORPORAZIONE   Alberghi e pensioni ♦ * * * * * . „   Uffici ed agensie di viaggi.   Esercizi pubblici in genere (risto-  ranti, caffè, bar) ♦ * * * * * * *  Attività artigiane connesse con 1 'ospi-  talità *♦♦♦*,****.,„  Stabilimenti idroclimatici e termali  Case private di cura *******  Mediei ♦♦♦♦♦*****,,,    DELL/OSPITAUTÀ  2 datori di lavoro e 2 lavoratori   1 » » » i »   2 » » » 2 »   I » » » I »   I » » » I »   I » » » X »   i rappresentante               II vigente ordinamento strutturale delle organizzazioni sinda-  cali è il frutto di una graduale evoluzione. Recentemente è stato  rivedutoispirandosiacriteri dimaggiore semplicità. Anche le de-  nominazioni sono State cambiate con una piü precisa indica-  Zione degli esercenti 1'attività che l’organizzazione rappresenta.   La struttura organizzativa delle associazioni di vario grado si  presenta nel seguente modo:     Associazioni nazionali  giuridicamente riconosciute    Confed.   Federaz.   Sindac. |   Totale   i - Confederazione Fascista agricoltori   I   4   —   5   2 - Confederazione Fascista industriali   I   45   —   46   3 - Confederazione Fascista commer-  cianti •   I   37   -   s?   4 - Confederazione Fascista delle aziende  dei credito e deirassicurazione * * 4   I   13   —   14    4   99   —   103   i - Confederazione Fascista dei lavoratori  deiragricoltura ♦ ♦♦♦♦♦♦♦•♦   i   4   —   5   2 - Confederazione Fascista dei lavoratori  deirindustria * * ♦ ♦ ♦ ♦ * * ♦ * ♦   i   20   9   30   3 - Confederazione Fascista dei lavoratori  dei commercio ♦♦♦♦♦♦•*♦♦   i   5   —   6   4 - Confederazione Fascista dei lavoratori  dei credito e deirassicurazione ♦ * *   i   4   —   5    4   33   9   46   Confederazione Fascista deiprofessionisti  e artisti ♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦♦*   X   22   1028   1051    53    política finanziaria e monetaria    U Italia, uscita stremata da una guerra costosissima, entrò  in una grave crisi economica e sociale, che ne esauri ancor piü  le sue capacità economiche e quindi ridusse enormemente le  entrate di bilancio, mentre le spese subivano un continuo  aumento*   Ma in pochissimi anni il Governo fascista riedificava su  nuove salde basi la finança, eliminando ogni disavanzo*   II piano delia restaura^ione concepito e voluto fermamente  dal Duce si basa sopra queste colonne fondamentali che costi-  tuiscono il saldo edifício delia finança fascista:   X o Pareggio dei bilancio;   2 o Risanamento delia circolazione monetaria;   3 o Regola^ione dei debiti di guerra;   4 o Sistema^ione dei debito interno;   5 o Sistemasione delFasienda ferroviária;   6 o Abolidone dei corso formoso e ritorno alhoro*   L'esercizio finan^iario 1921-22, ultimo delFantico regime,  segnava un disavanso di circa 16 miliardi di lire; il successivo   10 riduceva a soli 3 miliardi e Feserci^io finansiario seguente,   11 primo interamente gestito dal Fascismo (1923-24), vedeva  scendere il disavamjo a solo 418 milioni di lire* Praticamente  era il pareggio*   Con Fanno finan^iario 1924-25 comincia la magnifica  serie degli anni con bilanci attivi che termina soltanto nel  3:930-31 a causa delia contrazione delle entrate, dovuta alia  crisi e alia nuova situa^ione che si Veniva creando nella econo¬  mia mondiale*   A dare, in breve sintesi, un quadro abbastansja completo dei  bilancio dei nostro Paese dopo il 1913-14, possono giovare i  dati raccolti nella tabella sottoriportata:    53             ENTRATE E SPESE EFFETTIVE RISULTANTI  DAI RENDICONTI CONSUNTIVI     (in milioni di lire correnti)    Esercizio finanziario   Entrate effettive   Spcse effettive   Avanzi 0 disavanzi   I913-I4   2.524   2.688   _   164   1914-15   2.560   5-395   —   2.835   1915-16   3-734   10.625   —   6.891   I916-I7   5-345   17-595   —   12.250   1917-18   7-533   25-299   —   17.766   1918-19   9.676   32.452   —   22.776   I919-3O   15-207   23.093   —   7.886   1930-21   I8.83O   36.229   —   17.409   1921-22   19.701   35.461   —   15.760   1922-23   i 8.803   21.832   —   3.029   1923-24   20.582   21.000   —   418   1924-25   2O.44O   20.023   +   417   1925-26   21.043   20.575   +   468   1926-27   2I.45O   21.014   +   436   1927-28   20.072   19-575   +   497   1928-29   30.201   19.646   +   555   1929-30   19.838   19.668   4-   170   193O-3I   20.387   20.891   —   503   1931-32   19.324   23.191   —   3.867   1932 33   i8.2I7   21.766   —   3-549    Ciò che colpisce è il fatto che appena il Regime fascista ha  preso le redini dello Stato le cose sono mutate profonda-  mente.    54          L/ordine neiramministraçione, la giustizia degli accerta-  menti, il rígido controllo delle spese, la lotta sistemática contro  il triste costume dell'evasione tributaria, hanno compiuto il  prodígio. II primo atino di avanço si ha nel 1924-25, di  417 milioni.   Soltanto successivamente, quando la crisi mondiale sconVolse  definitivamente 1'organismo economico di tutti i paesi civili,  apparve il disavanço, che il Governo fascista ha afffontato con  severe misure di economia.   Ma per meglio comprendere la struttura finançiaria dei nostro  bilancio, e per dare una nozione intorno all'ammontare delle  principali voei di entrata, è bene riportare per 1'undicennio  1922-33, i dati relativi alie imposte dirette, alie imposte  sullo scambio delia riccheçça e sui consumi, ai monopoli  di Stato e al lotto: tali dati consentono di cogliere le varia-  çioni subite da queste singole Voei di entrata, nel periodo delia  ricostruçione e delia depressione economica mondiale.    LE IMPOSTE  (in milioni di lire)    Anni   Imposte   dirette   Imposte  sullo scambio  delia ricchezza   Imposte  indiretfe  sui consumi   Monopoli   di   Stato   Lotto   1922-23   4.604   2.289   3.965   2.II2   372   1923-24   5.616   2.8o8   3.976   2.312   402   1924-25   5-569   3-239   4.485   2.276   429   X 925-26   5-956   3.718   5.340   2.351   475   1926-27   6.186   3-792   5.263   2.581   481   1927-28   5-595   3.152   5.082   2.740   527   1928-29 1   5.308   3.321   5.781 í   2.797   525   1929-30   5.192   3.I68   5-321   2.939   554   1930-31   5.004   3.674   5-593   3.088   526   193I-32   4.897   3.726   5.074   3.023   515   1932-33   4.644   i   3.582   4.644   2.989   483    \    55          Sempre neH'ordine delia política financiaria il Regime ha  proweduto ad unificare gli istituti di emissione.   In omaggio al fondamentale principio delia unità storica e  política dei Paese, contrario ad ogni residuo regionale, il  Governo concentrò la facoltà di emissione nella sola Banca  d'Italia, togliendola al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia,  che insieme alia prima ancora godevano di questo particolare  privilegio.   A questa disposicione legislativa segui 1 'altra che attribuiva  alia Banca d’Italia le funcioni di vigilanca su tutte le aciende  bancarie che raccolgono depositi, In tal modo anche l’esercicio  dei credito veniva direttamente sorvegliato.   È poi noto che le banche di deposito si sono dedicate anche  al financiamento di imprese industriali, compromettendo la  loro liquidità e legando strettamente le loro vicende economiche  a quelle delle aciende financiarie.   La crisi economica e il cataclisma financiario dei 1931, con  la caduta delia sterlina, aVevano aggravata la delicata situacione  di quegli Istituti.   II Governo fascista diede loro Tantica liquidità acquistando  in blocco il portafoglio titoli: cioè tutte le acioni delle aciende  dagli stessi financiate.   Queste banche, che si diedero a volte anche ad una ingiusti-  ficabile speculacione, furono salvate dallo Stato, il quale prov-  vide ad istituire due grandi istituti financiari, prowisti di  adeguati mecci e specialiccati nelle operacioni a medio e a  lungo termine: 1 'Istituto Mobiliare Italiano (I.M. I.) e 1 'Isti-  tuto per la Ricostrucione Industriale (I. R. L).   Questi due enti di diritto pubblico hanno facoltà di  emettere obbligacioni, ammesse di diritto alie quotacioni di  borsa. In matéria fiscale i due istituti godono di trattamento  di favore.    56     La portata di questi prowedimenti, emanati alio scopo di  stimolare e sorreggere Tattività economica, può però essere  valutata nella sua vera ampiecca soltanto quando essa venga  considerata in armonia a tutte le altre prowidence che il  Governo fascista ha adottato nel campo delia política crediticia,  in relacione specialmente al poderoso programma di financia¬  mento e di credito per le opere di pubblica utilità e per quelle  specifiche di miglioramento fondiario e agrario*   Un settore nel quale Tacione dello Stato si esplica in pieno è  quello monetário*   Ovunque la moneta è emessa direttamente dallo Stato  oppure da istituti bancari ai quali lo Stato ha concesso tale  facoltà* Quindi lo Stato in sostanca è arbitro quasi assoluto nel  campo monetário; da esso dipende Femissione, che deve esser  contenuta entro i limiti implicitamente stabiliti dalle necessità  economiche e financiarie di ciascun paese*   Strettamente congiunta con la política monetaria è, per owie  ragioni, quella dei credito*   Basta pensare al fatto che lo Stato in maniera diretta o  indiretta determina le variacioni dei saggio dello sconto, per  comprendere quale enorme importanca abbia il suo intervento  sia nello stimolare gli affári, sia nel frenarli*   Estremamente delicata è Tacione dello Stato in questa diffi-  cile matéria; essa non influisce soltanto sulla attività produt-  tiva, ma può provocare sperequacioni nel campo distributivo  e quindi favorire alcune categorie sociali col sacrifício di altre*  II Governo fascista anche in questo settore delFeconomia,  come nel piü complesso quadro delia vita economica nacio-  nale, ha armoniccato e coordinato i particolari interessi con  una política ispirata ai generali interessi dei Paese* Per questo  la sua política monetaria ha mirato a resistere in ogni istante    57             alie pressioni delia speculazione per proteggere, difendere,  tutelare il grande esercito dei risparmiatori, che costituisce  il presidio sicuro delia potensa economica delia Nasione*   La recente storia monetaria dei Fascismo sta a documentare  la tenacia dei propositi e delle direttive seguite*   Quando il Fascismo conquisto il potere la situasione mone¬  taria dei nostro Paese era assai difficile* La nostra lira negli  anni delia guerra e deirimmediato dopoguerra aveva súbito  una forte svalutasione come dimostra il corso delPoro espresso  in lire correnti:    Valore delia lira carta in lire (oro) attuali = gr. 0,07919113 di oro fino   Rapporto tra lira prebellica e lira attuale 3,6661135   Anni   Corso delToro   Anni   Corso delToro   1909-1914   100, 9   1925   484,2   1915   120, 5   1926   496,3   1916   127,4   1927   380,3   1917   148, 2   1928   366, 9   1918   143,9   1929   368, 4   1919   192,3   1930   368,3   1930   400,0   1931   370, i   1921   454,5   1932   378,7   1922   408,2   1933   371,2   1923   416,7   1934   378, i   1924   434,8      Negli anni 1921 e 1922 la lira italiana era in balia delia spe-  culazione, che la faceva oscillare nella maniera piü disordinata;  Tinstabilità dei cambio si manifestava anche sul potere di  acquisto delia moneta; i prezai delle merci subivano continue  variazioni e il costo delia vita ne risentiva le conseguense*    58         Dopo rawento dei Governo fascista le forti oscillasioni  monetarie dei período precedente erano quasi scomparse anche  per effetto delia immediata distensione psicológica e delia  mano possente che reggeva il timone dello Stato, come dimo-  strano i dati seguenti:   Andamento dei corso dei dollaro:   4° trimestre 1932 = 22   I o » 1923 = 20,6   2° » 1923 = 20,9   3 o » 1923 = 23   4 o » 1923 = 22,8   I o » 1924 = 23,2   2 o » 1924 = 22,7   3 o » 1924 = 22,9   4 o » 1924 = 23,1   II Governo aveva iniziato, súbito dopo il 1922, un'energica  política di risanamento finansàario: pareggio dei bilancio e rifor-  ma tributaria che eliminava il caleidoscopio dei dopoguerra per  riportare le fonti principali delia finança ai tributi fondamentali*   Ciononostante nel primo semestre dei 1925 la speculazione  internazionale prese di mira la lira italiana e iniziò durante Testate  quella grande offensiva — a sfondo antifascista — che durò fino  alia estate delPanno successivo: fu nelPestate dei 1926 che la quo-  ta^ione dei dollaro sali a 31,60 e quella delia sterlina a 153,68.   II Duce, compresa la grande importanza política ed econó¬  mica che pote va avere Tulteriore svaluta^ione, pronuncio a  Pesaro il 18 agosto delPanno IV un memorabile discorso nel  quale affermò in maniera solenne e decisiva la strenua volontà  dei Governo fascista di difendere la lira: fu il discorso dei Duce  che stroncò in maniera definitiva la speculazione al ribasso che  era stata organissata dal capitalismo interna^ionale.    59          L/effetto psicologico fu immenso* Quello político ed econo-  mico fu ancora maggiore: alia fine dello stesso anno, deiranno  1936, il dollaro scese a 22 lire e la sterlina a 108: un anno  dopo il discorso di Pesaro il dollaro era quotato poco piú di  18 lire e la sterlina 88*   II Governo fascista aveva vinto* Anche in questo campo,  nel quale le forse interna^ionali si erano scatenate nella  maniera piú insidiosa, P acione decisiva e ferma dei Duce aveva  avuto il soprawento*   II Capo aveva detto: « Non infliggerò mai a questo popolo  meraviglioso d'Italia, che da quattro anni lavora come un eroe  e soffre come un santo, Ponta morale e la catástrofe economica  dei fallimento delia lira* II Regime fascista resisterà con tutte  le sue for^e ai tentativi di jugulazione delle forse finan^iarie  awerse, deciso a stroncarle quando siano individuate alPin-  terno* II Regime fascista è disposto dal suo Capo alPultimo  suo gregário, ad imporsi tutti i sacrifici necessari; ma la nostra  lira che rappresenta il simbolo delia Na^ione, il segno delia  nostra ricche^a, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sfor^i,  dei nostri sacrifici, dei nostro sangue, va difesa e sarà difesa »*  E cosi come aveva promesso fu*   Nel secondo semestre delPanno 1927 la situazione monetaria  risulta completamente cambiata e il Governo fascista si prepara  a compiere la profonda riforma monetaria, effettuata alia fine  dei 1927, con la stabiliz^a^ione delia lira al valore di cambio  che essa aveva raggiunto dopo la strenua lotta combattuta* La  lira venne cosi stabilh;2;ata alia cosidetta « quota novanta »♦  Fedele al suo programma il Governo affrontò i rischi e i  sacrifici che imponeVa la stabiliz^a^ione a quota 90, pur di  recare vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato  e alia grande massa dei lavoratori che almeno in un primo  tempo si sarebbe certamente aWantaggiata dal minor costo     60      delia vita. Rifiutò la stabilizzazione a quota 120; questa si presen-  tava piü facile e comoda, sia per il tesoro, sia per radattamento  al nuovo metro monetário deireconomia dei Paese, ma avrebbe  colpito duramente i risparmiatori e i laVoratori: cioè la Nazione.   La stabilizzazione fu quindi decisa sulla base di 19 lire per  dollaro che equivalevano a circa 90 per la sterlina, con una  rivalutazione, rispetto alia media dei 1924, che raggiungeva  quasi il 20 % dei valore. E fu mantenuta con tenacia impensata ed  impensabile. Tanto è vero che cadde la sterlina — awenimento  di portata economica enorme — trascinando in breve volgere di  tempo la moneta di tutti i Paesi finanziariamente vassalli dellTn-  ghilterra; cadde il dollaro: non cadde la lira italiana nonostante i  furiosi attacchi delia speculazione d’oltre Alpe e d'oltre oceano.   È Veramente unico nella storia monetaria dei Paesi civili  questo fatto: mentre in tutto il mondo aweniva il tracollo  monetário, lTtalia fascista, in grazia delia sua economia solida  e armonica e delia sua meravigliosa unità politica, sapeva  resistere contro ogni assalto.   II 2 ottobre 1931, súbito dopo la caduta delia sterlina, il  Gran Consiglio dei Fascismo fece una solenne dichiarazione  nella quale, mentre prendeva atto delia continuità delia poli¬  tica monetaria dei Governo e delle direttive date per mantenerla  immutata anche nella eccezionale situazione internazionale,  riaffermava che la stabilità delia valuta era necessária e conforme  ai reali interessi economici delia Nazione.   II Gran Consiglio ricordava che la stabilità delia valuta,  basata sulhequilibrio delia bilancia dei pagamenti e garantita  dalla awenuta deflazione delia circolazione, dalle precosti-  tuite riserve e dalhadeguamento dei prezzi delle merci e dei  servizi al livello delia nostra moneta, evitava nuovi dannosi  perturbamenti nei rapporti di distribuzione che avrebbero  gravato sul popolo italiano laVoratore e risparmiatore.    61           Al nuovo valore monetário furono adeguati salari e prezzi,  attraverso un f a^ione oculata, decisa e precisa che ha costituito  — in periodo di cosi awersa congiuntura economica — il  superbo vaglio delia for^a unitaria dei Regime e delia salde^a  ed efficacia delle organi^a^ioni sindacali e corporative*   In questo campo Topera svolta dal Partito fascista è stata  meravigliosa, ineguagliabile: il popolo italiano si è comportato  in maniera magnifica, sacrificando — secondo le norme dei  vivere fascista — particolari interessi di categoria per raggiun-  gere i piú alti fini na^ionalh La política economica dei Regime  è riuscita a contemperare vantaggi e danni con un cosi alto  senso di giusti^ia, che soltanto un periodo di alta tensione  ideale con una massa permeata dalla cosciensa corporativa  poteva consentire di raggiungere*   POLÍTICA commerciale   Gli economisti liberali hanno esaltato la funcione dei commer-  cio interna^ionale come una delle maggiori conquiste civilh  Nessuno può disconoscere che le grandi correnti di traffico  hanno distribuito su tutta la superfície dei globo i prodotti dei  Paesi piú diversi contribuendo ad elevare il tenore di vita dei  popoli e portando a quelli quasi primitivi il frutto delia civiltà,  Ma nelPesaltasione non è mancata la solita costru^ione  astratta e dogmatica che il tempo va inesorabilmente dissol¬  vendo con le dure lezioni delia realtà.   Per dare una precisa idea delhimportan^a dei commercio  internasionale e delia funcione che- esso esercita nelFeconomia  dei nostro Paese è opportuno esaminare il complessivo valore  delle importa^ioni e delle esportasioni, formanti la cosidetta  bilancia dei commercio interna^ionale (bilancia commerciale) ♦      A nn i   Valore (in migliaia di lire)   Importazione   Esportazione   Differenza   1913   3.645.639   2.511.639   I.I34.OOO   1914   2.923-348   2.210.404   712.944   1926   25.878.857   18.664.520   7 . 214-337   1927   20.374.800   15.633.986   4.740.814   1928   22 . 313 .II 3   14.998.982   7.314.I3I   1929   2i.664.760   15 . 235.977   6.428.783   1930   17.346.624   12.119.l8l   5 . 227.443   I93I   n.643.059   IO.209.503   1.433.556   1932   8.267.562   6.811.913   1.455.649   1933   7.431.792   5.99O.553   1.441.239    I dati sopra ricordati dimostrano che il volume delle impor-  ta^ioni e delle esportasioni si è anda to notevolmente contraendo  dopo il 1926*   La differen^a tra il valore delle merci importate e quello delle  merci esportate supera i 7 miliardi di lire, tanto nelhanno 1926  quanto nel 1928* Dopo il 1930 e precisamente nel triennio 1931-33  esso si stabili^sa intorno a un miliardo e 400 milioni di lire»   La passività delia bilancia commerciale non avrebbe una  grande importan^a qualora la cosidetta bilancia dei pagamenti,  chiamata anche bilancia dei dare e delPavere internazionale,  potesse ancora contare sulle cospicue rimesse degli emigranti,  sulForo dei forestieri e sui noli marittimi» Purtroppo però,  date le continue restri^ioni che si sono avute nei rapporti  internazionali, e dato che quelle partite non hanno carattere  di stabilità, il debito commerciale va attentamente osservato,  poichè altrimenti per colmarlo, in difetto di quelle partite  compensative alie quali accennavamo (rimesse degli emigranti,  noli, ecc»), non esiste che il trasferimento di oro»   Per dare un quadro preciso dei nostro commercio con Pestero,  riportiamo una serie di dati riguardanti Timporta^ione e 1'espor-  tazione per le principali categorie di beni oggetto di scambio  internazionale»    63               STATISTICA DEL COMMERCIO  Dl IMPORTAZIONE ED ESPORTAZIONE   Esporiazione     Valore (Lire)   Catcgoric   1930 |   1931   1932   1933 |   1934    Milioni |   Milioni |   Milioni   Milioni |   Milioni   Animali vivi - carni, brodi, mi-  nestre e uova - latte e pro-  dotti dei caseificio - prodotti  delia pesca *   662   766   402   394   253   Coloniali e loro succedanei, zuc-  cheri e prodotti zuccherati *   78   65   57   41   32   Cereali, legumi, tuberi e loro de-  rivati alimentari   505   376   376   408   281   Ortaggi e frutta ♦   1563   1313   IO91   IOO7   879   Bevande ♦ *♦♦♦♦♦•♦♦♦*   234   225   127   138   156   Sali e tabacchi.   70   70   50   52   50   Semi e frutti oleosi e loro residui  - olii e grassi animali e vege-  tali e cere - olii mineral i, di  resina e di catrame, gomme e  resine - saponi e candele * . ♦   536   385   252   178   12©   Canapa, lino, juta e altri vegetali  íilamentosi, compreso il co-  tone - lana, crino e peli -  seta e fibre artificiali - vesti¬  menta, biancheria e altri og-  getti cuciti   4805   3559   2282   1984   1760   Minerali metallici, ceneri e sco-  rie - ghisa, ferro e acciaio -  rame e sue leghe - altri me-  talli comuni e loro leghe -  lavori diversi di metalli co¬  muni ♦ ..   241   679   152   190   210    64               ÈÊmÊMÈÊÈÈmm     Valore (Lire)   Categorie   1930 | 1931 | 1932   1933 1 1934    Milioni J Milioni | Milioni   Milioni | Milioni    Macchine e apparecchi - uten-  sili e strumenti per arti e me-  stieri e per 1'agricoltura -  strumenti scientifici e orologi  - strumenti musicali * * * *  Armi e munizioni ♦ *♦..♦   Veicoli * * ♦ ♦ ..   Pietre, terre e minerali non me-  tallici - laterizi e materiale ce-  mentizio - prodotti delle indu¬  strie ceramiche- vetri e cristalli  Amianto, grafite e mica * ♦ ♦ ♦  Legni e sughero ~ carta, cartoni  e prodotti delle arti grafiche ♦  Paglia ed altre materie da intrec-  cio - materie da intaglio e da   intarsio ♦ ... * ♦   Pelli e pellicce ♦ ♦*♦♦♦♦♦  Prodotti chimici inorganici, orga-  nici e concimi - generi medici-  nali e prodotti farmaceutici -  generi per tinta e per concia -  gomma elas* e guttaperca  Pietre preziose, argento, platino  e lavori di metalli preziosi -  oro e monete d'oro e d'argento  Oggetti di moda, calzature ed  effetti d'uso personale non  compresi in altre categorie -  mercerie, balocchi e spazsole  Materie vegetali non comprese in   altre categorie.* *   Materie animali non comprese in   altre categorie.   Prodotti diversi *******    362 328 210   44 12 29   567 280 281    386 313 251   14 5 5   185 135 124    45 33 29   305 166 157    444 323 277   222 79 125   365 256 190   100 64 58   765  80 40 31     5-4    65                          Importazione      Valore (Lire)    Categorie   1930   1931   1932   1933   1934    Milioni   Milioni   Milioni   Milioni   Milioni   Animali vivi - carni, brodi, mi-  nestre e uova - latte e prodotti  dei caseificio - prodotti delia  pesca* ******♦♦♦.   1364   1026   656   466   486   Coloniali e loro succedanei, zuc- j  cheri e prodotti zuccherati * * '   433   316   249   230   202   Cereali, legumi, tuberi e loro de-  rivati alimentari ******   2093   X264   848   3II   324   Ortaggi e frutta ********   58   69   57   46   55   Bevande * * * *. . ♦   27   24   12   16   13   Sali e tabacchi ********   IOI   49   75   44   43   Semi e frutti oleosi e loro residui  - olíi e grassi animali e vege-  tali e cere - olii minerali, di  resina e di catrame, gomme e  resine - saponi e candele * ♦   1736   1466   925   785   764   Canapa, lino, juta e altri yege-  tali filamentosi, compreso il co~  tone - lana, crino e peli - seta  e fibre artificiali, vestimenta,  biancheria e altri oggetti cu-  citi *.♦..♦ .   3337   1971   1672   1771   1667   Minerali metallici, ceneri e sco-  rie - ghisa, ferro e acciaio -  rame e sue leghe - altri me-  talii comuni e loro leghe -  lavori diversi di metalli co-  muni * . .* ♦   1498   897   586   627   678   Macchine e apparecchi - utensili  e strumenti per arti e mestieri  e per ragricoltura - strumenti  scientifici e orologi - stru¬  menti musicali *******   1236   802   1   557   532   556    66            Valore (Lire)   Categorie   1930   1931   | 1932   | 1933   | 1934    Milioni   | Milioni   J Milioni   | Milioni   j Milioni   Armi e munisioni.* *   16   17   13   3   6   Veicoli , * * * *.-   190   82   84   84   86   Pietre, terre e minerali non me-  tallici - laterisi e materiale ce-  mentizio - prodotti delle indu¬  strie ceramiche - vetri e cristalli   1713   1336   891   911   1085   Amianto, grafite e mica * * . *   33   28   l8   15   22   Legni e sughero - carta, cartoni  e prodotti delle arti grafiche .   1134   789   541   519   543   Pagíia ed altre materie da intrec-  cio - materie da intaglio e da  intarsio ********,,   69   45   26   25   29   Pelli e pellicce.* * *   646   436   297   326   319   Prodotti chimici inorganici, orga-  nici e concimi - generi medici-  nali e prodotti farmaceutici -  generi per tinta e per concia -  gomma elast* e guttaperca   791   491   362   379   415   Pietre preziose, argento, platino  e lavori di metalli preziosi -  oro e monete d'oro e d # argento   568   608   225   1479   215   Oggetti di moda, calzature ed ef-  fetti d'uso personale non com-  presi in altre categorie - mer-  cerie, balocchi e spazsole* . ♦   127   9 i   84   73   61   Materie vegetali non comprese  in altre categorie ******   145   107   121   81   98   Materie animali non comprese in  altre categorie *******   21   14   12   9   n   Prodotti diversi ********   97 1   1   63   1   37   44   57           È opportuno esaminare con attenzione le voei piü impor-  tanti deir importazione e delFesportazione di merci*   Un primo rilievo di fondamentale importanza riguarda il   frumento*   Mentre nel decennio prebellico 1 importazione era di 13 mi-  lioni di quintali circa, dal 1919 al 1927 ha oscillato dai 21  ai 27 milioni di quintali* II prodigioso risultato delia battaglia  dei grano si è manifestato in pieno nel 1934, quando l'impor-  tazione netta di grano raggiunge un milione e mezzo circa  di quintali*   Pressochè costante si è mantenuta invece la importazione  dei granturco, la quale nelPultimo sessennio, se si fa astra-  2;ione dal 1 1933, ha oscillato da 6 a 8 milioni di quintali annui*  Le importazioni di carbon fossile, di ferro e di legno, hanno  segnato specialmente nel periodo 1925-30 un grande^ incre¬  mento, nei confronti dei periodo prebellico* NelTultimo  biennio sono diminuite notevolmente*   II migliorato tenore di vita delia popolazione italiana e il  conseguente aumento dei consumo delle carni, ha determinato  un incremento nella importazione dei bestiame vivo e delia  carne, rispetto al periodo prebellico*   h* importazione di cotone è ferma sulle posizioni prebelliche*  II grande sviluppo che ha avuto 1* industria automobilistica e  Timpiego sempre crescente dei motore a scoppio nell industria  e nei trasporti è stata la causa dei decuplicarsi deli importa¬  zione di benzina*   Anche la importazione di lana ha segnato fortissimi aumenti*  Cosi pure quella dei semi oleosi*   Questi sono i caratteri fondamentali che presenta il com-  mercio di importazione nel nostro Paese*   La nostra esportazione si può caratterizzare distinguendo i  prodotti secondo la forma di attività che li produce* Forti    68    contrazioni segnano le nostre esportazioni di latticini e di  canapa* Alte si mantengono le nostre esportazioni ortofrut-  ticole*   L'esportazione dei tessuti di cotone si può considerare  stazionaria* Forte incremento segna invece Tesportazione di  tessuti e filati di lana e dei manufatti di seta e di rayon*   II Fascismo, per sottrarre il Paese dalla dipendenza estera,  specie per certi consumi fondamentali, per tener viva ed effi-  ciente la corrente esportatrice e anche per conquistare nuovi  mercati onde poter trovare sbocchi adeguati alia crescente  produzione agricola e industriale, ha svolto una complessa  attività economica e politica, ha durato uno sforzo tenace nono-  stante i mille ostacoli non sempre giustificati che si ponevano  sul suo cammino*   E ciò è veramente meraviglioso quando si pensi che tali  posizioni sono State mantenute, malgrado Fimperversare di una  crisi che ha sconvolto la economia di tutti i Paesi civiln  Per avere una nozione precisa intorno alia natura ed alia  direzione delle nostre correnti commerciali con Festero biso-  gna esaminare la provenienza delle nostre importazioni e la  destinazione delle esportazioni, Sopratutto — nella crescente  anemia dei traffici, causata dalle misure di autarchia economica  che hanno instaurato tutti i Paesi, dai contingenti ai divieti ed  alie limitazioni valutarie — è necessário guardare ai singoli  saldi delia bilancia commerciale, per agire adeguatamente  nel sistema delle compensazioni o degli scambi bilanciati, che  il Governo fascista ha effettuato,   La nostra bilancia commerciale è notevolmente passiva con  la Jugoslávia e la Romania nel Bacino Danubiano, con la Ger-  mania nelF Europa Centrale, con gli Stati Uniti nelle Americhe,  con Tlndia Britannica in Asia* Ma anche la Rússia, il Brasile,  il Canadá, la Tunisia, il Belgio, il Lussemburgo e F África    69         ■    Meridionale britannica hanno una bilancia commerciale per  noi sfavorevole*   Le nostre esportazioni hanno superato le importazioni nel  commercio con l'Egitto, con la Grécia, la Turchia, la Polonia  e la Cecoslovacchia; a noi molto favorevole è stata la bilancia  commerciale con la Svizzera, con la Francia e nel 1933 con  1 'Argentina*   L' Italia importa bovini dalla Jugoslávia, dairUngheria e  dalla Romania; carni fresche e congelate dali'África Meridio¬  nale britannica, dali'Argentina, dal Brasile e dalFUruguay*  Pollame specialmente dalla Jugoslávia, uova dalla Jugoslávia,  Polonia e Turchia*   II frumento viene specialmente dagli Stati Uniti, dall'Au-  stralia, dalla Rússia, dall'Argentina e dal Canadá; il granturco  dalla Romania e dalPArgentina*   II cotone è acquistato specialmente dagli Stati Uniti e in  secondo luogo dali'índia Britannica e dall'Egitto* II ferro  proviene dalla Francia e dalFUnione Belga-Lussemburghese;  il carbone dalla Gran Bretagna e dalla Germania, dalla  Polonia e dalla Rússia; la benzina dalla Rússia, dalla Pérsia,  dalla Romania e dagli Stati Uniti*   La lana dall'Australia, dall'Argentina e dalPAfrica Meri¬  dionale Britannica*   II legno dalla Jugoslávia, dall'Australia, dalla Rússia e dagli  Stati Uniti*   L'osserVazione dei fatti dimostra che con V Impero britannico  nel suo complesso abbiamo una bilancia nettamente sfavo-  revole* D'altro lato la politica doganale iniziata dal detto  impero — dopo la conferenza di Ottava — tende a contenere  1 'importazione straniera ad un limite minimo* Cosi pure  awiene per molti altri Paesi con i quali abbiamo relazioni  commerciali* Cosi dicasi per gli Stati Uniti che hanno chiuso    70       le porte alia nostra emigrazione ed hanno innalzato barriere  doganali elevatissime.   La stessa osservazione delia realtà pone spontaneamente le  seguenti domande: è proprio indispensabile acquistare le  merci di cui noi abbiamo bisogno dai Paesi che si chiudono  ermeticamente airesportazione dei nostri prodotti? Per miglio-  rare la nostra bilancia commerciale non è possibile agire sopra  queste correnti dei traffico onde renderle a noi piú favorevoli?   Anche in questo campo, e specialmente in questo campo,  il tramonto dei liberismo economico si è già manifestato sotto  forme e aspetti inequivocabili. Le lezioni che ci ha dato la  storia economica di questi ultimi anni, sono al riguardo sug-  gestive e definitive. La fine dei liberismo economico interno  è seguita inesorabilmente da quello estero.   Pochi Paesi, forse nessun Paese, può rinchiudersi in un piú  o meno beato isolamento e svolgere tutte le sue attività nello  âmbito dei propri confini. L' Italia poi che non è stata certa¬  mente favorita dalla natura come lo sono stati altri Paesi,  può forse meno di quelli chiudersi in un’autarchia economica.  Necessita quindi esportare prodotti agricoli e industriali propri  per potere prowedere specialmente le materie indispensabili  di cui il nostro suolo manca.   Da ciò la política delle compensazioni, la quale si armonizza  perfettamente coi postulati dello Stato corporativo. Uno Stato  nel quale la produzione è disciplinata e controllata, nel quale  1 ’iniziativa privata non è libera di svolgersi come vuole e dove  vuole, deve anche regolare le correnti dei traffico, discipli¬  nando anche il commercio internazionale.   II Capo, infatti, ha piú volte affermato che la politica eco¬  nomica estera non può ancora svolgersi sulla falsariga di  sistemi piú o meno liberistici, eredttati da un mondo superato.  Un'economia corporativa in fatto di scambi internazionali non    7i        può rimanere schiava delia clausola delia Nazione piú favorita,  ultimo feticcio liberale, riaffermata in teoria in ogni consesso  economico internazionale, per essere súbito dopo negata in  pratica, attraverso una serie di limitazioni che la svuotano  di ogni contenuto reale o Tannullano addirittura.   Questa figlia legittima dei liberismo non tutti i Paesi Thanno  applicata nella sua forma piú liberale (illimitata, incondizio-  nata, reciproca). Ha avuto i colpi maggiori non tanto dalPinnal-  zarsi delle barriere doganali, quanto dai divieti di importa-  zione e dai contingentamenti. Le intese preferenziali, come  quella di Ottava, le limitazioni al commercio delle divise,  gli accordi di compensazione, le hanno recato durissimi colpi*  I Paesi che Vennero meno per primi al libero scambio sono  stati proprio quelli che ne avevano meno la ragione, perche  favoriti dalla natura, ricchi di materie prime e di capitali:  quelli stessi che Pavevano allevato e Pavevano teorizzato, anche  perchè si adattava egregiamente ai loro particolari interessi*  D'altra parte, a proposito delia concezione liberistica nella  organiz^azione degli scambi internazionali, deve essere ben  tenuto presente che lo sviluppo industriale va profondamente  mutando le tradizionali correnti di traffico*   La distinzione tra Paesi agricoli e industriali va perdendo  gran parte dei motivi sostanziali che la giustificano* Ogni Paese  tende a rendersi piú indipendente anche per ragioni di sicu-  rezza* La scoperta scientifica ed il progresso técnico spostano  continuamente i termini dei complesso problema: materie  prime ritenute un tempo insostituibili, oggi si sostituiscono;  monopoli naturali per certi prodotti, cadono di fronte ad  impensate produzioni sintetiche* La scienza, col suo inces¬  sante progresso, ha contribuito a rendere economicamente  possibili processi produttivi in Paesi in cui pochi anni or sono  era follia sperarlh    72      Si assiste veramente ad una profonda rivoluzione técnica,  economica e sociale.   Dato il tradizionale attaccamento alia clausola delia Nazione  piú favorita, il sistema degli scambi bilanciati o scambi con-  trattati o scambi compensati, come si dice oggi, non ha trovato  in principio favore. È stato osservato che questo sistema non  si poteva attuare, perchè il commercio con 1'estero non può  chiudersi con un pareggio aritmético, in quanto nei traffici  internazionali non si possono sopprimere le compensazioni  indirette; è stato ripetuto che esso avrebbe complicato 1 organiz-  zazione dei traffici e resa necessária una mastodontica burocrazia;  che in certi casi sarebbe stato inapplicabile.   Tali critiche erano specialmente il frutto di una profonda  incomprensione degli scopi e delle finalità cui mirava il sistema  degli scambi bilanciati; nessuno aveva mai pensato che questo  potesse essere un sistema eterno; nè che mirasse al pareggio  aritmético: si trattava soltanto di un accorgimento di politica  economica di carattere contingente, che però poteva recare  notevoli benefici al nostro Paese, data la situazione economica  specifica in cui si trova.   È evidente che il sistema delle compensazioni non supera  il problema dei prezzi: questo rimane, cosi come il Duce   10 ha posto e nei limiti dei negoziati fra Paesi che abbiano   11 reciproco bisogno di esportare.   Si può quindi concludere che, specialmente nelbattuale  momento economico, la cui durata è di difficile previsione,  acquistano grande importanza le compensazioni degli scambi,  le quali, basandosi sulla nostra posizione di acquirenti di  materie prime, consentano il maggior possibile collocamento  ai nostri prodotti.    73         IL COMMERCIO    Nel passato esistevano soltanto dei commercianti: oggi  esiste il commercio italiano, perchè il Regime, attraverso la  organi£2;a2;ione, ha dato una personalità unitaria ed organica  anche a questa forma insostituibile di attività economica*   II Duce ha detto che la funcione dei commercio è quella di  portare rapidamente e rasionalmente le merci al consumatore:  questo è il suo compito essensiale*   II commercio al minuto costituisce gran parte delia vita  dei centri urbani* II commercio alhingrosso, che comprende  anche il commercio di esportasione, dà lavoro a migliaia di per-  sone e costituisce una delle espressioni piú alte delia vita civile*  È stato osservato che nel commercio la técnica diventa  vita* In tal senso il commercio è lotta: lotta che comincia nella  piccola bottega familiare e si estende al grande magassino,  che si esplica nella borsa, nella banca e può dare le armi per  formidabili conquiste* Se Tagricoltura e T industria si risolvono  nella produzione di nuovi beni economici e cioè nella trasfor-  mazione delia matéria, il commercio opera trasformazioni che  awengono nello spazio, perchè le merci sono recate dai centri  di produ^ione ai centri di consumo*   L/Italia fascista che non ignora nessun settore deirattività  economica, che fa tesoro delle grandi tradizioni patrie, che ha  il culto dei titoli di nobiltà conquistati dal nostro popolo  nelle guerre e nelle ar ti, neir industria e nel commercio, che  non dimentica la gloria di Venezia e quella di Gênova, come  di Pisa e di Amalíi, non poteva non dedicare anche a questa  forma di attività tutte le cure, contemperandole con le prowi-  denze portate alie altre branche di attività economica dei regime*  L/Italia ha bisogno di espandersi, e quindi deve conqui-  stare anche attraverso i pacifici commerci le grandi vie dei    74      #?/ ^7\sA   continenti e degli oceani; cosi i commercianti possono espliça^ o 1   una magnifica opera di penetracione che porti con le mèrçc^' /  scambiate il nome e la potenca d'Italia nei piú lontani Paesap^ oÇ Vy  Le force commerciali d' Italia si sono già addimostrate alPal- ^  tec£a dei compito, anche perchè il Governo fascista ha saputo  liberare il commercio da quei preconcetti ostili che tanto lo  hanno demoraliczato e awilito* Risanare, dare nuova vita  alie correnti mercantili, ridare nuova consideracione alia fun¬  cione dei commerciante che non è egoistica ed esosa ma è,  come quella degli altri produttori, elemento indispensabile  delia organiczacione economica*   Di solito quando si discorre di commercio alhingrosso ci si  riferisce alie correnti internacionali* Lo dimostra il fatto che  le statistiche ufficiali di quasi tutti i Paesi comprendono sotto  il titolo ricordato le cifre relative alhesportacione e alhim-  portacione* Quei dati dimenticano completamente le importan-  tissime correnti che si muovono alh interno dei singoli Paesi  per alimentarne i mercati*   II Duce, parlando ai commercianti il 26 ottobre delhanno X,  a Milano, affermò che la funcione dei commercio è insosti-  tuibile, rappresentando essa un fattore storico* Questa affer-  macione vale tanto per il commercio alhingrosso come per  quello al minuto* II grossista è infatti un efficace collaboratore  e un precioso consigliere dei produttore* Esso è in grado di  valutare la capacità di consumo dei singoli mercati rispetto  alie diverse merci; esso meglio di ogni altro può stabilire le  attrecsature che occorrono per distribuire le merci al piccolo  consumo* In questo senso la sana attività economica svolta  dal grande commerciante è quanto mai benefica, sia perchè  esso possiede una competenca specifica ed integrale dei mer-  cato di quella data merce in un dato luogo, sia perchè esso    75       adempie alia insopprimibile funcione di intermediário ed è  quindi elemento fondamentale delbeconomia nacionale.   Nei riguardi delFeconomia corporativa il commercio alio  ingrosso può facilitare il raggiungimento rápido ed economico  di particolari forme di disciplina delia producione. II funcio¬  namento dei magaccini ai fini delia conservacione dei prodotti,  specie di quelli di facile deperibilità, l'organiccacione dei proce-  dimenti tecnici per il rápido riassorbimento delle giacence  invendute o invendibili e per il racionale rinnovamento delle  partite di scorta, possono essere affrontati con successo dai  commercianti all' ingrosso organiccati corporativamente.   In tal modo il grande commercio adempie perfettamente ad  un'alta funcione corporativa.   Ma il sistema attraverso il quale si effettua la distribucione  delle merci comprende centinaia di migliaia di piccole aciende.  È per opera dei bottegai che i prodotti deiragricoltura e delia  industria giungono sino alie piu remote valli montane, ai piü  discosti casolari.   L' importanca e T influenca che il commercio al minuto può  esercitare sulla vita sociale giustifica la vigilanca a cui esso è sog-  getto, i controlli che su di esso si esercitano e la disciplina che ad  esso si impone; appunto per questa sua funcione di vivificare  ogni piu remota contrada, di consentire che ogni prodotto sia  accessibile in ogni luogo al piú modesto consumatore, il com¬  mercio al minuto appare meritevole di particolare consideracione.   Le aciende di commercio al minuto ammontano a circa  550.000 con 1.500.000 persone addette, delle quali il 60 %  è formato da proprietari, dirigenti e dai loro famigliari, e il  40 % da veri e propri dipendenti.   La maggioranca quindi è formata da imprese a carattere  famigliare, neiresercicio delle quali le donne partecipano in  proporcioni noteVolissime.    76      Una nozione piú precisa intorno alia natura degli esercúi  commerciali e alia loro importanza si può avere dalla tabella  sotto riportata:   ESERCIZI COMMERCIALI SECONDO IL NUMERO  DEGLI ADDETTI    (cifre per ioo esercizi di ogni categoria)    Cat ego fie   i   addetto   Da 3 a 5  addetti   Da 6 a 10   addetti   Okre  ii addetti   Commercio in grosso:    1     Animali vivi ♦'.   6l, 4   33,5   3 , 1   2, 0   Generi alimentari ♦ . * .   49,2   42,0   5,4   3,4   Filati, tessuti, ecc.   18, 6   47 , 0   18,3   16, i   Commercio al minuto :       Metalli, macchine, ecc* * *   43,8   47 , i   5,6   3,5   Generi alimentari . * * *   60,5   38,8   o,6   0, i   Filati, tessuti, ecc.   59.4   38,2   1,8   0, 6   Mobili, vetreríe, ecc* * * *   52.9   42,0   3,6   1, 6   Oggetti d f arte.   57.5   39,4   2,2   o, 9   Prodotti chimici .   58,8   38,3   1,9   1,0   Misto * . . *.   64, i   33,6   i ,3   1, 0    Nel nostro Paese il numero dei negozi al minuto non sembra  proporzionato ai bisogni delia distribuzione dei prodottn II  rapporto fra la popolazione servita e il numero dei negozi  è leggermente inferiore a quello che si riscontra in altri Paesi*  Mentre in Italia il numero dei negozi è di uno ogni 75 abitanti,  nella Svizzera 11 rapporto sale ad 80, nell* Inghilterra risulta  di 77, negli Stati Uniti d'America di 79, nella Germania di 78*  Attraverso questa rete di distribuzione al consumatore,  nella quale troVano la loro fonte di attività e quindi i loro mezzi  di vita quasi 4 milioni di abitanti, passa il consumo nazionale  e grandissima parte dei denaro necessário alia produzione*    77         Se è incontestabile la utilíssima funcione esercitata da questi  piccoli commercianti è da ritenere che il loro numero sia supe-  nore a quello che tecnicamente sarebbe necessário ed economi¬  camente utile per la distribuzione dei prodotti* In molti medi  e piccoli centri urbani si sono andati moltiplicando in maniera  eccessiva questi piccoli esercizi; Timprenditore pretende di  trarre i mtzzi di vita per Tintera famiglia con un modestíssimo  capitale e servendo uno sparuto numero di clienti* Questo orien-  tamento che si è accentuato in maniera particolare nel periodo  postbellico e durante V inflasione, favorito anche dall'esodo  rurale che allora awenne in maniera intensa, è stato stigmatis-  Zito dal Governo fascista \ il quale intende ridurre al necessário  il costo di ogni servisio e sopprimere gli organismi superflui*  Con lo scopo di ridurre il costo delia distribusione dei beni  dalla produ^ione al consumo e di adattare il piú sollecitamente  possibile i prezzi al dettaglio al livello di quelli alhingrosso — evi¬  tando le conseguenze delia cosidetta vischiosità, cara agli adora-  tori dei «laisse* faire, laisse* passer » — Tordinamento cor¬  porativo dello Stato fascista ha agito e agisce incessantemente*  Come pure compito importantíssimo dell'a£ione corpora¬  tiva in fatto di moralizsa^ione dei commercio e di tutela dei  consumatore è la difesa dalle adulterazioni e dalle frodi*  L'economialiberale può anche attendere che il consumatore o il  tempo facciano da loro giusti^ia dei prodotti non genuini: 1'eco-  nomia corporativa no* Non solo, ma nella lotta economica fra pro¬  dotti genuini e surrogati, fra produ^ioni genuine e sofistica^ioni,  fedele al suo principio deve ispirare Ta^ione all* interesse pre-  valente col quale coincide quello delia collettività nasjionale*   Nel discorso pronunciato dal Duce in Campidoglio, il  33 marso XIV, alhAssemblea delle Corpora^ioni, sono stati  tracciati gli sviluppi delFeconomia fascista*      I    «L/assedio economico — Egli ha detto — ha sollevato  una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in  questa proposi^ione: r autonomia política, cioè la possibilità  di una política estera indipendente, non si può piü concepire  sen^a una correlativa capacità di autonomia economica* Ecco  la lecione che nessuno di noi dimenticherà!   « Coloro i quali pensano che finito Fassedio si ritornerà alia  situasione dei 17 novembre, shngannano* II 18 novembre 1935  è ormai una data che segna V inicio di una nuova fase delia  storia italiana* II 18 novembre reca in sè qualche cosa di defi¬  nitivo, vorrei dire di irreparabile* La nuova fase delia storia  italiana sarà dominata da questo postulato: realÍ2£are nel  piú breve termine possibile il massimo possibile di autonomia  nella vita economica delia Na^ione »♦   E passando alFanalisi il Capo ha dato il panorama futuro  delFeconomia italiana, che poggerà sopra questi caposaldi*  Nessuna innova^ione sostansiale nelFeconomia agrícola,  che rimane a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato  e armoni%2:ata, attraverso le Corpora^ioni, colle altre attività  economiche nacionali*   Nei riguardi dei commercio estero ha ribadito la sua fisio¬  nomia di funcione diretta o indiretta dello Stato con carattere  duraturo e non contingente; mentre il commercio interno  rimane affidato alFiniziativa individuale o di associa^ioni, come  pure la media e la piccola industria*   II credito è già porta to, con recenti prowedimenti, sotto il  controllo dello Stato* E cosi pure, sen^a precipita^ioni ma con  decisione fascista, lo sarà la grande industria, la quale assu-  merà un carattere speciale, nelForbita dello Stato, con gestione  diretta, o indiretta, ovvero con un efficiente controllo*    79                         ÍIL   VAGRICOLTura italianà  E LA POLÍTICA RURALE DEL REGIME    6-4                    CARATTERI DELL'AGRICOLTURA ITALIANA   L ITALIA ha una superfície territoriale di 310.107 kmq.,  costituita per 4 / 3 da montagna e collina e sol tanto per 1 j s  da pianura,   Su questa limitata superfície, in data 21 aprile 1931-XI,  viveva una popolazione di oltre 41 milioni di abitanti, con una  densità media di 133 persone per ktnq.; oggi siamo oltre 43  milioni (140 per kmq,).   La popolazione dedita all'agricoltura si aggira sui 20 mi¬  lioni di individui raccolti in 4 milioni di famiglie rurali circa,  aventi una media di 5 componenti.   È noto che le condizioni di fertilità dei suolo italiano non  sono le piú felici. Si è ricordato come esso sia prevalentemente  montuoso e collinoso: la pianura si estende soltanto a 6.446.238  ettari. Ma parte di questa pianura è formata da terreni che si  trovano in difficili condizioni per la produzione agrícola, data  la péssima distribuzione delle piogge che li rende eccessiva-  mente aridi per potervi esercitare una ricca agricoltura: ricor-  diamo in particolare il Tavoliere di Puglia e i Campidani di  Cagliari e di Oristano in Sardegna.   Spessissimo poi la pianura era malarica per il disordine  idraulico conseguente al regime torrentizio dei fiumi e al  disboscamento montano.   Nonostante queste infelici condizioni naturali il popolo ita¬  liano è stato costretto ad adibire alie coltivazioni quasi tutta la  superfície, per la forte densità delia popolazione su un terri¬  tório naturalmente povero, a limitato e localizzato sviluppo  industriale, in assenza di colonie redditizie. Tanto che solo  1’8 % delia superfície territoriale è improduttiva: il resto è  a coltura e la massima percentuale di utilizzazione si ha nei  terreni di collina.    83         Anche laddove ammiriamo un'agricoltura particolarmente  intensiva, come nella pianura padana, questa è il risultato di  ingenti opere di miglioramento compiute attraverso i secoli,  che con 1’acqua o contro Tacqua, mediante 1’irrigazione, il  prosciugamento o la colmata, hanno formato una nuova  natura.   Altrettanto dicasi delia meravigliosa sistemazione colunai e  deiritalia centrale, meridionale e insulare, che costituisce una  costruzione dei lavoro dei contadino italiano, che spesso ha  portato a spalle la terra che doveva accogliere nel suo grembo  e alimentare la pianta.   Ma per meglio comprendere la natura e la portata dei pro-  blemi di politica agraria affrontati dal Governo fascista è  opportuno approfondire ulteriormente le condizioni di am¬  biente nelle quali essa si esplica.    RIPARTIZIONE AGRARIA DEL TERRITÓRIO    Ripartizioni geografiche   Seminativi   Coliure   I e g no s e  specializzate   Terreni  saldi I)   Superfície   improduttiva   Superfície   territoriale   Italia settentrionale   4-577   421   6.310   1.563   12.871   Italia centrale * .   2.834   229   2-443   325   5.831   Italia meridionale ♦   3.260   1.068   2.619   382   7.329   Italia insulare ♦ *   2.164   514   2.080   222   4.980   Regno* • .   12.835   2.232   13.452   2.492   31.OII    x) Prati e pascoli permanenti, boschi e castagneti, incolti produttivi.    84         La superfície agraria forestale misura 28*519*000 ettari  dei quali oltre 15 milioni sono costituiti dai terreni agrari  propriamente detti* Di questi, 12*835*000 sono rappresentati  da seminativi semplici e arborati e 2*232*000 da culture  legnose specializzate*   I prati e i pascoli permanenti figurano soltanto con circa 6  milioni di ettari* I boschi compresi i castagneti, si estendono  per 5*561*000 ettari* Gli incolti produttivi, frequenti special-  mente nella dorsale appenninica, raggiungono 1*700*000 ettari*   Nel complesso quindi i seminativi dominano le altre qualità  di coltura con il 45 % delia superfície agraria e forestale*   Ad essi seguono i prati e i pascoli permanenti con il 21/7 %,  i boschi con il 7,8 %♦   In questo ambiente si allevano 7 milioni di bovini, 10 milioni  di ovini, 3*300*000 suini, 1*900*000 caprini* I cavalli raggiun¬  gono quasi il milione, gli asini, i muli e i bardotti raggiungono  circa 1*400*000* Si allevano anche circa 15*000 bufali*   II popolo italiano è un popolo in mareia* Un secolo fa  entro gli stessi confini dei Regno vivevano circa 21 milioni  di abitanti; oggi abbiamo superato i 43* Nelhultimo de-  cennio la popolarione ha avuto un incremento di circa tre  milioni e me^o* Lo Stato fascista, consapevole dei problemi  che una cosi alta densità delia popolarione viene a determi-  nare, si è decisamente orientato verso una política rurale*  E ciò perchè la popolarione rurale possiede nel piú alto grado  la virtü dei risparmio e la tenacia nei propositi, la probità  di vita e il senso delia continuità, Tamore per la terra e per il  lavoro: qualità che invece si attenuano sempre piú nelle popo-  larioni delle grandi città, dove si cerca di vivere la vita « co-  moda », dove si disfrenano gli egoismi piú acerbi, dove il  senso delia solidarietà umana sostanriale e non solo apparente,  ha súbito i colpi piú duri*    85             w-    Bisogna ruralizzare 1 'Italia anche se occorrono railiardi e  mezzo secolo, ha affermato il Capo. Poichè la ruralità non  solo assicura lo sviluppo demográfico, che costituisce una  delle maggiori espressioni delia potenza di un popolo (i rurali  sono i piú prolifici), ma assicura anche la sanità fisica e  morale delia razza, custodisce i grandi ideali delia vita, si  compendia nella famiglia, sente tutta la bellezza dei lavoro  creativo, stimola la virtú dei risparmio. Perchè la mèta agognata  da ogni lavoratore è quella di raggiungere il possesso terriero,  trasformandosi da bracciante in colono, da colono in piccolo  affittuario o in piccolo proprietário/per attaccarsi alia sua terra  che ama e che ha desiderata come aspirazione massima.   Perciò il Regime nella sua política di ruralizzazione tende  a fissare il contadino alia terra, combattendo il bracciantato  anonimo e quasi nômade e stimolando la diffusione delle  forme di colonia e di compartecipazione, nonchè incitando,  come vedremo, 1'estendersi delia piccola proprietà.   «L/anima delia nostra razza, che ha storicamente vissuto  il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ha tratto  mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ben sa  come sull'agricoltura sia costruito 1'intero edifício delia pro-  sperità sociale ».   Cosi il Duce si esprimeva in un discorso pronunciato alia  7 a assemblea dell’Istituto internazionale di agricoltura il  2 maggio 1924. II Capo awertiva che altre attività produttive  possono essere piú impressionanti nella grandiosità localiz-  zata delle loro manifestazioni, piú facili apportatrici di gua-  dagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poichè,  infine, tutto potrebbe immaginarsi ritolto albumanità delle  sue superbe espressioni di forza e di conquista, ma non mai,  finchè la razza umana esista, non mai 1’arte di trarre dalla  terra madre quanto è necessário a sostenere la vita.     86       È pensando alie virtü rurali dei popolo italiano che il Duce,  al primo congresso di agricoltura coloniale di Tripoli, affer-  mava che in Italia sta sorgendo una nuova generaçione, la  generaçione modellata dal Fascismo: poche parole e molti  fatti* La tenacia, la perseverança, il método, tutte le virtü  alie quali Pitaliano sembrava negato dovranno diventare  domani, e sono già in parte, virtü fondamentali dei carattere  italiano*   Per questi motivi fondamentali il Fascismo ha dedicato le  sue piú solerti cure alio sviluppo delPagricoltura*   II Capo in moltissime occasioni ebbe ad esprimere in  maniera inequivocabile la sua fede negli sviluppi delPagri-  coltura italiana, base delia economia, baluardo contro Tur-  banesimo*   Paralleíamente alia politica agrícola, il Fascismo ha svilup-  pato la politica forestale e montana, di quelle montagne « che  salvaguardano la nostra piú grande pianura e costituiscono  la spina dorsale delia Penisola: la politica dei Regime è diretta  a sostenere la popolaçione delia montagna ai fini pacifici e a  quelli militari »♦   « Tra il mare e le montagne, si stendono valli e piani:  la terra nostra, bellissima, ma angusta, trenta milioni di ettari  per 42 milioni di uomini* Un imperativo assoluto si pone:  bisogna dare la massima fecondità ad ogni çolla di terreno*  II Fascismo rivendica in pieno il suo carattere contadino* Di  qui la politica rurale dei Regime nei suoi diversi aspetti:  il credito agrario, la bonifica integrale, la elevaçione politica  e morale delle genti dei campi e dei villaggi* Solo con il  Fascismo i contadini sono entrati di pieno diritto nella storia  delia Patria* Volgete gli occhi sulPAgro Romano e avrete la  testimoniança delia profonda trasformaçione agraria in via di  esecuçione »♦    87         Con questo inimitabile stile il Duce definiva, airAssemblea  Quinquennale dei Regime, il io marzo deiranno VII, i motivi  fondamentali che spiegano perchè il Regime attui una polí¬  tica rurale*   La nuova política agraria inizia in pieno la sua attività  neiranno 1925.   II Duce, negli anni precedenti diede la sua prodigiosa atti¬  vità a un lavoro di ordinamento, di revisione e di sistema-  zione, perchè Egli, anzichè precipitarsi sulla macchina statale  per frantumarla come ha fatto la rivolmâone russa, ha voluto  « armoniszare il vecchio col nuovo; cio che di sacro e di forte  sta nel passato, cio che di sacro e di forte ci reca, nel suo  inesauribile grembo, 1'awenire »♦   In tutta Tazione política dei Regime, ma in particolare in  quella rurale, giganteggia il nome di Arnaldo Mussolini,  grande anima e grande mente, strappata alia Nazione da una  tragédia che solo possono comprendere appieno coloro — come  ha scritto il Duce — che sono « continuati »♦   La ricostru^ione forestale d'Italia fu un suo preciso fine;  fondò e presiedette il Comitato forestale italiano, organo pro-  pulsore delia rinascita silvana*   Due grandi cimenti contraddistinguono la parte centrale  delia política rurale dei Regime:  la battaglia dei grano,  la bonifica integrale*   Entrambe pensate, volute, guidate dal Duce*   Çominciamo dalla prima*    88           LA BATTAGLIA DEL GRANO    latino, non è soltanto Capo e con    II Duce, puríssimo genio  dottiero, ma anche Poeta:   Amate il pane  cuore delia casa  profumo delia mensa  gioia dei focolari   Rispettate il pane  sudore delia fronte  orgoglio dei lavoro  poema di sacrifício    Onorate il pane  gloria dei campi  fragranza delia terra  festa delia vita   Non sciupate il pane  ricchezza delia Patria  il piú soave dono di Dio  il piú santo prêmio  alia fatica umana.    Rileggendo queste parole di saggez^a e di amore, nelle quali  si trasfonde con un religioso senso delia vita il rispetto per le  cose eterne donateci da Dio, non si può non provare una  profonda commozione,   Esse esprimono Panima con la quale fu dichiarata la bat-  taglia dei grano; non si tratta di raggiungere finalità soltanto  economiche, ma di appagare un bisogno pátrio che supera  il fatto economico per divenire integrale fatto político,   II Capo a Palato Chigi, il 4 luglio delPanno III, inse-  diando il Comitato permanente dei grano, affermava che  Pannuncio delia battaglia dei grano aveva avuto una ripercus-  sione profonda in tutto il Paese, Segno certo che rispondeva  ad una necessità universalmente sentita, Egli ricordava le  conseguenze finanziarie dello scarso raccolto delPanno 1924,  le quali ammonivano severamente a fare tutto il possibile  per conquistare Pindipendenza per il fondamentale alimento  dei popolo italiano*    89          II Capo stesso fissava le direttive delfasione:   I o non è strettamente necessário aumentare la super¬  fície coltivata a grano in Italia* Non bisogna togliere il terreno  alie altre colture che possono essere piú redditizie e che co-  munque sono necessarie al complesso deireconomia nazionale*  È da evitare quindi ogni aumento delia superfície coltivata a  grano* A parere unanime la cifra di ettari raggiunta con le  semine dei 1924 può bastare;   2 o è necessário invece aumentare il rendimento annuo  di grano per ettaro* L/aumento medio anche modesto dà  risultati globali notevolissimi*   Posti questi capisaldi, il Comitato permanente doveva  affrontare:   a) il problema selettivo dei semi;   b) il problema dei concimi e in genere dei perfezionamenti  tecnici;   c) il problema dei prezai*   Per reali2£are tutte le possibilita di miglioramento delle  nostre colture granarie bisognava arrivare alie grandi masse  rurali, veramente silen^iose e operanti, al grosso cioè delfeser-  cito disseminato nelle campagne italiane*   II popolo italiano era perfettamente convinto delia san-  tità di questa battaglia e delia possibilità di vincerla; Egli  sentiva che si lottava per la vera libertà cioè per la libe-  razione delia Nasione dalla maggiore servitü economica  straniera*   Ventisei giorni dopo il Duce parlando ai capi delle orga-  niç2;a2;ioni agricole, pronunciava parole fatidiche che oggi  sono scolpite nel cuore di ogni agricoltore d'Italia: « Battaglia  dei grano significa liberare il popolo italiano dalla schiavitü  dei pane straniero* La battaglia delia palude significa libe¬  rare la salute di milioni d^taliani dalle insidie letali delia     malaria e delia miséria* II Governo fascista ha ridato al  popolo italiano le essenziali libertà che erano compromesse  o perdute: quella di lavorare, quella di possedere, quella di  circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella di  esaltare la vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di aver  la coscien^a di se stessi e dei proprio destino, quella di sentirsi  un popolo forte non già un semplice satellite delia cupidigia  e delia demagogia altrui*   «Voi, agricoltori d'Italia, che sapete per la dura espe-  riensa dei vostro lavoro come le leggí delbuniverso siano  inflessibili, voi siete i piú indicati ad intendere questo mio  discorso*   « Recate a tutti i piú lontani casolari, a tutti i vostri camerati  disseminati per i campi delia nostra terra adorabile, il mio  saluto e dite loro che, se la mia tenace volontà sarà sorretta  dalla loro collaborazione, Tagricoltura italiana verrà incontro  ad un'epoca di grande splendore »♦   E cosi, infatti, è stato*   La battaglia dei grano è stata Tindice piú eloquente delbin-  dirÍ2;2;o delia politica agraria dei Regime*   Con la battaglia dei grano si è voluto poten^iare tutta 1 'agri-  coltura italiana, sospingerla a reali^are il massimo delia produ-  zione ottenibile in tutti i settori* Sia nel campo viticolo come  in quello ortofrutticolo, nelbolivicoltura come nel campo delle  colture industriali, sono State prese una serie di prowidenze  intese ad ottenere il miglioramento delle coltivazioni ed il  collocamento dei prodotti*   Attraverso Topera vigile e continua delblstituto Na2;ionale  per TEsportazione nuovi sbocchi sono stati aperti al commercio  estero delia frutta, degli agrumi, degli ortaggi; sono stati  attentamente studiati i centri esteri di consumo; è stato disci-  plinato Tafflusso dei prodotti ortofrutticoli; sono State imposte   9x         agli esportatori norme rigide per garantire la qualità dei pro-  dotti venduti.   Nè Topera di difesa deiragricoltura poteva estraniarsi dalla  tutela dei rurale di fronte airinsidia delia speculazione.   Uorgãnizzazione degli ammassi granari, intesi a sottrarre  Tagricoltore alia vendita formata dei frumento nel periodo  dei raccolto, ha disciplinato il mercato, costituito una riserva,  evitato che ai contadini, come frutto deíla loro fatica, fosse  riservato il piú basso prezzo raggiunto súbito dopo la trebbia-  tura. II favore sempre crescente che tale istitusione ha incon-  trato presso gli agricoltori sta a dimostrare la sua efficacia  e la radicata fiducia che essi hanno in questa come in tutte le  altre prowidensje dei Regime.   Se nel vasto quadro delia politica economica fascista la  battaglia dei grano costituisce un episodio, esso è però tal¬  mente grandioso e suggestivo, acquista tanta importanza spiri-  tuale ed economica, da prestarsi magnificamente per dare  unhdea dei clima nel quale il popolo italiano ha lavorato in  questi ultimi anni*   Nel quadriennio 1931-1924, prima cioè che il Duce chia-  masse gli agricoltori a raccolta per ini^iare la battaglia, la  produzione granaria oscillava intorno ai 50 milioni di quintali  con un rendimento per ettaro di qL 10,9, cioè poco superiore  alia media di qh 10,5 segnata nel quinquennio prebellico  1909-13.   II raccolto na^ionale era assolutamente inadeguato al con¬  sumo. Questo era fortemente aumentato per la migliorata  alimentasàone dei popolo italiano, il quale aveva sostituito  il frumento al granturco, alie castagne ed agli altri alimenti  che, specie nelle zone di montagna, erano usati largamente.  Si doveva quindi ricorrere in misura crescente ai grani stra-  nieri: Timportazione media che nel decennio 1905-1914 era    92         di 13 milioni, era salita alia cifra di 26 milioni di quintali nel  quadriennio 1921 -1924*   Considera2;ioni meramente economiche si univano a quelle  di carattere spirituale*   E i risultati non si fecero attendere*   Mentre la media produzione dei quadriennio bellico fu di  qL 9,99 per ettaro, eguale a quella dei quadriennio prebellico,  la media produ^ione dei primo quinquennio delia battaglia  dei grano fu di qL 12,5 cioè di 2 quintali superiore a quella  bellica e di 2,5 superiore a quella dei primo quadriennio  postbellico*   Sono oltre 10 inilioni di quintali di aumento assicurati alia  produ^ione frumentaria nasionale, pur con anni, come il  1927 e il 1930, le cui condizioni climatiche furono assai  sfavorevolL   La media produzione dei secondo quinquennio delia bat¬  taglia fu di qL 14,65 per ettàro*   II progresso si è verificato in ogni parte dei Paese: nelLItalia  settentrionale come in quella meridionale e insulare; nelle  zone di collina come in quelle di pianura*   Se dalle cifre medie passiamo a considerare le punte piú  elevate, colpiscono le produ^ioni altissime che si sono rag-  giunte, non in ristrette particelle di pochi metri quadrati,  ma su ettari di terreno in pieno campo; produzioni che una  volta sembrava follia sperare, e che sono State ottenute per  virtú di una técnica moderna che solo la battaglia dei grano  poteva stimolare*   Le punte di qL 40 che un tempo sembravano insupera-  bili sono salite a qL 74 nel 1932, a 82 per ettaro nel 1933*  I metodi tecnici di coltivazione si diffondono: la schiera dei  concorrenti alia vittoria dei grano è passata da poche centi-  naia a migliaia*    93           Le produ^ioni medie hanno segnato un continuo aumento  come dimostrano i dati seguenti in quintali per ettaro di super¬  fície coltivata a grano:    Anno   Quintali   Anno   Quintali   1915   9,2   1926   12, 2   I916   IO, 2   1927   10, 7   1917   8,9   1928   12, 5   1918   II, 4   1929   14, 8   1919   10,8   I93O   11,9   I92O   8, 4   1931   13,8   1921   11, 0   1932   15,3   1922   9 , 5   1933   16, 0   1923   13 , i   1934   12, 8   1924   IO, I   1935   15,3   1925   13,9      Le medie di ql* 15,3 nel 1932, di ql* 16,0 nel 1933 e di 15,3  nel 1935, sono di un'eloquen£a suggestiva*   Si hanno fondatissimi motivi per ritenere che Tattuale  media nazionale di 14-15 quintali per ettaro possa essere supe-  rata nel prossimo awenire, anche se i capricci dei clima  potranno provocare qualche regresso occasionale*   Oggi Tltalia è in grado di poter produrre tutto il pane che  occorre per i suoi figli: nel 1933 il raccolto è stato di 8r milioni  di quintali, nel 1934, annata particolarmente awersa per fat-  tori climatici eccedonali, la produzione è riuscita a mante-  nersi al livello di 63 milioni di quintali con una media di 12,8  ad ettaro* II raccolto dei 1935, di 77 milioni di quintali,  dimostra che la produ^ione si è ormai stabili^ata intorno a  cifre le quali possono oscillare solo nel campo di varia^ione  segnato dalle influente insopprimibili delle vicende stágionalú    94          r    A n n o   Produzione totale  in milíoni di quintali   1931 ******************   66, 52   1932 .* ♦.   75,37   1933 * * * . .* .   81, IO   1934 . *****   63, 43   1935 .*.   77 , 14    La battaglia dei grano, prima che un insieme di prowe-  dimenti economici e tecnici per Tincremento delia produzione  granaria, è stata un grido di fede e un segno di volontà*  Quando il Duce con il suo intuito infallibile, la proclamò,  compi anche in questa contingenza un grande atto rivoluzio-  nario, técnico ed economico*   Técnico, perchè reagi contro un # opinione diffusissima, che  cioè lTtalia non avrebbe mai potuto produrre tutto il grano  occorrente alia sua popolazione* Economico, perchè reagi  contro la passiva rassegnazione di una nostra immodificabile  insufficienza granaria e distrusse quel mito liberista per cui  si riteneva preferibile che lTtalia tendesse alia produzione di  frutta ed ortaggi da scambiare col frumento, anzichè si per¬  desse dietro allTllusione deli'indipendenza granaria*   11 successo si deve anzitutto a quella grande forza che si  chiama volontà umana, che ha armato la técnica e che il Duce  ha trasfuso nello spirito di tutti gli italiani e nelFazione alacre  dei popolo rurale*    95                     LA BONIFICA INTEGRALE    II Capo, il 28 ottobre delhanno VI, inviando un messaggio  alie Camicie Nere di tutta Italia, ricordava: «in quest'ora di  esultanza e di propositi, tre fondamentali avvemmenti: la  riforma monetaria, la legge sul Gran Consiglio, la bonifica  integrale. Sono tre date fondamentali nella storia dei Regime  che rendono particolarmente significativo 1 ’anno VI.   « La riforma monetaria ha coronato la strenua difesa delia  lira, la quale presidiata dalForo non teme manovre o sorprese.  La legge dei Gran Consiglio stabilisce la stabilità e la durata  dello Stato fascista. La bonifica integrale darà terra e pane   ai milioni di italiani che verranno ». .   II Capo ha voluto che Tagricoltura andasse al primo piano  deireconomia italiana perchè i popoli che abbandonano a  terra sono condannati alia decadenza; ed è mutile, Egli am-  moniva, quando la terra è stata abbandonata, dire che bisogna  ritornarvi. La terra è una madre che respinge inesorabilmente  i figli che 1'hanno abbandonata.   Bonifica integrale significa graduale trasformazione de a  terra a forme di vita agricola piü intense e civili; significa  processo di adattamento delia terra, che si attua attraverso  1'immobilizzazione di grandi capitali e con 1'esecuzione 1  grandi lavori. ’   In un primo tempo per bonifica si intese semplicemente  il prosciugamento di paludi, per difendere le popolaziom  dalla malaria. L’esiguità dei risultati ottenuti con la semphce  eliminazione delle acque sovrabbondanti, non seguita od mte-  grata dalla trasformazione delhordinamento delia produzione  agricola, convinse gli organi responsabih circa l’insufficienza  delia sola sistemazione idraulica delle terre. S impose qum 1  1’integrazione delle opere idrauliche con altre opere volte a    96      dotare di viabilità, di fabbricati e di piantagioni legnose, le  Zone redente, affinchè la popola^ione che ivi già risiedeva o  che vi sarebbe immigrata potesse trovare adeguate condi^ioni  di vita* Tale indirh&o fu anche dovuto al fatto che Tespe-  rien^a insegnava come la malaria fosse non soltanto dovuta  alia palude ma anche alia mancan^a di coltiva^ione* Fu  messa cosi in chiara eviden^a Fimportan^a enorme che ha  la intensificadone delle colture, per higiene dei territori  prosciugati*   Troppo spesso prima dei Fascismo era accaduto che le  costose opere di prosciugamento e di canalÍ££a2;ione compiute  dallo Stato non fossero seguite dal necessário completamento  e dalla valori^^a^ione delle terre da parte dei privati* L/ini~  Cativa di questi rimaneva torpida e si estraniava quasi da  quella statale mancando il necessário collegamento; il quale,  se deve essere provocato da una saggia legislasione, deve  essere pure frutto di una cosciente volontà capace di imporre,  occorrendo, la trasformasione agraria*   Questa conce2;ione però non potè affermarsi in maniera  decisa e sicura se non dopo Favvento dei Fascismo che pose  il problema delia bonifica integrale tra quelli fondamentali  dello Stato, riconoscendone Timportan^a política e sociale*   II continuo incremento delia popola^ione che impone il  piü alto grado di intensità produttiva e le differen^e di densità  demográfica che si notano fra regione e regione, richiede-  vano una política rurale che potenziasse la produzione ed  attenuasse i piu stridenti squilibri demografici*   II concetto di bonifica integrale non si esaurisce quindi in  un solo fatto técnico ed economico, ma ha anche un valore  demográfico altissimo; la bonifica va congiunta con una polí¬  tica mirante a portare la vita nella terra redenta e a radicarvi  huomo rendendolo partecipe alia produsione*    7-4    97           Solo cosí si compie una grande rivoluzione terriera e si  attua una grande conquista sociale.   II Fascismo quindi non considera la bonifica una semplice  opera di prosciugamento di terre palustri, o anche un’opera  atta a trasformare terre mal coltivate o incolte, ma consi¬  dera la bonifica una iniziativa assai piú complessa e lungi-  mirante, intesa a creare nuove fonti di lavoro e di ricchezza,  nuovi aggregati civili, a restituire alia vita rurale il suo fascino  e la sua sanità, a porre un argine al dilegante urbanesimo.   Nel quadro delia bonifica integrale rientra, perciò, il pro¬  blema importantíssimo delia casa rurale, che il Duce per primo  ha visto e súbito imposta to.   II Capo in occasione delia premiazione dei concorso nazio-  nale dei grano, il 14 ottobre delbanno VI, affermava che la  bonifica integrale dei território nazionale è un'iniziativa il  cui compimento basterà da solo a rendere gloriosa, nei secoli,  la Rivoluzione delle Camicie Nere.   Questa iniziativa è 1 ’indice di un orientamento dei Regime  fascista che il Duce ha espresso in questa forma: il tempo  delia política prevalentemente urbana è passato: ora è il tempo  di dedicare i miliardi alie campagne, se si vogliono evitare  quei fenomeni di crisi economica e di decadenza demográfica  che già angosciano paurosamente altri popoli.   Per raggiungere queste finalità il Governo fascista ha prov-  veduto a riordinare, perfezionare, completare, la legislazione  sulla bonifica.   Sono stati distinti i terreni compresi nei comprensori di  bonifica propriamente detti, nei quali bisogna procedere ad  una radicale trasformazione delbordinamento delia produ-  zione agraria, dai terreni che richiedono soltanto migliora-  menti fondiari, onde perfezionare 1 'attuale ordinamento. Mentre  per Tesecuzione dei miglioramenti fondiari da compiersi sui    98           terreni che non sono compresi nei comprensori di bonifica, lo  Stato concede contributi per stimolare 1 'iniziativa; nei com¬  prensori di bonifica lo Stato esercita pienamente la sua attività  pubblica.   È esso che fissa i caratteri fondamentali dei nuovo ordina-  mento produttivo da instaurare nei terreni bonificati: è esso che  sostiene interamente o in gran parte la spesa per Tesecuzione  di quelle opere di carattere pubblico, che sono indispensabili  per creare le condizioni ambientali adatte ad accogliere le  nuove forme di agricoltura che si vogliono introdurre.   In questi terreni di bonifica i proprietari sono tenuti, per  espressa norma di legge, ad eseguire tutte quelle opere di  carattere privato atte a far si che la bonifica compiuta si  svolga nel senso che lo Stato ha stabilito. I privati possono  giovarsi dell’aiuto finanziario statale, sia richiedendo contri¬  buti per 1'esecuzione delle opere o concorsi governativi per  il pagamento degli interessi sui mutui contratti per compierle.   La legge fondamentale delia bonifica è la legge Mussolini  dei 1928. L'applicazione di essa ha esteso i territori di  bonifica ad oltre 4 milioni di ettari, cosi distribuiti per  compartimento:    SUPERFÍCIE DEI COMPRENSORI DI BONIFICA    Piemonte . ♦   ♦ . ha. 73.476   Lazio ♦ . . . .   ha. 219.338   Liguria . ♦   . ♦ » 60.300   Abruszo e Molise   »   51.188   Lombardia ♦   ♦ . » 206.539   Campania ♦ . ♦   »   331.490   Tre Venezie   . ♦ » 808.053   Puglia ♦ . . . .   »   778.208   Emilia... . ♦   . . » 889.741   Lucania * ♦ ♦ .   »   1 23 -573   Toscana ♦ ♦   • ♦ » 457.660   Calabria ....   »   329.417   Marche . .   . ♦ » 217.431   Sicilia.   »   129.653   Umbria ♦ ♦   . ♦ » I.IIO   Sardegna ....   »   166.815    Regno ha. 4.736.983    99          Anche V irriga^ione è entrata nel domínio delia bonifica*  Essa costituisce un formidabile tntzzo per aumentare la capa-  cità produttiva dei terreni che, specie nel nostro Paese, soffrono  per Peccessiva siccità*   Le piü grandi reali^azioni dei Regime nel campo delia  bonifica sono segnate dalla redensione delPAgro Pontino* Dove  una volta regnava lo spettro delia perniciosa oggi sorridono  al sole laziale tre gemme: Littoria, Sabaudia e Pontinia*  Altre seguiranno ad attestare la mareia trionfale delPEra  fascista in cui «si rinnovano gli Istituti, si redime la terra,  si fondano le città »♦   A fianco delle prowiden^e per la battaglia dei grano e per  la bonifica integrale, numerosissime sono le altre prese per  tutte le svariate branche agricole in tredici anni di Regime*  Particolari provvedimenti negli anni di awersa congiun-  tura e per stimolare Popera miglioratrice, furono presi in  matéria di credito agrario e per sowensioni agli agricoltori  dissestati*    ioo             IV.    INDUSTRIA E ARTIGIANATO                  L' INDUSTRIA    L UTALIA sino al 1860 è stata un Paese quasi esclusiva-  f mente rurale*   Anche nella Valle Padana, nella prima metà dei secolo scorso,  le industrie raramente presero largo sviluppo e mai riuscirono  a superare per importanza Tagricoltura che assunse invece,  specie nella zona irrigua, un carattere spiccatamente industriale*  Soltanto alia fine dei secolo scorso, specie nelFAlta Lom-  bardia, le industrie acquistarono notevole importanza; tale  sviluppo si intensifico nel primo decennio di questo secolo*  L* industria tessile si affermò per prima battendo progres¬  sivamente Tartigianato e i numerosi telai domestici* Tra il  1880 e il 1890, sorsero i primi grandi stabilimenti di filatura;  quindi le prime installazioni di alti forni a cok e di forni Martin  per V industria siderúrgica, cui seguirono le industrie meccaniche*  NelPultimo decennio dei secolo scorso si svilupparono anche  numerose medie industrie che costituiscono la parte piú solida  delia industria italiana: fabbriche di vetri, di ceramiche, con-  cerie, fabbriche per la carta e per produzioni alimentari*  Nello stesso tempo hanno vita le prime industrie delia gomma,  si diffondono nuove fabbriche per la tessitura dei lino, delia  seta e delia canapa*   AlPalba dei secolo XX comincia lo sviluppo delh industria  idroelettrica, che doveva raggiungere un alto grado di potenza  nel periodo fascista, e cominciano ad affermarsi cospicue  industrie chimiche* II decennio che precede la conflagrazione  europea vede sorgere i primi grandi zuccherifici e vede molti-  plicarsi le fabbriche di cemento per adeguarsi al crescente  bisogno delhedilizia* Nello stesso periodo la industria che si  era localiz^ata nelle provinde settentrionali, comincia ad  estendersi anche nelh Italia centrale e meridionale*    103        Nel trentennio anteriore alia guerra, perciò, Y Italia si tra-  sforma da Paese quasi esclusivamente agricolo, in Paese nel  quale, pur restando Tagricoltura la base economica, esiste già  un complesso di attività industriali che soddisfano in gran parte  ai bisogni interni e si accingono alhesportazione*   Durante il periodo bellico Tattività industriale si è molti-  plicata, per sostenere lo sforzo immane a cui era soggetto il  Paese; però Y industria crebbe in maniera disordinata, accen-  tuando i vizi di disarmonia che già esistevano*   L' immediato dopoguerra che va dal 1919 al 1922, caratte-  ri^ato da un periodo di crescente disintegradone delia com-  pagine economica dei Paese, non poteva certamente migliorare  la situazione* Anche P industria italiana — come ogni altra attività  — ha largamente beneficiato dei nuovo clima político, nonchè  dei nuovi ordinamenti creati dal Fascismo* In questa nuova  atmosfera psicológica, política ed economica, Tindustria italiana  si lanciò con fede ed audacia verso nuove conquiste*   L/autorità dello Stato non solo dava le garan^ie indispensabili,  ma prowedeva a creare quel complesso di condi^ioni favorevoli  per la ripresa economica, che da tempo mancavano e che sono  necessarie per aiutare, coordinare e completare Fattività privata*  Neir industria, importan^a capitale ha avuto il nuovo ordine  sindacale corporativo, con la creazione di organi adatti a risol-  Vere in sede di collabora^ione i contrasti inevitabili tra capi¬  tale e lavoro*   Numerosi sono i prowedimenti presi dal Governo fascista  per difendere ed aiutare lo sviluppo industriale*   I prowedimenti investono tanti settori delPattività indu¬  striale italiana*   Citiamo ad esempio le prowiden^e per Y industria ^olfifera  duramente colpita dalla concorrenza americana; quelle per  T industria marmifera, che ha pure larghi riflessi sociali*    104            Con particolare riguardo airagricoltura e alie necessità bel-  liche, di speciali prowidenze hanno goduto le industrie dei  prodotti atotati, fondate sulle superbe inventioni dei nostri  tecnici, che hanno consentito di produrre in Paese, utilit-  £ando Patoto delParia, i nitrati necessari airagricoltura e alie  industrie di guerra, liberandoci dalla servitü straniera*   IP industria delia seta naturale un giorno fiorentissima,  nonostante la crescente concorrenza delia fibra artificiale, è  stata ripetutamente sorretta, direttamente e indirettamente  attraverso i premi alia bachicoltura*   Di speciali previdente dei Governo fascista ha anche goduto  la giovane industria cinematográfica*   II tracollo dei prezei che continuo con un crescendo pauroso  e che mise moltissime industrie in condizioni di estrema diffi-  coltà, consigliò il Governo ad applicare una disciplina siste¬  mática nella produzione, capace di ridurre la disordinata con¬  correnza che recava anche pregiudizio al complesso delia  economia nazionale* Con disposizioni legislative dei dicembre  1931 il Ministro delle Corporazioni fu autorizcato a costituire  consorzi obbligatori fra gli esercenti V industria siderúrgica*  Successivamente con legge dei giugno 1932, furono stabilite  le norme generali per la costituzione ed il funcionamento dei  consorzi tra esercenti uno stesso ramo di attività, e con la legge  dei gennaio 1933 si diede al Governo il potere eccezionale di  sottoporre ad autoriz^azione i nuovi impianti industriali e gli  ampliamenti di impianti preesistenti*   In tal modo la nuova realtà corporativa cominciava ad  esplicare in pieno la sua delicata funcione anche nel campo  deir industria* Cosicchè non soltanto fu evitato il pericolo di  lasciare costituire nelP interno dei Paese formidabili monopoli  di carattere supercapitalistico, ma venne indiriz^ata la produ-  tione industriale verso queirarmonica costituzione a carattere    105       nazicnale che sollanto lo Stato può veramente effettuare. II  concetto privato di azierda industriale, viene permeato da un  concetto nuovo, il corporativo, nel quale Pelemento pubblidsta,  se non acquista prevalenza assoluta, costituisce certamente la  finalità.   Larga applicazione ha avuto la ancidetta legge dei 1933:  il Ministero delle Corporacioni esamina periodicamente le  domande presentate e prowede o meno alia loro approvazione  compiendo un lavoro salutare per Tequilibrio delP industria  nadonale.   Nel campo delia navigadone Topera dei Governo, in armonia  alio spirito legislativo or ora ricordato, è stata intesa a promuo-  vere e ad agevolare concentracioni e fusioni, evitando cosi  Taggravarsi di alcune situadoni di disagio che si erano venute  determinando con la crisi dei noli.   Le società Citra e Florio sono State fuse nella Tirrenia;  La S* Marco, P Anônima Industrie Marittime, la Puglia, la  Costiera, la Zaratina e Nautica, si sono fuse nelPAdriatica.  Questa, con il suo blocco di 48.000 tonnellate, esercita il  traffico nelhAdriatico e nelPEgeo, mentre la Tirrenia, con le  sue 128.000 tonnellate, effettua i suoi servici nel Tirreno e  per le Colonie.   La Marittima e la Sitmar si sono fuse nel Lloyd Triestino  costituendo un blocco di 210.000 tonnellate destinato ai servici  dei Mediterrâneo Orientale, dei Mar Nero, delP índia e dello  Estremo Oriente.   II Lloyd Sabaudo e la Navigadone Generale Italiana si sono  fuse nelPItalia, che è la piú potente adenda marittima italiana,  formata da un blocco di 360.000 tonnellate adibita ai servici  delle Americhe, delP África e delPAustralia.   Già discorrendo delia politica financiaria avemmo occasione  di ricordare lTstituto per la Ricostrucione Industriale (I. R. L)    106          creato dal Governo fascista nel gennaio dei 1932, dopo avere  dato vi ta, nel novembre dei 1931, airistituto Mobiliare Italiano  (I. M* L)* Entrambi questi Istituti hanno avuto una influenza  notevolissima suir industria italiana»   L* I* M* I* ha lo scopo di accordare prestiti ad imprese pri-  vate italiane e di assumere eventualmente partecipazioni azio-  nali* Gli impegni non possono in ogni caso estendersi ad un  período superiore ai 10 anni*   L* L R* L comprende una sezione che si occupa delle sov-  venzioni e dei crediti alP industria, e una seconda che ha il  compito di liquidare alcune imprese in passato gestite dalPIsti-  tuto di liquidazione*   II Governo fascista con la sua política industriale ha dato  ancora una volta la dimostrazione dei suo equilíbrio, delia sua  saggezza e di una grande tempestività ed energia» Esso non  solo non è caduto nel consueto errore di paralizzare Tinizia-  tiva privata, ma ne ha potenziato invece e favorito lo sviluppo  in armonia con quella disciplina e con quello spirito di mutua  comprensione e di collaborazione che sanciscono i basilari  principii delia Carta dei Lavoro»   Una visione sintética e nello stesso tempo precisa delia  struttura industriale di cui è dotato il nostro Paese si può  avere dal censimento industriale e commerciale compiuto il  15 ottobre 1927*   Da esso appare chiaramente che in Italia predominano le  piccole aziende con un modesto numero di addetti; su 732*109  aziende ben 692*313 hanno meno di n addetti* In queste  piccole aziende trovano occupazione 1*510*304 persone, cioè  piü di un terzo di tutti gli addetti alie industrie censite, che  ammontano a 4*005*790* L/esame analítico fatto in base alie  classi di industrie, dimostra che il numero maggiore di addetti    107       è impiegato nelle industrie tessili le quali, nel nostro Paese,  si sono sviluppate in maniera imponente e sono raggruppate  in un numero relativamente piccolo di stabilimenti.   In ordine d' importansa, secondo il numero delle persone  impiegate, segue V industria dei trasporti e delle comunica-  sioni, cui attendono poco piü di mezzo milione di persone  (518,983).   Le industrie meccaniche e quelle dei vestiário raggruppano  un numero di addetti pressochè uguale: rispettivamente 478.896  e 491.793. Esse differiscono per il numero degli esercizi che  risulta di 80.705 per le industrie meccaniche e di 108.470 per  quelle dei vestiário.   Le industrie alimentari ed affini assorbono il lavoro di circa  340,000 addetti; un numero di poco minore ne occupa Tindu-  stria delle costru^ioni; 286.115 persone, distribuite in 103.015  adende, si dedicano alh industria dei legno.   È opportuno rilevare che le a^iende con un numero di addetti  superiore al migliaio sono frequenti specialmente nel gruppo  delle industrie tessili (71) e meccaniche (46), seguono quelle  siderurgiche e metallurgiche (24) e, infine, quelle dei trasporti  e delle comunica^ioni (23),    108            ...-i    In complesso   Sino a   10 addetti    Esercizi   Addetti   Esercizi   Addetti .   Industrie connesse con Ta-  gricoltura ♦ ♦♦♦♦♦♦   IO.419   45.842   9.699   - \   20.219   Pesca   13.578   43.051   13.2H   35.907   Miniere e cave ♦ ♦ ♦ ♦ ♦   5-124   98.778   3.842   12.606   Industria dei legno ed affinL   103.015   286.II5   100.367   2I2.2 o 8   Industrie alimentari ed afíini   81.973   343.081   78.835   201.6l6   Industria delle pelli, cuoi,  ecc. .♦♦♦♦♦♦♦♦   7-950   53*373   7.142   16.020   Industria delia carta ♦ . .   2.267   45.749   1-539   5-525   Industrie polígrafiche • ♦   8.002   57.508   6.894   19.701   Industrie siderurgiche e me-  tallurgiche   2.102   122.519   1-259   5.097   Industrie meccaniche * * ♦   80.705   478.896   76.560   I7O.746   Lavorazione dei minerali,  esclusi i metalli ♦ ♦ ♦ *   17.401   171.922   14.452   44.824   Industria delle costrusioni.   38.537   332.562   32.925   88.648   Industrie tessili ♦ ♦ ♦ *   10.408   642.887   6.24O   16.824   Industria dei vestiário, ecc*   191.274   491.973   m   00   t>   00   M   352.978   Servizi igienici, sanitari,ecc*   38.286   95-497   37.804   75-839   Industrie chimiche * ♦ . ♦   5.154   99-475   3 927   12.971   Distribusione di forza mo-  trice, luce, ecc* * * * *   5.910   60.463   4-923   I4.27O   Trasporti e comunicazioni*   108.470   518.983   IO3.477   2OO.854   Combinadoni di industrie  di diverse classi ♦ ♦ ♦ ♦   | 1-534   17.116   1.363   3-451   Totale ♦ * ♦   732.109   4.005.790   692.313   i.510.304                     L'industria mineraria, esplicantesi specialmente nel settore  dei ferro, dei piombo e dello zinco, delia pirite e dei combusti-  bili fossili, ha segnato un forte incremento nel periodo che  corre dal 1925 airinisio delia crisi economica mondiale*  Mentre nel 1921 e anche nel biennio 1923-24 la produ-  sione di minerali di ferro oscillò intorno a 300*000 tonnellate,  negli anni seguenti ebbe forti incrementi tanto che nel 1930  supero nettamente le 700*000* Anche i minerali di piombo  e zinco, che nel 1922 erano prodotti in una quantità di poco  superiore a 120*000 tonnellate, nel sessennio 1925-30 raggiun-  sero una produzione media di oltre 250*000* I combustibili  fossili, nel rigoglioso periodo delheconomia fascista, supera-  rono la produ^ione di un milione di tonnellate e nel 1929  raggiunsero la cospicua cifra di 1*400*000*   La produzione di piriti di ferro, che nel periodo pre-bellico  raggiunse faticosamente le 300*000 tonnellate annue, nel  sessennio 1925-30 raggiunse una produzione media di oltre  600*000 e nel 1930 supero le 700*000*   I prodotti delhindustria metallurgica hanno segnato graduali  aumenti nel periodo fascista.   I dati sottoriportati, riferentisi alia ghisa di alto forno, al  ferro e alhacciaio, lo dimostrano chiaramente;    Anni   Ghisa cTalto forno   Ferro e acciaio 1   Anni   Ghisa d'a!to forno Ferro e acciaio    in migliaia di tonnellate   jn migliaia di tonnellate    489 1721                             È rilevante il fatto che nel biennio 1938-29 si sia superata  la produzione di oltre due milioni di tonnellate di ferro e di  acciaio e che la ghisa d'alto forno neiranno 1929 abbia raggiunto  la produzione di 670*000 tonnellate*   La produzione di piombo è salita, da circa 12*000 tonnellate  prodotte nel 1921, a una produzione media di 20*000 e nel 1932  ha raggiunto la cospicua cifra di 31*470 tonnellate* Anche la  produzione di mercúrio, che nel 1921 superava appena le 1000  tonnellate, nel triennio 1927-29 è quasi raddoppiata*   Forte incremento ha pure avuto la produzione di zolfo  grezzo, la quale mentre nel triennio precedente Tawento dei  Fascismo si era mantenuta assai inferiore alie 300*000 tonnel¬  late, nel triennio 1931-33, nonostante le difficoltà create dalla  crisi, supero la media produzione di 350*000 tonnellate, come  dimostrano i dati seguenti:    A n n i   Z 0 1 f 0    in migliaia di tonnellate   x 92 X *****************   274   1926 *****************   271   1927 *****************   306   1931 ********.* * * *   354   1932 * * *.*****   350    Speciale importanza hanno i prodotti chimici, i quali,  specie nel campo dei concimi, hanno ricevuto, per Timpulso  dato dal Fascismo airagricoltura, un insperato incremento*  Tra questi va ricordato il perfosfato che, mentre nel período  prebellico era prodotto in una misura poco superiore alie  900*000 tonnellate, nel 1925 ha superato il milione e mezzo,  di tonnellate* Importantissima è stata pure la produzione di              concimi azotati, segnatamente delia calciocianamide e dei nitrato  di soda, ottenuti con processo sintético valendosi delbazoto del-  1 'aria. In virtú di ciò 1 'agricoltura italiana si può dire oggi com¬  pletamente emancipata dalhimportazione straniera di azotati.   La produzione di solfato di rame ha pure segnato un note-  vole aumento. Nel triennio 1926-28 essa ha superato sensibil-  mente le 100.000 tonnellate, mentre nel periodo prebellico  raggiunse faticosamente le 50.000.   II Governo fascista non mancò di stimolare e aiutare 1 ’atti-  vità di quelle industrie che potevano dare matéria prima per  attivare il commercio di esportazione. A tale scopo, come già  abbiamo ricordato, esso aiutò in varie maniere 1’industria  serica, la quale riusci a raggiungere e a superare, durante i  primi otto anni dei Governo fascista, la produzione media di  oltre 5000 tonnellate di seta greggia. Mentre nel biennio 1921-  1922 essa risultò di sole 3700, nell’anno 1924 e nel 1928 la  seta greggia venne prodotta nella misura di quasi 5600, cifra  appena raggiunta nel 1909 e superata nel 1906-1907, quando  1’industria delia seta attingeva i vertici dei suo splendore.   In molti altri campi 1 'attività industriale italiana si è espli-  cata con raro vigore; cosi è avvenuto nel campo elettrico e dei  gas; ma essa ha raggiunto speciale importanza specialmente  nel campo dello zucchero e anche nella produzione delhalcool.    Anni   Zucchero J   Álcool   in migliaia di quintali   ..   3056   372   1922 . ...   2703   443   1923 . ♦♦♦*♦*♦♦   3190   444   1924 .   3822   506   1930 . ♦♦♦♦♦♦•♦♦   3877   489   1931 •♦♦♦♦♦♦*♦♦♦♦♦♦♦   3414   420    112    L                    I 2 milioni di quintali di zucchero prodotti nel 1921 sono  stati superati negli anni seguenti; la produzione di questa  importantíssima derrata ha segnato, attraverso inevitabili  oscillazioni, una netta tendenza alPaumento.   La produzione dei gas-luce è andata crescendo con ritmo  costante: dai 291 milioni di metri cubi prodotti nel 1922 si  sono quasi toccati i 2000 milioni nel 1932.   Particolare attenzione merita 1 'impulso dato dal Governo  fascista alia produzione delbenergia elettrica, di cui già si  tenne discorso. Perfezionando ed ampliando i vecchi impianti,  costruendone di nuovi e creando bacini artificiali di grande  capacità, il consumo è passato da meno di 5.000 milioni di  kwh. dei 1922, a 8.450 milioni di kwh. nel 1932 e a circa  10 miliardi di kilowatt-ora nel 1933. Ovunque si cerca di sosti-  tuire il carbone di importazione con energia elettrica prodotta  in Paese: un esempio luminoso è offerto dal Governo fascista  con Tintensa elettrificazione delle ferrovie.   Fra le industrie tessili ha specialmente importanza quella dei  rayon, che si è sviluppata in modo veramente rigoglioso  specialmente negli anni delhera fascista, come attestano i  dati che seguono:    Anni   Rayon   in milioni di kg.   1924 ♦ ♦ ♦ ♦ *...   xo, 45   1928 . ♦ . ..*.   26 , 00   1929 . 44.44,4   32 , 34   1930 . 4 4 4 4 .   30 , 14   1931 4 4 4 4 4 4 4 . 4 4 4 4 4   34, 59   1932 444 .   32 , 07   1933 .   37,15    113    8-4            I cantieri navali hanno pure svolto un’ attività che è carat-  terizzata da un continuo aumento sino al 1926, anno in  cui sono State varate navi per 250.000 tonnellate di stazza  lorda. In seguito, a motivo delia crisi, si è avuta nella  produzione navale una sensibile riduzione che va anche vista  come effetto delia forte contrazione dei commercio interna-  zionale.   Nonostante gli awenimenti di carattere eccezionale ai  quali abbiamo assistito in questi ultimi anni e che hanno  sconvolta 1’ economia dei mondo, 1' industria italiana non  soltanto ha resistito validamente sulle posizioni conquistate,  ma è riuscita, specie in alcuni settori, a conseguire notevoli  progressi.   L'indice delia produzione industriale italiana, posto uguale  a xoo 1’anno 1922, preso come anno di base, in tutti gli anni  successivi non ha mai segnato le depressioni registrate per altri  Paesi, bensi un incremento sensibilíssimo anche negli anni di  crisi.   INDICI DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE                L'ARTIGIANATO    L/incateante fenomeno deirurbanesimo e la decrescente  natalità si sono manifestati in maniera piü acuta laddove piú  intensa è Torgani^azione di tipo industriale, cioè laddove le  donne sono impiegate nelle fabbriche e nelle manifatture,  dove il mondo capitalistico domina con le sue tragiche contrad-  di^ioni, che soltanto la conce^ione fascista ha saputo affron-  tare con un piano concreto ed umano*   L/artigianato, invece, ha un carattere squisitamente rurale*  L/elogio deiritalia agrícola è implicitamente Telogio delle  folie artigiane*   Per tutto ciò il Fascismo, se riconosce nelhaítività industriale  un mezzo formidabile di conquista e di poten^a, se riconosce  nella fabbrica e nelPofficina unhndispensabile elemento di vita  per una na^ione civile, spiritualmente esalta la funcione del-  Tartigianato, il quale ha risolto, nello stretto âmbito delia  sua bottega, i conflitti dei capitalismo* L/artigiano, come il  piccolo proprietário coltivatore diretto, lavora con gioia;  il suo lavoro non è mosso soltanto da egoistiche esigenze eco-  nomiche, ma anche dal desiderio di compiere un'opera delia  quale nel suo intimo sente tutta la bellezsa* Come il piccolo  proprietário agogna al possesso terriero e una volta raggiuntolo  cerca ognora di consolidarlo, prodigandosi in opere di miglio-  ramento, investendo nella terra tutti i suoi risparmi, cosi  Tartigiano, dopo che si è proweduto dei mezzi indispensabili  per il suo lavoro, impiega tutte le for ze produttive delia sua  famiglia per potenziare sempre piú la sua piccola asienda e  faria assurgere magari a piccola industria*   II carattere particolare delPartigianato, che si ripercuote  nelle caratteristiche psicologiche di coloro che lo esercitano,  ha fatto si che esso fosse guardato dal Fascismo con particolare   115           simpatia e comprensione* II nostro Paese poi, che vanta gloriose  tradizioni nel campo dell'artigianato e possiede un núcleo  formidabile di piccole e medie botteghe artigiane, sente in  maniera particolare Íl bisogno di poteriare e sviluppare  questa forma di attività economica, solidíssima fonte di sta-  bilità sociale*   Per queste ragioni il problema artigiano non è e non puo  essere un problema esclusivamente economico*   Gli obbiettivi dei Regime in matéria di política artigiana  sono volti a migliorare tecnicamente e artisticamente i prodotti  di questa benemerita categoria, per poter superare la concor¬  rera straniera e conquistare i mercati*   Dal punto di vista economico il Governo fascista, attraverso  le cooperative di mestiere e bancarie, ha anticipato denaro e  assistito nei piü diversi modi questi piccoli imprenditori* Ha  cercato inoltre di applicare una rigorosa selecione dei prodotti,  indíviduando i centri di produzione caratteristici, coltivando  attraverso le mostre la conoscera di queste attività e il tradi-  zionale buon gusto dei nostro popolo, per stimolare i singoli e  compiere una efficace opera di selesione*   Le categorie professionali rappresentate dalla Federa^ione  fascista autonoma degli artigiani d*Italia, la quale sí e prodigata  per valorirare sempre piü questa folia di piccoli produttori  sapienti e tenaci, sono numerosissime*   L'arte dei legno comprende sensa limitazione di numero  intagliatori, laccatori, scultori in legno, lucidatori, doratori e  stipettai* Qualora le imprese non impieghino piü di cinque  dipendenti anche gli ebanisti e corniciai, mobilieri e tornitori  sono raccolti nella Federazione artigiana, la quale comprende  anche carpentieri e falegnami, imballatori e sediai, quando essi  siano impiegati in attività che non occupano piü di tre dipendenti*   n6            La ricordata Federasione rappresenta anche i fornitori di  oggetti d'arte, i battiferro, i ramai e calderai, gli sbalzatori di  metalli, gli arrotini e i modellatorh   Le attività artigiane, varie e multiformi, diverse per le materie  lavorate e per i prodotti ottenuti, dominano completamente  Farte dei tessuto e dei ricamo, Tarte delTorafo, delTargentiere  e delTorologiaio* Speciale importanza hanno anche nel campo  delia ceramica artistica, la quale ha raggiunto, specialmente  in alcune zo ne dei nostro Paese, un incontestabile splendore  e vanta antichissime tradizionh Ricordiamo le industrie cera-  miche umbre, faentine e quelle pesaresi, per citare soltanto le  principaln   L'arte dei cuoio e delia cak^tura raccoglie un grande numero  di doratori e di sellai, di pirografi e bulinatori, di sbalzatori e  stampatori, calzolai ed astucciai, che nel complesso raggiungono  un numero considerevole di addetti, i quali portano il tributo  precioso di un lavoro paciente alia produzione nazionale*  Anche i valigiai e i cinghiai, guantai e pellettieri, pur trovando  di solito il loro impiego in aziende cospicue, vengono però ad  accrescere il numero di questa benemerita categoria di modesti  e solidi produttori*   L'arte delia tessitura e dei ricamo, alia quale si dedicano con  grande perimia le mogli e le figlie dei nostri salariati, sia nel  campo dei merletto e delia trina, sia in quello delia filatura  e tessitura a mano di stoffe e tappeti, raggiunge mTimportanza  che, specialmente in alcuni centri delTItalia settentrionale  e delle isole, non può essere trascurata*   Tra gli artigiani vanno contati anche gli acquafortisti,  xilografi e xenografi, nonchè i litografi e i rilegatori di librh  Nei modesti centri il carattere artigiano si può riscontrare  anche nelle piccole tipografie come nei fabbricanti di timbri  in legno e metallo e di oggetti e modelli di carta e cartone*    Affine a questa attività è quella delia fotografia che nel grandís¬  simo numero dei casi e per la quasi totalità delia produzione  è in mano di valenti artigiani.   La lavorazione dei marmo e delia pietra è specialmente opera  di artigiani. Mosaicisti, alabastrai e sbozzatori di pietre, luci-  datori di marmi e sagomatori, costituiscono un gruppo notevole  di lavoratori che, insieme agli addetti all’arte dei restauro,  formano un gruppo importante delia Federazione artigiana.   A questa categoria appartengono anche i parrucchieri, gli  addetti all’arte deil’arredamento e dei giardino, quelli impiegati  nelFarte dei giocattolo e delia pirotécnica, i vulcanizzatori e  gli ombrellai.   Particolare posizione acquista poi quel gruppo di artigiani  che si dedicano alie attività miste proprie delia vita rurale,  i quali, diffusinei piú remoti angoli delle nostre campagne,  portano con la loro genialità di costruttori e con la loro pazienza  di fini esperti riparatori, un contributo che non può essere tra-  scurato, Ricordiamo tra questi i falegnami, gli ebanisti, i mec-  canici, i fabbri, ecc. Ma sarebbe troppo lungo dare una com¬  pleta nozione delle svariate funzioni esercitate dagli artigiani,  i quali costituiscono una massa imponente, che fornisce un  lavoro sapiente e prezioso ed esercita una funzione insostitui-  bile nella nostra economia.    118        V.    LA POLÍTICA dei lavori pubblici                          GENERALITÀ    A FIANÇO dei poderoso programma di bonifica sta un piü  esteso programma di lavori pubblici, inteso a dar lavoro al-  Tesuberante mano d'opera e creare un complesso di opere civili,  di cui ritalia meridionale e insulare specialmente difettavano*  Con questo intendimento furono creati i Proweditorati  alie opere per il Mezsogiorno e le Isole e TA^ienda Autonoma  Statale delia Strada.   L'opera svolta dal Governo fascista in questi ultimi dodici  anni è stata veramente imponente* Nel primo decennio fascista  (1922-32) le amministrazioni sopra ricordate hanno presi impe-  gni di spesa per circa 37 miliardi di lire, dei quali ben 17  miliardi e mezzo sono stati effettivamente pagati.   II programma di lavori pubblici compiuti ha già avuto, e  avrà ancor piü neirawenire, una notevolissima influen^a sul  benessere dei Paese; non solo ha intensificato gli scambi, ha  favorito i traffici e ha arrecato immensi vantaggi airagricol-  tura e albindustria, ma ha anche elevato il tenore di vita e ha  contribuito a stabilissare le correnti migratorie.   Si tratta di un'enorme quantità di capitale investito nel suolo  pátrio, di immense quantità di lavoro, che an^ichè andare  disperse sono State utilmente impiegate in opere di alto Valore  civile ed economico. Per questo la política dei lavori pubblici  è stata anche un mtzzo efficacissimo per arginare e combat-  tere la dilagante disoccupasione. Nei lavori compiuti dagli  ufiici tecnici dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici,  dalPAzienda Autonoma Statale delia Strada e dal Sottosegre-  tariato per la Bonifica, neiranno 1926 si sono impiegati 21,8  milioni di giornate-operaio, 26,7 milioni nel 1927, 27,3 milioni  nel 1928* L'anno 1929 porta un sensibile aumento di lavori e di  giornate operaie impiegate, le quali toccano i 33,5 milioni:    queste raggiungono 41 milioni nel 1930, 39,3 milioni nel 1931,  per superare i 42 milioni nel 1932*   Queste cifre però non danno una completa idea delia massa  di lavoro posto in atto dal Governo fascista, perchè se nei  cantieri delle imprese appaltatrici di pubbliche costrutioni  si ebbe un formidabile aumento nel numero delle maestrante  impiegate, un incremento sensibile si ebbe altresinelle cave, nelle  officine, nelle fornaci, nelle fabbriche che forniscono alie prime  materiale da costrutione e mezzi d'opera* Anche nelle imprese  di trasporti Tindice di attività segnò un fortíssimo aumento*   Da un punto di vista político va poi posto in particolare  rilievo lo sforto compiuto dal Regime per dotare le città e le  campagne dei Meridionale e delle Isole di tutti quei serviti  pubblici di cui mancavano e che, consentendo forme di vita  migliore, sono di stimolo per Televatione morale e materiale  delle popolationi*   La messa in valore di estesi territori agricoli dei Mettogiorno,  cioè di un território con particolarissime caratteristiche demo-  grafiche, richiese la regolatione delle correnti dei lavoratori  onde incitare, aiutare, assistere quel proletariato agricolo che  desiderava radicarsi alia terra e formare colonie stabili*   Per questo il Duce sin dal 1925 creò presso il Ministero dei  Lavori Pubblici il Comitato permanente per le migrationi  interne, che poi volle alia sua diretta dipendenta presso la  Presidenta dei Consiglio*    LA VIABILITÀ ORDINARIA   Con legge dei maggio 1928 è stata affidata alFAtienda Autô¬  noma Statale delia Strada la rete delle strade di grande comuni-  catione, chiamata anche rete delle strade statali*    122                II Duce ha voluto creare un organo autonomo, agile, prepa-  rato a compiere rimmensa mole di lavoro che era richiesta  per una adeguata sistemazione dei nostro patrimônio stradale*  Egli, che ha sempre avuto un concetto romano delia strada,  ha dedicato ad essa le piú sollecite cure e ha fornito capitali  ingenti per il duraturo assetto ed il miglioramento delia rete  stradale.   Le 136 arterie che formano la rete, il cui sviluppo comples-  sivo è di 20.622 chilometri, nelhestate dei 1928 si trovavano  in condizioni non certo felici: soltanto 463 chilometri di strada  erano pavimentati in maniera tale da non richiedere alcun  ulteriore lavoro per la loro sistemazione* Rimaneva cioè la  quasi totalità da rivedere e da sistemare*   Alia fine di ottobre delhanno X erano stati sistemati 8562  chilometri, dei quali 7910 con trattamenti superficiali e 652  con pavimentazioni permanenti e semi permanenti* Erano  inoltre in corso altre pavimentazioni su oltre 1000 chilometri*  II resto delia rete è stato però oggetto di opere straordinarie  e di manutenzioni talmente accurate che attualmente tutte le  strade si trovano in ottime condizioni*   II Governo fascista nel campo delia viabilità ordinaria non  si è limitato a mantenere o pavimentare le strade esistenti*  Intensa è stata pure Tattività svolta per completare la rete di  grande comunicazione e per arricchire quella delle strade pro-  vinciali e specialmente delle strade comunali, che, in alcuni  compartimenti dei nostro Paese, era inadeguata ai bisogni dei  traffico e specialmente ai crescenti bisogni delPagricoltura*  Particolare menzione va fatta delle autostrade, di cui nel  decennio che va dal 1922 al 1932 furono costruite 436 chilo¬  metri, segnando in questo modernissimo campo delle comuni-  cazioni un primato, che ancor oggi ci è invidiato dai maggiori  Stati d'Europa*    123       La rete delle strade di grande comunicazione è stata aumen-  tata di ben 525 chilometri di nuova costruzione: ricordiamo  il completamento delia grande artéria litoranea tirrenica;  la costruzione dei tronchi delia litoranea ionica situati nelle  provinde di Taranto e Matera; il completamento delia lito¬  ranea adriatica con i tre tronchi situati tra S. Salvo in província  di Chieti e Serracapriola in província di Foggia; i nuovi tronchi  costruiti nelle provincie di Salerno, Potenza e Cosenza, per  tacere di altri importanti tronchi costruiti specialmente nel  Meridionale.   Se le nuove strade statali si sono rivelate di notevole portata,  di grandíssima utilità si sono dimostrate le strade costruite  dalle Provincie e specialmente quelle volute dai Comuni.   Bisogna ricordare che nel decennio fascista sono stati  costruiti 1143 chilometri di strade provinciali e 3844 chilo¬  metri di strade comunali. Nelle Calabrie, nella Lucania, negli  Abruzzi e in Sicilia, si è dato grande impulso alia viabilità  rurale e a quella che ha servito ad allacciare i comuni isolati  alia strade di grande comunicazione.   Anche neiristria sono State compiute opere cospicue:  circa 20 milioni sono stati dedicati alie costruzioni stradali.   Non va poi dimenticata la costruzione di strade turistiche  che servono anche per la comunicazione fra importanti compar-  timenti (citiamo ad esempio la Gardesana occidentale e orientale)  e quella di importantissime autostrade quali la Roma-Ostia,  la Napoli-Pompei, la Firenze-Viareggio, la Padova-Venezia  e quelle irradiantesi da Milano per Torino, i laghi e Brescia.   Non si può terminare questa breve e incompleta rassegna  delle opere stradali compiute dal Fascismo, senza ricordare  il ponte che congiunge Venezia con la terraferma, largo 20  metri, lungo 4 chilometri, costruito in meno di due anni con  la spesa di 80 milioni.    124       LE FERROVIE    La rete ferroviária ereditata dai passati regimi, se per molti aspetti  si presentava in felici condizioni, richiedeva però una opera attiva  di integrazione e di completamento onde rendere ancor piú effi-  cace il servizio che essa poteva prestare aireconomia dei Paese*  Negli ultimi 12 anni la rete ferroviária italiana è stata miglio-  rata e potenziata: rettiíiche e raddoppi di binário; ricambi e rin-  forzi di armamento; ampliamento e ricostruzione delle stazioni,  dei magazzini e dei servizi; rinnovamento dei materiale rotabile*  L'esercizio delle ferrovie è stato poi riordinato in maniera rapida  ed energica; è stato ristabilito un alto senso di disciplina nel perso-  nale ferroviário, dei quale ne è stato aumentato anche il rendimento*  Particolare importanza ha assunto poi la elettrificazione,  estesa ad importantissimi tronchi ferroviari e che si estenderá  ulteriormente per liberare sempre piú la Nazione dal grave  onere delia importazione dei carbon fossile*   Nel campo delle nuove costruzioni ferroviarie bisogna  ricordare la direttissima Roma-Napoli, a doppio binário,  che ha rawicinato notevolmente questa città alia capitale;  la Cuneo-Ventimiglia, la Sacile-Pinzano, e specialmente la  direttissima Bologna-Firenze, a doppio binário, con una galle-  ria scavata, per oltre 18 chilometri, nelle infide argille appenni-  niche, superando difficoltà tecniche giudicate insormontabili  e nella cui costruzione perdettero la vita decine di operai*   Nel complesso sono State aperte airesercizio nuove linee ferro¬  viarie dello Stato e deirindustriaprivata per circa 3000 chilometri*  Si può affermare che con Topera di completamento dei tron¬  chi compiuta dal Regime, e con la elettrificazione delle princi-  pali linee — di cui recentissima è la Bologna-Roma-Napoli —  la rete ferroviária di cui oggi dispone Tltalia è perfettamente  adeguata ai bisogni delia sua economia*    125      LE OPERE MARITTIME    « II mare era negletto. II Regime vi ha risospinto gli ita¬  liani. La marina mercantile decadeva: il Regime 1 -ha risolle-  vata. Durante questi anni sono scesi nel mare colossi potenti.  I porti si erano impoveriti: il Regime li ha attre^ati e vi ha  creato le zone franche. II lavoro vi era discontinuo per via  degli scioperi: oggi la disciplina delle maestran^e è perfeita.  Al mare, fonte di salute e di vita, il Regime manda ogni anno  centinaia di migliaia di figli dei popolo. La passione degli  Italiani per il mare rifiorisce. Vi riconosce un elemento delia  poten^a na^ionale »♦   Cosi il Duce parlava alhassemblea quinquennale dei  Regime.   Le opere compiute documentano con quale tenacia il  Governo abbia realiz^ato le basi per un*intensa politica mari-  nara.   Nel 1922 le condizioni degli scali marittimi italiani erano  insufficienti. II Regime ha voluto prowedere rapidamente  ad ampliare e sistemare quelli piü importanti, onde favorire  e richiamare il traffico internasionale, sen^a altresi trascurare  i porti minori.   Nel decennio 1922-1932 sono stati costruiti 28 chilometri  di opere di difesa, ripartite in 82 porti; la superfície dei bacini  è stata aumentata di 680 ettari. La calate si sono accresciute  di 36 chilometri e la superfície dei terrapieni di 295 ettari.   Dalle corrosioni dei mare sono stati difesi circa 17 chilo¬  metri di coste.   II Consorcio per il porto di Gênova ha completato il bacino  Vittorio Emanuele III, ha ultimato il i° lotto dei bacino Mus-  solini, ha costruito un nuovo bacino di carenaggio largo m. 32,  lungo m. 260.      II porto di Napoli è stato arricchito di un nuovo bacino;  mentre è stato sistemato il porto vecchio* A Livorno è stato  costruito un nuovo porto interno; a Cagliari un mo lo lungo  m* 1655; a Catania le nuove opere eseguite hanno aumentate  le calate di m* 550; a Bari, in seguito alia importan^a che hanno  assunto i traffici con TOriente europeo, fu proweduto ad un  grandíssimo lavoro di ampliamento* Grandiosi lavori sono stati  dedicati al porto di Marghera e alio scalo delia stazione marit-  tima di Venezia* Sono State rinnovate molte opere d'arte nel  porto di Trieste*   II lavoro compiuto è immenso* Oggi il nostro Paese gode di  scali marittimi perfettamente adeguati alie necessità dei traffici  ed è anche pronto ad accogliere ogni futuro incremento nel  commercio interna^ionale*    LE ACQUE PUBBLICHE   La regolari^a^ione dei corsi d*acqua è Topera pubblica per  eccellensa che, in Italia, acquista unhmportan^a di primissimo  ordine, data la sua particolare configurasione oro-idrografica*  Durante il decennio, per i lavori di sistema^ione delia Valle  dei Po sono stati impiegati oltre 400 milioni di lire, che hanno  permesso di migliorare notevolmente la difesa idraulica di  i milione e 250 mila ettari di uno dei territori piú densamente  popolati e ricchi dei nostro Paese*   II Magistrato alie acque di Venezia si è pure prodigato in un  complesso di attività tra le quali prendono particolare evidem;a  i lavori di sistemazione dei bacino delbAdige*   Negli altri bacini dei Regno sono stati costruiti circa 4000  chilometri di argini completati da 775 chilometri di pennelli  e difese frontali*    127     Nel settore delia navigazione interna, per quanto il nostro  Paese non presenti condizioni favorevoli per la costituzione  di una vera e própria rete di vie navigabili, il Governo ha voluto  rendere piú efficace quella esistente nella valle padana e nei  grandi laghi. La via d'acqua Milano-Venezia, le ferraresi,  la litoranea veneta sono State oggetto d’importanti lavori.  Anche il canale da Pisa a Livomo e il tronco inferiore dei  Tevere sono stati notevolmente migliorati.   Nel campo delia utilizzazione delle acque pubbliche, il  Governo ha promosso energicamente la costruzione di grandi  bacini idroelettrici, da servire eventualmente anche all' irri-  gazione. In tal modo 1 'Italia ha cercato di rimediare alia  naturale povertà di carbon fossile, sovvenendo ai bisogni dei  trasporti e delle industrie.   Nel primo decennio fascista la potenza degli impianti idroe¬  lettrici è stata portata da 1,5 milioni di kw. ad oltre 4 milioni; la  produzione di energia è salita da 4 a 10 miliardi di kw-ora.   L'Italia settentrionale concorre alia produzione idroelettrica  con oltre 3 milioni di kw. di potenza installata negli impianti;  esigua è la produzione delPItalia centrale (711.000 kw.) e  Meridionale (208.000 kw.); quasi trascurabile quella delle  isole (76.000 kw.).   L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi nel nostro sistema  alpino e appenninico i serbatoi idraulici che oggi raggiungono  il numero di 168, con una capacità di invaso complessiva di  quasi 1300 milioni di metri cubi.   Alcuni di questi servono anche per 1 'irrigazione.   Tra il centinaio di serbatoi costruiti durante gli ultimi dodici  anmi ricordiamo quello deljMoncenisio, dei Lago di Avio-  grande (Varese), di Ceresole Reale (Aosta), di Montesluga  (Sondrio), di Suviano (Bologna), di Trepido (Cosenza), di  Santa Chiara d'Ula (Cagliari), dell’Alto Belice (Palermo).    128       ACQUEDOTTI    « Da quíndici secoli Ravenna attendeva Tacqua* Si sono  ricordati in questi giorni i nomi venerati, ma lontani, degli  imperatori romanL Passavano i secoli, si susseguivano le gene-  razioni, cambiavano i governi, le signorie, le dominazioni,  la realtà era sempre lontana dal sogno* Solo il Fascismo poteva  fare questo, poichè il Fascismo è, sopratutto al presente, il  verbo volere »♦   Cosi il Duce si pronunciava il i° agosto delEanno EX inau¬  gurando Tacquedotto di Ravenna, consacrato alia memória  dei cadutu   Anche in questo campo di civiltà, di difesa delia razza e dei  popolo, di assistensa agli umili, il Regime si è prodigato,  aiutando gli enti locali con mutui di favore e concorrendo  airesecuzione delle opere stesse con contributi direttú   Oltre airacquedotto di Ravenna, or ora ricordato, van men-  zionati: il grande acquedotto dei Monferrato che dà acqua  a 81 comuni; Tacquedotto Schievenin che serve 20 comuni  delFalto agro trevigiano; Tacquedotto Istriano che approwi-  giona tutta la província; Tacquedotto Franciosetti per la città  di Torino; quello per la Vai d'Orcia e la Vai di Chiana, di cui  beneficiano 11 comuni; quello di Grosseto; gli acquedotti  delia Lucania, ecc*   Sviluppo notevolissimo ha avuto, nelEultimo decennio,  1'acquedotto pugliese*   II Fascismo afffontò decisamente il proseguimento di quel  colossale acquedotto con la costruzione dei grande sifone lec-  cese, delle diramazioni dei foggiano e di altri 1000 chilometri  di condotte esterne e interne agli abitati: fu cosi fornita  Tacqua ad una popola^ione complessiva di circa un milione  di abitanti*    9-4    129     La metà delia spesa totale sostenuta dallo Stato italiano per  compiere questa opera, che documenta il grado di civiltà di  un popolo, è stata erogata dal Governo fascista.   Al complesso di opere ricordate, miranti a dare acqua pura  alie popolazioni delle città italiane e dei comuni rurali, va  aggiunta anche la costruzione di numerose fognature in oltre  300 centri urbani dei Paese*   La breve rassegna che abbiamo fatto sarebbe assai incom¬  pleta se non venissero ricordate altre numerose opere civili ed  igieniche compiute dal regime: ospedali, tubercolosari, cimiteri,  lavatoi, costruiti a centinaia, specialmente nell Italia Meri-  dionale e nelle Isole, dove maggiormente difettavano* La  Sardegna, che era stata particolarmente trascurata dai goverm  precedenti, è stata oggetto di un f intensa attività in questo  campo di opere che riguardano il soddisfacimento dei bisogni  fondamentali delia vita*    U EDILIZIA   II Governo fascista, accanto alie nuove opere pubbliche  miranti a dare nuovo impulso alia vita economica dei Paese, ha  promosso una serie di opere per risanare, ampliare, abbellire,  le grandi città seguendo i dettami delia moderna urbanistica*  In moltissime città italiane sono stati sVentrati vecchi quar-  tieri, creati nuovi rioni, migliorato il rifornimento idrico e lo  smaltimento dei rifiuti* I macelli sono stati moderni^ti, cen-  tinaia di mercati pubblici sono stati rinnovati o costruiti di  nuovo* I servizi di illuminazione sono stati migliorati; lo svi-  luppo dei servizio telefônico costituisce un'altra fondamentale  conquista* Parchi e giardini, viali alberati e ville, sono stati  aperti al popolo che lavora*     Anche in questo campo per motivi di giustizia distributiva  1 'Italia Meridionale ha avuto le maggiori prowidenze.   Ma è stato specialmente nella Capitale che la sistemazione  urbanística ha assunto uno sviluppo dawero imponente. La  costruzione delle vie deli' Impero e dei Trionfi, la sistemazione  delle adiacenze dei Campidoglio e dei Fori Imperiali, ed il  compimento delle numerose opere per dare nuovo assetto  alia viabilità cittadina e per fornire al popolo stadi e giardini,  sono opere veramente degne delia Roma Imperiale.   A queste Va aggiunta la costruzione dei nuovi palazzi dei  Ministero dei Lavor i Pubblici, delia Giustizia, delFEducazione  Nazionale, delia Marina e delle Corporazioni, delia città universi¬  tária e di numerosi altri edifici pubblici necessari per la vita delia  Capitale, centro propulsore di tutte le attività delia Nazione.   Anche nelle varie provincie 1 'edilizia dello Stato ha avuto  singolare sviluppo: ricordiamo i 69 nuovi edifici costruiti per  i corpi armati delia Polizia e delia R. Guardia di Finanza, i  24 nuovi palazzi delle Poste e Telegrafi, i 15 edifici carcerari,  i 7 grandiosi gruppi di costruzioni universitarie e altri ancora.  Nel complesso si tratta di costruzioni per un volume di oltre  7 milioni di mc.   Un particolare posto spetta alia edilizia scolastica.   Nel 1922 il nostro Paese aveva un numero di scuole insuffi-  ciente; inoltre parte di queste si trovavano in condizioni sta-  tiche e di manutenzione dei tutto inadeguate alie esigenze piú  elementari delia popolazione scolastica. È quindi naturale che  il Re gim e, che ha sempre avuto a cuore 1’awenire delia razza  e la preparazione spirituale e fisica delia gioventú, abbia cer-  cato con tutti i mezzi a sua disposizione di dare il piú grande  impulso a questo genere di edilizia.   II Ministero dei Lavori Pubblici, la cui competenza oggi  si estende a tutti gli edifici scolastici d’Italia, ha costruito oltre   131    ii*ooo aule* I Comuni si sono pure prodigati in questa opera  che soddisfa ad uno dei primordiali bisogni delia vita civile,  sistemando vecchi edifici e prowedendo al risanamento ed  alia ricostruzione di quelli che erano igienicamente inabitabiln   L # Italia Meridionale anche in questo campo ha goduto di  particolari benefici*   Nel settore delle case popolari il Regime ha stanziato ioo  milioni a favore di quei comuni e di quegli istituti autonomi  che prendono Tiniziativa per la loro costruzione* II Regime ha  pure proweduto a creare Tlstituto Nazionale per le case degli  Impiegati dello Stato (L N* C* L S*), a emanare particolari  prowidenze per la costruzione di alloggi da destinare ai muti-  lati e agli invalidi di guerra* Col concorso finanziario dello  Stato sono stati edificati, a cura dei comuni, di istituti speciali  e di cooperative, oltre seimila edifici con cinquantamila appar-  tamenti, dei quali 28*000 di tipo economico e 22*000 di tipo  popolare*   II Governo dando grande impulso alie nuove costruzioni  non ha dimenticato la ricostruzione dei paesi devastati dalla  guerra e dai terremoti*   Oggi si può dire che ogni traccia delle devastazioni compiute  durante la conflagrazione europea sia scomparsa; il Regime ha  assolto in tal modo il debito di riconoscenza e di affetto contratto  verso quei compartimenti che furono teatro dei tremendo conflitto,  al quale segui la vittoria che il Fascismo solo ha saputo valorizzare*   La Calabria e la Sicilia, che purtroppo sono annoverate fra  i paesi piú colpiti dal terremoto, si sono giovate in modo par-  ticolare delle sollecite cure dei Governo, il quale autorizzò la  spesa di oltre 500 milioni per la costruzione di case di abita-  zione nei paesi distrutti dal terremoto dei 1908* Nella sola città  di Messina vennero edificati circa 1000 alloggi di tipo popola-  rissimo e numerose case economiche popolari con circa 4600    132      appartamenti* Nella città di Reggio Calabria circa iooo alloggi;  nella província oltre 5000*   Gradatamente sorsero interi rioni di nuove case economiche  e popolari: furono preparati rationali piani regolatori; si edifi-  carono chiese, si initiò Fedilitia pubblica»   Dopo il 1925, dopo cioè il trionfale viaggio che il Capo dei  Governo compi in Sicilia, Topera di ricostrutione fu notevol-  mente intensificata; oggi Messina e Reggio si possono con-  siderare tra le piü moderne città dei nostro Paese*   Anche i territori delia Marsica, che si distendono nei din-  torni di Avettano, colpiti duramente dal terremoto dei 1915,  furono oggetto di sforzi tecnici e finantiari cospicui da parte  dei Governo fascista*   Infatti quando il Fascismo raggiunse il potere, la situatione  delia Marsica era quanto mai desolante; oggi Avetzano è com¬  pletamente ricostruita e i centri colpiti hanno ormai rimarginate  le loro dolorose ferite*   La fermetta dei Governo Fascista e la rationalità dei suoi  sistemi di ricostrutione dei paesi terremotati si dimostrò in  occasione dei disastro dei Vulture ed anche in quello delle  Marche» Nelle tristi contingente che colpirono queste belle  provincie d'Italia, il Governo forni un^ssistenta pronta, ade-  guata, ispirata ad alto senso di umanità» Esso, però, antichè  cedere alie invocationi chiedenti il rápido apprestamento di  baracche, che avrebbe portato a ripetere gli errori tecnici e  finantiari in cui si cadde in tempi passati, prowide con rara  energia a dirigere Topera di assistenta ai disastrati, mentre  squadre di operai cominciavano ad innaltare le case in mura-  tura per i sentatetto»   Anche in questo settore delia vita nationale Topera dei Regime  è stata intensissima e tra le piü proficue: il Duce ha dato anche  a questo aspetto delia vita italiana un nuovo Volto alia Patria.Lorenzo Fioramonti. Fioramonti. Keywords: l’economia di Aristotele, economia fascisdta, Sciacca, Evola, diritto economico, stato fascista, economia fascista, corporativismo, ugo spirito.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fioramonte: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Fiore – implicatura musicale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Celico). Filosofo. Grice: “If you are thinking that Fiore is the source for the Cistercians, you are wrong – actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasn’t one! Pretty much like St. John’s!” -- da Floris, Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris  illustrates the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran Council. Gioacchino da Fiore Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search «… E lucemi dallato, il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato»  (Dante Alighieri, Paradiso, Canto XII, vv. 140-141) Gioacchino da Fiore Joachim of Flora.jpg. Filosofo. NascitaCelico, 1130 MortePietrafitta, 30 marzo 1202 BeatificazioneNuncupato Santuario principaleAbbazia Florense Manuale Gioacchino da Fiore (Celico, 1130 circa – Pietrafitta) è stato un abate, teologo e scrittore italiano. È venerato come beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c'è mai stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica.   Le condizioni economiche della famiglia di Gioacchino erano agiate; il padre Mauro, infatti, era tabulario o notaio. In passato si era ritenuto che la famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di Gioacchino nei confronti dell'Ebraismo.  Gioacchino nacque a Celico; la sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente prima del 1421 sul perimetro della casa natale dell'abate Gioacchino. Ricevette le prime nozioni di educazione scolastica nella vicina Cosenza. Ben presto fu mandato dal padre a lavorare, sempre a Cosenza, presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, andò a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riuscì a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo, dove lavorò prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo Stefano di Perche. Entrato in disaccordo anche con Stefano, si allontanò definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta.  Gli inizi Forse nel corso di questo viaggio maturò un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria Gioacchino si ritirò dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi tornò con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui fu riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo aveva dato per disperso. Al padre confessò di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re (cioè "il Signore Dio nostro")  Visse per circa un anno presso l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontanò per andare a predicare dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende.  Poiché al tempo la predicazione di un laico non era ben accetta, Gioacchino compì un viaggio fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordinò sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si fermò nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontrò il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Tornò a predicare nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vestì l'abito monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense.  Elezione ad abate Secondo le fonti più accreditate, nel 1177 Giovanni Bonasso venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinunciò, scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri. Gioacchino non ambiva a diventare abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini più potenti di quel tempo, riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di quel monastero, all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate Gioacchino cominciò a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate Nicola.  Teologo e scrittore In qualità di abate compì un viaggio all'abbazia di Casamari. Durante questo periodo incontrò il papa Lucio III, che gli concesse la licentia scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, iniziò già a Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento e l'Esposizione dell'Apocalisse. In quello stesso periodo Gioacchino interpretò innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Matteo d'Angers. Da qui scaturì l'incoraggiamento del pontefice Lucio III a scrivere le sue opere.  Nel 1186-1187 si recò a Verona, dove incontrò il papa Urbano III. Al ritorno si ritirò a Pietralata, una località sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e pertanto fecero una petizione per risolvere la questione presso la Curia romana. A seguito di ciò, nel 1188 ottenne l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a scrivere.  Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata, presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo fu Raniero da Ponza, che in seguito fu legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorreva a sentire Gioacchino; pertanto nell'autunno del 1188 Gioacchino salì in Sila alla ricerca di un territorio che si potesse abitare. Dopo varie perlustrazioni, si fermò nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, attualmente nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandonò Pietralata e si trasferì con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata è un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi non identificato con sufficienti certezze.  Dopo sei mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono morì e gli subentrò sul trono normanno Tancredi, già conte di Lecce. Furono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a Gioacchino l'insediamento in Sila, per cui l'abate dovette recarsi a Palermo (primavera 1191) per discutere con il nuovo re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose all'abate di trasferirsi presso l'abbazia della Matina «allora in stato di grave declino» (proposta rifiutata in maniera decisa da Gioacchino), gli fu concesso di restare in Sila[3], nel luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze, aggiungendo 300 pecore e 30 some di grano per il sostentamento della comunità religiosa. Da qui in avanti cominciò a costruire il protomonastero di Fiore Vetere.  Nel 1194, dopo la morte di Tancredi, subentrò nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concesse a Gioacchino un vasto tenimento in Sila e privilegi sovrani su tutta la Calabria.  La Congregazione florense Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, Gioacchino fondò i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisì altri monasteri già italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, Gioacchino si recò a Roma ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della Congregazione florense e dei suoi istituti il 25 agosto del 1196.  I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e, affinché Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimità di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di costruzione dell'insediamento non si fermò, fintanto che l'abate rimase in vita.  Gioacchino morì il 30 marzo 1202 presso Canale di Pietrafitta[4] e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti furono traslati nell'abbazia di San Giovanni in Fiore verso il 1226, quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continuò l'opera ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda.  I grandi benefattori dell'abate Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena ricordare:  Signore di Oliveti: diede a Gioacchino la possibilità di vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla: ratificò a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria: concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati). Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo: concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto  Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco della fine del sec. XVI, cattedrale di Santa Severina I seguaci di Gioacchino, subito dopo la sua morte, raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abortì a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV, che nel 1215 dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a Gioacchino da Fiore. Tuttavia la seconda Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiarò anche: "Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2).  Dante Alighieri, nella Divina Commedia, inserisce Gioacchino da Fiore nel paradiso (canto XII, versi 139-141), tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni dottori della Chiesa, accanto ai santi Bonaventura da Bagnoregio, Rabano Mauro e Tommaso d'Aquino. Da ciò si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte dell'abate calabrese.  Un secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro del monastero florense, che si recò ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite l'abate Gioacchino, sia durante la sua vita sia dopo la sua morte.  È risaputo che i cistercensi venerarono come beato l'abate Gioacchino, elaborandone perfino l'antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ciò sia avvenuto quando i florensi furono fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festività celebrative. Il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunciò all'Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poiché tenevano continuamente accesa una lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate Gioacchino. Tale denuncia causò una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie.  All'approssimarsi dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano iniziò nuovamente l'iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della Causa è stato nominato il don Enzo Gabrieli.  Opere  Dialogi de prescientia Dei Gioacchino, esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono:  Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem chordarum A queste vanno aggiunte:  Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos, Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei, Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato, 1936. URL consultato il 30 aprile 2015. De prophetia ignota De Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum - edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la storia dell'Italia medievale. Antiquitates 4, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli) Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor evangelia, Fonti per la storia d'Italia 67, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre conosciuti:  Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore Secondo Gian Luca Potestà nella sua recensione a Refrigerio dei Santi, Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza escatologica medievale, in quanto è il primo a rompere il "tabù agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E. Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali intellectu", dimostrando così la sua straordinaria originalità interpretativa delle Sacre Scritture.  Gioacchino da Fiore tra le tante ebbe tre interessanti e originali intuizioni.  Ha cercato e provato che esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come modello "binario della teologia della storia", data la piena proporzionalità da lui riscontrata, intuisce la possibilità di "proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'età apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo modo di dire la continuità dell'intera storia della chiesa, passata, presente e futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifuggì dal rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte dalla Scrittura. Da questo concetto binario, Gioacchino elabora un "modello ternario", connesso strettamente alla santissima Trinità, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica delle lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste due concezioni basilari Gioacchino approdò allo sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Età della Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui opererà prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche fondamentali: Età del Padre: corrispondente alle narrazioni dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda (784-746); Età del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di Gesù, estesa nel tempo che va da Ozia fino al 1260; Età dello Spirito Santo: estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del "millennio sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanità attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libertà avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa età, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale.[6] L'età dello Spirito ricomprende le età precedenti in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale illuminazione di Antico e Nuovo Testamento.  Con tale teorema Gioacchino estende il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. Gioacchino elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre alberi, quello sviluppato nell'età del Padre, quello sviluppato nell'età del Figlio e quello che si svilupperà nell'età dello Spirito Santo. Gioacchino crede di vivere nella fase finale di una sesta età, cui ne seguirà una settima e ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata. Nell'età dello Spirito l'etica non ha più il carattere punitivo e rigido dell'età del Padre: il disvelamento è una progressiva apertura verso un Dio benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico Testamento, che è giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verità, allo Spirito che completa questa dimensione rivelata.  L'inesorabilità della storia, secondo Gioacchino, è data da un ossessionante computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di "linea del tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si chiede quanto è lunga questa linea del tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Robert E. Lerner sostiene che "Nella sua visione, ciò poteva essere conseguito soltanto con lo studio il più approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti segreti." Tutta la sua attività ha finito per qualificarlo come un ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi, allusioni e predizioni. Il filosofo Giovanni Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui Gioacchino da Fiore parla di Età dello Spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa[7].  Nel suo Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che mette in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere nel concilio Lateranense del 1215: per l'affermazione di un disvelamento progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unità delle Tre Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la verità non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un'età di perfezione.  Monasterium All'interno dei suoi ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi Gioacchino da Fiore elabora anche uno schema di vita religiosa per il tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella tavola XII del Liber Figurarum. Esso descrive una congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento denominato Monasterium, formata da persone con diversa spiritualità, raggruppate sapientemente in sette oratori[1]:  Oratorio della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo: per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi partecipare laici coniugati e non, clero secolare e conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate che presiede l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella comunità. L'insediamento religioso è strutturato a modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il Padre eterno, ognuno per le proprie possibilità e a seconda del grado spirituale concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale non è precluso a nessuno, per cui tutti possono aspirare ad accedere al Paradiso.  Il modello proposto dal Monasterium rappresentò una rivoluzione per due aspetti:  esso affranca ampi strati della società sia dalla feudalità ecclesiastica sia da quella "baronale"; esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa e della società civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della chiesa del XIII secolo.  Diffusione del pensiero gioachimita Concilio Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa teologia della storia generò tensioni, specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a lui avversa. Nel 1215, il Concilio Lateranense IV dichiarò eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo di un'opera sulla Trinità falsamente attribuita a Gioacchino. Da questo equivoco se ne generarono altri, fintantoché lo stesso Papa Innocenzo III con bolla del 2 dicembre 1216 informa il vescovo di Lucca di non infamare l'abate Gioacchino, giacché l'Abate è considerato dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la Bolla del 5 dicembre 1220 con cui dà mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse rivolte al loro fondatore.  Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero di Gioacchino da Fiore è stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere due gruppi di studiosi:  i gioachiniani e gioachimiti, che hanno rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i più grandi sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscitò interesse anche presso alcuni monaci cistercensi tra i quali:  Luca Campano: il primo dei seguaci eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una “vita” di Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con Gioacchino, come “socio”, a Pietralata e a Fiore, tra il 1188 e il 1195; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di Gioacchino da Fiore, spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e guidò la Congregazione Florense, finché non fu eletto arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi della penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di Gioacchino da Fiore sono giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di copiatura e duplicazione. La teologia di Gioacchino grazie a questi tre uomini si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e italiani in vario modo. Tra questi:  Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino:  Salimbene de Adam da Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo gruppo milanese Andrea Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi (1248-1298), che influenzò Giovanni di Rupescissa (Jean de Rochetaillade) (1300/1310-1366) e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi, Ministro generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il pesarese Angelo Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco d'Appignano (Francesco della Marchia) (1285-90- dopo il 1344), l'inglese Guglielmo di Ockham, il francese Jean de Jandun (Giovanni di Janduno) (ca.1280-1328), Marsilio da Padova, Bernard Délicieux, Gentile da Foligno, priore generale degli agostiniani nel 1332. Michele Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo, il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di Buldesdorf (?- 1446), Girolamo Savonarola (1452-1498) Certo quest'elenco è solo una piccola parte di un numero molto più folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua teologia.  Nonostante molti francescani spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei periodi successivi. La prova più eclatante è la presenza di Gioacchino nell'arte medievale:  Nell'apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, Canto XII, la struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina, secondo lo studio di H. W. Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita. Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal gioachimismo abbiamo[8]: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a <<una nuova Pentecoste», contrapponendo lo «spirito» del Concilio alla sua «lettera» e nuova Chiesa «spirituale» al posto di quella vecchia «carnale»; la <<Chiesa dei poveri>> del cardinale Giacomo Lercaro e del suo teologo don Giuseppe Dossetti, la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda metà del secolo XX; Ignazio Silone su papa Celestino V, «figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo»; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de Certeau e del protestante Jürgen Moltmann, ispirate dalle concezioni escatologiche di Ernst Bloch. Barack Obama fece del pensiero di Gioacchino da Fiore, un punto di riferimento: il presidente degli Stati Uniti d'America Barack Obama, nella stesura della sua tesi di laurea, lo citò a più riprese durante la sua campagna elettorale per le presidenziali[9], che definisce come "maestro della civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo più giusto", usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto "change we can", <<per indicare la necessità di un cambiamento radicale della storia.[...], citando il portabandiera di una società più giusta, e pensando all'apertura di un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riuscirà a cambiare il cuore degli uomini>> Centro Internazionale Studi Gioachimiti Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da Gioacchino da Fiore, conservate in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi a tema, relativo a Gioacchino dal Fiore e al Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo.  Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte Nel 2001 l'arcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni dell'VIII centenario della morte dell'Abate Gioacchino da Fiore per promuovere la conoscenza di Gioacchino e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Università degli Studi di Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro Internazionale Studi Gioachimiti. Il comitato che ha agito, ha promosso tre congressi:  il primo itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti, l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso la biblioteca del duomo di Monreale.  Gioacchino da Fiore e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano in Calabria Editor il testo Luca Parisoli  Note ^ Gustavo Valente "Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^ Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli, Rubbettino, 2006. ^ Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture. Su Gioacchino da Fiore non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giovanni Giraldi, Giovanni Giraldi: dialogo con De Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterità spirituale di Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book, Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a Gioacchino da Fiore, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra aveva irretito la modernità, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI GIOACCHINO DA FIORE-una finezza culturale che vorrei capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia: Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, Gioacchino da Fiore, Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1996. Gioacchino da Fiore, Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Trattato sui quattro vangeli, (a cura Gian Luca Potestà, traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. Gioacchino da Fiore, Dialoghi sulla prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potestà), Viella, Roma, 2001. Gioacchino da Fiore, Il Salterio a dieci corde, (a cura di Fabio Troncarelli), Viella, Roma, Gioacchino da Fiore, Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma, 2007. Gioacchino da Fiore, I sette sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un saggio di Andrea Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria Adorisio, La “leggenda” del santo di Fiore / Beati Ioachimi abbatis miracula, Vechiarelli, Manziana, 1989. Ernesto Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, Dante e Gioachino da Fiore, in “La sonda”, Roma, dicembre 1970; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e Gioacchino da Fiore, con postfazione di Giorgio Ronconi, Pellegrini, Cosenza, 1997. 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" I2 3   Accenni autobiografici. — La vocazione monastica. -  Il monachiSmo del tempo. - La conversione pro¬  fetica . “ *35   I cronisti britannici. » 156   Le opere. — Da Casamari a san Giovanni in Fiore » 169                        258    INDICE    Parte Terza : IL MESSAGGIO   La profezia gioachimita . P a 8 - i8 7   11 Metodo. — La conoscenza biblica. - L’interpreta-   tazione allegorica. - Concordie e analogie .   L’escatologia gioachimita e la teologia economica. —   La Trinità nella storia. - Il passato, il presente,   l’avvenire. - L’avvento del terzo stato . » 2 °4   La Chiesa carnale, la società spirituale. — La scom¬  parsa della Chiesa visibile. - La suprema manife¬  stazione dello Spirito. - Chiesa di oggi e Chiesa di  , . . . » 220  domani.  IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO  NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI     Estratto dall' «Archivio Storico per le Province Napoletane >,  CXXV dell'intera collezione     SOCIETÀ NAPOLETANA DI STORIA PATRIA  NAPOLI 2007     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO  NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI     Mais si l'on voit partout des métaphores  que deviendront les faits?   Gustave Flaubert, Bouvard et Pécuchet     Una delle più suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni  della costruzione della grandiosa chiesa esterna del monastero di  S. Chiara a Napoli ed al possibile modello della pianta è stata  avanzata, nel 1995, da Caroline Bruzelius 1 . Secondo questa tesi  Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re Roberto d'Angiò, avrebbe  fondato la basilica ed il convento doppio di S. Chiara per ospitarvi  i «Francescani spirituali», vale a dire i frati appartenenti ad una  frangia rigorista e pauperista dell'Ordine minoritico, avversata dal  Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I Francescani spirituali  si richiamavano, in particolare, anche alle idee del mistico cala-  brese Gioacchino da Fiore (1135-1202), per sostenere la necessità  di una radicale riforma della Chiesa 2 . La basilica di Santa Chiara,  dunque, sarebbe stata «consacrata» intenzionalmente all'ideale  della povertà apostolica 3 , così che le idee degli Spirituali avrebbero  costituito, in sostanza, l'unica giustificazione del progetto e la sola     1 C. Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and the convent church ofS.ta Chiara  in Naples, in «Memoirs of the American Academy in Rome», 40, 1995, pp. 82ss.;  E ad., Le pietre di Napoli. L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343,  Roma, Viella, 2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente inglese  dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin Italy, 1266-1343, New  Haven-London, Yale University Press, 2004, ove le ipotesi avanzate nel 1995 ven-  gono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate.   2 Si denominavano «spirituali» appunto perché viri spirituales, e cioè eletti  destinati a vivere il terzo stato della storia, quello dello Spirito, così come teorizzato  da Gioacchino da Fiore.   3 Bruzelius, Le pietre, eh., p. 151.     36 MARIO GAGLIONE   chiave di lettura dell'edificio. Esisterebbe, in particolare, un pre-  ciso rapporto tra la semplicissima pianta rettangolare della basilica  napoletana ed una delle figurae del Liber figurarum, una raccolta di  schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione delle teorie storico-  teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche contempla-  tive e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa napoletana  costituirebbe così, secondo tale tesi, una vera e propria citazione  della figura XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio Emi-  lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il coro dei frati  sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico corrispon-  dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito Santo, nel-  l'ambito della settima ed ultima Età della storia del mondo. In  questa stessa Età si sarebbe giunti a quella rigenerazione della  Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spiri-  tuali. L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio  riservato, sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel-  la ormai metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat-  terizzata dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale  visione della Pace.   Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio consenso 6 , ha susci-  tato altresì rilievi e critiche soprattutto con riguardo agli effettivi  contenuti del filospiritualismo dei due sovrani ed alla verosimi-  glianza storica della pretesa celebrazione monumentale, nella basi-     4 Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure del-  l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav. XVIIIa.   5 Bruzelius, Le pietre, cit., p. 165.   6 Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce, Architettura tra Roma, Napoli e  Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte,  1300-1377, a cura di A. Tornei, Torino, SEAT, 1996, pp. 110-111; R.G. Musto,  Franciscan Joachimism, at the court ofNaples, 1309-1341: a new appraisal, in «Archi-  vimi Franciscanum Historicum», 90, 1997, pp. 419-422; C. Freigang, Kathedralen  ah Mendikantenkirchen. Zur politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl  L, Karl IL und Robert dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in  Italien, Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S.  Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Città del Sole, 2003; C.  Bozzoni, Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in «Palladio», n. s. 19,  2006, pp. 129-132. Analogamente a quanto si sarebbe verificato per S. Chiara a  Napoli, la simbologia gioachimita della Figura delle Età del mondo avrebbe anche  ispirato, direttamente o indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della  Calabria a partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di  S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in «Arte Medievale», II, 2003, p. 61,  p. 69; A. Spanò, Insediamenti Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace,  Soveria Mannelli, Città Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 37   lica napoletana, della teoria della storia elaborata da Gioacchino e  sostenuta dagli Spirituali 7 .   Comunque, altre conferme della tesi della derivazione gioachi-  mita della pianta della chiesa francescana sono state individuate, più  di recente, nell'ambito di una importante e preziosa monografia  dedicata all' attività di Giotto a Napoli 8 . Nel saggio appena menzio-  nato, seguendo la lettura proposta dalla Bruzelius, si sostiene che,  conformemente allo schema della Figura XVIII del Liber, che viene  definita «tavola di concordanza (Concordia) fra i secoli e i tempi,  con i tre stati e le otto età» 9 , Giotto e la sua bottega, riferendosi al  Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni episodi della Vita di  Cristo nelle cappelle della navata sinistra della basilica. In quelle  poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe realizzato  scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di Adamo,  Noè, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di Giuseppe,  di Mosè, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe le  navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o, addirit-  tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 .   E evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter-  mini appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale  conferma «esterna» della notizia, riferita da Giorgio Vasari, secondo  la quale Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze «dipinse in  alcune capelle del detto monasterio [di S. Chiara] molte Storie del-  l'Antico Testamento e Nuovo» 11 . Questa stessa notizia è stata in-     7 Per tali critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due  fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in «Campania sacra», 33,  2002, pp. 61-108; Id., Allusioni gioachimite nella basilica angioina di Santa Chiara a  Napoli?, in «Studi storici», 45, 2004, pp. 280-288; Id., La basilica ed il monastero  doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, in «Archivio per la Storia delle Donne»,  4, 2007, pp. 127-198.   8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa, 2006, pp. 125ss., il  quale riprende anche osservazioni di Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a  Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp. HOss.   9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64.   10 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 131-133, p. 151.   11 L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: «Dopo, essendo Giotto  ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo  primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto  a Napoli, perciò che, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di donne e  chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque,  sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamar [e], andò più che volentieri a  servirlo, e giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del  Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di dette     38 MARIO GAGLIONE   vece oggetto di ampio dibattito, non essendo mancato infatti chi,  sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto l'intervento di  Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo che il Mae-  stro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna di  S. Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si è  sostenuto che la derivazione della pianta della basilica dalla menzio-  nata Figura risulterebbe più che probabile, poiché lo stesso Liber  Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina. Infatti,  alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti Vaticano  Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale proprio  come il codice di Oxford, forse miniato nello scriptorìum di S. Gio-  vanni in Fiore. In particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860  rinvierebbero «alla speciosa cultura umbro-cavalliniana maturata a  Napoli» da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo Mae-  stro delle Tempere Francescane, con datazione intorno al 1330 13 . Ad  ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera an-  che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si trovarono in di-     capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono  anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali si è di sopra abastanza favellato; e se  ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene  fra gl'amici, ragionamento». L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: «Fu chiamato  a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata  da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si  veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli,  per quanto si dice, da Dante, fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli  anch'egli per le parti», e cfr. l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche  Informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, all'indirizzo  <ht tp ://biblio . cribecu . sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice . html> (ultima con-  sultazione: 30 novembre 2007).   12 Cfr. F. Aceto, Pittori e documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun-  zioni, in «Prospettiva», 67, 1992, pp. 53ss. Per l'esame e la discussione delle diverse  posizioni: Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 85ss., che, riguardo agli altri  dipinti realizzati da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa,  alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza della Croce  della Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel coro delle Clarisse, dovesse  invece essere l'Apocalisse ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande affresco era  stato probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale che  si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle monache. Proprio  sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio, era affrescato appunto il" Compianto  sul Cristo morto e le altre storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una  Resurrezione ed un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para-  petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre le pareti  superiori, probabilmente, non erano dipinte, e cfr. Id., ivi, pp. 129, 133, 151.   13 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 39   verse occasioni ed ove, appunto, i diagrammi gioachimiti erano certa-  mente diffusi.   E fin qui l'importante contributo sulla presenza e sull'attività  di Giotto a Napoli.   Partendo dall' asserita fattura meridionale dei citati codici Va-  ticani Latini, fattura che costituirebbe un indizio della possibile  circolazione degli stessi a Napoli e presso la corte angioina, occorre  rilevare che l'origine e la datazione di questi manoscritti è partico-  larmente controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860 è stato varia-  mente datato tra il secolo XIII e la prima metà del secolo XIV, e lo  si è altresì ritenuto «codice di ambiente benedettino-olivetano pa-  dovano» opera di un miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822 è  stato invece datato piuttosto concordemente alla fine del secolo  XIII, mentre ne è dibattuta l'area di produzione: Parigi o l'area  francese^ l'area genericamente italiana, o più specificamente sici-  liana 14 . E necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non  contiene la Figura delle «Sette età», dalla quale si pretende sia stata  ricavata la pianta di S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre-  schi che sarebbero stati eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15 . La  stessa Figura manca poi anche nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo-     14 Quanto al ms. Vat. Lat. 4860, contenente estratti da opere diverse di  Gioacchino, la datazione al secolo XIII è stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch  Reich, Reeves e Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione  alla prima metà del secolo XIV, invece, è stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e De  Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di «codice di ambiente bene-  dettino-olivetano padovano» opera di un miniatore bolognese. Quanto all'origine  del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso opere varie di Gioacchino, Troncarelli  propende per Parigi o per l'area francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e  Reeves propendono genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa  Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il «Liber Figurarum» e la teologia  figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, 2006, pp. 268-273.   15 Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un abbozzo del dia-  gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi delle generazioni discen-  denti, del drago apocalittico, del misterium ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della  dispositio novi ordinis, degli alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei  cerchi trinitari, ed è accompagnato da cinque fogli vuoti che avrebbero potuto  accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi, circostanza questa che conferma  che l'opera non era stata portata a termine, e rende improbabile l'eventuale suppo-  sizione di un testo incompleto perché privato, nel corso del tempo, di alcune delle  tavole originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 269-270.   16 II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi delle genera-  zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del tetragrammaton e diverse versioni dei  tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 272-273.     40 MARIO GAGLIONE   sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente meridionale non  può inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del Li-  ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del-  l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran-  cia, si tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun  indizio o prova.   C'è in realtà da chiedersi se effettivamente la più volte citata  Figura XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti «con-  cordistici» che vi sono stati da ultimo individuati.   Occorre anzitutto premettere che per «concordia», nell'ambito  delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve intendersi «la corri-  spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati nell'Antico Testa-  mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e prefigurati nel  Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della Chiesa» 17 .   La Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il già  citato diagramma rettangolare e, ai margini, un testo fittamente  manoscritto (cfr. fig. 1). Tale testo, la cui traduzione può leggersi  in appendice a questa nota, è tratto dal libro V della Concordia Novi  ac Veteris Testamenti, opera di Gioacchino da Fiore tradita dal co-  dice Urbinate Latino 8 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Più  precisamente è riportato il passo posto tra la I e la II distinctio,  destinato ad essere illustrato da una Figura esplicativa che manca  nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in genere identificata  proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum 18 .   Orbene, il libro V della Concordia, dal quale è desunto il com-     17 Rainini, Disegni dei tempi, cit., p. 85. La più nota definizione gioachimita  della concordia è la seguente: «Concordiam proprie dicimus similitudinem eque  proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad numerum non quo ad  dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex  parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur», e, cioè, «chiamiamo propriamente  «concordia» la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e Antico Testamento, e  dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto riguardo la dignità: come  se per una certa parità fossero rivolti l'uno di fronte all'altro persona e persona,  ordine e ordine, guerra e guerra», e cfr. ancora Id., ivi, p. 20, p. 33, nota 91.   18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp. 84-  87, voi. II, tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario  Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa (f. 132v):  «in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad catholicam  fidem...», e, precedentemente, «secundum quod ostenditur in presenti figura...».  Quale tavola XVIII£ Tondelli, Reeves ed Hirsch-Reich, pubblicano una variante  semplificata, forse «non finita», della stessa Figura, tratta dal codice del Corpus  Christi College di Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f.  8v, il diagramma ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     41      KJ^^^^^^P^^^Uk:^^      Jr**®'      •■"■'•■' - *'■.■          Fig. 1 - La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich).     42 MARIO GAGLIONE   mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie principali  dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta-  zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo Gioacchino,  avrebbe consentito anche di preconizzare gli avvenimenti storici  futuri. In altre parole, il libro V «è un lungo commentario sui libri  storici del Vecchio Testamento» 19 , ed «il suo contenuto è conside-  revolmente diverso» 20 da quello degli altri Libri della Concordia.  Infatti, è piuttosto nei precedenti libri, dal I al IV, che Gioacchino  procede effettivamente ad esaminare o a rinvenire i punti di «con-  cordanza» tra le vicende ed i personaggi narrati nell'Antico e nel  Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello stesso  codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altresì  contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole  III e IV, da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con-  cordia Veteris Testamenti et Novi 21 . In particolare, in queste due  ultime tavole è tracciato un dettagliato raffronto tra i personaggi e  gli episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias,  Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e  Cristo e cosi via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII  è stata quindi designata come tavola delle «Età del mondo» 22 , delle  «Sette età del mondo» 23 ovvero delle «Sette età» 24 .     codice di Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il «Liber Figurarum» nel manoscritto Oxford,  Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit.   19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse, Milano,  Feltrinelli, 1994, pp. 76ss.   20 Cfr. E.R. Daniel, Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac  Veteris Testamenti, Philadelphia, The American Philosophical Society, 1983, p.  XXII, il quale, appunto, osserva: «not only is Book Five longer than the first four  Books together, but its content is considerably different from theirs». Le peculiarità  del libro V rispetto ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino: «etenim in  hiis quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc est  secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum testamentorum...oportet nos  in hoc quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus que occurrerint spiritualiter  agere ut ex multis testimoniis ostendamus laboriosos rerum fines et post magnos  agones et certamina pacem uictoribus impartiri» (Concordia, V, 1).   21 Tagliapietra, Opere principali, cit., p. 102.   22 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, p. 84.   23 A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav. XVIII (Biblioteca del  Seminario di Reggio Emilia). Le «sette età» del mondo, in L'Età dello Spirito e la fine  dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel Gioachimismo medievale, Atti del II congresso  internazionale di studi gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di  Studi Gioachimiti, 1986, p. 8.   24 Rainini, Il «Liber Figurarum», cit., loc. ult. cit.     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 43   La tavola XVIII del Liber ha infatti, principalmente, lo scopo  di illustrare la teoria escatologica della storia elaborata da Gioac-  chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed etates in  una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce unitarietà  alla storia stessa 25 . Rifacendosi dunque innegabilmente alla divi-  sione settenaria delle età della storia già teorizzata da Sant'Ago-  stino, Gioacchino colloca in modo originale la settima età, quella  cioè del raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e della  plenìtudo veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo  poi una Octava aetas quale «stadio finale ed eterno della storia  umana». Perciò la figura XVIII del Liber è suddivisa in un fregio  inferiore, rappresentante i sette secula dell'Età del Padre, in un  fregio superiore, che illustra i sette tempora dell'Età del Figlio, e  infine in una parte centrale raffigurante le sette Età del mondo, la  settima delle quali, corrispondente al momento storico in cui vi-  veva Gioacchino {tempus praesens), sarebbe sfociata nel Tertius sta-  tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe fatto seguito,  appunto, Y Octava aetas 26 .   Ma passiamo a leggere le brevi iscrizioni che illustrano il dia-  gramma rettangolare centrale della Figura XVIII, riprodotta nella  figura 1 posta a corredo di questa stessa nota. Occorre precisare che  il diagramma deve essere esaminato trasversalmente, nel senso del  lato maggiore del rettangolo, da sinistra a destra e dal basso all'alto,  mentre il testo tratto dalla Concordia e trascritto ai margini risulta  vergato in senso perpendicolare al diagramma stesso.   Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine, nel fregio  inferiore {secula):   a) primum seculum, Adam genera tiones X, secundum seculum,  Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes  X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum,  Joiada generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes X,  septimum seculum, Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spi-  riti Sane ti, septima etas;   b) initiatio primi stati, primum status, secundum status, tertium  status;     25 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, cit., voi. I, pp.  4-87.   26 Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav, XVIII, cit., pp. 8-10.     44     MARIO GAGLIONE     nel fregio centrale (etates):   a) Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio Babilonie, lohannes  Baptista, presens tempus;   b) all'interno della tromba: clarificatio Filii, clarificatio Spiriti  Sancii;   e) Etas prima, etas secunda, etas tercia, etas quarta, etas quinta,  etas sexta, etas septima;   nel fregio superiore (tempora):   a) initium Romanorum, Hysaia propheta;   b) initiatio secundi stati, primum tempus, Ozias generationes X,  secundum tempus, Zorobabel, tertium tempus, Christus genera-  tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum tempus,  generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tem-  pus;   all'estremità destra del diagramma, dopo la linea divisoria:  a) etas octava, resurrectio mortuorum.   Come può agevolmente notarsi, nessuna delle iscrizioni men-  ziona specificamente l'Antico o il Nuovo Testamento; inoltre, per la  maggior parte, i personaggi citati, e cioè Adamo, Noè, Abramo,  Booz, Ioiadà, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed Isaia, rien-  trano nell'Antico Testamento e risultano variamente collocati lungo  tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che in alto. Solo  Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo Testa-  mento. Tuttavia, mentre Cristo è indicato nel fregio superiore della  Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara, corri-  sponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando l'altare  maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, è segnato nel  fregio inferiore, dal lato cioè della navata destra della chiesa. Gio-  vanni Battista, infine, è indicato nel fregio centrale, nei pressi della  tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena ripor-  tate, così come il testo marginale della Concordia, non consentono di  affermare che la Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti  concordistici, ovvero che la stessa traduca graficamente concordanze  tra personaggi dei due Testamenti, che risultano infatti variamente  posizionati a destra, a sinistra ed al centro del diagramma. Non vi è,  dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere, almeno lette-  ralmente, né la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento  nel fregio superiore, né quella dei personaggi dell'Antico nel fregio  inferiore, così da poter «giustificare» la collocazione dei cicli pitto-     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 45   rici giotteschi corrispondenti, rispettivamente, nella navata sinistra  e nella navata destra della basilica di S. Chiara.   Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita abbia  semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta del  soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle cappelle,  oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicché non ci si  dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII  del Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la  Figura stessa non avrebbe costituito né un programma decorativo,  né un progetto edilizio 27 . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di  una tale effettiva corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi  avanzati in ordine alla sua fondatezza storica 28 , rende ancor più  fragile l'ipotesi della «matrice gioachimita» della chiesa di S. Chiara  a Napoli. Un collegamento tanto evanescente con la Figura non  consente infatti di dimostrare in maniera convincente che la pianta  ad aula rettangolare della chiesa napoletana, invece di derivare dalle  analoghe, diffusissime piante delle chiese degli Ordini mendicanti,  discenda proprio dal diagramma gioachimita. Risulta inoltre eviden-  temente impossibile dimostrare che i cicli pittorici dell'Antico e del  Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto vasariano, nella  stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi cicli «tipolo-  gici» inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in  Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni concordistiche  gioachimite.   Occorre invece chiedersi se, pur abbandonando la discutibile  ipotesi della valenza della Figura XVIII quale modello o fonte di  ispirazione, sia eventualmente sostenibile, in altro modo, una «giu-  stificazione» gioachimita della scelta del programma decorativo di S.  Chiara, incentrato, come si è detto, sulle Storie dell'Antico e del     27 Leone de Castris, ad esempio, osserva che Mattano, nel suo saggio La  Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber  alla pianta della chiesa «al contrario» rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,  sicché Vociava etas non viene più a corrispondere al coro delle Clarisse, bensì all'area  del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura è stata respinta dallo  stesso Leone de Castris, perché presuppone non «una ispirazione» ma «una volontà  di corrispondenza piena fra la pianta ed il diagramma» derivante da un improprio  «uso del diagramma come «progetto»». In altre parole, almeno per il programma  architettonico, la Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi-  razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de Ca-  stris, Giotto a Napoli, cit., pp. 159-160, nota 36.   28 Cfr. i saggi indicati alla precedente nota 7.     46     MARIO GAGLIONE     Nuovo Testamento. Non di rado, infatti, opere di scultura, di pit-  tura e di architettura sono state interpretate proprio facendo riferi-  mento ad una possibile matrice gioachimita.   Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside della basilica  di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato visiva-  mente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e della  Concordia 2 *, mentre un prezioso codice miniato da una bottega avi-  gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito dell'escatologi-  smo e del «concordismo» gioachimita 30 . Influenze delle opere di  Gioacchino sono state rinvenute altresì nella pianta e nella struttura  della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a S. Giovanni in  Fiore 31 , nelle sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad  Assisi e negli affreschi della basilica di S. Francesco 33 nella stessa  città.     29 Questa tesi viene avanzata, per la verità, in maniera piuttosto vaga da E.R.  Daniel, Joachim of Fiore: Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in  the Middle Ages, a cura di R. K. Emmerson-B. Me Ginn, Ithaca London, Cornell  University Press, 1992, pp. 72-88; per una lettura teologica ortodossa dei mosaici in  questione cfr. invece J. Barclay Lloyd, A new look at the mosaics of San Clemente,  in Omnia disce: Medieval studies in memory of Léonard Boy le, O.P., a cura di AJ.  Duggan, J. Greatrex, B. Bolton, Ashgate, Aldershot, 2005, pp. llss. D'altra parte  gli stessi mosaici vengono correntemente datati intorno al 1118-1123 quando Gioac-  chino non era ancora nato o era giovanissimo.   30 Si tratta del codice 55. K. 2 (Rossi 17) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e  Corsiniana di Roma, e cfr. C. Frugoni, F. Manzari, Immagini di San Francesco in  uno Speculum humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici Francescane,  2006.   31 Cfr. A. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e Messaggio in Gioac-  chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di studi gioachimiti (19-23 settembre  1979), S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, 1980, pp.  352ss., secondo il quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta  peculiarità che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia  architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati dalle  tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non manca poi di  ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di Leone Tondelli, secondo il  quale la Figura XII ha piuttosto carattere idealistico ed utopico, non risultando che  in nessuno dei monasteri florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith  Pasztor che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture  «urbanistiche» del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cìteaux. Gioacchino  da Fiore e l'Ordine florense, Roma, Viella, 2006.   32 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Spello,  Dimensione Grafica, 2003, soprattutto sulla base delle tavole delle Praemissiones di  Gioacchino, tradite dal codice 15 del monastero benedettino di S. Pietro a Perugia,  risalente alla fine del XIII secolo o agli inizi del XIV.   33 F. Prosperi, Gioacchino da Fiore e Frate Elia. Dalle sculture simboliche del     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     47     ad     Con particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco si  è affermato 34 che il programma iconografico prescelto per la deco-  razione pittorica della chiesa inferiore così come di quella superiore,  nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti, illu-  strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del mondo  e della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della legge,  della grazia e dello spirito teorizzate da Gioacchino da Fiore e  riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi, infatti, identifica-  rono nel proprio il nuovo Ordine monastico preannunciato da  Gioacchino, individuando in San Francesco Valter Christus, il nuovo  messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione concordi-  stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne così comple-  tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che «le corrispon-  denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e intese  non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento è  adempimento della promessa dell'Antico, ma è, a sua volta, pro-  messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di  Francesco» 35 . Tuttavia, la condanna, nel 1255, delYlntroductorius ad  Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che  rappresentava la più compiuta espressione delle teorie dei France-  scani spirituali, comportò l'interruzione dell'esecuzione del pro-  gramma iconografico assisiate, che avvenne forse già nel 1257.   Tracce significative di questo originario apparato decorativo  sono state ad ogni modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipolo-  gico 36 delle tre bifore del coro della basilica superiore, realizzate     Duomo di Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione  Grafica, 2007.   34 Da A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decora-  zione, in Roma anno 1300. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale  dell'Università di Roma «La Sapienza», a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma di  Bretschneider, 1983, pp. 154ss.   35 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 156, è, in particolare, il Maestro di S.  Francesco, negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il parallelismo  tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli abiti ai piedi della croce, Cristo  dall'alto della croce affida Maria a Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione, Com-  pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus) e le Storie di San Francesco {Francesco  rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III sogna Francesco sorreggente la Chiesa di Roma,  Predica alle creature, Francesco riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco  e scoperta delle stimmate sul suo corpo).   36 Ad esempio, nella finestra I, designata anche come finestra VII, sono raf-  figurati episodi veterotestamentari quali prefigurazioni dei corrispondenti episodi  della Vita pubblica di Gesù, con i seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza  della morte di Saul, La disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior-     48 MARIO GAGLIONE   entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse,  basata sulle corrispondenze tipologiche, avrebbe un sèguito in due  lancette del finestrone del transetto destro che completano il ciclo  dell'abside con le apparizioni post mortem di Cristo e gli antitipi 01  veterotestamentari delle apparizioni angeliche. Il complesso delle  vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo a costituire  una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della vita di  Cristo farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le  Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San-  t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della  chiesa sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra  questi, la triade delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen-     dano, Il battesimo di Gesù; Mosè e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione  del tempio, La cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Gesù in  Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli Apostoli; Il  banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte Oreb, L'Orazione  nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e la cattura di Cristo.   37 L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che presentano  un'impronta in negativo o antitipo costituita da un'idea, una persona, o un avveni-  mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea, una persona, o un avveni-  mento nel Nuovo Testamento. Un esempio autorevole d'interpretazione tipologica  è offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12, 40): «Come infatti Giona rimase tre  giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà tre giorni e  tre notti nel cuore della terra», ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di  Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta-  zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thèmes bibliques,  éxégèse augustinienne , in Augustinus magister. Congrès intemational augustinien, Paris,  21-24 septembre 1954, Paris, Etudes Augustiniennes, 1955, voi. Ili, pp. 231-242; M.  Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma,  Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale. I  quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca Book, 1986, voi. I, pp. 19-37; La termino-  logia esegetica nell'antichità. Atti del primo seminario di antichità cristiane, Bari, 25  ottobre 1984, Bari, EdiPuglia, 1987, nonché, più in generale, E. Auerbach, Figura,  in Id., Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 176-  226; P. Van Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale tenuto  presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma, consultabile all'indirizzo:  <http://www.unigre.it/rhetorica%20biblica/studenti/TBC005/TIPOLOGIA_-  van%20Dael.doc> (ultima consultazione: 30 novembre 2007); H.L. Kessler, Storie  sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali tra TV e XII secolo, in  L'arte medievale nel contesto (300-1300): funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca  Book, 2006, pp. 438ss.   38 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., pp. 155-156, secondo il quale i medaglioni  di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo nella finestra  VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria, proverrebbero dalle lancette  della quadrifora III posta nel transetto settentrionale della basilica superiore.     ''j$'x&H -'     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     49     sione e nella Trasfigurazione, poste nelle lunette di volta e nel tratto  superiore della vetrata centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi  ordinis pertinens ad tercium statum ad instar superne Jerusalem ed alla  Rota in medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV del Liber  Figurarum. I sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali  sottili richiami e reconditi significati ben difficilmente avrebbero  potuto esser colti dal comune visitatore, e che i principali fruitori  sarebbero stati piuttosto i soli Francescani spirituali 39 .   Secondo questa opinione, in conclusione, la sintesi ed il com-  pletamento della teoria gioachimita della storia, operata dai France-  scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine minoritico del no-  vus ordo monastico destinato alla guida della società, avrebbe avuto,  quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della  vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e  neotestamentarie in una prospettiva «rivoluzionaria».   Tuttavia, accanto a queste serie tipologiche che sarebbero state  ispirate dalle teorie gioachimite e spirituali, nella stessa basilica  superiore assisiate furono eseguite altre e ben più note scene vetero 40  e neotestamentarie 41 , poste ancora una volta in collegamento con  ventotto episodi della Vita di San Francesco 42 , benché in una pro-     39 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 159, ricorda infatti che, secondo lo  Schòne, si sarebbe trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani  spirituali e che perciò era limitato al loro coro non accessibile al pubblico, circo-  stanza questa che ne favorì anche la successiva conservazione nonostante il muta-  mento del programma decorativo.   40 II ciclo dell'Antico Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore: Crea-  zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La cacciata  dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino  uccide Abele proseguendo, nel registro inferiore, con episodi della vita dei quattro  patriarchi biblici Noè, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca,  L'ingresso di Noè e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli angeli  ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esaù davanti ad Isacco, Giuseppe calato nel  pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli in Egitto.   41 II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete sud, si compone di  sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia di Cristo nel registro superiore:  Annunciazione, Visitazione, Natività, Adorazione dei Magi, Presentazione di Gesù al  tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio, Battesimo di Gesù. Nel registro inferiore,  invece, sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della Passione di Cristo: Le  nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a  Pilato, La salita al Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie  donne al sepolcro.   42 A partire dalla parete destra dal lato dell'altare: San Francesco riceve l'omag-  gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo mantello al povero, Sogno del palazzo colmo     50 MARIO GAGLIONE   spettiva più moderata, ispirata questa volta alla Vita ufficiale del  Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura 43 . Proprio Bo-  naventura ed, in seguito, il probabile committente degli affreschi, il  cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano infatti oppo-  sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro sostenuta secondo la  quale con l'avvento dell'Età dello Spirito si sarebbe pervenuti ad  uno scardinamento dell'ordine costituito già sulla terra e nella sto-  ria. L'Autore della Legenda, invece, ribaltò proprio la prospettiva di  un radicale mutamento «nella storia», sostenendo che i tempi nuovi  si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente ultraterreno,  privo quindi di pericolose ricadute politiche.   Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Te-  stamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S.  Chiara, non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria,  dell'esistenza anche di un ciclo della Vita di San Francesco che  avrebbe potuto far pensare ad una consapevole imitazione del mo-  dello assisiate nella versione spirituale o piuttosto in quella bona-  venturiana. D'altra parte, al tempo della esecuzione degli affreschi  nella grande chiesa napoletana erano trascorsi decenni dai movimen-  tati inizi della decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio  palinsesto iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto  tra il papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un  lato, ed i dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa     di armi, Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di Innocenzo  III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di fuoco, Frate Leone vede il  trono celeste destinato a San Francesco, Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del  fuoco, L'estasi di San Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli  uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San Francesco  appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e funerali, San Francesco  appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino, Il patrizio Girolamo si accerta delle  stimmate, Le Clarisse di S. Damiano piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco  appare a Gregorio IX, Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil-  donna, Liberazione di Pietro d'Alife.   43 Le posizioni di San Bonaventura vennero riprese dal cardinale Matteo  d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al  1289, fu probabilmente l'ideatore del programma iconografico della navata della  basilica superiore e contrastò decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da  Casale. I tìtuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti dalla  Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze, Passigli, 1996,  pp. 56ss. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e Bonaventura.  Un'interpretazione storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore di  San Francesco in Assisi alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Edi-  trice Francescana, 1974, p. 39 e Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 158.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     51     Giovanni XXII, ad una persecuzione sistematica dei secondi, e,  come si è visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza que-  sta che sembra deporre contro la possibilità di citazioni iconografi-  che eccessivamente «eversive» 44 .   Infine, l'assoluta impossibilità di ricostruire i contenuti ed i  soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz-  zate nella chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure  di accertare una eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella  più precisa ed articolata corrispondenza tra fatti, persone, figure e  adempimenti dei due Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co-  munque derivata proprio dalla diffusione delle teorie di Gioacchino  tradotte poi in immagini 45 .   La spiegazione della scelta delle scene dell'Antico e del Nuovo  Testamento per la decorazione di S. Chiara, a questo punto, può  essere piuttosto individuata proprio nella volontà di seguire il tra-  dizionale filone tipologico, significativamente rinvenibile nello  stesso repertorio di Giotto.   Il modello più prestigioso di tale filone era costituito dalla serie  degli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le pareti     44 Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del monastero  delle Clarisse, è posto l'affresco della Mensa del Signore, attribuito al Maestro di  Giovanni Barrile, e datato intorno al 1331-1332, ovvero qualche tempo dopo il  1332, la cui particolare iconografia sarebbe servita a celebrare i valori della povertà  e dell'umiltà, testimoniando così il particolare favore dei sovrani angioini per questi  ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore «ufficializzato» dal  contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di  Napoli (1266-1414), Roma, U. Bozzi, 1969, pp. 200ss.; Leone de Castris, Giotto  a Napoli, cit., p. 106; pp. 146-149, e fig. 61. Una lettura più articolata è stata  recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi,  Roma-Bari, Editori Laterza, 2006, pp. 125-126: nel nostro affresco, Cristo è posto  su di una montagna circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il  pane alla folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono inginoc-  chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa Chiara, in orazione. Il  dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo  della moltiplicazione segue il discorso del Cristo che si presenta alla folla come «il  vero pane sceso dal cielo». V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremità, co-  stituisce un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere  proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione ufficiale  della chiesa esterna all'Ostia santa, sicché, i frati riuniti nel refettorio per il frugale  pranzo garantito dalla carità di Dio, nel consumare il cibo del corpo, non avrebbero  dimenticato la necessità di nutrirsi di quello dell'anima, ben più prezioso del pane.  Gli eventuali, ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati  essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici.   45 Cadei, Assisi, S. Francesco, cit., p. 157.     52 MARIO GAGLIONE   della navata centrale erano infatti decorate con Storte dell'Antico e  del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa Leone  I (440-461), distrutte poi nel 1608, nel corso dei lavori di costru-  zione del nuovo S. Pietro, ma fortunatamente descritte da Jacopo  Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico Tasselli da  Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla Ge-  nesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla  parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la Passione  di Cristo. Questi affreschi costituirono: «il prototipo fondamentale  per le successive decorazioni con scene vetero e neotestamentarie  che da Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte d'Europa... la  prima e più completa esposizione per immagini dei principali episodi  biblici ed evangelici a livello di pittura monumentale» 46 . Un folto  gruppo di affreschi tipologici derivò direttamente da quelli di S.  Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio della basi-  lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono  ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonché  degli affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di  Ceri, di S. Giovanni a Porta Latina 47 , di S. Maria in Monte Domi-  nico a Marcellina, di S. Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di  S. Tommaso nel duomo di Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche     46 Cfr. A. Tomei, La basilica dalla tarda antichità al secolo XV, in La basilica di  San Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, 1989, p. 67, nonché H.  Kessler, «Caput et speculum omnium ecclesiarum»: old St. Peter s and church deco-  ration in medieval Latium, in Italian church decoration of the Middle Ages and early  Renaissance: functions, forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna,  Nuova Alfa, 1989, pp. 109-146.   47 II ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre  quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V Ul-  tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro pittori nella seconda  metà del secolo XII. Nulla ha dunque a che vedere con questi affreschi la presenza  nella chiesa di quindici fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma  (Biblioteca Nazionale di Torino, Cod. lat. A 381) risalente al 1320 circa, e da alcune  lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole, a  cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1980, p.  XXXI, pp. lss., pp. 28ss. Più in generale, sostengono un collegamento tra gli  Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi una vera e propria influenza del  filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater  than Emperor. Cola di Rienzo (ca. 1313-1354) and the world of Fourteenth Century  Rome, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2002, pp. 108ss.; R.G.  Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age, Berkeley,  Los Angeles, New York, The University of California Press, 2003, pp. 12 lss.,  165ss.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     53     dei restauri cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di  Vescovio. Gli stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica  superiore di Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si  tratta certamente di cicli piuttosto complessi: così a S. Pietro gli  episodi veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a  Ceri venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico  fu ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una  notizia offertaci da Beda il Venerabile (673 ca.-735) relativamente  all'importazione da Roma all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di  tavole dipinte di contenuto tipologico 50 . Dal dodicesimo secolo in  poi i cicli tipologici risultano sempre più elaborati, come dimostra la  pala d'altare di Klosterneuburg, costituita da placche di bronzo  smaltato champlevè, completata da Nicola de Verdun nel 1181 51 .     48 Su questo ciclo cfr. S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il  contatto con i prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di studi  Parma 27 settembre-I ottobre 1997, a cura di A.C. Quintavalle, Parma-Milano,  Università di Parma-Mondadori Electa, 2002, pp. 615-630.   49 Cfr. S. Romano, La morte di Francesco: fonti francescane e storia dell'Ordine  nella basilica di S. Francesco d'Assisi, in «Zeitschrift fur Kunstgeschichte», 61, 1998,  pp. 3 43 ss., ed E ad., La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie  narrative, Roma, Viella, 2001.   50 «Constituto ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli, consti-  tuto et Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice  de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum donis  commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum sacrorum; sed  non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere ditatus. Nam et tunc do-  minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei genetricis, quam in monasterio  maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret, adtulit; imagines quoque ad ornandum  monasterium aecclesiamque beati Pauli apostoli de concordia Veteris et Novi Te-  stamenti summa ratione conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo-  laretur portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima  super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse exaitato,  filium hominis in cruce exaltatum conparavit» e cfr. Beda, Vita quinque sanctorum  abbatum, I, 9, edizione elettronica nella Biblioteca Augustana (Bibliotbeca latina,  Latinitas medievalis) a cura di U. Harsch (Fachhochschule Augsburg) basata su Ve-  nerabilis Baedae Opera Historica, edidit Carolus Plummer, Oxonii, E typographeo  Clarendoniano, 1896, all'indirizzo: <http://www.fh-augsburg.de/~Harsch/Chrono-  logia/Lspost08/Bede/bed quin.html> (ultima consultazione: 30 novembre 2007).   51 In alto nella pala sono poste diverse scene veterotestamentarie accadute  prima della legge {ante legem), al centro sono le corrispondenti scene neotestamen-  tarie (sub gratia), ed in basso le corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la  legge (sub lege). Ad esempio: le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di  Cristo e del «mare di bronzo» del tempio vanno considerate in corrispondenza; così  pure l'episodio di Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo  nel sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e così via, cfr. H. Buschhausen, The     54 MARIO GAGLIONE   Vennero redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio allo  scopo di indicare al pittore o allo scultore i collegamenti tipologici  tra gli episodi testamentari. Tra questi si ricorda il Victor in Car-  mine 52 , opera di un anonimo monaco cistercense inglese del XII  secolo, il quale, pur essendo contrario alla decorazione figurata delle  chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le rappresentazioni ti-  pologiche poiché potevano fungere da efficaci libri laicorum. Ma,  certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di  Walafrido Strabone (f849) completata da Niccolò di Lira (f 1349),  vera e propria sintesi dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa 53 .   Orbene, proprio i temi tipologici rientravano certamente anche  nel repertorio di Giotto. Oltre alla discussa partecipazione del Mae-  stro all'esecuzione di alcuni episodi dell'Antico e del Nuovo Testa-  mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi 54 , sappiamo, soprat-  tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto eseguì Storie dei due Testa-  menti nella basilica di S. Pietro a Roma 55 , nella cappella palatina del  Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento nella  SS. Annunziata a Gaeta 57 . D'altro canto, la biografia dello stesso     Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art, Theology and Politics, in «Journal of  the Warburg and Courtauld Institutes», 37, 1974, pp. 1-32.   52 Victor in Carmine. Ein Handbuch der Typo logie aus dem 12. Jahrhundert. Nach  der Handschrift des Corpus Chris ti College in Cambridge, Ms. 300, a cura di K. A.  Wirth, Berlin, Mann, 2006.   53 E. Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue fonti, Mi-  lano, Jaca Book, 1986, pp. 15ss.; pp. 145ss.   54 L. Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in Giotto. Bilancio critico  di sessantanni di studi e ricerche, Firenze, Giunti, 2000, pp. 33-54; B. Zanardi,  Giotto e Pietro Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a  fresco, Milano, Skira, 2002; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the  upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and considerations of  method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a cura di W. R. Cook, Leiden-  Boston, Brill, 2005, pp. 113ss.   55 Scrive infatti Vasari: «il papa avendo vedute queste opere e piacendogli la  maniera di Giotto infinitamente, ordinò che facesse intorno intorno a San Pietro  Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando fece Giotto a fresco  l'Angelo di sette braccia che è sopra l'organo; e molte altre pitture, delle quali parte  sono state da altri restaurate a dì nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state  disfatte», e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in La  storia dei Giubilei, a cura di G. Fossi, Roma, BNL, 1997, voi. I, pp. 238-255.   56 Questi affreschi furono eseguiti tra il 1329 ed il 1332-1333 ed andarono  purtroppo distrutti nel 1470, durante il regno di Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone  de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss.   57 Scrive Vasari: «partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si fermò a  Gaeta, dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento      t ù„J. ]ìlttes:lJ£A^ !      IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 55   Giotto lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo 58 . I  suoi committenti e protettori erano strettamente legati alla corte  pontificia, come quel fra Giovanni Mincio da Morrovalle, ministro  generale dell'Ordine minoritico, che lo chiamò ad Assisi o il cardi-  nale Jacopo Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma-  niera imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di  prestare danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon-  tano da scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizional-  mente attribuita la canzone Molti son que che lodan povertade, che  contiene una vera e propria invettiva contro la povertà, ritenuta  istigatrice di delinquenza, causa di sovversione sociale e di ipo-  crisia 60 .   Ritornando a S. Chiara, in realtà, i frammenti di affresco a  contenuto narrativo più sicuramente riconducibili a Giotto ed alla  sua bottega sono quelli conservati nel coro o oratorio interno delle  monache. Sulla parete che divide appunto l'oratorio dalla chiesa  esterna può osservarsi ciò che resta di un Compianto sul Cristo depo-  sto, che lascia ipotizzare, pur in mancanza di più precise evidenze,  che l'intera parete fosse affrescata con scene della Vita di Cristo,  forse principalmente episodi della Passione, secondo quanto realiz-  zato nei cori di altri monasteri delle Clarisse. In particolare, nel coro  di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61 , qualche tempo dopo la canonizza-     Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non però in modo che non vi si veggia benissimo il  ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello», per la citazione  cfr. la precedente nota 11.   58 Lo ammette lo stesso Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 151.   59 Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo ambiente sociale nel Trecento e nel  primo Quattrocento, Torino, Einaudi, 1960, p. 232. Giotto affittava telai ai tessitori  meno abbienti realizzando profitti del 120%. Alcuni documenti attestano il suo  ruolo di garante di prestiti e, nel 1314, risulta assistito da ben sei avvocati in atti  contro debitori morosi o insolventi.   60 Tra l'altro il componimento precisa: «Di quella povertà ch'è contro a voglia/  Non è da dubitar ch'è tutta ria,/ Che di peccar è via, / Facendo ispesso a giudici far  fallo;/ E d'onor donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso  usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo». La canzone fu estratta dal codice 47  pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice 1717 riccardiano e pubblicata da F.  Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine della lingua infino al  secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti, 1846, voi. II, pp. 5ss.   61 Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e racconto in un appa-  rato pittorico dottrinale di una comunità femminile pauperista nel tardo medioevo, in II  collegio Principe di Piemonte e la chiesa di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M.  Rak, Roma, INPDAP, 1997, pp. 21-34, nonché S. Romano, Gli affreschi di San  Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklóster im Spàtmittelalter. Die     56 MARIO GAGLIONE   zione di Chiara avvenuta nella cattedrale di quella città, ove fu  conservata la relativa bolla pontificia del 15 agosto del 1255, e,  comunque, entro il 1263, vennero appunto dipinte le Storie della  Passione di Cristo. Questo notevole ciclo si articola negli episodi  dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e lavanda dei piedi, Cattura  e flagellazione di Cristo, Deposizione e discesa al limbo, Noli me tangere  e missione degli Apostoli, Giudizio universale, che dovevano servire  anzitutto come «strumento di memoria» nei momenti più solenni  della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto) della pre-  ghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle stesse  scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche visivamente,  la storia della redenzione fino alla morte ed alla resurrezione del  Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in maniera reali-  stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni di medita-  zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore, inoltre,  erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite di San  Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, già nella Leggenda  redatta da Tommaso da Celano (1255-1256). Perciò, gli affreschi  cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso prome-  moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle «vite  parallele» di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle  osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture  edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor-  rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici «completi»  che comprendessero cioè anche le Storie dei due Santi francescani 62 .     Kirchen der Klarissen una Dominikannerinnen im 13. una 14. Jahrhundert, Monaco,  Michael Imhof, 2006, pp. 255ss.   62 II ciclo della Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue,  in realtà, con l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta visi-  vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati inginocchiati anche una  badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato da frati, in veste di  donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un riquadro nel quale sono dipinti  i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle monache della  basilica di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale cappella di San Giorgio,  intorno al 1340 vennero eseguite, invece, oltre che le Storie della Passione di Cristo,  pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di Resurrezione, Deposizione dalla croce, e  Deposizione nel sepolcro, anche quelle àzW Incarnazione con V Annunciazione , la Na-  tività, e l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklòster im Spàtmittelalter, cit.,  pp. 247ss. A Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed articolato ciclo della  Passione affrescato, probabilmente dopo il 1323 sulle pareti del coro delle Clarisse  della chiesa di S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo  da Varagine ed alle Meditationes Vitae Còristi dello pseudo-Bonaventura ed articolato  in diciassette scene. In particolare, in tre registri di cinque scene ciascuno, più due:       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO 57   Come si è cercato di dimostrare, il riferimento alla esaminata  Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la scelta  dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella basilica di S.  Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto improbabile.   Non molti anni or sono Richard Krautheimer, nei Poscritti ad  un suo aureo saggio di introduzione alla iconografia architettonica 63 ,     1) Ultima cena; 2) Comunione degli Apostoli) 3) Cristo lava i piedi a San Pietro; 4)  Orazione di Cristo nell'orto; 5) Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia  l'orecchio a Malco; 6) Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di  Pietro, derisione di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta, flagellazione di  Cristo; 1) Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio e poi davanti ad Erode; 8)  Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova flagellazione; 9) Cristo privato delle  vesti e sua ascesa al Calvario, nuova spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce;  10) Crocifissione; 11) Deposizione dalla croce, lamentazione sul corpo e sepoltura di  Cristo; 12) Discesa al Limbo e resurrezione di Cristo; 13) Le Marie al sepolcro, «Noli me  tangere», apparizioni di Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; 14) Apparizioni  di Cristo alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a San  Pietro; 15) Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor, poi sul monte degli  Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulità di San Tommaso; 16) Ascensione;  17) Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di suscitare la compassione delle mona-  che per le ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria,  non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di offrire,  soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della Comunione degli Apostoli e  della Cena di Emmaus, l'occasione di una contemplazione eucaristica che era loro  preclusa dal vivo, durante l'elevazione dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in  proposito, A.S. Hoch, The «Passion» cycle: images to contemplate and imitate amid  Clarissan «clausura», in: The church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography and  patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott, Aldershot, Ashgate,  2004, pp. 129-153.   63 Per la traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an  «Iconography of Medieval Architecture» , comparso sul «Journal of Warburg and Cour-  tauld Institutes», 5, 1942, pp. 1-33, si veda R. Krautheimer, Introduzione a un'i-  conografia dell'architettura sacra medievale (1942), in Id., Architettura sacra paleocri-  stiana e medievale, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, pp. 98-150, in particolare alle  pp. 144ss., comprendente i Poscritti del 1969 e 1987 (da p. 143). In questo saggio  Krautheimer propone le sue osservazioni sulla «copia parziale» architettonica che  caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo, dei più prestigiosi edifici sacri non in  termini di copia puntuale e corrispondente («copia totale»), ma di copia rielaborata,  e cfr. al riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea-  ning, con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia  University press, 2005, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal-  terliche Architektur als Bedeutungstràger, Berlin 1951 e W. Schenkluhn, Iconografia e  iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel contesto (300-1300):  funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca Book, 2006, pp. 62-63 e p. 67. Per alcuni  rilievi critici sulla tesi della «copia parziale», cfr., comunque, B. Brenk, Originalità e  innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura di E. Castelnuovo  e G. Sergi, Torino, Einaudi, 2002, voi. I, pp. 3-69.     58 MARIO GAGLIONE   rilevava come spesso l'interpretazione simbolica delle piante degli  edifici medievali fosse avvenuta post factum, e cioè dopo l'effettiva  adozione delle forme decisa per altre motivazioni. Molto frequente-  mente, cioè, si è attribuito al committente ed all'architetto ciò che  nell'edificio aveva voluto vedere a posteriori il teologo medievale, o,  altrettanto spesso, solo l'interprete moderno. Gli importanti studi  iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di Erwin Panofsky e di  Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche a scoper-  chiare «una specie di vaso di Pandora» dal quale sono poi fuoriuscite  interpretazioni simboliche a tutti i costi, «per amore o per forza».  Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed, in ge-  nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto «è  possibile» diventi «probabile», perché «la relazione ipotizzata abbia  un carattere di causalità ben definito, rilevabile da numerosi e dif-  ferenti indizi» 64 .   Sembra invece che proprio la mancanza di questi «numerosi e  differenti indizi» non consenta di sostenere né l'ispirazione gioachi-  mita degli affreschi, né la pretesa matrice francescano-spirituale  della pianta della basilica di S. Chiara a Napoli.   Mario Gaglione     64 R. Krautheimer, Introduzione, cit., p. 146.       IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     APPENDICE     59     Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber  figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a  cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II,  tav. XVIIIa.     Come illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono  trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le sue  opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si è riposato dalle opere del  primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni Battista.  Per tali motivi occorre attenersi a ciò che affermano i Santi Dottori, in ordine al  fatto che le due età, e cioè la sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perché,  compiuti i sei tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perché al popolo  di Dio è stato concesso un tempo sabbatico durante il quale potesse riposare  dalla servitù della legge, una volta acquistata la libertà dello Spirito Santo,  poiché dov'è lo Spirito del Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età riguarda propriamente la persona del  Padre poiché, evidentemente, il Padre, per mostrarsi signore effettivo di tutta  la terra, ha preteso dai suoi sudditi l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com-  piutisi questi tempi, in seguito, nel settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che  gli hanno obbedito, l'affetto dell'amore e la libertà della grazia nello Spirito  Santo, perché lo stesso Spirito è amore, e dove c'è l'amore c'è la libertà. Proprio  per questo, infatti, l'Apostolo dice: «dove è lo Spirito del Signore lì è la libertà».   In conformità a tale generale definizione, riguardo alle sei età del mondo  occorre seguire quello che affermano i Santi Dottori, e cioè che nel sesto giorno  feriale è rappresentata la sesta età del mondo, nel sabato è significata la settima  età, e nella domenica l'ottava età, e poiché il sesto giorno è destinato alla fatica,  il settimo è riservato al riposo. Quel sabato sarà dunque colmo della gioia e della  letizia di tutti gli eletti, e ciò sia perché l'esercito dei santi martiri e degli altri  giusti sarà riunito in Cielo e regnerà con Cristo, sia perché al popolo di Dio  verrà concessa quella tregua sabbatica perché possa riposarsi dalla fatica della  sofferenza che ha sopportato nel corso dei sei tempi già quasi compiuti, e perchè  obbedisca al Signore nella libertà dello Spirito, poiché dov'è lo Spirito del  Signore lì è la libertà.   Questa definizione delle sei età viene comunemente riferita al Padre ed al  Figlio, poiché Padre e Figlio sono un unico Dio. Infatti, così come ciascuno dei  due singolarmente considerato è vero Dio, altresì considerati insieme essi non  sono due dei ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente  somiglianti al Padre ed altre al Figlio, così che essendo appunto uniti assieme si  manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i  loro nomi. Diversa è la persona del Padre come diversa è la persona del Figlio,  tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E poiché  l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due ma da en-  trambi, è chiaro che lo stesso Spirito sia in comunione con il Padre ed il Figlio  dai quali, appunto, procede all'infinito.   Questa definizione dei sei tempi o età concerne più propriamente la     60 MARIO GAGLIONE   persona del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer-  sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei età.  Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli mostra nel suo  Spirito abbondanza d'amore e piena libertà di grazia, poiché il timore non è  compatibile con la carità, e perché la perfetta carità allontana il timore. In  questa Figura viene quindi esposto un grande mistero riguardante particolar-  mente la fede cattolica. Tutte le cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza.  La vera sapienza consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in  particolare, attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui  aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il Signore  nel Vangelo: «il Padre mio opera nello stesso modo nel quale opero anch'io».  Perciò è come se dicesse: mio Padre ha operato così che attraverso le opere  compiute a sua immagine nel primo stato del tempo, potesse dimostrare di  essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero cose simili in questo secondo  stato, così che né il Padre potrebbe agire senza di me, né io stesso potrei  operare senza il Padre, e ciò per dimostrare di essere identico a mio Padre,  poiché egli è Dio così come sono io stesso Dio, ed Egli stesso è onnipotente così  come io sono onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono  specificamente alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar-  dano la persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite  le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due persone.  Ciascuno di loro è Dio ed al contempo entrambi sono un unico Dio. E così  anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perché procede dal Padre  ed in conformità a lui. Infatti non siete voi a parlare ma è lo Spirito del Padre  vostro che parla in voi. Viene anche definito Spirito del Figlio perché procede  dal Figlio conformemente a lui, secondo quanto si afferma: «Dio ha immesso  nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che dice: Abba, Padre!». Ed altrettanto  l'Apostolo dice dello Spirito Santo: «dove è lo Spirito del Signore Ti è la libertà».  La servitù riguarda i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libertà  invece concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo  il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e riposo. Bisogna  considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati del primo stato è stata  concessa libertà e riposo nello Spirito Santo, e considerare altresì fino a che  punto il popolo dei fedeli abbia sopportato la servitù ed il giogo della legge per  servire il suo Signore nella libertà dello Spirito, poiché, come dice l'Apostolo:  «non avete ricevuto lo Spirito della servitù ancora una volta nel timore, ma  avete ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale» per il quale possiamo dire: «Abba,  Padre!». Perciò, poiché lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi spetta il  sabato e la libertà, era necessario in conformità a ciò, che la settima età iniziasse  dal momento in cui Cristo è venuto nel mondo, perché questa età è stata  concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per tale ragione è stato inviato  nello stesso tempo lo Spirito Santo, perché iniziasse quella età. Allo stesso  modo, dopo i sei tempi faticosi di questo secondo stato che, in conformità a  tale spiegazione, è iniziato con Ozia, ovvero con Mosè, verrà conferita al  popolo Cristiano la libertà, non vi è dubbio, nello Spirito Santo, affinché si  vedano svelate le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili  solo come di riflesso. E così noi stessi procederemo di glorificazione in glorifi-  cazione, e dallo Spirito del Signore verrà concessa la pace, nonché il sollievo     wmasSÈ     IPOTESI «GIOACHIMITE» SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO     61     dalla croce perché si possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni. Ciò  accadrà dopo i sei faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto essere  pertinenti piuttosto al Figlio, perché lo Spirito Santo dimostri di procedere dal  Figlio di Dio. Esso stesso lo definirò Spirito che procede dal Padre, perchè solo  uno e sempre lo stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la  glorificazione della settima età è stata rimandata fino a questi tempi, poiché i  tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che è stato concesso solo in  parte e non integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che  sono destinati alla fatica dei cristiani. È dunque per quanto annunziato dal  Padre e dal Figlio che crediamo che ognuno di loro sia vero Dio, e, cioè, che  il Padre non sia generato da alcuno come Dio ed altresì che il Figlio derivi come  Dio da Dio. Poiché, in realtà, il Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito  Santo, non sono simultaneamente due dei ma un Dio solo, secondo quanto  afferma il Figlio nel Vangelo dicendo: «Quando verrà lo Spirito Santo che io  invierò a voi dal Padre», occorrerà che si concludano in altro modo le sette età,  in maniera che vengano conteggiate fino a Cristo cinque età, ed, inoltre, la sesta  fino alla definitiva incarcerazione di Satana, ed, ancora, la settima fino alla  resurrezione dei morti.  Indice generale     1. Introduzione 1   2. Una breve storia del salterio a died corde 2   3. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a dieci corde" 4   4. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il contesto storico   eilPrologo 8   5. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il Libro Primo....l2   5. Conclusione 20   Tavola Illustrativa 22   Bibliografia 23     IL SALTERIO A DIECI CORDE   UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE  TEOLOGICA MEDIEVALE   Martino Mocchi     1. Introduzione   La presente ricerca si colloca all'interno del seminario tenutosi  presso l'Universita di Pavia nel secondo semestre del 2010 "Teologia e  altri saperi nel Medioevo" e vuole essere un contributo alia  comprensione del difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca.  In particolare verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde  come esempio di un punto di contatto tra le discipline. Quello die  tradizionalmente e considerato lo strumento biblico per eccellenza,  viene infatti "preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione  teologica medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e  allegorica ne arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una  introduzione relativa alia storia dello strumento in epoca biblica e  medievale si considereranno nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in  cui l'autore recupera l'immagme in un contesto prevalentemente  teologico-morale, e si proporra quindi una disamina del Primo libro  del Salterio a dieci corde di Gioacchino da Fiore, per mettere in luce la  valenza mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il  filo conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare,  nell'ambito di una riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un  contesto dichiaratamente teologico, ma che trae motivi e sostegno  argomentativo dal riferimento all'immagine di uno strumento musicale,  delle possibili influenze, o in qualche modo degli spostamenti di  traiettoria, dovuti all'interazione tra le due discipline.     2. Una breve storia del salterio a dieci corde.   L'interesse particolare per il salterio a dieci corde ha origine nel  testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento come il piu  adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere attribuita  alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale arte. Se i risultati  della moderna esegesi sembrano concordare nell'attribuire alia figura  di Davide un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento e di  consolidamento di una pratica musicale aH'interno della comunita  ebraica 1 , risulta ben piu problematica la collocazione definitiva dello  strumento in questione. La piu recente traduzione del Testo Sacro, in  diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione piuttosto  generica di "strumento a corda" dei termini di poco chiara  comprensione musicologica.   Il libro della Genesi, particolarmente ricco di riferimenti a pratiche  e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo strumento nel quale Davide  eccelleva. Dalla narrazione si evincono delle caratteristiche che  potrebbero awicinare come tipologia di strumento il kinnor e la lira  greca chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la pratica musicale di tale  strumento prevede l'utilizzo di un plettro per pizzicare le corde, il che  sembra essere in contrasto con la traduzione proposta nella versione  dei Settanta: il termine psalterion rimanda infatti etimologicamente al  verbo psallein, che significa letteralmente "pizzicare con le dita".   Nel periodo dei Re la scena musicale di Israele muta radicalmente:  proprio sotto l'impulso di Davide e di Salomone si sviluppa  un'organizzazione e un'istituzionalizzazione delle pratiche musicali  all'interno della comunita. Nasce la figura del musicista di professione,  comincia a distinguersi in modo netto la musica di corte dalla musica  del Tempio, si costituisce una vera e propria accademia come luogo  dell'educazione musicale, e vengono inseriti, accanto a quelli  tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni di questi,  come per esempio il nevel, possono fornire delle utili indicazioni a  proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno strumento a  corda: nella versione dei Settanta il termine e reso attraverso l'utilizzo  di tre parole distinte, una delle quali e proprio psalterion. La     Una tale interpretazione prende le mosse direttamente dal testo biblico, che in piu  punti sembra concordare nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di "musico":  cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, 17; 3, 33.   Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo di C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali, tr. it. M. Papini, Mondadori, Milano, 1996. Si vedano in  particolare i capitoli V, VI, X.     trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in  tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre  diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento  simile all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che «psalterium  lignum illud concavum unde sonus redditur superius habet» 3 . Sembra  quindi possibile associare la struttura del nevel a quella dell'arpa  verticale angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella fenicia. La  questione e pero ulteriormente complicata da un altro termine che nel  libro dei Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e legato  strettamente alia problematica del salterio a dieci corde: il termine asor.  Questa parola letteralmente significa "dieci". L'esegesi ha piuttosto  uniformemente interpretato tale accostamento come il riferimento ad  uno strumento musicale con dieci corde. Piu recenti studi musicologici  hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere piu  correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma come  sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento  autonomo, a riguardo del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe  essere infatti proprio questo lo strumento a dieci corde da cui ha preso  spunto la traduzione greca, come del resto non sembra possibile  escludere la possibility che il salterio a dieci corde sia stata una  "invenzione" dei traduttori greci e latini che non trova una  corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche.   La problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda  in epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta 4 . Sicuramente e  attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che differivano pero  tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la forma, le  dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il salterio e senza  dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare ad uno  strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale del  Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir, che  costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area asiatica, la  cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde attraverso  l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che la prima  rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al salterio  risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de Compostela, e che     Dalla lettera di San Gerolamo a Dardano. La citazione si trova in C. Sachs, Storia  degli strumenti musicali, cit., p. 127.   Per una disamina della questione in epoca medievale, oltre al gia citato testo di  Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e  Alberto Gallo, La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1991.     in generale tali rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300.   Da queste considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in  cui maturano le riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva  uno strumento chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione  comincia ad avere una certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda  del medioevo. Bisogna infine tenere presente sullo sfondo il difficile  rapporto in epoca medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali,  che rimane un tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna.  Questo sembra awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine  dello strumento trae origine da un contesto esegetico-teologico molto  prima che dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria.     3. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died corde".   Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde" rappresenta un  punto essenziale per la comprensione e la formazione dell'immagine  "teologica" dello strumento in questione. Le attuali conoscenze  del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne la  data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine  del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto  propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un  percorso di crescita morale per il credente basato sull'osservanza dei  dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la sua forza nel  parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e le dieci corde del  salterio.   Il punto di partenza consiste nell'indicare la necessita di trovare un  accordo con «l'avversario», che viene identificato con la parola di Dio,  dal momento che «comanda cose contrarie a quelle che fai tu» 5 . In un  certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio identificabile con la  nostra disposizione interiore, che ci allontana da un comportamento  moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le disposizioni interiori  risulta infatti molto pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto da un  lato si e spinti ad assecondarle poiche procurano un piacere immediato,  dall'altro proprio tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e  rappresenta quindi una minaccia per la vita ultraterrena. Allora     Agostino, Tractatus de decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato  sul salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta Nuova,  Roma, 1979; p. 153.     «perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci  porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro?» 6 .  L'emergere di questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso  schema sopra rilevato alia musica. Sembra delinearsi infatti una  concezione ambivalente di tale disciplina: da un lato, nel suo corretto  uso, rappresenta uno strumento di grande forza ed espressivita  interiore, che puo permettere all'uomo di innalzarsi verso la sfera  divina. Dall'altro, se considerata nella sua dimensione sensibile, puo  essere la fonte di un «appagamento dell'orecchio» che rappresenta un  motivo di corruzione. Va notato che una tale impostazione e  riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in primis nel De musica, ed e  un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga tradizione filosofica  riconducibile come minimo a Platone 7 . La problematica ha avuto una  grande fortuna nella discussione della prima patristica 8 in relazione alle  modalita della pratica religiosa, e rimane uno sfondo obbligato per la  comprensione della musica cristiana in tutto il Medioevo 9 .   Su questo sfondo Agostino introduce il tema piu propriamente  morale, recuperando la figura del salterio:   «ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono del  salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi cantero  quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha dieci  comandamenti». 10   L'asprezza attribuita al suono dello strumento non e evidentemente da  ricondurre ad un ambito musicale, quanto da intendere in senso  figurato come metafora della difficolta del cammino da compiere per  ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del recupero  deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che si  instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a questo  tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi molto  diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime tre     6 Ivi, p. 159.   7 Si veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio.   8 Un'analisi piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia  concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria Editrice  Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106.   9 Si veda in particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica  strumentale, e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica liturgica.  Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di Giulio Cattin e Alberto  Gallo.   10 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159.     corde, che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che  danno disposizioni relative al comportamento verso i propri simili.  Sebbene l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la  metafora istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e  portata fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che  corrisponde al rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il  «canto nuovo», che si contrappone al vecchio proprio come l'uomo  nuovo, che nasce a seguito della venuta di Cristo, si contrappone  all'uomo dell'Antico Testamento. Il canto d'amore che nasce con Cristo  prende il posto del timore, che lega l'osservanza della legge alia paura  della punizione divina. E 1 questo il nocciolo argomentativo del discorso,  e il tema viene ribadito in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma:   «Cambiate il comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate  Dio. [...] Se lo fate con amore, cantate il canto nuovo. Se lo fate con  timore, ma lo fate, portate si il salterio, ma ancora non cantate» n .   Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine del discorso,  l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una metafora  che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza dei  comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di  ringraziamento a Dio per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di  lotta interiore contro la passione sensibile. Il credente, quindi, deve  comportarsi da un lato come il suonatore di cetra che innalza le sue lodi  a Dio, dall'altro come il gladiatore che uccide senza compassione le  belve nell'arena. Il passo merita di essere citato testualmente:   «Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi suona  la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le dieci  corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi  la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade  la bestia della superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale  non pronunci erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la  bestia dell'errore delle nefande eresie che hanno creduto falsamente.  Tocchi la terza corda, per cui qualunque cosa fai la fai per nella  speranza del riposo futuro, viene uccisa la bestia, piu crudele delle  altre, dell'attaccamento a questo mondo» 12 .   Lo stesso discorso vale per i successivi sette comandamenti, che  enunciano i nostri doveri verso gli uomini, fino a che     11 M, p. 165.   12 Ivi, p. 173.     «cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio e  in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le dieci  corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi capitali.  Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di bestie.  Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non con  timore» 13 .   Il «canto nuovo», dunque, si puo innalzare attraverso l'osservanza  dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una contrapposizione tra  l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul timore l'osservanza  della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la rivelazione di  Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo la propria  condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del canto: il  canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile, rappresenta la  pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto interiore, che  innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo. E' quindi  significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino voglia  argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua intrinseca  ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica diventa  il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo: anche un  elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi in  una causa di corruzione per colui che non si comporta in conformita  alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e il suo  compimento all'interno di un contesto teologico-morale, risulta  certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a questa  metafora musicale.   Negli ultimi capitoli del discorso Agostino, seguendo uno schema  piuttosto consolidato, traduce l'argomentazione fino a questo punto  esposta in un lessico neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere  sintetizzato nelle formule evangeliche «ama il prossimo tuo come te  stesso» 14 e «non fare agli altri cio che non vuoi sia fatto a te» 15 .  Conseguentemente, l'immagine del canto interiore ed esteriore viene  riformulata attraverso l'espressione «siate cristiani, perche e troppo  poco chiamarsi cristiani». 16   E' importante notare come le riflessioni qui proposte siano presenti,  seppur in maniera meno sistematica, nei commenti di Agostino ai  Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i dieci     13 Ivi, p. 175.   14 Mt 19, 19; Mc 12, 31; Lc 10, 27.   15 Mt 7, 12; Lc 6, 31.   16 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 187.     comandamenti e le dieci corde del salterio, nel commento al Salmo 143  il tema centrale del canto nuovo che nasce attraverso la carita 17 . Questo  particolare e di una certa rilevanza per la nostra ricerca, dal momento  che permette di dare per scontata la conoscenza delle posizioni  agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto implausibile  infatti pensare che l'abate cistercense non conoscesse il testo  delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da dare per scontata  la conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza voler in questa  sede risolvere un problema che meriterebbe una piu approfondita  indagine storiografica, si vuole rilevare che la ripresa delle posizioni  agostiniane da parte di Gioacchino, in questo contesto argomentativo,  si riferisce sicuramente ai passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre  sembra trascurare alcuni elementi che pur assumono una importanza  non secondaria nel Discorso.     4. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il  contesto storico e il Prologo   Lo Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo  di Gioacchino da Fiore sul tema della trinita, ed e dunque da inquadrare  aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione teologica del  XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima risonanza, che vide  contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di Clairvaux, la disputa  fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di Pietro Lombardo, tra  gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera suscitarono aspre     17 Si veda anche il commento al Salmo 91 dove compare il tema sintetizzabile nella  massima «siate cristiani, non ditevi cristiani». Un altro tema particolarmente  ricorrente nelle Enarrationes consiste nella differenza tra la cetra e il salterio.  Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente disposizione  della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo spirito (il salterio, che ha  la cassa disposta verso l'alto) e la carne (la cetra, la cui cassa e invece orientata  verso il basso). Il tema compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150,  6-7. Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo 70:  «c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il salterio ha  nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le corde e fa da cassa di  risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore». Il riconoscimento di un  particolare cosi macroscopico non sembra certo necessitare il riferimento a giudizi  "esperti". Si potrebbe pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto  personalmente gli strumenti in questione.   8     critiche da parte di diversi opposition 18 , tra i quali proprio Gioacchino  da Fiore. Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli  argomenti sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere  condannata la sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense, nel 1215. Il  nocciolo della disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine, che  risulta comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del XII  secolo.   Gioacchino arriva a sostenere la «follia» di una tale impostazione,  teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e corrispondenza  tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua ottica, l'unita  inscindibile che caratterizza la trinita non puo prevedere distinzioni di  alcuna sorta: e piuttosto il carattere relazionale che permette di  garantire la fusione perfetta tra le tre persone, e alio stesso tempo il  loro riconoscimento singolare, come dimostra chiaramente la figura del  salterio. Distinguendo la sostanza dalle persone della trinita, invece,  Lombardo «e come se mettesse tre dieci al posto delle tre persone, e un  quarto dieci al posto della sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma  una quaternita» 19 . La figura argomentativa che viene posta al centro  della critica e quella tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa  radice: la sostanza, secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle  tre persone divine, proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale  pure tutti sono generati. Per Gioacchino, al contrario, l'immagine a cui  si dovrebbe fare ricorso e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre  aH'interno dei rami stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come  l'obiettivo polemico principale sia proprio l'autore delle Sententiae,  anche se e da rilevare che il suo nome non viene mai citato  esplicitamente. I nomi che ricorrono in piu punti, invece, sono quelli  degli eretici Sabellio e Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il  primo, la trinita ad una sola persona 20 , mentre il secondo nel separare  in modo inconciliabile le tre persone, che vengono distinte per grado  dimensionale: «come se al Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio     18 Si ricorda ad esempio Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande  influenza sul Papa Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu  puntuale del dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino  da Fiore, Laterza, Roma Bari 2004, cap. 3, pp. 36-41.   19 Gioacchino da Fiore, ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, Viella,  Roma 2004, p. 173.   20 Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e indivisibility di Dio, formato da una sola  persona, l'ipostasi, e tre nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri  della sua manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto "modi"  dell'apparire del Padre scelti in base al proprio volere.     Spirito Santo un numero piu piccolo». 21   La stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica  particolare, di cui e lo stesso Gioacchino ad informarci. Il Prologo  dell'opera, infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi  di questo «opuscolo dedicato alio Spirito Santo» 22 , che rappresenta la  terza delle sue opere principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in  queste pagine e la spontaneita e l'immediatezza che hanno  caratterizzato l'elaborazione e la stesura di tale opera. Gli anni in cui  questo awiene sono quelli del soggiorno presso l'abazia di Casamari:  anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui Gioacchino, «lontano  dagli affari del mondo, o quasi», arriva a sentirsi addirittura «un  abitante della citta superiore, celeste di Dio» 24 . Si tratta degli anni tra il  1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti  alia Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a termine solo  qualche tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera,  infatti, che l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata  «esitazione nella fede della trinita» 25 , che impone una riflessione su  questo difficile argomento. Il lavoro sulla Concordia viene quindi  interrotto, nell'interesse di una problematica costitutiva ed  imprescindibile per qualsiasi riflessione teologica. La stessa  immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si ritrova nel  percorso che porta alia scoperta di una soluzione:   «pregai [lo Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro  mistero della Trinita. E dicendo questo incominciai a cantare i salmi.  [...] Ed ecco subito mi si presento all'animo l'immagine del salterio     21 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 173. La tesi fondamentale di Ario  consiste nella negazione della consustanzialita tra il Padre e il Figlio, a partire  dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile con la pluralita delle persone divine. Il  Figlio, quindi, non ha la stessa natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la  conseguenza che l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono essere  considerati eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica  del IV secolo, e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio di  Nicea del 325.   22 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 4.   23 Le altre due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono  la Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui notato che  l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come "terza" opera e sostenuta  conformemente alle istruzioni date dallo stesso Gioacchino. Tale affermazione non  e riconducibile a ragioni cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento  tematico sui propri scritti da parte dell'autore.   24 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde, cit., p. 4.   25 Ibidem.   10     a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e  comprensibile il mistero della trinita» 26 .   Una vera e propria illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un  percorso che sembra orientarsi ben piu sul versante mistico che su  quelle- speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto  riveste un ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima  comunicazione con la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un  altro passo del Prologo:   «quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il canto dei  salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che prima  leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a dischiudersi  a me che cantavo i salmi in silenzio» 27 .   Il carattere mistico del canto, che puo innalzare lo spirito verso  quei misteri che risultano oscuri alia lettura razionale, emerge in  queste righe con estrema efficacia. Alio stesso tempo, pero, non si puo  trascurare l'elemento del «canto silenzioso», che sembra rimandare  invece all'altro versante della concezione platonico-agostiniana: la  valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi  ricercato in un grado tale di purezza da poter arrivare addirittura ad  annullare se stesso. L'indicazione di Gioacchino, in questo punto, non  sembra volersi spingere fino a questa paradossale conclusione, che pur  e stata teorizzata da diversi autori in epoca medievale. Il recupero  dell'elemento musicale, come si vedra, procede piuttosto in conformita  all'impianto complessivo dell'opera, finalizzato ad «esaltare le  potenzialita figurali e le implicazioni visive della Sacra pagina. L'idea e  di attingere a un repertorio di enti visibili per accedere ah"invisibile» 28 .   Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna ed esplica, in un  certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici qui proposti.  Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di partenza per  un percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine della  razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato la  coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno del  riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente  attingibile. Il "canto silenzioso" non sembra quindi poter arrivare ad  eliminare la musicalita del canto sensibile, quanto piuttosto si  caratterizza come la prova tangibile di un dissidio non ancora risolto,     26 Ibidem.   27 Ivi.p. 3.   28 G. L. Potesta, II tempo dell'Apocalisse, cit., p. 37.     11     di un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che  dovra passare anche il confine del XII secolo prima di trovare una  soluzione.   La struttura dell'opera permette una divisione interna in due parti:  la prima comprendente il libro primo, la seconda il libro secondo e  terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto semantico, sia il  periodo di stesura: e lo stesso Gioacchino ad informarci del fatto che il  secondo e il terzo libro «non li scrissi ne in quel luogo ne in quell'epoca,  ma dopo circa due anni» 29 . E 1 un'informazione non sorprendente alia  luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben definita. La  differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte il "salterio"  rappresenta lo strumento musicale fin qui considerato, e la sua ripresa  e relativa alia disputa sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella  seconda parte per indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale  viene costruita una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul  numero 150, che corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima  parte si contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e  spontaneita della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu  pensata, piu costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero  del testo sacro. Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia  produzione escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si  potrebbe pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma  questi libri sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un  decennio di riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una  sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la  prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della  nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo.     5. Il "Salterio a dieci corde" di Gioacchino da Fiore: il  Libro Primo   Il Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello  strumento musicale per indagare la «ricchezza dei misteri» in essa  contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina, per cui «niente puo  esservi di sterile o vano» 30 . Il riferimento e, ovviamente, in primo luogo  al testo biblico, e in particolare alia figura di Davide, autore dei Salmi,     29 Gioacchino da Fiore, Il salterio a dieci corde, cit., p. 4.   30 Ivi, p. 6.     12     di cui vengono citati alcuni passi che rimandano all'utilizzo del salterio  nelle pratiche liturgiche ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa  in sette capitoli, o "distinzioni", in cui progressivamente vengono  introdotti nuovi elementi per una comprensione che passa dal piano  della semplice descrizione alio svelamento della prospettiva  escatologica contenuta nella forma dello strumento.   La prima distinzione introduce la figura del salterio, che viene  descritto come uno strumento «bello di forma, aggraziato per il suono,  soave per la modulazione» 32 . Le caratteristiche che compaiono in questo  passo sono notevolmente diverse da quelle che si sono viste prevalere  nella descrizione agostiniana, in cui «aspro e il suono dello strumento  di Dio» 33 . Il riferimento e il confronto con gli elementi contenuti  nelle Enarrationes appare del resto evidente fin dalle prime righe del  capitolo: Gioacchino riprende, seppur in maniera estremamente  sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra nella loro differente  funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde e i dieci  comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive  sette. E in seguito compare il tema dell 1 «uomo nuovo che e stato creato  a immagine di Dio» 34 , che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se e  facile dunque riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza delle  tesi agostiniane, risulta altrettanto semplice vedere come Gioacchino  proceda, ben presto, verso l'elaborazione di un percorso autonomo, che  per alcune implicazioni e addirittura contrastante con le posizioni  dell'ipponense 35 .     31 Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il giocondo salterio e la cetra";  Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono della tromba, lodatelo col salterio e la cetra".   32 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 7.   33 Agostino, Sul salterio a dieci corde, cit., p. 159.   34 Ef. 4, 24.   35 La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e Gioacchino esula  dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare, almeno in  termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la discussione. Potesta indica  proprio nel «confronto a distanza con l'inquietante ombra di Agostino un motivo  per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca teologica di Gioacchino»  (G. L. Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del dibattito  consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare l'Apocalisse in chiave  millenaristica. Questo rappresenta un grande scoglio per lo sviluppo complessivo  della ricerca dell'abate calabrese, interessato, in primo luogo, proprio ad  un'interpretazione della storia a partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In  particolare, la chiave di volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione  dei versetti del capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e  imminente l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di  incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui la   13     Il punto di partenza di questo percorso consiste nell 1 inter pretare  in primo luogo il salterio secondo la sua forma esterna, senza fare  riferimento alia natura delle corde, che invece rappresenta il principale  motivo di interesse della ripresa agostiniana. La forma triangolare  rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile dell'unita trinitaria:  ad ogni vertice puo infatti essere associato il nome di una delle tre  persone, come si puo vedere dalla figura 1 riportata in Appendice. Si  puo quindi immediatamente notare come ogni persona sia  costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il vertice  non puo essere individuato se non come punto di incontro delle rette  che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla figura si  caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario, in cui  ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma alio  stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo complicato  rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility di  comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e  pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due.   «ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di relazione  a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare il  singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione nel  concetto di sostanza». 36   Sullo sfondo del riferimento polemico alle tesi di Pietro Lombardo,  risulta evidente come sia dunque la categoria di relazione ad indirizzare  e guidare la mente neiravvicinamento ad un mistero che per sua  essenza rimane inarrivabile per le nostre facolta razionali. Di fronte a  questa presa di coscienza non e piu concesso cercare di spingersi oltre,  quanto piuttosto e da accettare la massima di Bernardo secondo cui  «voler investigare cio e orgoglio, crederlo e pieta» 37 . Non resta dunque  che un atto di fede di fronte ad un tale mistero, che per sua natura  rimane «ineffabile» 38 . L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella     prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio.  L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso del  pensiero di Gioacchino, e viene qui richiamato solo per favorire la comprensione  della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti dello strumento del  salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire qualche interessante  indicazione per una comprensione piu generale del problema.   36 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 17.   37 Ivi, p. 20.   38 Ibidem. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita del mistero trinitario  rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina curiosamente la riflessione di  Gioacchino ad un'area di indagine che ha avuto grande fortuna nell'eta moderna,   14     riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra le arti  e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua non  corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva  impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente  altro. Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta  razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora  una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di  contatto con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui  esprimere la propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste  pagine, cessa di essere interpretato esclusivamente come una forma  geometrica per cominciare ad essere considerato secondo la sua  disposizione originaria di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi  collocare il termine "Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la  perfezione del canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si  puo inscrivere il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo  dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta  l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il  canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto.   L'ultimo passo compiuto da Gioacchino in questa prima distinzione  consiste nel mettere in relazione proprio questi due elementi  geometrici che contraddistinguono la forma del salterio: il triangolo e il  cerchio. Questa caratteristica permette di rimarcare la sfuggente  natura del mistero trinitario: nei vertici del triangolo sono infatti  distinguibili le persone divine, e d' altro canto il cerchio simboleggia la  loro intima connessione che forma un'unita inscindibile. La metafora  puo essere estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe nell'elemento  circolare che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il suono, lo  strumento compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione  e ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di  Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di Dio, il  suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo passo  biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto  greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un  cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di Gioacchino  in questa prima distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si  incarna in una forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una     proprio nell'ambito della riflessione filosofico-musicale: si veda in particolare  Vladimir Jankelevitch, La musica e Vineffabile, 1961. Sebbene non si possa attribuire  a Gioacchino, evidentemente, alcuna intenzionalita nell'utilizzo di questo termine,  il confronto tra le prospettive potrebbe portare ad interessanti conclusioni.   15     prospettiva che permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di  Dio nella pienezza dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a  fermarsi, e proprio in quel punto deve cominciare il canto.   Nella seconda distinzione Gioacchino insiste sull'elemento  relazionale come chiave interpretativa e risolutiva del mistero della  trinita. Ricorrendo ancora una volta aH'immagine del salterio, la  prospettiva e delineata attraverso l'osservazione per cui i tre vertici  non possono essere considerati elementi autonomi, ma relazionali,  prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che rappresentano  proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo che nessun  punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo spazio che  pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il singolo  punto isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto, che  come tale e rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati dell'angolo  stesso. Si puo notare, quindi, che lo spazio di ogni persona coincide con  l'intera area del triangolo. Anzi, ogni area si costituisce in quanto tale,  cioe come porzione delimitata di spazio, proprio attraverso la relazione  con le altre due, che le impediscono di estendersi all'mfinito.   La terza distinzione contiene una discussione prettamente teologica  sugli attributi delle tre persone divine, e riguarda in modo meno diretto  il tema della nostra ricerca. Si vuole solo osservare come anche questa  prospettiva permetta a Gioacchino di insistere sul concetto di relazione  come elemento centrale per una corretta interpretazione del problema:  la potenza, la sapienza e la carita, caratteristiche che vengono  tradizionalmente attribuite al Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non  sono da concepire come elementi distinti e separabili tra loro, dal  momento che «tutta la trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e  perfetta sapienza, tutta la trinita e perfetto amore» 39 .  Conseguentemente «non sono maggiori o hanno di piu le tre persone,  di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello che hanno le tre     insieme» 40 .     Nella quarta distinzione si introduce un nuovo elemento  nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il  vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma  da un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene  generato il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che procede da  entrambi. L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti piuttosto  originali, strutturandosi sulla base di un parallelismo ricercato tra     39 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 31.   40 Ibidem.     16     l'argomento teologico e la nostra modalita di scrittura. Il procedere  della scrittura cristiana da sinistra verso destra starebbe infatti a  conferma del fatto che la creazione ha inizio col Padre, che genera in  primo luogo il Figlio (lato e vertice sinistro), la cui unione produce lo  Spirito Santo (inteso come vertice destro). Al contrario, stando alle  Scritture, in epoca ebraica Cristo e stato concepito attraverso il corpo di  Maria «per opera dello Spirito Santo» 41 . Questo fatto e testimoniato dal  procedere della scrittura ebraica da destra verso sinistra. Gioacchino,  del resto, si rende conto che gli elementi introdotti in queste pagine  potrebbero indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone  divine, il che sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi,  spingere la lettura interpretativa ancora piu in la, osservando che il  segmento superiore e tale dal momento che in origine non e soltanto il  Padre, ma l'intera trinita, poiche «presso Dio non c'e mutamento, ne  l'ombra della vicissitudine» 42 . La forma trapezoidale del salterio indica  quindi che, fin dal principio, erano presenti le tre figure della trinita: e  questo l'argomento della quinta distinzione.   Il confronto tra la particolare considerazione del salterio che viene  fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette di mettere in luce  ancora una volta la peculiarity della riflessione di Gioacchino che,  basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla tra le due  sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica  rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che compariva nel  vertice del Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio torna a  essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra  invocazione a Dio. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della  ragione, che si trova a dover contemplare l'incommensurabile  perfezione dell'eterna esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale,  inteso da un lato come strumento di comprensione mistica del mistero  divino, dall'altro come ringraziamento per la grazia concessa. Su questo  sfondo Gioacchino riprende il filo della riflessione teorica:  l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita lascia aperto il  problema relativo al suo manifestarsi all'interno del tempo umano:  perche Dio, essendo trino fin dal principio, non si e da subito rivelato  all'uomo nella sua essenza piu autentica?   La domanda introduce all'interno di una prospettiva escatologica,  che Gioacchino argomenta attraverso una riflessione sul percorso di  maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso aspettare che     41 Mt 1,18; Lc 1,26-38; Gv 1,6.   42 Gcl,17.     17     l'uomo fosse in grado di comprendere la sua rivelazione: per questo a  quel «popolo ancora rozzo» 43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si  mostro solo come Padre, perche la sua natura trina sarebbe stata  fraintesa in senso politeista. In seguito solo a qualche spirito  particolarmente elevato, come quello dei profeti, e stato dato di  comprendere il mistero, come dimostra Isaia che in piu punti si rivolge  "apertamente" al Figlio: «Signore, chi crede al nostro udito, e il braccio  di Dio a chi e stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui e  come una radice dalla terra assetata» 44 . Solo con l'avanzare della  maturazione dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, «piu vecchio  nell'eta» 45 , Dio si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo  schema apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia  contrapposizione Antico-Nuovo Testamento, Gioacchino fa seguire  un'interpretazione ternaria del tempo della storia dell'uomo, che viene  suddiviso in riferimento alle figure della trinita 46 .   L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in cui  all'epoca del timore e a quella dell'amore, che tradizionalmente  corrispondono al tempo della Legge e quello inaugurato con la venuta  di Cristo, Gioacchino fa seguire una terza epoca, che sta per cominciare,  sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio questa epoca rappresenta il  culmine del disegno divino: come la prima fu quella del Padre, e la  seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del Figlio insieme, cosi la  terza sara l'epoca della trinita nella sua unita perfetta, in cui saranno  presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio e lo Spirito. Di fronte  aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il trionfo dei giusti,  l'intento e quello di ammonire «coloro che abitano in mezzo a Babilonia,  a fuggire da essa» 47 . Il richiamo al secondo libro permette di notare     43 Gioacchino da Fiore, II salterio a died corde, cit., p. 46.   44 Is 53,1.   45 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 47.   46 La compresenza di questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato  fin da subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si e  infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate, che  da un lato poteva essere letto come ortodosso (in relazione al modello binario),  dall'altro eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La storiografia  successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi hanno provato ad  interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva storica e quello  ternario a quella mistica. Si noti che la questione costituisce un altro elemento di  forte distanza tra il pensiero di Gioacchino e quello di Agostino. Per una piu curata  riflessione sul tema si veda ancora: G. L. Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit.   47 Gioacchino da Fiore, Il salterio a died corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al  versetto di Ap. 18, 4.   18     come anche in questo contesto il limite della comprensione razionale,  che si deve arrestare di fronte alia grandezza del disegno divino,  rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove assolutamente centrale  e l'elemento musicale: «a noi ormai deve bastare di avere in questo  modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover cantare e  salmodiare» 48 .   Tornando alia sesta distinzione, Gioacchino procede facendo  corrispondere alia tripartizione della storia tre tipologie di figure  umane, distinte tra loro in riferimento alia propria mansione principale.  Al livello piu basso si collocano i laici, di cui e proprio il lavoro manuale,  poi i chierici, che hanno come compito lo studio e l'insegnamento, e  infine i monaci che si caratterizzano per il canto di lode e la salmodia.  E 1 da notare come il percorso che si delinea attraverso queste tre figure  non rappresenta solo il riconoscimento di una differenziazione sociale  tra gli uomini, ma e anche l'indicazione per una crescita individuale  che innalza l'animo verso Dio. Questi tre stadi sono resi da Gioacchino  attraverso una similitudine: «nello stato di timore baciamo i piedi, in  quello di apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo la  bocca». E dunque «e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio la  perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio  della sua bocca» 49 . L'elemento della bocca viene in questo contesto  recuperato, sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per intendere il  mezzo attraverso cui si dispiega nel mondo la creazione e prende forma  il Verbo. Questo rimando ideale al bacio della bocca sembra quindi  voler ribadire come sia proprio l'elemento sonoro a mettere in  comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come canto della salmodia,  mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato, dall'altro come  espressione della potenza creatrice di Dio.   Solo nella settima distinzione Gioacchino prende in considerazione  direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo     48 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 171. Si vuole osservare che la  lettura qui proposta, che insiste sull'elemento musicale, permette di attribuire al  terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a quella che sembra generalmente  assumere. Se l'elemento musicale della salmodia, che contraddistingue la terza  epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare le facolta della ragione, dal  momento che l'avvento della pienezza divina sembra escludere la possibility di  una comprensione razionale, le pagine finali, dal momento che istruiscono sulle  modalita del canto, possono essere interpretate non solo come un «semplicissimo  libro che si limita a fornire indicazioni per la recita dei salmi» (K.-V.  Selge, Prefazione, 2006), ma come un ammonimento di Gioacchino sul modo di  comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito.   49 Gioacchino da Fiore, II salterio a dieci corde, cit., p. 53.   19     caso possiamo distinguere un impiego musicale dell'immagine da uno  piu propriamente teologico. Il primo approccio si basa  sull'interpretazione delle corde come elemento produttore di suono. Da  qui si osserva che le corde sono fissate indissolubilmente, alle loro  estremita, ai lati che simboleggiano il Figlio e lo Spirito, mentre la loro  vibrazione si propaga verso il vertice del Padre. Questo a intendere che  il nostro canto deve essere innalzato verso quest'ultimo a partire dal  messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo. D'altra parte, il  suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa armonica  rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta  1' indissolubility dell'essere trinitario. L'interpretazione piu  propriamente teologica delle corde e da collocare nel contesto  escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la  loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella  citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e breve,  dal momento che sono meno coloro che riescono ad arrivarci. Alio  stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota, in modo che  «la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella santa e  celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso l'unita non  lascia nascere il livore» 50 . Forse in questa richiamo del suono acuto delle  corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita nel  percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa delle  argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto a  rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante sembra  invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il tema  dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel canto  awicina il nostro animo alia sfera divina. «Dio fece questo perche le  corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino con  la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale tutti,  gioiosi, hanno la loro dimora». 51     5. Conclusione   Per tracciare un bilancio della ricerca condotta, bisogna affermare,  in primo luogo, che non emerge dai testi considerati una tesi "forte"  che possa sintetizzare una presa di posizione chiara. Certamente, nel     50 Ivi, p. 59.   51 Ivi, p. 60.   20     complesso, le indicazioni piu interessanti emergono dal testo di  Gioacchino, in cui si nota che una lettura dell'opera orientata in senso  un po 1 piu "musicale", potrebbe rappresentare una prospettiva  attraverso cui reinterpretare alcuni passi e metterne in luce alcune  sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone quindi come un primo passo  che schiude degli orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata  in molte direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che  l'analisi dei testi considerati si inserisce nella complessa problematica  del rapporto tra Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito  teologico e filosofico, ben prima che in quello musicale, i propri motivi  argomentativi. In quest'ottica, il confronto tra le due prospettive  musicali legate aH'immagine del salterio, proprio perche maturato  inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico e morale,  permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una  riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da  allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale nel  pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di Agostino.  Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via teorica  potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata delle  pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo.   Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito  qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente  affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde.     21     Tavola Illustrativa     Prima distinzione:       %. i     n s .2     Seconda distinzione:     Quarta distinzione:      /attraverso GesuCristo nell'unita dello Spirito \  fig. 4     Sesta distinzione:     /attraverso GesuCristo nell'unita dello Spirito \  fig. 5     22     Bibliografia   AGOSTINO, Tractatus de decern chordis [tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V.   Tarulli, Trattato sul salterio a died corde; in Agostino, Discorsi sul   vecchio testamento, Citta Nuova, Roma 1979].  AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T. Mariucci, V. Tarulli,   Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta   Nuova, Roma 1979].  CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1979.  GALLO, A., La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino 1991.  GIOACCHINO DA FIORE, Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F.   Troncarelli, K. V. Selge, II salterio a died corde, Viella, Roma 2004].  POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse. Vita di Gioacchino da Fiore, Laterza,   Roma Bari 2004.  SACHS, C, The history of musical instruments, W. W. Norton & Company,   1940 [tr. it. di M. Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori,   Milano 1996].  SEQUERI, P., Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Citta del   Vaticano 2005.Gioacchino da Fiore. Fiore. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiore: implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760692114/in/dateposted-public/

 

Fiormonte Domenico – filosofo.

 

Grce e Fiorentino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Filosofo. Grice: “I like Fiorentino; for one, he influenced Gentile – Fiorentino managed to write two important tracts: a systematic ‘manuale’, of ‘elementi di filosofia’ with a section on semantics, communication, and language – his view of the latitudinal history of philosophy – and a ‘storia della filosofia,’ again seen as a manual, literally handbook! Both very clear and to the right audience!” Figlio di Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti. Trascorre il suo tempo libero nel caffè letterario "Cherry Plum", luogo d'élite che attira gli filosofi. Iniziò a farsi conoscere tra i coetanei di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasferì a Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione. All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida, Fiorentino gli si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando: «Viva l'annessione, vogliamo l'annessione!»  Dopo l'Unità d'Italia, venne nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione.  Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna.  Da Spoleto presto passa a Maddaloni, dove approfondì sempre più i suoi studi. Pubblica Il “panteismo” di Bruno.  Rivedeva molto di sé nel carattere e nel martirio di Bruno. La stessa affinità che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti, grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana, contemporaneamente si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse “La filosofia romana”; Pomponazzi; e “Scritti varii”. Seguì l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si trasferì a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica “Elementi di filosofia” e il Manuale di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato. Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblicò "Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano, Napoli). Altre opere: “Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalità dell'anima e Del libero arbitrio di S. Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo d’Aosta, Messina, Sul panteismo di Giordano Bruno” (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca” (Firenze); “Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del secolo XVI” (Firenze); “Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento [Rinascimento] italiano” (Firenze); “La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); “Elementi di filosofia, Napoli); “Della vita e opere di Grazia, Napoli); “Manuale di storia della filosofia, Napoli); “Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, G. Galati, Interpretazione dell'opera, in «Archivio storico della filosofia italiana», G. Oldrini, “La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento” (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in «Bollettino della Società Filosofica Italiana», Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il contributo italiano alla sFilosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Formazione del linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali l’uomo solo parla: e poiché l’uomo solo è forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a, è naturale che tra cotesti due fatti |uU£li^tJtp si) cercato di trovare un nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente ne deriva, è questa. L’uomo parla perchè ragiona? o, al rovescio, ragiona perchè parla? Teoria K tradizionalistica sull’origine del linguaggio e sua critica. Le due opposte sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de’ tradizionalisti non solo ha ammesso la necessità della parola per pensare, ma, com’era inevitabile, ha riconosciuto necessaria la rivelazione divina per la origine del linguaggio umano. Il corollario e perfettamente logico. Se l’uomo non può inventar nulla senza pensare; e se, per pensare, c’è (i) [Principale rappresentante moderno del tradizionalismo è il francese visconte Luigi de Bonald). Jrr*“ ilwlWuii) 6 JL^XÒru) di mestieri la parola, il linguaggio non poteva più derivare dall’uomo; e quindi a lui doveva essere stato rivelato da Dio. Una difficoltà molto ovvia non è stata però tenuta in conto. Come si fa a capire il linguaggio, se non è opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nell’animo nostro il pensiero associatovi? Perchè il cavallo, il cane, benché odano il suono delle parole, non ne comprendono il significato! Gioberti, che rinfresca il tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero p rimitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per Gioberti, non è il fattore delle idee, ma l’istrumento indispensabile, perchè esse siano ripensate. Poiché però le idee nell’intuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere la rivelazione per l’origine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poiché l’intuito delle idee è sempre presente, e poiché il suono del linguaggio colpisce il bambino fin dal suo primo nascere, perchè questi noi comprende subito, nò subito parla? Dati i due co-efficienti, l’intuito dell’idea e il suono esterno della parola, l’intelligenza dovrebbe immantinenti balzar fuora; ed intanto non è così, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d’ intendere il valore del linguaggio. A (oM^Y^O l*< Tt.cC)) Teoria r azionale y. Lasciando dunque la mistica spiegazione di una rivelazione divina, la quale s’impiglierebbe in altre difficoltà, a spiegare, p. es., come Iddio, puro spirito, possa sensibilmente parlare, veniamo alla spiegazione umana. Linguaggio e universali. L’uomo parla soltanto q uando è capace di idee generali. Perciò noi abbiamo a<mr>v fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio, che n 7 è la conseguenza. Come l’individuo è chiuso in sè ed irrelativo, così JL^ la sensazione, che vi corrisponde, è muta. Il linguaggio è comuni chevolezza tra spirito e spirito, e ciò che v? ha T di comune tra loro è, e non può essere altro, che l’universale. 1***^*» (s) I nomi. L’universale ha però diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione comune a più individui percepit i. In questo si fonda l’imposizione dei nomi, che si desume sempre da quella proprietà che più ha colpito l’immaginazione di un mainili <U*^fvTcj. popolo. Così, p. es., guardando il mare, imo può { rimanere più scosso dalla sua mobilità, un altro dalla nr ] sua ampiezza, un altro dal suo colore; e da ciascuna di queste proprietà può imporgli un nome diverso. Le altre note rimangono in seconda linea. Fermarsi sopra di una nota, a preferenza di un’altra, dipende poi dal diverso genio del popolo che si crea il linguaggio. Perciò non senza ragione la filologia moderna s’ingegna d’indovinare le concezioni nascenti devòlversi popoli dalle radici delle parole primitive. Il con questo metodo, riscontrando talune parole sanscrite, greche e latine, che si trovano le stesse, appresso tre rami di una sola razza, dimostra a che grado di civiltà essi fossero pervenuti prima di sparpagliarsi per varie ragioni. Comune, p. es., è la parola che significa il umo. Dunque, prima di dividersi, questi popoli avevano appreso ad estrarre il succo dalle uve. (A^tVvJ — Vc^fi IktcrrtsblC? <&Jt*/fl'n'tT tZjÉXjjrtmu Z Ain. f"r2rH^-££ RaA^ L ^ia^AA*-**** t^x<^ 7 r •<!T- J e /e altre parti del discorso. L’imposizione de’ nomi costituisce però la materia greggia di una lingua; e corrisponde appunto alla virtù rappresentativa dello spirito. L’attività dello spirito stesso è *signi-ficata* dal verbo, che è perciò l’elemento organico, e dalla cui più perfetta determinazione dipende la perfezione maggiore di una lingua. Le altre particelle, — preposizioni, congiunzioni, avverbi, — esprimono l’elemento formale e categorico del pensiero. Esprimono astrattamente le relazioni di cui sono capaci tanto gli oggetti, quanto l’attività medesima del nostro pensiero. [ >*<0 non x 3) Radici e flessioni. Nel nome e nel verbo si distingue la rappresentazione originaria da quelle determinazioni che dip oi, nel processo del linguaggio, le si sogliono aggiungere; c’è quindi in entrambi la radice e la flessione. Quando la lingua è sul nascere, il nome ed il verbo sono e spressi da un mono-sillabo, che rinchiude, come in un germe, la rappresentazione primitiva di una cosa o di un’azione. Quando poi si comincia a distinguere meglio le determinazioni che scampagnano.* o la cosa o Fazione, allora le varie modificazioni della 1 radice primitiva esprimono i numeri, i generi, i casi, le persone, il tempo; e tali flessioni si dicono declinazioni - 1 —: ^ —. — V i i...., coniugazioni, secondo che modificano il nome o il 7 verbo. Di questi due elementi fondamentali del nostro linguaggio, il verbo va congiunto con la categoria di tempo, il nome no. La ragione di tal divario è questa, che., il verbo esprime l’azione, la quale senza il tempo non si potrebbe classificare con precisione; laddove il porne, esprimendo il soggetto o l’oggetto de l’azione, stessa, *signi-fica* qualcosa di iienjnuignte, e si circoscrive piuttosto con le relazioni spaziali. Nelle lingue più ricche, difatti, tra i casi, che esprimono le diverse modificazioni de’nomi, si suole trovare quello che i grammatici chiamano locative, e indica il luogo dove la cosa si trova. Quanto più numerose e sottili sono le flessioni che fissano le varie sfumature dell’azione, tanto più ricca e più precisa è una lingua; quanto più fine sono le gradazioni dell’azione, che lo spirito può cogliere, e rivelare nel linguaggio; tanto è maggiore l’attitudine artistica e scientifica. Dove, invece, si arriva appena a significare 1’azione in una forma rozza, e quasi direi all’ingrosso, quivi manca il genio artistico e la speculazione. La perfezione dell’organismo sintattico rivela la potenza creatrice ed inventiva di un popolo. La lingua greca mostra l’eccellenza di quella coltissima nazione: e criterio di quella eccellenza è la compiuta forma del verbo, che in quella lingua basta ad esprimere ogni più delicata e fuggevol forma del pensiero. Le particelle. Condizione primissima del filosofare è una lingua la quale jgossa astrarre, e fissare le relazioni in sfe, ed indipendentemente dai proprii termini. Quindi le particelle, che diciamo preposizioni, congiunzioni ed avverbii, e che sono come le giunture del linguaggio, diventano un aiuto potentissimo, anzi un istrumento indispensabile della speculazione. Per esse noi pensiamo le relazioni di tempo e di spazio, di causa e di effetto, di mezzo e di fine, e simili, non solo in quanto si trovano, dirò così, incorporate coi termini fra cui tramezzano; ma le pensiamo sci o lte da ogni rappresentazione e come concetti puri. Il dove, il quando, il di, il da, il per, esprimono il luogo, il tempo, la proprietà, la provenienza, il mezzo, come categorie a se, che noi applichiamo ai nomi ed ai verbi, producendo così l’organismo del *period*. L’abbondanza di tali particelle è parimenti indizio della perfezione di una lingua. pajth'cfiiU'- i) C’ è dunque nella lingua tre gradi. C’è la ra ppresentazione della cosa o dell’azione, espressa dalla nuda radice. C’è la rappresentazione determinata per mezzo de’ concetti puri, espressa dalla flessione; e ci sono infine i concetti puri, in s&J astratti da ogni rappresentazione, e sono le particelle invariabili. 4. Sviluppo delle lingue.I linguaggi barbari e rozzi (si arrestano alle prime, alle radici mono-sillabiche, alle semplici rappresentazioni; o, tutto al più, riescono a con-glutinarle insieme. Le lingue sviluppate hanno flessioni; hanno cioè nomi e verbi perfettamente determinati; e Analmente hanno un ricco corredo di part i cell e^signiflcabrici delle relazioni universali. Delle particelle, di cui parliamo, due lingue hanno forse maggior copia, la greca fra le antiche, la tedesca fra le moderne; onde Xmo viene la loro maggiore attitudine a *sig-nificare* i concetti speculativi. Gli elementi delle lingue secondo M, Miiller. In conformità alle osservazioni da noi riferite finora, giova allegare l’autorità di Max ]\IiUl er J ), il quale, dopo sottili indagini, conclude, che tutte le lingue, senza eccezione di sorta, passate pel crogiuolo della grammatical comparata, sono risultate composte di due elementi (Max Miiller, Letture sulla scienza del linguaggio, e Nuove letture, trad. in ital. da Nerucci]. costitutivi; di radici *attributive*, " cioè, e radici *dimostrative*. Le radici attributive servono a *sig-nificare* una meidesima qualità primitiva, che si attribuisce ad un qualche essere. Le radici dimostrative, invece, servono ad esprimere una determinazione meramente formale. Lq j flessioni, consistenti nelle declinazioni de’ nomi, e nelle coniugazioni de’ verbi, nascono dalla unione organica delle due differenti specie di radici in una sola parola. Di modo che, anche filologicamente, apparirebbe manifesta la distinzione originaria di un *elemento attributivo* e di un *elemento dimostrativo* nella lingua; che corrisponderebbero al contenuto (o materia) il primo, ed alla *forma* del pensiero il secondo. La compenetrazione di questi due elementi primitivi non è uguale in tutte le famiglie delle lingue che si parlano. è perfetta, e perciò a mala pena discernibile nelle lingue ariane; è imperfetta, e perciò più facilmente riconoscibile, nelle lingue semitiche. Apprendimento delle lingue. — Altra è la funzione, che si richiede a formare la lingua; altra è quella dello impararla, formata che sia; benché le due funzioni abbiano, e debbano avere, alcunché di comune. Prevale rimmaginazione produttiva nella formazione primitiva dei linguaggi; prevale la ri-produttiva nella loro apprensione. Il bambino che nasce in una società progredita non deve far altro, che assimilarsi il linguaggio materno così coin 7 è stato tramandato. Egli impiega in questo lavoro assimilativo i primi cinque anni della sua fanciullezza, durante il qual tempo impara più, come diceva Gian Paolo), che non in altrettanti anni eli accademia. La sua mente vergine e robusta si arricchisce ben presto di quel tesoro tradizionale, eh’ ei si appropria e fa suo, riponendolo nella fresca e tenace memoria. L’apprendimento delle lingue, già si facile in questa prima età, si va poi di mano in mano rendendo malagevole, perchè la memoria con gli anni si affievolisce, e diviene men facile a ricevere, e men fedele nel ritenere. ly [Gian Paolo Riehter, grande scrittore umorista, tedesco].  Wikipedia Ricerca Marco Porcio Catone politico, generale e scrittore romano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri personaggi con lo stesso nome, vedi Marco Porcio Catone (disambigua). Marco Porcio Catone Project Rome logo Clear.png Censore della Repubblica romana Marco Porcio Caton Major.jpg Particolare del Patrizio Torlonia, busto identificato con Catone il Censore Nome originaleMarcus Porcius Cato Nascita234 a.C. ca. Tusculum Morte              149 a.C. Roma ConiugeLicinia Salonia FigliMarco Porcio Catone Liciniano Marco Porcio Catone Saloniano GensPorcia PadreMarco Porcio Questura204 a.C. Edilità199 a.C. Pretura198 a.C. Consolato195 a.C. Censura184 a.C. (LA)  «Ceterum censeo Carthaginem esse delendam.»  (IT)  «Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta.»  (Porcio Catone) Marco Porcio Catone (in latino: Marcus Porcius Cato; nelle epigrafi M·PORCIVS·M·F·CATO; Tusculum, 234 a.C. circa – Roma, 149 a.C.) è stato un politico, generale e scrittore romano, chiamato anche Catone il Censore (Cato Censor), Catone il Sapiente (Cato Sapiens), Catone l'Antico (Cato Priscus), Catone il Vecchio per aver superato di molto l'età media massima di vita allora a Roma o Catone il Maggiore(Cato Maior) per distinguerlo dal pronipote Catone l'Uticense.  BiografiaModifica Ritratto                                        Modifica Plutarco, autore delle Vite parallele, dà questo ritratto di Catone:   «[…] Quanto al suo aspetto, aveva capelli rossastri e occhi azzurri, come ci rivela l'autore di questo poco benevolo epigramma: “Rosso, mordace, occhiazzurro, Persefone neanche morto accoglie Porcio in Ade.”[1]»  «Fisicamente era ben piantato; il suo corpo s'adattava a qualunque uso, era tanto robusto quanto sano, poiché fin da giovane si applicò al lavoro manuale - saggio metodo di vita - e partecipò a campagne militari.[1]»  Origini familiariModifica  De re rustica, 1794 Nacque nel 234 a. C. a Tusculum, da un'antica famiglia plebea che si era fatta notare per qualche servizio militare, ma non nobilitata dal fatto di aver rifiutato le più importanti cariche civili. Fu allevato, secondo la tradizione dei suoi antenati latini, perché divenisse agricoltore, attività alla quale egli si dedicò costantemente quando non fu impegnato nel servizio militare. Ma, avendo attirato l'attenzione di Lucio Valerio Flacco, fu condotto a Roma, e divenne successivamente questore (204), edile (199), pretore(198) e console nel 195 percorrendo tutte le tappe del cursus honorum assieme al suo vecchio protettore; nel 184 divenne infine censore.  Marco Porcio Catone è considerato il fondatore della Gens Porcia. Ebbe due mogli: la prima fu Licinia, una aristocratica della Gens Licinia, da cui ebbe come figlio Marco Porcio Catone Liciniano; la seconda, è Salonia, figlia di un suo liberto, sposata in tarda età dopo la morte di Licinia, da cui ebbe Marco Porcio Catone Saloniano, nato quando il Censore aveva 80 anni.  Carriera politica                            Modifica «I ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori»  (Marco Porcio Catone, citato in Aulo Gellio, Notti attiche, XI, 18, 18) Durante i suoi primi anni di carriera si oppose all'abrogazione della lex Oppia, emanata durante la seconda guerra punica per contenere il lusso e le spese esagerate da parte delle donne. Nel 204 a.C.prestò servizio in Africa, come questore con Scipione l'Africano ma lo abbandonò dopo un litigio a causa di presunti sperperi. Egli comandò invece in Sardegna, dove per la prima volta mostrò la sua rigidissima moralità pubblica, e in Spagna, che egli assoggettò spietatamente, guadagnando di conseguenza la fama di trionfatore (194).  Nel 191 a.C. ricoprì il ruolo di tribuno militare nell'esercito di Manio Acilio Glabrione nella guerra contro Antioco III il Grande di Siria, giocò un ruolo importante nella battaglia delle Termopili e attaccando alle spalle Antioco permise la vittoria dei romani, che segnò la fine dell'invasione seleucide della Grecia. Nel 189 a.C. condusse un processo sia contro Scipione l'Africano sia contro il fratello Scipione l'Asiatico, accusandoli di aver concesso dei favori personali al re di Siria Antioco III e di aver dissipato il tesoro dello Stato. Il caso degli Scipioni consiste in uno dei più grandi scandali della Repubblica Romana, considerando che, soprattutto Scipione L'Africano, era considerato l'eroe della Seconda Guerra Punica.  Opera pubblicaModifica La sua reputazione di soldato era quindi consolidata; da quel momento in poi egli preferì servire lo stato a casa, esaminando la condotta morale dei candidati alle cariche pubbliche e dei generali sul campo. Pur non essendo egli personalmente coinvolto nel processo per corruzione contro gli Scipioni (l'Africano e l'Asiatico), fu tuttavia lo spirito che animò l'attacco contro di loro. Persino Scipione l'Africano, che si rifiutò di rispondere all'accusa, affermando solo: "Romani, questo è il giorno in cui io sconfissi Annibale", venendo assolto per acclamazione, trovò necessario ritirarsi, auto-esiliandosi, nella sua villa a Liternum. L'ostilità di Porcio Catone risaliva alla campagna d'Africa quando discusse con Scipione per l'eccessiva distribuzione del bottino tra le truppe, e la vita sfarzosa e stravagante che quest'ultimo conduceva.  CensoreModifica Al secondo tentativo, nel 184, egli fu eletto censore ed esercitò questa carica per quattro anni così bene che gli venne assegnato il soprannome di Censore (anche per il suo carattere severo, per il suo austero moralismo e per l'asprezza delle critiche rivolte da lui contro ogni indizio di corruzione delle antiche virtù romane).  Contro l'ellenismoModifica Catone si oppose inoltre all'ellenizzazione, ossia il diffondersi della cultura ellenistica, che egli riteneva minacciasse di distruggere la sobrietà dei costumi del vero romano, sostituendo l'idea di collettività con l'esaltazione del singolo individuo. Fu nell'esercizio della carica di censore che questa sua determinazione fu più duramente esibita e ovviamente il motivo dal quale gli derivò il suo celebre soprannome. Revisionò con inflessibile severità la lista dei senatori e degli equites, cacciando da ogni ordine coloro che riteneva indegni, sia per quanto riguarda la moralità, che per la mancanza dei requisiti economici previsti. L'espulsione di Lucio Quinzio Flaminino per ingiustificata crudeltà, fu un esempio della sua rigida giustizia.  Contro il lussoModifica La sua lotta contro il lusso fu assai serrata. Impose una pesante tassa sugli abiti e gli ornamenti personali, specialmente delle donne, e sui giovani schiavi comprati come concubini o favoriti domestici (leggi sumptuariae). Nel 181 a.C. appoggiò la lex Orchia(secondo altri egli prima si oppose alla sua introduzione, e successivamente alla sua abrogazione), la quale prescriveva un limite al numero di ospiti in un ricevimento, e nel 169 a.C. la lex Voconia, uno dei provvedimenti che miravano a impedire l'accumulo di un'eccessiva ricchezza nelle mani delle donne. Con le donne di casa, mogli, figlie o schiave, fu assai severo, fino a sfiorare talvolta la tirannia; una delle cause di dissenso con gli Scipioni, era proprio la libertà e il lusso che questi concedevano alle loro donne.  Nei confronti delle donne in realtà Catone appare quasi un nemico, penalizzandole in ogni modo: ne limitò il lusso degli abiti e dei gioielli, si oppose al possesso da parte della donna di denaro e ricchezza, sempre in difesa dei valori morali della Repubblica.  Contro i BaccanaliModifica Fu assai disgustato, assieme a molti altri dei romani più conservatori, dalla diffusione dei riti misterici dei Baccanali, che egli attribuì all'influenza negativa dei costumi greci; perciò sollecitò con veemenza l'espulsione dei filosofi greci (Carneade, Diogene lo Stoico e Critolao), che erano giunti come ambasciatori da Atene, sulla base della pericolosa influenza delle idee diffuse da costoro.  Contro i medici     Modifica Catone provava ripugnanza per i medici, che erano principalmente greci. Ottenne il rilascio di Polibio, lo storico, e dei suoi compagni prigionieri, chiedendo sprezzante se il Senato non avesse niente di più importante da discutere del fatto che qualche greco dovesse morire a Roma o nella sua terra. Era quasi ottantenne quando, secondo quanto dicono le fonti biografiche, ebbe il suo primo contatto con la letteratura greca; anche se, dopo aver esaminato i suoi scritti, è verosimile ritenere che possa aver avuto un contatto con le opere greche per gran parte della sua vita.  Contro CartagineModifica Il suo ultimo impegno pubblico fu di spronare i suoi compatrioti verso la terza guerra punica e la distruzione di Cartagine. Nel 157 a.C. fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare e i commissari ritornarono a casa. Ma Porcio Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincerlo che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine. Da quel momento egli continuò a ripetere in Senato: «Ceterum censeo Carthaginem delendam esse.» ("Per il resto ritengo che Cartagine debba essere distrutta."). È noto che egli ripeteva ciò alla conclusione di ogni suo discorso.  Altre attività        Modifica Riguardo alle altre questioni egli fece riparare gli acquedotti di Roma, pulire le fognature, impedì a soggetti privati di deviare le acque pubbliche per il loro uso personale, ordinò la demolizione di edifici che ostruivano le vie pubbliche, e costruì la prima basilica nel Foro vicino alla Curia (Livio, "Historiae", 39.44; Plutarco, "Marcus Cato", 19). Aumentò inoltre la somma dovuta allo stato dai pubblicani per il diritto di riscuotere le tasse e allo stesso tempo diminuì il prezzo contrattuale per la realizzazione di lavori pubblici.  MorteModifica Dalla data della sua carica di censore (184 a.C.) alla sua morte, avvenuta nel 149 a.C. sotto il consolato di Manio Manilio Nepote e Lucio Marcio Censorino[2], Porcio Catone non occupò nessun'altra carica pubblica, ma continuò a distinguersi in Senato come tenace oppositore ad ogni nuova influenza.  Solo dopo la sua morte si iniziò la spedizione contro Cartagine (149 a.C.), che lui aveva voluto.  La visione della societàModifica Per Porcio Catone la vita individuale era un continuo auto-disciplinarsi, e la vita pubblica era la disciplina dei molti. Egli riteneva il singolo pater come il principio della famiglia, e la famiglia come il principio dello stato. Attraverso una rigida organizzazione del suo tempo egli realizzò un'enorme quantità di lavoro; pretese inoltre la medesima applicazione dai suoi dipendenti, e si dimostrò un marito e un padre severo, un inflessibile e crudele padrone. Ci fu apparentemente poca differenza, nel modo in cui trattava sua moglie e i suoi schiavi; il suo orgoglio soltanto lo indusse a prestare una più calorosa attenzione verso i figli.  RiconoscimentiModifica Per i romani stessi ci fu poco nella sua condotta che sembrasse necessario censurare; fu sempre rispettato e considerato come un esempio tradizionale degli antichi e più genuini costumi romani. Nel notevole passo (XXXIX, 40) in cui Livio descrive il carattere di Porcio Catone, non c'è alcuna parola di biasimo per la rigida disciplina della sua condotta domestica.  Opera letterariaModifica Porcio Catone è tra le principali personalità della letteratura latina arcaica: egli fu oratore, storiografo e trattatista. Fu autore di una vasta raccolta di manuali tecnico-pratici, con i quali intendeva difendere i valori tradizionali del mos maiorum contro le tendenze ellenizzanti dell'aristocrazia legata al circolo degli Scipioni, indirizzata al figlio Marco, i Libri ad Marcum filium o Praecepta ad Marcum filium, di cui si conserva per intero soltanto il Liber de agri cultura, in cui esamina, soprattutto, l'azienda schiavile che tanto spazio si conquisterà poi in età imperiale.[3] Affrontò inoltre la tematica dei valori tradizionali romani anche in un Carmen de moribus di cui sono ad oggi pervenuti pochissimi frammenti.  Fin dalla giovinezza si dedicò all'attività oratoria: pronunciò in tutta la sua vita oltre centocinquanta orazioni,[4] ma sono attualmente conservati frammenti di varia estensione riconducibili a circa ottanta orazioni diverse.[5] Si distinguono tra esse orationes deliberativae, ovvero discorsi pronunciati in senato a favore o contro una proposta di legge, e orationes iudiciales, discorsi giudiziari di accusa o difesa.  Fu inoltre autore nella vecchiaia della prima opera storiografica in lingua latina, le Origines, il cui argomento era la storia romana dalla leggendaria fondazione fino al II secolo a.C. Dell'opera, pur significativa dal punto di vista ideologico, si conservano scarsi frammenti.[6] Catone individua nel culmine del percorso educativo la formazione di un vir bonus, dicendi peritus (uomo di valore, esperto nel dire), espressione che sarà il cardine del successivo modello educativo romano.[7]  L'opera letteraria di Porcio Catone, in particolare quella storica e oratoria, fu elogiata da Cicerone,[8]che definì il censore primo grande oratore romano, e il più degno d'essere letto. Nella prima età imperiale, nonostante l'ideologia di Porcio Catone coincidesse in buona parte con la politica restauratrice del mos maiorum promossa da Augusto, l'opera di Porcio Catone fu oggetto di sempre minore interesse. Con l'affermarsi delle tendenze arcaizzanti nel II secolo d.C., invece, essa fu oggetto di grandi attenzioni, seppure a carattere esclusivamente linguistico ed erudito: Gellio e Cornelio Frontone ne tramandarono molti frammenti, e l'imperatore Adriano dichiarò di preferire Porcio Catone anche allo stesso Cicerone.[9]  A partire dal IV secolo d.C. l'opera di Porcio Catone iniziò a disperdersi, e se ne perse la conoscenza diretta. Grande diffusione ebbero, invece, le raccolte di proverbi in esametri erroneamente attribuite a Porcio Catone e denominate Disticha Catonis e Monosticha Catonis, ma composte probabilmente nel III secolo d.C.[9]  NoteModifica ^ a b Plutarco, Vita di Marco Catone, 1. ^ Velleio Patercolo, Historiæ Romanæ ad M. Vinicium libri duo, I,13. ^ Antonio Saltini, Storia delle scienze agrarie, vol. I, Dalle civiltà mediterranee al Rinascimento europeo, 3ª ediz., Firenze, Nuova Terra Antica, 2010, pp. 41-50. ^ Cicerone, Brutus, 65. ^ G. Pontiggia - M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, 1996-98, vol. I, p. 159. ^ Pontiggia - Grandi, p. 164. ^ U. Avalle - M. Maranzana, Pedagogia, vol. I, Dall'età antica al Medioevo, Torino, Paravia, 2010, p. ? ^ Brutus, 63-69. ^ a b Pontiggia - Grandi, p. 165. Edizioni                                     Modifica Scriptores rei rusticae, Venetiis, apud Nicolaum Ienson, 1472 [Contiene i De re rustica di Catone, Varrone, Columella e Rutilio Tauro Palladio] (editio princeps). De agri cultura liber, Recognovit Henricus Keil, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1895. De agri cultura, ad fidem Florentini codicis deperditi edidit Antonius Mazzarino, Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1962. Marci Porci Catonis Oratio pro Rhodiensibus. Catone, l'Oriente Greco e gli Imprenditori Romani. Introduzione, Edizione Critica dei Frammenti, Traduzione Ital. e Commento, a cura di Gualtiero Calboli, Bologna 1978. Traduzioni italiane                                                            Modifica Catone, De re rustica, con note, [Traduzione di Giuseppe Compagnoni], Tomo I-III, Venezia, nella stamperia Palese, 1792-1794 («Rustici latini volgarizzati»). Catone, Dell'agricoltura, Versione di Alessandro Donati, Milano, Notari, 1929. Liber de agricoltura, Roma, Ramo editoriale degli agricoltori, 1964. L'agricoltura, a cura di Luca Canali e Emanuele Lelli, Milano, A. Mondadori, 2000. Opere, a cura di Paolo Cugusi e Maria Teresa Sblendorio Cugusi, 2 voll., Torino, UTET, 2001. BibliografiaModifica (Per la bibliografia specifica sul De agri cultura e sulle Origines si rimanda alle rispettive voci)  L. Alfonsi, Catone il censore e l'umanesimo romano, Napoli, Macchiaroli, 1954 (estr.). A.E. Astin, Cato the Censor, Oxford, Clarendon press, 1978. C.C. Burckhardt, Cato der Censor, Basel, Reinhardt, 1899. L. Cordioli, Marco Porcio Catone il censore e il suo tempo, Bergamo, Sestante, 2013. F. Della Corte, Catone Censore. La vita e la fortuna, Torino, Rosemberg e Sellier, 1949 (rist. Firenze, La Nuova Italia, 1969). P. Fraccaro, Sulla biografia di Catone maggiore sino al consolato e le sue fonti, Mantova, G. Mondovì, 1910 (estr.). F. D. Gerlach, Marcus Porcius Cato der Censor, Basel, C. Schultze, 1869. F. Marcucci, Studio critico sulle opere di Catone il maggiore, vol. I [unico pubblicato], Analisi delle fonti, questioni varie, Orazioni del periodo consolare e degli anni posteriori fino alla censura, Orazioni del periodo censorio, Pisa, succ. fratelli Nistri, 1902. E.V. Marmorale, Cato maior, Catania, G. Crisafulli, 1944 (II ed. Bari, Laterza, 1949). C. Ricci, Catone nell'opposizione alla cultura greca e ai grecheggianti. Nota, Palermo, D. Lao e S. De Luca, 1895. E. Sciarrino, Cato the Censor and the beginnings of Latin prose. From poetic translation to elite transcription, Columbus, Ohio State University Press, 2011. Fonti antiche Cicerone, Cato maior de senectute Cornelio Nepote, Vita M. Porcii Catonis Tito Livio, Ab Urbe condita, XXXIX, 40 Plutarco, Vita Catonis maioris Voci correlateModifica Marco Porcio Catone Uticense, bisnipote Altri progetti                            Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marco Porcio Catone Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Marco Porcio Catone Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Marco Porcio Catone Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Marco Porcio Catone Collegamenti esterniModifica Catóne, Marco Porcio, detto il Censore, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Plinio Fraccaro, CATONE, Marco Porcio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Catone, Marco Porcio detto il Censore, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Catóne, Marco Pòrcio, detto il Censóre, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Porcio Catone, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( ES ) Marco Porcio Catone, in Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Marco Porcio Catone, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata Opere di Marco Porcio Catone / Marco Porcio Catone (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Marco Porcio Catone, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Marco Porcio Catone, su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata ( EN ) Audiolibri di Marco Porcio Catone, su LibriVox. Modifica su Wikidata ( EN ) Marco Porcio Catone, su Goodreads. Modifica su Wikidata Marco Porcio Catone, su Discografia nazionale della canzone italiana, Istituto centrale per i beni sonori ed audiovisivi. Modifica su Wikidata ( LA ,  IT ) Biblioteca degli scrittori latini con traduzione e note: M. Porcii Catonis quae supersunt opera, Venetiis excudit Joseph Antonelli, 1846. ( LA ,  FR )  Les agronomes latins, Caton, Varron, Columelle, Palladius, avec la traduction en français, M. Nisard (a cura di), Paris, Firmin Didot Fréres, 1856, pagg. 1 sgg. Historicorum Romanorum Reliquiae, Hermannus Peter (a cura di), vol. 1, in aedibus B. G. Teubneri, Lipsiae, 1914², pagg. 55-97. M. Catonis praeter librum de re rustica quae extant, Henri Jordan (a cura di), Lipsiae, in aedibus B. G. Teubneri, 1860. Controllo di autorità                        VIAF ( EN ) 99852885 · ISNI ( EN ) 0000 0001 2145 0009 · BAV 495/16621 · CERLcnp01316133 · LCCN ( EN ) n50047791 ·GND ( DE ) 118519697 · BNE ( ES ) XX1068238(data) · BNF ( FR ) cb11885944n (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007259532005171(topic) · NSK ( HR ) 000358779 · CONOR.SI ( SL ) 45937507 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n50047791   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Letteratura Ultima modifica 6 giorni fa di Elwood PAGINE CORRELATE Carthago delenda est Locuzione latina di Catone il Censore  De agri cultura opera di Catone  Origines opera di Marco Porcio Catone  Wikipedia Il contenuto   ETICA    P«K-   Avvertenza v   Capitolo I. Sentimento e appetito .... 1   1. Principio dello spirito pratico. — 2. L’azione riflessa. —   3. L’ appetito. — 4. La sensazione e il sentimento. —   B. La duplicità della tendenza appetitiva. — 6. Divario  tra azione riflessa ed appetito. — 7. L’appetito fonda-  mentale.   0   Capitolo IL Piacere e dolore ..... 9   1. Causa del piacere e del dolore. — 2. Il sentimento prin-  cipio d’azione. — 3. Tanto il piacere quanto il dolore  sono stati positivi. — 4. La condizione del piacere. —   B. Funzione biologica del sentimento. — 6. Differenza tra  sensazione e sentimento. — 7. Intensità o tono del pia-  cere o del dolore. — 8. Osservazioni di Aristotele sulla  natura del piacere.   Capitolo III. Desiderio e istinto .... 19   1. Il desiderio. — 2. L’istinto. — 3. Origine dell’istinto:  dottrina dello Spencer e sua critica. — 4. Carattere del-  l’ operare istintivo.   Capitolo IV. Affetti e passioni .... 2(1   l. L’affetto. — 2. La passione. — 3. Differenze tra l’af-  fetto e la passione. — 4. Le passioni in rapporto alla  vita movale. — 6. Classificazione delle sensazioni.    1    - 248 -   l>»g.   Capitolo V. Temperamento e carattere ... 35   1. Teoria antica dei temperamenti. — 2. Classificazione dei  temperamenti fatta dal Kant. — 3. Altra classificazione  dei temperamenti. — 4. Uguaglianza originaria o diffe-  renza irriducibile delle nature individuali. Temperamento  e carattere.   Capitolo VI. Carattere morale e virtù ... 42   1. Carattere. — 2. Carattere inorale. — 8. Giudizio valu-  tativo o pratico. — 4. Motivi naturali e motivi etici. —   6. La scienza e la virtù. — 6. Concetto della virtù.   Capitolo VII. Il fine dell’uomo .... 51   1. Il fine della vita umana secondo Aristotele. — 2. La  eudemonia aristotelica. 3. Il fine della vita secondo  Kant. — 4. Conclusione.   Capitolo Vili. Il sentimento morale ... 56   1. Concetto del senso morale. — 2. Origine del senso morale.   Capitolo IX. La volontà 61   -1. Distinzione della volontà dalle attività pratiche inferiori.   — 2. Definizione della volontà. — 3. Ragion pratica, fini,  mezzi. — 4. Rapporto della volontà con l’appetito. —   6. La spontaneità dello spirito nella volontà e la psico-  logia empirica inglese.   Capitolo X. Motivi e libero arbitrio ... 73   1. La quistione della libertà del volere. — 2. Critica del  concetto del libero arbitrio. — 8. La necessità del fine.   4. Causalità etica, educabilità e responsabilità. —   6. Critica del determinismo meccanico di Herbert.   Capitolo XI. Fatalismo e determinismo ... 85   1. Concetto del fato. — 2. Il concetto della Provvidenza e  il domma della grazia. — 3. Critica del fatalismo. —   4. Il determinismo.      - 249 —   p«g-   Capitolo XII. Motivi generali o determinismo sociale 9fi  1. I motivi generali. — 2. La statistica. — 3. Statistica e  libertà. — 4. Osservazione del Drobiscli.   Capitolo XIH. Legge morale ..... 102   1. Origine della legge morale. — 2. Dottrina teologica e  sua critica. — 3. La dottrina kantiana. — 4. Dottrina  aristotelica.   Capitolo XIV. Edonismo e utilitarismo . . . Ili   1. Classificazione dei sistemi morali. — 2. Cenno storico  dell’edonismo e dell’utilitarismo. — 3. L’utilitarismo se-  condo il Mill. — 4. Critica della morale del Mill. —   6. Critica dell’edonismo ; Smitli e Schopenhauer. L'amore.   — 6. Riepilogo.   Capitolo XV. (Continuazione). Imperativo catego-  rico e idee modello ...... 122   1. Teoria kantiana dell’imperativo categorico. — 2. Teoria  herbartiana delle idee modello. — 3. Critica del forma-  lismo kantiano ed herbartiano.   Capitolo XVI. Le virtù singole .... 130   1. Classificazione aristotelica delle virtù. — 2. La liberalità  e la magnanimità.   Capitolo XVII. La giustizia 138   1. La giustizia nell’etica aristotelica. — 2. Giustizia com-  mutativa e giustizia distributiva.   Capitolo XVIII. Organismi etici. — Origine della   famiglia ........ 143   1. Primo nucleo sociale: la famiglia. — 2. Carattere etico  della famiglia umana. L’amore. — 3. La generazione e  il valore etico della prole. — 4. Il sentimento e il dovere.   — 5. Gli elementi della famiglia e la definizione del ma-  trimonio.    — 250 -   l'»g-   Capitolo XtX. Organismo etico della famiglia . 151   1. La famiglia come organismo etico. — 2. La relazione  tra i coniugi. — 3. Dottrina kantiana del matrimonio.   — 4. Dottrina di Platone e di Aristotele. — 5. Coiteli ia-  sione circa la relazione coniugale. — 6. Relazione tra  genitori e figli. — 7. La proprietà e l’eredità. — 8. Dis-  soluzione della famiglia e divorzio.   Capitolo XX. Processo storico della famiglia. . 1G4   1. Età barbarica. — 2. La famiglia antica. — 3. La schia-  vitù e la clientela. — 4. Stabilità della famiglia ed ele-  mento religioso delle istituzioni domestiche. — 5. Indi-  pendenza del valore etico della famiglia dalla religione.   Capitolo XXI. Continuazione . . . . .175   1. Riepilogo. — 2. Gli elementi etici della famiglia romana:  a) la patria potestà; b) l’eredità; e) l’adozione; </) le  clientele; fi) riepilogo e osservazioni.   Capitolo XXII. La società civile .... 182   1. Prima limitazione etica del diritto di proprietà. — 2. Ori-  gine della società civile. — 3. Concetto della società ci-  vile. — 4. Contratto. — 5. Valore etico del contratto. —  fi. La giustizia nella società civile. — 7. La libertà civile.   — 8. La città. — 9. Passaggio dalla famiglia alla società  civile. — IO. Idealità della società civile.   Capitolo XXIII. Genesi dello Stato . . . 190   1. Gradi della coscienza civile descritti da Cicerone. —   2. La patria e la città. — 8. La nazione e lo Stato. —   4. Paragone tra famiglia, società civile e Stato. — 5. So-  stanzialità dello Stato.   Capitolo XXIV. Diverse opinioni su l’origine dello  Stato ......... 199   1. Idea greca dello Stato. — 2. Dottrina dell’origine di-  vina dello Stato. — 3. Dottrine della origine umana    — 251 -    dello Stato: a) Lo Stato derivato dalla forza ; b) lo Stato  derivato dall’istinto; c) lo Stato derivato dal contratto  sociale; d) lo Stato derivato da un’imperativo; e.) lo Stato  derivato da un' idea modello.   Capitolo XXV. Organismo dello Stato . . . ‘20S   1. Rapporto fra lo Stato e i cittadini. — 2. La statolatria  antica. — 3. L'individualismo moderno. — 4. Stato po-  litico e stato giuridico. — 5. La legge. — 6. Il governo.   — 7. La magistratura. — 8. Il fine dello Stato. — 9. Il  diritto punitivo. — 10. Le relazioni esterne dello Stato,  e la guerra. — II. La virtù politica. — 12. Organismo  dei poteri dello Stato.   Capitolo XXVI. Lo Stato in <|uanto contiene altri   organismi ........ 228   1. Relazione tra lo Stato e la famiglia. — 2. Stato e Co-  mune. — 3. Stato e associazioni private. — 4. Stato e  Chiesa. I   Capitolo XXVII. Relazioni tra Stato e Stato . . 237   1. Lo Stato e la coscienza comune del genere umano. —   2. Il commercio. — 3. Ravvicinamento progressivo tra i  vari popoli. — 4. I rapporti internazionali e la paco per-  petua. — 5. L’arbitrato internazionale. — G. La diplo-  mazia. — 7. La stampa, il fine dell’Unianitù e Ih storia.  Invitato a curare una nuova edizione degli Ele-  menti di Filosofia di Francesco Fiorentino, accettai  volentieri l’ onorevole invito per due ragioni : una,  che può parere tutta personale : che cioè questo li-  bro m’ è caro , perchè è il primo libro di filosofia  che io ho letto ; e i dubbii , suscitati in me da a  lettura di esso, segnano nella mia vita il primo sve-  aliarmi consapevole alla ricerca filosofica. a -,  ohe cosi mi si prestava recessione di soddisfare im  antico desiderio mio e di molti Colleglli valorosi, di  rimettere in luce la prima edizione di questi Elementi, -  divenuta assai rara e quasi introvabile (1) , giudi-  cata da noi di gran, lunga superiore alla seconda; „  a quella cioè che è divulgata e ormai quasi sola  nota , per le tante ristampe stereotipe fattene dal  signor Domenico Morano et dal suo figliuolo Um-  berto, fino alla 23. a edizione (ossia alla 21 a ristampa  della seconda edizione) pubblicata nel 1901.   Ho detto che la prima ragione può parere mera-  mente personale; ma tale, in fondo, non è . gia.cc  la mia esperienza m’è stata sempre indizio evidente  d' un pregio intrinseco e sostanziale del libro , pur  nella 2 a edizione: un prègio che agli occhi miei ha  reso sempre preferibile questo del Fiorentino , con   (1) Napoli , Domenico Morano ; di pp- Ut) ^ ’ divisa   in 2 parti : la I di 33; la II di 25.     I    VI    i suoi difetti, a tutti gli altri manuali scolastici di  filosofia, che, prima o dopo di esso, sono stati pub-  blicati in Italia, pur pregevoli quale per uno e quale  per un altro rispetto. Questo m’è sembrato che fosse  atto , a differenza degli altri , se studiato come va  un testo di filosofia, a muovere l’intelligenza e a far  sentire il bisogno di una elaborazione di concetti  ulteriore, di una più salda logica, di una più chiara  e più alta coscienza; che è poi il fine a cui può e  deve mirare quella prima istituzione filosofica che  viene impartita ne’ licei. Ci sono testi più ordinati,'  più lindi , più semplici , più facili , più ricchi , e  magari più moderni . Ma alla prova,— prova fatta, pur  troppo da molti insegnanti subita da migliaia e  migliaia di giovani, — questi testi riescono o dannosi,  o, per lo meno, inutili. Parte, infatti, per la ricchezza  del contenuto (povera ricchezza !) in cui hanno voluto  condensare, e quasi comprimere, a forza di oscuri  riassunti , quelle che sono giudicate le principali  dottrine intorno a ciascuna materia, parendo ai com-  pilatori che sarebbe l acuna deplorevole nella cultura  liceale la mancanza di cotali notizie, sono riusciti  zibaldoni indigesti e indigeribili , che nello spirito)  dei giovani non hanno prodotto se non quello chel  potevano produrre; nausea e disgusto, non soltanto  verso quei libri e quegli autori, ma verso la stessa  filosofia, di cui non si dava loro a conoscere altri*  più degni rappresentanti. Parte , compilati con la  preoccupazione dell’ ordine , della chiarezza , della  semplicità , con la falsa convinzione che quello si  ami a imparare, che non costi nessuna fatica; tra-  lasciando ogni discussione , evitando ogni concetto  unjpo’ alto, che sia, o paia, in contrasto col senso    comune; togliendo, insomma, alla filosofia niente-  meno che la sua propria natura , hanno amman-  nite quello ohe potevano ammannire : una non-filo-  sofia; dando cosi a studiare quello che non avrebbe  fatto certo nè bene nè male; ma che perciò, forse,  era inutile studiare. Altro che soave licor negli orli  del vaso : nè anche goccia di succhi amari ! ,   L’esperimento d’un libro di questo genere ce l’ho  apch’io sulla coscienza; e ne fo questa pubblica con-  fessione nella speranza di sgravarmene in qualche  modo. Anch’io commisi un anno,— un anno solo,—  l’errore di adottare un testo di psicologia facile fa-  cile , appunto perchè facile facile , chè non aveva  altro pregio. E il risultato che ne ebbi fu questo :  che gli alunni capirono sempre bene, senza mia fa-  tica. e conferirono sempre meglio, senza loro fatica;  ma, infine, con mia vergogna non piccola, mi accorsi  che’ sapevano tutto, e pur non sapevano niente.   Il libro di testo per l’insegnamento filosofico non  è detto che debba essere facile , nè moderno , nè  completo. La facilito , certo , è gran bella dote di  un libro ; ma quando questo libro - si vuol leggere  in viaggio , per scacciar la noia, o a letto, per pi-  gliar sonno. La modern ità, è un altro pregio tutt’ al-  tro che trascurabile; ma quando non ci stia a sca-  pito della verità e dell’efficacia. La completezza,—  che è ciò che più si desidera da taluni insegnanti  nel manuale del Fiorentino,^ una preoccupazione  senza fondamento : sia'perchè non ci può essere mai  se non una completezza relativa; e al libro del Fio-  rentino, così com’è disegnato, non manca nulla per  potersi dire completo ; sia perchè, nel nostro caso,  li libro è d estinato a una propedeu tica, filosofica,    e dev’essere strumento di cultura, pungolo dell'ina  telligenza, e quasi direi , pietra di paragone della  riflessione speculativa. E in ciò la quantità delle .  cognizioni da comunicare non ci ha proprio nulla I  da vedere. Giacché, se si vuole che l’ insegnamene  filosofico nei licei produca buoni frutti, bisogna che  noi insegnanti ce lo chiaviamo bene nel sommo della  testa : non importa niente che gli alunni abbiano    questa o quella cognizione, e sia modernissima quan-  to si voglia; sì importa, che imparino a pensare ;  ma a pensare per davvero, riflettendo sul pensiero,  e sforzandosi di farne un sistema logicamente coe-  rente.   E questo è l’effetto che li ottiene dal. libro del  Fiorentino ; del quale non sfuggono neppure a me  i punti non ben saldi , che non son pochi , nelle  dottrine : ma che è il solo libro scolastico nostro,  scritto con un unico spirit o, co n uno sfor zo costante j-)  di organizzare la Serie delle dottrine , quali che  siano; discutendo sempre, e lasciando intravvedere    cosi una luce lontana , maggiore di quella che vi  splende per entro ; il solo libro 1 , per continuare a  parlare con tutta franchezza, che qbitu i a. pensai /(  Meglio però vi abitua nella prima edizione,' da  me ora riprodotta; segnatamente nella parte che,  ìiguaida la Psicologia. Non è questo il luogo da i n-  dagare i motivi che indussero il Fiorentino a rimu-  tare nella seconda edizione, fatta intorno al 1880 ,  quasi tutti i primi undici capitoli del libro : nè di  indicare a uno a uno i mutamenti dottrinali che y’in-  trodusse. Certo è che per tali modificazioni il libro    venne profondamente trasformato: l’idealista cedette  all empirismo che saliva in auge; il kantiano stimò    IX    che la psicologia genetica, come allora la chiama-  vano in Germania, potesse p dovesse rendere ragio-  ne delT a priori ; che Darwin potesse compiere e  correggere Kant. « L’a priori kantiano, — giunse a  scrivere, — è una semplice fermata, che -si traduce  in queste parole : in noi c'è un’ attività 'già preformata  a compiere certe funzioni , senza di cui la sperienza  non si farebbe . La filosofìa moderna accetta la tesi  kantiana, e domanda: come si è preformata ? E cerca  di trovare la risposta in due fattori: rassp cjazjpne  e la ; la prima che accumula , la seconda   che trasmette. Per loro mezzo, Va priori dell’ indi-  viduo sarebbe ciò eh’ è a posteriori per la specie »  (p. 31 n.). Proprio quello che si. dimostrava assur-  do nel c&p. Ili della l. a edizione (IV della presente)!   Il libro, insomma, fu, diciamolo pure, guastato dal-  Tautore stesso. E non soltanto dal lato della dottrina.  Perchè, tormentato in questi primi capitoli fonda-  mentali, e qua e là, in tutti i punti più importanti,  nello sforzo di rammodernarsi e transigere, quasi,  con le più recenti dottrine, esso perdette lajr esch ez-  za del primo getto, la stringatezza e solidità della  primitiva costruzione, raniijaa, onde era stata origi-  nariamente concepito. Rabberciato alla meglio , si  arruffò, e divenne* aspro e difficile, di quella diffi-  coltà che non è allettativa dell’ingegno,- ma durezza  invincibile e disperante. Perchè ciò che è logica-,  mente ragionato , sebbene astruso , attrae e ferma   10 spirito, e lo costringe a pensare per assaporare   11 gusto forte che dà la vittoria sulle difficoltà; ma  ciò , che non fu organicamente pensato, stanca ed  opprime, ed allontana da sè.   Pure il manuale del Fiorentino, cosi guastato, s ; è    ■-*   K    X    V    continuato a ristampare ogni anno, e a studiar© n e }  licei del Mezzogiórno, pel buono che sempre conte-  neva , per la serietà onde appariva scritto. Oggi  che torna nelle sembianze primitive dovrebbe in-  contrare miglior fortuna. La Psicologia , com’è in  questa rinnovata edizione , è un' esposizione vera-  mente lucida, benché elementare, dei gradi princi-  pali dell’attività costruttiva dello spirito teoretico;  e, quando non avesse altro merito, questo solo do-  vrebbe bastare a farlo sostituire a quei compendi!  di psicologia empirica e descrittiva , che ora cor-  rono per le nostre scuole.   Giacché, come vedranno da sé i signori Colleghi,  la Psicologia del Fiorentini è ijutt’ altra cosa da,  queirempirica descrizione e classificazione dei fatti  di coscienza , che tiene ordinariamente il campo  dell’insegnamento liceale. Quella descrizione e 'Clas-  sificazione c'è pure ; ma in piccola proporzione e in  seconda linea, laddove la trattazione mira alla com-  prensione filosofica dell' attività dello spirito nella  sua progressiva produzione del mondo teoretico, del  mondo della scienza. Ora, che giovi più. richiamare  l’attenzione dei giovani su quest'attività, anzi che  sulla minuta e grossolanamente sistematica conoscen-  za dei fenomeni psichici, non credo che alcuno, a ben  rifletterci , vorrà mettere in dubbio. Siffatta cono-  scenza gioverà sempre ben poco, se pur mai gioverà:  e la sua utilità non potrà essere altra dall’ utilità  propria di ogni speciale contenuto mentale. Invece  è risaputo e convenuto,— é già s’è detto, — che fine  , della cultura del liceo non è d i ri empire, m a di for -  1 ma. re il e.er-vello. Come essenz ialmente formativa ed ‘  in sommo grado educatrice è appunto la coscienza, -t—.    t    quale può aversi a principio, e quale con l’aiuto di  questo libro può ottenersi, — della posizione dello spi-  rito umano nel mondo, doye non è spettatore, ma  attore e creatore — almeno del suo mondo. Questa  bqscienza è elemento necessario della cultura vera;   ed è gran ventura per la scuola media italiana pos-  sedere questo libro atto a promuoverla.   — Ma il Fiorentino non accenna questo. Ma il  Fiorentino non parla di, quest’altro, che pur si ri-  chiede dagli alunni della l. a classe liceale.   Non si richiede, veramente, nè questo, nè que-  st’altro. I programmi liceali, gli ultimi che si siano  prescritti dal Ministero, non parlano se non diElementi  di Psicologia, lasciando alla coscienza scientifica de-  gl’insegnanti d’intendere la Psicologia secondo i pro-  prii convincimenti . e di darli q uindi il conte nuto  corrispettivo. D’altra parteè: proprio possibile, dato  l’orario presente deH’insegnamento filosofico, fare  studiare come si conviene, in un solo anno, a gio-  vinetti appena giunti dal ginnasio, una trattazione di  Psicologia più estesa di questa del Fiorentino (che,  si badi, sorpassa nella presente edizione di 40 pa-  gine quella dell’edizione precedente) ?   Che, se dall’annunziata riforma della scuola media  il nostro insegnamento, — com’è giustamente nei voti  di parecchi insegnanti , — verrà concentrato, con  orario maggiore, negli ultimi due anni del liceo (ca-  ni’ era, quando questo libro fu scritto), allora 1’ e-  stensione delle due parti principali , in cui il libro  è diviso, risponderà puntualmente al programma dei  due anni.   Coteste due parti, per comodo delle scuole in cui  se ne volesse adottare una sola, s’è pensato di pub-    XII    blicarle questa volta in due volumetti separati. Nel  primo dei quali per motivi didattici ho creduto op.  portuno dividere la Psicologia dalla Logica. Vero  è che anche nella parte n si torna poi a trattare  di Psicologia. Ma è questione di parole, ove s'in-  tenda col Fiorentino per Psicologia quella parte  d ella Filo sofia de llo spirit o che studiaTe forme feno-  menologiche del sapere.   Per gli stessi motivi didattici ho spezzato nella  stampa il, discorso tutto seguito dall’autore, che,  scrivendo, non prendeva mai flato : e si vantava di  non esser uso a scrivere con le seste e rileggere  quello che avesse una; volta scritto. E ho diviso  ogni capitolo in tanti paragrafi oon speciali titoli,  quanti sono i singoli argomenti speciali che vi sono  toccati ; come, sempre per gli stessi motivi, ho messo  in corsivo termini tecnici, definizioni ed esempii.   Altre modificazioni non ho introdotte, salvo lievi  mutatnenti nei titoli dei capitoli, dove, non mi sem-  bravano esattamente corrispondenti al contenuto di  questi ; e qua e là ho corretto alcuni pochi errori  di fatto, incorsi nel libro per disavvertenza, e che  l’autore, avvertito, avrebbe corretti da sè. Della  forma non mi son permesso mutar altro che, in ra-  rissimi casi, alcuna espressione non abbastanza chia-  ra ; come ho tolto via, poiché si tratta di libro sco-  lastico, q ualche arcaismo , che potesse parere affet-  tato, e certe ripetizioni fastidiose di parole, a cui  l'autore, quasi per vezzo, non badava.   Note non ho voluto apporne se non di rado, e sem-  pre tra parentesi quadre, a chiarimento di espres-  sioni oscure. Ma ne ho voluto mettere sempre, bre-  vissime, ai nomi dei filosofi citati dal Fiorentino, per      1   — XIII —   indicarne la patria, l’epoca e le opere più celebri  o più notevoli. Potrà forse parere che ciò sia troppo  poco per alcuni, e troppo, e superfluo per altri. Ma  la pratica della scuola e degli esami mi ha indotto  a fare come ho fatto. Note lunghe non sarebbero  state lette, o avrebbero distratto; oltre che sareb-  bero entrate in particolari storici fuor di luogo.  Questi brevissimi cenni potranno bastare a non far  parere un Cameade ogni filosofo che Fautore ri-  corda, e a rendere forse impossibili casi simili a  quello che m'accadde nell’esame di un candidato  esterno di licenza liceale-; che mi dava Kant per con-  temporaneo di Aristotile. E siamo giusti: vedendo  sempre appaiati Aristotile e Kant, come fare a so-  spettare che l'uno era morto da venti secoli quando  nacque l’altro ?   Avvertirò infine che, riproducendo l’edizione del  1877 , ho creduto tuttavia di riferire dalla edi-  zione posteriore il capitolo sulle Sensazioni in parti-  colare, che nella prima mancava ; perchè contiene  notizie elementari, che è bene non sieno ignorate.  E avvertirò pure che, eccetto differenze di poco  conto, notate ai loro luoghi, nella Logica e nell’E-  tica, le due edizioni coincidono. Solo fu tolto nella  seconda un capitolo sul Piacere e il dolore (2° della  parte II), che da me, s’intende, è riprodotto.  La  dottrina  dell’Anima  in  Aristotile.   Il  periodo  filosofico  che  ho  in  animo  di  traiteggiaro  si  travaglia  pressoché  tulio  intorno  alla  ricerca  dell’ani-  ma ; muovendo  dai  principi!  aristotelici,  e contenendosi  il  più  delle  volte  nel  modesto  ufficio  del  commentare.  Il  perchè,  volendo  io  risalire  alle  origini  di  quella  contro-  versia, ho  divisato  farmi  dalla  dottrina  aristotelica,  e  dopo  averla  guardata  in  sè,  considerarla  negli  sviluppa-  mene che  partorirono  i due  commenti,  greco  ed  arabo.   In  Aristotile  medesimo  quella  dottrina  non  si  può  diligentemente  esaminare , se  non  riferendola  alle  altre  rimanenti,  onde  si  compone  il  sistema  tutloquanto.  Ci. e  se  in  cotesti  riferimenti  la  scienza  sempre  si  amplia  e si  allarga,  nel  caso  nostro  il  farlo  è una  necessità  derivata  dall’  indole  medesima  della  speculazione  aristotelica , la  quale  ci  si  palesa  consentanea  con  se  stessa  fin  nelle  ultime  conseguenze  di  un  primo  sbaglio.  Nelle  menti  volgari  si  un  errore  e si  una  verità  possono  essere  inseriti,  come^una  specie  di  episodio,  nella  struttura  del  siste-  ma ; ma  gl’  ingegni  veramente  speculativi  si  guardano  di  cascare  in  questo  fallo,  tanto  almeno,  quanto  a loro  basta  la  vista  di  guardarsene.  . •    J3jc|ti|<|£Lby  Coogl    72'    PIETRO  POMPONAZZI.    La  dottrina  dell’ anima,  e più  particolarmente  poi  quella  dell’anima  intellettiva,  presso  Aristotile,  implica  quelle  medesime  difficoltà  che  s’ incontrano  sin  dai  primi  passi  del  sistema.  Nel  Saggio  storico  su  la  filosofia  greca  io  toccai  di  queste  difficoltà,  e mi  studiai  di  chiarirne  al  possibile  il  vero  nodo  e la  vera  sorgente.  Lo  Zeller  non  ha  guari  nella  sua  Filosofìa  dei  Greci  ne  faceva  una  distesa  rassegna,  e di  nodo  in  nodo  mostrava  come  tutte  si  aggruppassero  nella  posizione  di  Aristotile  verso  Pla-  tone. Qui  non  mi  è consentito  altro  che  sfiorare  tutte  quelle  difficoltà,  e mostrare  come  riappaiano  nella  dot-  trina, della  quale  ora  discorriamo.  Si  vedranno  nella  psicologia  come  nella  metafisica  gli  stessi  problemi , e  poi  le  stesse  soluzioni , o meglio  il  difetto  di  una  vera  soluzione.   ( Platone  aveva  detto:  l’universale,  o l’idea,  è quanto  v’  ha  di  vero  e di  sostanziale  nelle  cose  ; la  materia,  per  i contrario,  è una  mera  negazione,  un  non-ente.  L'idea  rimane  sopra  la  moltitudine  e la  varietà  dei  fenomeni,  una , identica , permanente.  Le  cose  mutano , ella  no  ;  le  cose  muoiono,  ella  dura  eterna.  Tra  le  idee  ed  i sen-  sibili corre  dunque  un  dissidio  infinito,  a colmare  il  quale  Platone  non  sa  trovare  efficace  rimedio  ; onde  il  sistema  platonico  rimane  con  una  scissura  profonda  ed  irreparabile.  Aristotile  venuto  dopo,  e fermo  di  porvi  riparo,  delle  affermazioni  del  suo  maestro  parte  ritenne,  parte  rifiutò.  Parve  anche  a lui  che  l’ idea  sola  fosse  la  verità  delle  cose;  ma  perciò  medesimo,  a suo  avviso,  ella  non  può  stare  nè  sopra  nè  fuori  di  esse , ed  anzi  implicata  in  una  materia  di  cui  ella  è la  forma.  All’  idea  sopra  le  cose  di  Platone,  Aristotile  sostituì  V idea  nelle  cose , o la  forma.   Il  partito,  a cui  si  appigliò  lo  Stagirita  pare  a  prima  giunta  il  solo  spediente  acconcio  a ricongiungere       ]_bv  Gooffli    73    capito/lo  primo.   quei  due  mondi  che  Platone  aveva  lasciato  staccati  non  solo,  ma  opposti.  La  materia  e la  forma,  collegate  in-  sieme nell’unità  deU’individuo,  rappresentano  l'armonia  di  quei  due  conlrarii  che  Platone  non  aveva  saputo  riu-  nire. Ed  intanto  in  Aristotile  quel  congiungimento  noi|  è tanto  saldo,  che  quei  due  contrarii  mal  collegati  non  si  rivoltino  soventi  l' un  contro  l’altro,  e non  si  mettano  in  aperta  rottura.  Ognuno  di  essi  si  tiene  in  grado  di  primeg-  giare su  l’altro,  e fonda  le  sue  pretese  sopra  esplicite  dichiarazioni  di  Aristotile  a suo  favore;  le  quali,  bilancian-  dosi in  modo  che  nessuno  di  loro  penda,  tengono  l’animo  sospeso  ed  irresoluto.  Da  una  parte  T universale  non  può  stare  più  da  sè,  e cotesta  indipendenza  è accordata  soltanto  all’individuo,  dove  pare  che  consista  la  vera  sostanza  ; dall’  altra  l’ universale  solo  è conoscibile,  esso  solo  è la  verità.  Cosi  la  realtà  e Fa’^erTIir  si  trovano  spartite  quando  non  dovrebbero  essere.  La  realtà  si  l  appartiene  all’individuo;  la  verità  all’universale.  Pla-  tone era  stato  conseguente  nel  riporre  nell’  idea  e la  sostanza  e la  verità  delle  cose;  Aristotile,  invece,  on-  deggia, e quasi  vorrebbe  gratificarsi  l’uno  e l’altro,  accordando  all’  individuo  la  realtà  ed  all’  universale  la  verità,  con  un  sistema  di  compensi  che  qui  non  appro-  dano. Questa  contraddizione  è notata  molto  profonda-  mente dal  Zeller , che  la  sostiene  contro  le  osservazioni  del  Biese,  ed  è manifesta  a chiunque  sappia  di  Aristo-  tile la  dottrina  della  cognizione,  e quella  delle  cate-  gorie.1   Questa  prima  contraddizione  ne  partorisce  parec-  chie altre.  E primieramente,  se  la  scienza  non  è atta  a   1 « Er  sagt  oline  jene  Bescbrinkung  : dati  Wissen  geli  e nur  taf ’a  Allgemeine , und  ebeaso  unbedingt  : nur  das  Eiozelwesen  tei  eia  Sabstan-  tielles.  • Die  Philoi.  der  Griechen , vou  Zeller,  Zweite  Tbeil,  Zweìte  Au-  flage  , pog.  252.    Digitized  by  Google    74    PIETRO  POMPONAZZI.    cogliere  se  noe  la  forma  delle  cose , e questa  oon  ne  costituisce  l’ intera  sostanza , ne  conseguita  eh*  eHa  sarà  imperfetta  e che  non  corrisponde  alla  ..realtà  delle  cose  conosciute,  le  quali  si  trovano  specchiate  in  lei  soltanto  a metà.  Che  se  la  materia  è un  elemento  indi-  spensabile a fornire  la  sussistenza  dell’individuo,  non  può  venire  esclusa  dalla  cognizione,  come  se  fosse  un  accidente,  o anzi  un  ostacolo.  Ciò  era  ben  detto  secondo  i principii  platonici , ma  non  secondo  quelli  di  Aristo-  tile. Intanto  la  materia  è dichiarala  inconoscibile,'  es-  sendo priva  di  ogni  determinatezza.   Inoltre  1’  inconoscibilità  della  materia  nuoce  alla  conoscibilità  delie  forme,  perchè  queste,  salvo  la  prima  e purissima  forma , sono  tutte  implicate  nella  materia  non  solo,  ma  s’ ingradano  in  modo,  che  la  inferiore  sìa  • deve  considerare  come  potenza , e perciò  come  mate-  ria, per  rispetto  all'  altra  che  le  sta  sopra.  *   Aristotile  difatti  ha  posto  tal  relazione  tra  la  mate-  ria e la  forma,  qual’ è quella  che  corre  tra  la  potenza  e l’ atto  ; onde  la  materia  per  lui  è la  potenza  della  forma , come  la  forma  è l’ atto  della  materia.  Ora  se-  condo questa  determinazione  tutte  le  forme,  tranne  una  sola,  la  massima,  possono  dirsi  materia,  e cosi  l’ inconoscibilità  della  materia  si  riverserà  eziandio  so-  pra le  forme.  La  massima  forma  poi,  Dio,  in  mentre  che  dovrebbe  essere  la  più  pura , e perciò  la  più  lontana  dalla  individualità,  è ella  stessa  un  individuo.  Ora  l’ in-  dividualità divina  contraddice  con  la  teorica  fonda-  mentale,  secondo  cui  ogni  individuo  dev’  essere  il  sinolo  di  una  materia  e di  una  forma,  non  potendosi    1 à «?’  «Xtj  «yva>»To;  xa8’  ocutijv.  Metapk.,  VII,  IO.   1 « Ein  and  dasselbe  Diog  kana  tich  desihalb  io  dar  einen  Beziehong  «It  Stoff,  io  der  Andern  ala  Form,  in  jener  ala  Mogli  chea,  in  diesar  ala  Wirkliches  verhalteo.  • Zeller,  op.  cit.,  loe.  oit. , pag.  245.  •    - itized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    75    etere  un  individuo  dove  non  abbia  luogo  punto  di  ma-  teria. In  fine  non  si  può  scorgere  dove  propriamente  Aristotile  ponga  U sostrato  della  individualità  : non  nella  forma  che,  stando  alla  teorica  della  cognizione,  dovrebbe  essere  l’universale;  non  nella  materia,  la  quale  è in-  determinatissima, e che  tanto  acquista  di  determinatezza,  quanto  la  forma  ve  ne  impronta.   Tale  per  sommi  capi  è il  capitale  difetto  dell’  ari-  stotelismo ; difetto  che  dalla  relazione  mal  definita  di  universale  e di  individuale , di  materia  e di  forma , si  diffonde  in  tutte  le  altre  teoriche,  e le  guasta  in  si-  mil  guisa,  producendo  un'  incertezza  ed  un  viluppo  ir-  resolubile. Non  è dunque  da  maravigliare  se  quel  si-  stema diede  occasione  a tante  controversie  di  interpreti,  perchè  esso  si  acconciava  ai  più  opposti  avviamenti.*  Tutta  la  filosofia  nel  medio  evo  e nella  rinascenza  si  diede  a risolvere  quei  problemi  in  opposte  sentenze,  credendo  sempre  di  ormare  i passi  di  Aristotile  ; nè ,  per  vero  dire,  mancavano  fondamenti  a questo  conflitto  di  opinioni.  Se  non  che  ogni  diversa  età  ha  mutalo  aspetto  alla  ricerca,  pur  conservandone  integro  il  fondo.  Così  la  scolastica  nei  primi  secoli  considerò  la  relaziono  tra  universale  ed  individuo  come  la  più  rilevante  ; di  poi,  tra  Tomisti  e Scotteti,  prevalse  la  questione  del-  l’ individualità , e chi  la  ripose  nella  materia , chi  nella  forma.  Da  ultimo  nella  rinascenza  si  cercò  nell’  anima  e nelle  sue  facoltà  quella  partizione  e quella  incertezza,  e si  domandò  quale  fosse  il  legame  che  stringe  l’ intel-  letto con  le  rimanenti  facoltà.   Le  tre  questioni  degli  universali , della  individua-  lità e dell’  intelletto  sono  diversi  aspetti  di  una  stessa  ricerca  ; e tult'  e tre  mettono  capo  in  Aristotile , e si  connettono  insieme,  e si  spiegano  1'  una  con  l'altra  nel  loro  storico  sviluppamento,  secondochò  parmi  di  ve-    Digitized  by  Google    76    PIETRO  POMPÒNAZZI.    dere , e secondochè  m’ ingegnerò  di  provare  nel  pro-  cesso di  questo  libro.   Lasciando  stare  per  ora  le  teorici#  che  sono  aliene  dal  mio  tema , e restringendomi  a quella  che  più  da  presso  vi  si  riferisce , dico  che  Aristotile  ha  risguardato  il  corpo  e l’ anima  sotto  l’ annodamento  medesimo  di  materia  e di  forma.  Basta  leggere  il  primo  capitolo  del  secondo  dei  libri  dell’  anima  per  chiarirsene  pienamente.  Il  corpo  fa  le  veci  di  materia  o di  soggetto , 1’  anima  per  contrario  non  può  essere  sostanza  se  non  come  forma  di  un  corpo  naturale  che  ha  la  vita  in  potenza. 1  E per  corpi  che  abbiano  la  vita  in  potenza  Aristotile  in-  tende quelli  che  si  dicono  organici.  Quindi  proviene  la  sua  celebre  definizione  dell’  anima , la  quale  fu  ripetuta  in  tutto  il  medio  evo,  ed  in  tutto  il  periodo  del  rinasci-  mento, nè  ancora  se  n’  è potuto  escogitare  una  migliore.  L’ anima,  ei  dice,  è l’ entelechia  prima  di  un  corpo  na-  turale che  ha  la  vita  in  potenza  ; e bisogna  intendere  per  tale  un  corpo  organico.*  Ora,  benché  l’entelechia  avesse,  nel  linguaggio  aristotelico,  una  determinatezza  maggiore  della  forma,  nondimeno  l’anima  è pur  sem-  pre la  forma  del  corpo , e ad  esso  annodata  con  legami  non  disleghevoli. 3   Perciò  ad  Aristotile  pare  oziosa  la  ricerca  se  il  corpo  e 1’  anima  siano  una  sola  e medesima  cosa , nel  modo  stesso  che  riesce  vano  il  voler  sapere  la  differenza  che  passa  tra  il  suggello  e la  cera  su  cui  s’ impronta.  Impe-  rocché se  l’ entelechia  si  dice  propriamente  in  quanto   v 1   4 Vedi,  De  Anima,  lib.  II,  cap.  I,  £ 4.   s Sto  boxili  è®Tiv  évreXt^sia  n rzpàrn  ata/xt ctoj  fvotxoZ  dwà/zsi   txoxro;  . róiaÙTO  Si,  a xv  ri  òpyavixóv.  De  Anima , lib.  II,  cip.  I,  § 8,  6.  Nell’  ediz.  del  Treodelembarg.   ’ ori  /ztv  oo!  oix  giTiv  |vx»ì  xwptsrÀ  toG  sw/xares.  De  Anima ,  lib.  II,  cap.  4,  § 12.    CAPITOLO  PRIMO.  , 77   è forza  motrice  e tinaie,  essa  è però,  come  osserva  lo  Zeller,  sempre  tutt’  uno  con  la  forma.1   Il  concetto  che  ha  dunque  Aristotile  dell’anima,  è  quello  di  forma , o di  entelechia  inseparabile  dal  corpo.  E si  badi,  che  egli  non  vuol  restringere  in' nessun  modo  questa  sua  definizione  fondamentale,  la  quale  è comune  a tutte  le  anime,  come  la  definizione  della  figura  io  geometria  è applicabile  a tutte  le  figure  in  particolare.  Ben  si  distinguono  parecchie  specie  di  anime,  i cui  gradi  Aristotile  determina  cosi:  nutrizione,  sensibilità,  locomozione,  intelligenza,  ordinate  in  modo  che  il  grado  superiore  presupponga  l’inferiore  e non  possa  stare  senza  di  esso  ; però  tutte  coleste  specie  di  anime  debbono  convenire  nella  definizione  comune.  Lo  stesso  Barili,  de  Saint’Hilaire  riconosce  questa  necessità.*   Stando  a queste  deduzioni,  la  dottrina  di  Aristotile  procede  fin  qui  sicura  e senza  esitazioni.  Dove  ci  è moto  prodotto  per  intrinseca  energia,  ci  è vita;  dove  ci  è  vita,  ci  è corpo  ed  anima,  cosa  mossa  e causa  motrice.  Il  corpo  è la  potenza  e la  materia  ; l’ anima  è 1’  entele-  chia e la  forma.  E come  nella  metafisica  l’ individuo  risulta  dalla  materia  e dalla  forma , cosi  nel  caso  spe-  ciale degl’ individui  animati,  o degli  animali,  il  loro  compiuto  concetto  consta  di  corpo  organico  e di  anima.   Ma  tutta  questa  armonia  viene  rotta  da  una  dubita-  zione che  Aristotile  propone  senza  risolvere.    * • Das  gleiche  Wesen  wird  aber  aoch  «eia  Eodzweck  «ein , wie  ja  Qberbaapt  die  Form  voo  der  bewegenden  und  der  Endursacbe  nicbt  verscbie-  deo  ist.  Solerti  non  die  Form  ala  bewrgende  Kraft  wirkt,  nennt  aie  Aristote-  le* Entelechie,  ami  somit  definit  i er  die  Seele  ala  die  Entelechie  uod  naber  ala  die  erste  Entelechie  cines  nalQrlichen  Kòrpers,  welcher  die  Fahigkeit  bat,  za  leben.  » — Zeller,  Zw.  Tbeil , pag.  571.   1 « La  definition  qu’il  a donoée  lui-méme  au  cb.  l«r  de  ce  livre  doit  donc  ponvoir  s’appliqoer  ipécialement  à chaqoe  espìce  d’ime  qu’il  a distia-  gatte.  » Ptychologit  d’Ariilole,  Paria,  1846,  pag.  181.   *    Digitized  by  Google    78    PIETRO  POUPONAZZI.    Arrivato  all’intelligenza,  egli  tentenna,  e si  perita  di  applicare  a lei  le  determinazioni  precedenti  dell’anima,  benché  avesse  prima  detto  che  quella  comune  defini-  zione fosse  applicabile  a tutti  i gradi  differenti  di  vita.  L’ intelligenza  pare  a lui  un  altro  genere  di  anima,  e per-  ciò separabile  nello  stesso  modo  che  l’ eterno  si  separa  dal  perituro. 1 Questa  scappata  di  Aristotile  può  riuscire  inaspettata  a quelli  soltanto  i quali  non  hanno  seguito  il  pensiero  aristotelico  in  tutto  il  suo  svolgimento.  Chi  però  ha  posto  mente  alla  irresolutezza  di  Aristotile  nel-  l’accordo proposto  tra  l’universale  e l’individuo,  ed  ha  visto  continuare  questa  perplessità  nella  concezione    della  materia  e della  forma,  nel  legame  tra  Dio  ed  il  1 mondo,  e nella  teorica  della  cognizione,  si  accorge  anzi  che  Aristotile  non  poteva  fare  altrimenti.  Nell’  anima  i stessa  ci  è qualche  cosa  che  tiene  più  della  materia,  e  qualcosallro  che  fa  le  veci  di  forma  ; il  senso  e le  fa-  coltà inferiori  che  sembrano  un  patire,  e l’ intelletto  clic  sembra  attivo  verso  di  loro.  Anzi  nell’  intelletto  me-  desimo Aristotile  discopre  questa  duplicità,  la  quale  co-  me era  rimasa  irreconciliata  e contrastante  nelle  prime  categorie  dell’  essere,  così  rimane  qui  negli  ultimi  svi-  I appara  enti  dello  spirilo.   Ciò  che  v’  ha  di  peculiare  nell’  anima  umana  è l’in-  \ lelletto;  perciò  noi  ci  fermeremo  un  poco  più  nel  mo-  ’ strare  in  che  modo  Aristotile  ne  avesse  esposto  la  na-  ! tura.  L’ intelletto  primieramente  apparisce  legato  con  le  l altre  facoltà  non  solo  per  la  intuizione  generale  del  si-  stema aristotelico,  che  fa  ricomprendere  ogni  forma  in-  feriore nella  superiore,  ma  per  l’esercizio  medesimo  della  sua  attività,  che  non  potrebbe  recarsi  in  atto  senza    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    79    il  sussidio  delle  facoltà  precedenti.  Le  cose  estese  sono  ricevute  nell’anima  mediante  le  sensazioni,  le  quali  \  sono  perciò  forme  delle  cose  sensibili.  Dopo  questa  prima  maniera  di  forme,  che  richiede  la  presenza  della  mate-  ria, ve  n’ha  un’  altra  la  quale  si  assomiglia  alla  sen-  sazione, se  non  che  non  ha  bisogno  della  materia  presente.   Da  ultimo  l’ intelletto,  eh’  è forma  delle  forme,  esercita  verso  le  sensazioni  ed  i fantasmi  la  medesima  azione  che  i fantasmi  hanno  esercitato  su  le  sensazioni,  e le  sensazioni  su  le  cose  sensibili.  Cotalchè  come  la  sensa-  zione non  può  aversi  senza  la  materia,  nè  la  immagine  fantastica  senza  la  sensazione , così  1’  atto  della  intelli-  genza non  è possibile  senza  il  fantasma.  L’ intelletto  in  questa  prima  posizione  apparisce  dunque  legato  indis-  solubilmente con  tutto  il  sistema  delle  facoltà  del-  l’anima.1   Nè  per  la  sola  operazione  l’ intelligenza  apparisce  legata  con  l’ organismo  corporeo,  ma  per  la  sua  intrin-  seca natura.  Difatti  ella,  come  intelligenza,  non  è altro  che  ciò  per  cui  l’anima  ragiona,  e non  è nessuna  cosa  in  atto  prima  di  pensare  : ella  è soltanto  in  potenza.  *  Che  se  riannodiamo  questa  teorica  dell’  intelletto  con  l’ altra  dell’  anima , si  scorgerà , che  come  l’ anima  era  legata  col  corpo  organico,  così  l’ intelletto  è legato  con  l’ anima  ; perciò  qui  Aristotile  la  chiama  intelligenza  dell’  anima  (r»ì;  voC«)-  Ed  in  ultimo  risultamento  avremo  il  corpo  organico  come  subbietto  o materia  del-  l’ anima,  e questa  come  subbietto  dell’ intelligenza.   1 Vedi  tutto  il  cap.  8 del  lib.  Ili  dell’Anima,  dove  ì degno  di  spe-  ciale nota  questo  luogo:  x ed  Sii  roóro  omtc jit)  Atrèavépigva; puj&év  *»  oùdé  ?uvior  ór*»  rs  Se  capri,  oèvexyxvj  »(»*  yxVTaspta  ri  àsoipstv.   * ùsre  fj-nS’  aùroù  stvat  pùnv  /sride/tta»  àXX’  n t*vt»ì»,  ori  ^u»aró»  ò «pa  xaXaóptsvoi  rn ( »®ó;  (Xsyoi  Si  voó»  w dtetvostroci   xeni  oivei  r,  'l'UX’t)  où&t*  èsTiv  svspyda  tmv  ovroiv  tepìv  vosi».   Lib.  Ili,  cap.  H,  2 5.  De  Anima.    Digitized  by  Google    80    PIETRO  POMPONAZZI.    Altre  asserzioni  dello  stesso  Aristotile  accennano  però  alla  sentenza  opposta.  Già  abbiamo  visto  come  per  lui  l’intelligenza  sia  un  altro  genere  di  anima,  e se-  parabile, in  mentre  che  le  anime  dei  gradi  inferiori  sono  legate  con  gli  organi.  A questa  testimonianza,  che  sta  contro  alle  cose  precedenti,  se  ne  aggiunge  un’altra  ugualmente  esplicita,  dove  si  sostiene  che  il  Noo  venga  dal  di  fuori,  e che  solo  sia  divino. 1 Si  possono  distrug-  gere la  riflessione,  l’amore,  l’odio,  il  ricordarsi,  per-  chè siffatte  modificazioni  appartengono  al  soggetto  in  cui  alberga  l’ intelligenza  e che  la  possiede  ; ma  l’ intelli-  genza medesima  è qualcosa  di  più  divino , è qualcosa  d’ impassibile.  *   Che  se  dopo  tutte  queste  dichiarazioni,  che  riguar-  dano il  principio  intellettivo  nell’  uomo , ricorriamo  col  pensiero  all’  intelligenza  suprema , come  vien  descritta  nella  metafisica,  e segnatamente  nel  libro  dodicesimo,  la  difficoltà  da  noi  proposta  si  farà  più  evidente.  Prima  si  dimostra  come  non  ci  siano  altre  sostanze  che  quelle  che  risultano  da  una  materia  e da  una  forma;  poi  di  forma  in  forma  si  arriva  ad  una  suprema,  la  quale  non  è punto  implicata  nella  materia , e che  perciò  si  svelle  dal  sistema  mondano,  e non  vi  rimane  legata  se  non  per  un  filo  debolissimo , com’  è la  relazione  di  mosso  e  di  movente.  Quella  forma  suprema,  che  doveva  acco-  gliere in  sè  tutte  le  forme  inferiori,  non  è potente  nem-  manco  di  pensarle.  L’ intelligenza  divina  rimane  staccata  dal  mondo , se  non  fosse  per  il  bisogno  di  ricorrere  ad  un  motore  ultimo,  ed  immobile.  Tale  rimane  nel  si-  stema delle  facoltà  umane  l’ intelligenza  : è lo  stesso  di-  fetto che  si  riproduce  in  ciascuna  parte.   1 AeiTtirai  «?*  róv  voi!»  /ióvov  OùpaOev  eiwisuvai  xai  0eTov  ecvat  uo'vov.  De  gener.  anim.,  lib.  II,  ctp.  5.   Vedi  De  Anima,  lib.  I,  cap.  4,  § 14.    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    81    Il  Rénan  si  è accorto  della  discrepanza  della  dottrina  su  l’ intelletto  nel  congegno  del  sistema  aristotelico , e  la  dichiara  un  frammento  di  scuole  più  antiche,  di  Anas-  sagora specialmente,  che  viene  citato  dallo  stesso  Aristo-  tile nel  terzo  libro  dell’Anima,  e nell’ottavo  della  Fi-  sica.' Ma  colesta  spiegazione,  oltre  all’  essere  poco  degna  di  Aristotile,  il  quale  non  ne  avrebbe  saputo  misurare  tutta  l’importanza,  contrasta  col  disegno  generale  del  sistema.  Saldata  che  avrete  questa  screpolatura,  come  fa-  rete poi  per  tante  altre  che  rimarranno  scommesse  ed  ir-  remediabili?  Poniamo  ancora  che  il  legame  tra  Dio  ed  il  mondo  si  rimeni  a questa  medesima  dottrina,  e che  tutto  il  duodecimo  libro  della  Metafisica  sia  un  episodio,  benché  un  po’  troppo  lunghetto;  si  risalderà  meglio  la  rottura  tra  la  materia  e la  forma  ? Si  spiegherà  meglio  la  teorica  della  cognizione,  sviluppata  negli  analitici  ? E  se  cotesta  magagna  s’ insinua  in  tutte  le  particolari  trat-  tazioni, come  si  fa  a dichiararla  un  frammento  slegato,  ed  a cacciarla  via  dal  sistema  ? Altro,  a parer  nostro,  è  il  dire  che  il  più  spedilo  e più  logico  avviamento  di  Ari-  stotile sarebbe  stato  di  continuare  nella  risoluta  opposi-  zione verso  il  suo  maestro,  ed  altro  il  negare  eh’  egli  in  questa  polemica  non  sia  proceduto  incerto,  parte  rifiu-  tando e parte  ritenendo:  incauto  cercatore,  anche  lui,  di  conciliazioni  impossibili.  c   Della  prima  e più  spiccata  contraddizione  nel  co-  struire Findividuo  di  materia  e di  forma  ho  discorso  di  sopra;  toccherò  ora  della  dottrina  della  cognizione.   La  scienza  secondo  il  processo  aristotelico  piglia  le  mosse  dalla  sensazione,  e procede,  sempre  più  svilup-  pandosi, per  molti  gradi,  i quali  sono  variamente  de-  scritti, ma  che  si  possono  però  ridurre,  conforme  al-   1 • Il  est  évideot  que  toute  cette  tliéorie  da  voù(  est  eropruntée  4  Anaxagore.  » — Jverrhoès,  etc.,  psp.  96,   F.  Fiorbntiko.    «    82    PIETRO  POMPONÀ.ZZI.    l’esposizione  del  Barili,  de  Sant’  Hilaire,  ai  seguenti;  sen-  sazione cioè,  pensiero  nella  forma  volgare , ed  in  quanto  sottoslà  alle  impressioni  sensibili;  scienza  (ìttLotìiw) , é  intelletto  (vo»{),  il  quale  è in  relazione  cop  gl’inteUigibili.   Riguardo  alla  sensazione  non  s’ incontra  difficoltà  :  essa  è la  forma  delle  cose  sensibili,  che  viene  accolta  dall’  anima  sensitiva.  Nel  sollevarsi  poi  dalla  sensazione  alla  scienza  Aristotile  ammette  moltè  sfumature,  die  talvolta  si  confondono,  ma  che  giova  descrivere,  per  far  vedere  quanto  sottile  osservatore  egli  fosse,  e come  per  lui  tutto  il  processo  del  pensiero  non  fosse  altro  che  un  continuo  disvilupparsi  dalle  forme  più  materiali  per  ri-  vestirne altre  più  generali  e più  pure.   Il  grado  immediato  alla  sensazione  è per  lui  la  Séga  che  lo  stesso  Saint-Hilaire  traduce  per  percezione,  e po-  trebbe pure  dirsi  opinione.  Sopra  cotesla  percezione,  o  opinione  che  dir  si  voglia,  pone  la  fantasia  (pxvmaia.) ,  la  quale  può  dirsi  un  grado  di  sviluppamene  maggiore,  staccandosi  già  dall’  oggetto  sentito , più  che  non  faces-  sero i due  gradi  precedenti,  i quali  ne  richiedevano  sempre  l’ immediata  presenza.   La  fantasia  medesima  si  riferisce  al  fantasma  (pàv  touhx)  ed  all’  inamagine  (Uwv)  ; imperocché  essendo  la  fantasia  una  specie  di  tramezzo  fra  la  sensazione  e la  scienza,  col  fantasma  si  accosta  più  all’  intelletto , con  l’ immagine  invece  si  accosta  più  all’  obbielto.   La  scienza  e l’ opinione  possono  accoppiarsi  in  certo  qual  modo,  ed  il  loro  miscuglio  dà  la  riflessione  ( <j>pó-  vjiJts).  La  scienza,  1’  opinione  e la  riflessione  Sega , ppóvmatj) , sono  da  Aristotile  comprese  sotto  un  .termine  comune  uttò^cs,  il  quale  è deputato  a signifi-  care l’ attività  spontanea  dell’  anima,  doyecchè  la  Stóvota  discorre  da  un  oggetto  in  un  altro. 1   1 Per  la  determinazione  di  tatti  cotesti  gradi  del  pensiero,  vedi  Barth.  de    CAPITOLO  PRIMO.    83    Tali  sono  i primi  sviluppameli  della  scienza;  ma  ipoichè  ella  consiste  nel  dimostrare , e nel  far  vedere  le  -cose  nelle  loro  cagioni,  perciò  è necessario  che  si  fermi  in  principi  assoluti  ed  indimostrabili.  Il  voOs  è l’ intelletto  di  questi  primi  principi,  i quali  sono  i termini  della  di-  mostrazione. Se  la  sensazione  ( afo^ots)  dunque  è il  primo  inizio  della  scienza , l’ intelletto  (vo0«)  n’è  l’ul-  timo risultato. 1   Chi  ha  tenuto  d’ occhio  tutto  il  processo  della  cogni-  zione, com’  è descritto  da  Aristotile,  si  sarà  accorto  che  -conforme  a questa  dottrina  il  vovg  non  può  fermarsi  se  non  nei  principi  più  remoli  dalla  materia,  e più  univer  sali.  Essendo  l’apice  di  ogni  astrazione,  esso  dev’essere  al  polo  opposto  della  sensazione,  che  si  trova  congiunta  ■con  la  materia  immediatamente.  Ed  intanto  il  punto  di  fermata  sono  i termini,  ossia  è la  sostanza.  Ora  la  so-  stanza, nonché  sia  1*  universalissimo  essere,  è invece  individuale  ; dunque  il  processo  della  scienza,  dopo  aver  percorso  tutte  le  forme  di  separazione  dalla  materia,  ri-  casca nella  sostanza,  la  quale  è dalla  materia  insepara-  bile. L’ essere  e la  sostanza  sono  spesso  confusi  da  Ari-  stotile, eh’ è quanto  dire  la  più  astratta  delle  forme,  l’essere,  vi  si  scambia  con  la  forma  attuosa  legata  con  la  materia.  * La  sostanza  è per  lui  una  volta  il  neccssa-    Saint-Hilaire , Logique  d'Arùtote,  tom.  II,  Deuxìème  l’artie,  section  XI®,  -di.  9®.   * Ecco  come  il  Trendcleraburg  prova  questo  ufficio  proprio  del  veù;  ■aristotelico.  « Noè;  in  primis  et  ultimis  scienti»  priucipiis  rersatur.  Ita  Analyt.,  post.  I,  27,  Xiyu  yàp  *sùv  ù.pyn'1  éKcuni/in»-  Elh.  Nicom.  VI,  6.  7st  fTSToct  voùv  siva*  TÙv  xpyrZv.  Quteuaui  sit  xp%rj  (neque  euim  omnis  ed  noJv  rediòit)  accuratius  defiuitur  Elh.  JVtc.,  Vi,  9,  ò pit  -/«.p  voós  ri»  opwv  u'J  oóx  sor*  /óyo;.  i.  e.  quorum  sulla  est  demoustratio  conclusione  «ffecta.  « Àristot.,  De  Aniti.  Commentario,  pag.  494.   1 « L’idée  de  Cétre  et  l’idée  de  substauce  se  coufoudeot  souvent  aiosi  pour  Aristote.»  Bar  ih.  Saiot-Iliiaire,  ioc.  cit. , cb.  40®.    Digitized  by  Google    84  ' PIETRO  POMPONAZZI.   rio  e 1’  universale,  un’  altra  volta  il  puro  accidente  ; un»  volta  forma,  un’  altra  volta  sinolo  di  materia  e di  forma/   Il  Noo  aristotelico  adunque  una  volta  si  ferma  ai  principi  (àp^wv),  un’altra  volta  ai  termini  (ópwv),  i  quali  non  sono  altro  che  la  sostanza.  Nè  in  quest’ una  soltanto  si  restringono  le  incertezze  di  quella  dottrina.  Il  Noo  allora  veramente  si  conchiude  e si  assolve,  quando  si  posa  in  se  stesso.  L’andare  di  pensiero  in  pen-  siero implica  un  processo  all’  infinito , dal  quale  Aristo-  lile  si  mostra  sempre  alieno.  Sforzato  adunque  dalla  stessa  dialettica  egli  immedesima  in  questo  atto  supremo  l’ intelletto  e l’ intelligibile,  ed  in  cotesta  medesimezza  dell’  intelletto  con  se  stesso  è riposta  la  sua  vera  asso-  lutezza. * Se  ci  fosse  qualcosa  di  esterno,  alla  quale  lo  spirito  dovesse  stare  sospeso,  egli  sarebbe  da  meno  di  lei.  E fin  qui  tutto  si  accorda  a maraviglia  con  la  natura  dello  spirito,  che  non  può  prendere  in  prestito  d’ al-  tronde la  sua  compiutezza,  nè  posare  altrove  che  in  se  stesso  ; ma  in  che  modo  si  potrà  conciliare  cotesta  af-  fermazione con  l’ altra  che  fa  travagliare  il  Noo  intorno  ai  primi  principi?  Ed  ecco  una  nuova  irresolutezza,  una  nuova  contraddizione  : lo  spirito  che  una  volta  si   1 Ecco  come  il  medesimo  Sant-Hilaire  riassumo  da  parecchi  luoghi  della  Metafilica  la  teorica  di  Aristotile,  dove  la  sostanza  apparisco  una  volta  neces-  saria, un’  altra  volta  come  reale,  cioè  come  individuale.  Non  trattando  qui  di  proposito  questa  teorica  mi  astengo  dal  citaro  io  stesso  i luoghi  del  testo.  • La  Science,  douée  de  ces  deux  caractéres,  du  général  et  du  nécessaire,  «'applique  donc  surtout  è ce  qui  est  en  soi , è lasubstance,  bien  plutùt  qu’anx  autres  catégorie»,  qui  ne  sont  que^d’accident.  La  substance,  l’étre  ■ éel  (oùsia)  est  su  faste  de  la  Science:  et  c’esl  elle  spécialement  qne  le  phi-  lusophe  doit  étudier.  De  plus,  c’est  à une  seule  et  ménte  Science  de  recher-  « ber  et  les  principe»  généraux  de  l’étre , de  la  substance , et  Ics  principe»  généraux  de  la  démonstration,  et  du  syllogisme  qui  la  coostitne.  • Loc.  cit.,  eh.  »e.   * a Si  absolutum  id  est,  quod  ad  nihil  nisi  ad  seipsum  rifertur,  acqui  tur  sane  mentem , siquidem  absoluta  est,  seipsam  cogitare.  » Tren-  «bltmburg , op.  cit.,  pag.  497.    CAPITOLO  PRIMO.    85    ferma  nei  principi  universali  e nella  sostanza  ; un’  altra  volta  che  si  conchiude  in  se  medesimo.  Certamente  quest’  ultima  conclusione  è più  accettevole,  e più  consen-  tanea alla  nozione  deirintellelto  espressa  precedentemen-  te; ma  ciò  non  toglie  il  fare  incerto  ed  anche  contraddit-  torio del  sistema.  Se  l’ intelletto  non  è,  se  non  quando  pensa  in  atto  ; esso  non  può  compirsi,  se  non  nell’  atto  suo  proprio.  Se  gl’  intelligibili  non  si  differenziano  dal-  l’ atto  medesimo  che  li  pensa,  come  si  può  dire,  che  l’ intelletto  si  fermi  nei  primi  principi,  i quali  in  tal  modo  dovrebbero  avere  un’ esistenza  indipendente?   Forse  ad  ovviare  a questi  ed  a tutti  gli  altri  incon-  ■venienti  finóra  discorsi,  Aristotile  ricorse  allo  sparii-  j  mento  del  Noo  in  due,  per  potere  più  facilmente  altri-  j  buirgli  le  più  conlradittorie  determinazioni.   Il  quinto  capitolo  del  terzo  dei  libri  su  l’ anima  ospone  la  partizione  dell’  intelletto  in  attivo  e passivo.  \  Come  nella  natura  ci  è la  materia,  eh’ è lutto  in  potenza,  \  e poi  la  causa  che  la  rechi  in  atto  ; così  bisogna  che  co-  teste  differenze  si  trovino  pure  nell’anima.  In  lei  adun-  que vi  è un  intelletto,  che  può  tutto  divenire,  ed  mi  altro  che  può  tutto  fare. 1 E come  l’agente  prevale  sul  paziente,  cosi  l’ intelletto,  che  tutto  fa,  è fornito  delle  migliori  prerogative;  è separato,  eh’  è quanto  dire  non  dipendente  da  nessun  organo,  è impassibile,  e non  ha  mistura  di  sorta;  perciò  è immortale  ed  eterno.  Per  contrario  l’ intelletto , che  tutto  diviene,  è capace  di  patire,  e perciò  è perituro,  e senza  l’ aiuto  dell’  intel-  letto attivo  non  può  nulla  pensare.   Il  Noo  attivo  così  descritto  apparisce  essere  quanto  nell’  uomo  v’ha  di  divino  ; anzi,  come  osserva  il  Zeller,  esso  non  si  differenzia  punto  dallo  stesso  Dio.  E di  ciò   1 /.ai  !<mv  S pìv  Totovro*  vsus  tw  Tra/Ta  ycvss&at,  S Sì'  r»  irà/Toc  iisiitv.  De  Anim.,  lib.  Ili,  5.    Digitized  by  Google    PIETRO  POMPONAZZI.    potrà  capacitarsi  chiunque  si  faccia  a riscontrare  la  dob-  trina  del  Noo  attivo  con  l’altr  del  Dio  aristotelico,,  come  si  trova  nel  dodicesimo  libro  della  Metafisica.  Se  non  chè  il  Noo  attivo,  da  alcuni  tolto  per  lo  stesso  Dio,,  non  si  può  considerare  se  non  come  qualcosa  dell’anima.  Aristotile  medesimo,  se  da  una  parte  lo  chiama  il  divine  nell’  uomo  ; 1 dall’  altra  ci  ricorda  eh’  esso  ò un  altro  ge-  nere di  anima. 1 Intanto  è impossibile  concepire  due  es-  senze divine,  una  nell’anima  umana,  l’altra  separata;  e questa  contraddizione,  prodotta  dalla  solita  dubbietà.  di  Aristotile,  rimane  anch’  essa  irresolubile. 3   Gl’  interpreti  di  Aristotile,  e non  gliene  mancarono’  neppure  quando  fioriva  ancora  la  greca  filosofia,  comin-  ciarono percip  a dissentire  sul  Noo  attivo,  secondochè  ci  attesta  Temistio.  Chi  voleva  farne  la  facoltà  che  co-  glie i supremi  principi  con  una  semplice  comprensione,  e senza  bisogno  di  discorrere,  come  pare  avesse  intesa  Temistio  medesimo  (nè  era  certamente  senza  fonda-  mento cotesta  interpretazione):  chi  per  contrario  dal  dover  essere  sempre  in  atto  argomentò  che  non  po-  tesse essere  altri,  salvochè  Dio;  ed  anche  a cotesto  com-  mento  dava  nerbo  la  descrizione  sovresposta  di  Aristotile.  Se  non  che,  obbiettava  lo  stesso  Temistio,  Aristotile  parla  dell’  intelletto  attivo  e del  passivo  come  di  diffe-  renze (rà;  Scxp cpas)  dell’  anima  ; ed  il  porlo  in  Dio  ri-   1 el  Oeiov  è vaù?  ir  pòi  t ài  av9/Jwirov.  Et.  ffie.,  X,  7.   8 7t»o;  irti 59v.  Jìe  An im.,  lib.  Il,  cgp.  3,  § 9.   3 « Die  ihatige  Vernunft  ist  mit  Eincm  Wort  nicht  atlein  dea  Guttli-  che  im  Menschen,  sondern  aie  ist  der  Sacbe  noch  von  dei»  gottlirhen  Geiste  selbat  nicht  veracliieden.  ......  Andererseits  liess  sich  aber  freilich  der   ansserweltliche  gòttliebe  Geist  nicht  wohl  ala  die  den  Kinzclncn  in"  oli  ricado  nnd  mittelst  der  Zengnnge  in  aie  iibcrgehcndo  Vernunft , ale  ein  Theil  der  menschlichen  Sede  bezeichnen.  Aber  eine  Liisung  dieaea  Widersprucbs  so-  ebeà  wir  bei  Aristatclca  vergeblieh.  • Zeller,  Phil  der  Grieche n,  Zw.  Theil,  pag,  440-441.    Diaitized    CAPITOLO  PRIMO.    87    pugnerebbe  a questo  esplicito  testo.  Il  Trendelerobnrg  nota  tutte  le  precedenti  dubbietà,  nè  sa  risolversi  egli  medesimo  a miglior  partito,  che  a questo,  di  confes-  sare cioè  una  certa  cognazione  tra  il  Noo  attivo  e Dio,  senza  però  spiegare  come  avvenga  nella  nostra  mente  questa  partecipazione  del  divino.  * Ben  si  accorge  che  Aristotile  nella  teorica  del  Noo  attivo  rompe  la  preclara  serie  delle  umane  facoltà,  e del  loro  progressivo  svi-'  luppo,  introducendovi  qualcosa  di  nuovo  e di  estrin-  seco, ma  non  riporta  questa  rottura  ad  una  più  estesa,  che  noi  vedemmo  fin  da  principio  avvenuta  dentro'  la  costituzione  originaria  dell*  individuo.  Al  dotto  critico  di  Berlino  non  Sfuggirono  però  i testi  ripugnanti,  e la  ragionevolezza  delle  interpretazioni  contraddittorie,  ben-  ché egli  non  si  fosse  sforzato , come  di  poi  ha  fatto  il  Zeller,  di  risalire  alla  prima  scaturigine  di  quelle  con-  traddizioni divenute  necessarie.  Chi  disse  : I’  intelletto  attivo  è Dio,  e Chi  lo  negò,  non  ebbe  certo  difetto  di  testi  per  convalidare  la  sua  chiosa.  11  Brentano  non  ha  guari  pubblicava  un  libro  per  provare  che  il  Noo  è una  facoltà  dell'  anima,  ma  senza  far  caso  delle  espressioni  che  si  possono  trarre  iti  opposto  senso.  Così,  a mò  d'esempio,  nel  libro  della  generazione  degli  animali  ò  detto  che  l’ intelletto  venga  da  fuori,  ed  egli  interpreta  doversi  intenderà  non  del  solo  intelletto , ma  di-  tutta  l’anima  intellettiva.*  Che  non  abbia  veduto  manifesta   1 Dopo  riferite  le  parole  di  Aristotile,  che  queste  differenze  di  attivo  o -  di  passivo  si  trovino  pare  nell’anima,  soggiunge.  « Qua)  serba  aperte  de  humano  agere  mimo.  « D’altra  parte.  « Divina  mena  nibil  esse  potest , nisi   agens  intcllectus , a qno  veritas  rerum  manat Sed  quomodo   liut,  ut  Immani  mens  divine  particeps  sit,  dietimi  est  nusquam.  s Com-  meni.  Ariti,  de  Anima,  pag.  492,  493.   1 • Vor  der  Hmd  sei  nnr  bemnrkt,  dass  nnter  dem  vou;  der  Svpy.Sev  in  den  Fòla*  eingeht , nidi t , wie  Manche  meinen  , der  voù;  7ro‘V)Tt/o;  at-  leta , sonderò  die  ganze  ibujnj  vortrtxv  zn  versteben  ist.»  Die  Ptychologie  *    88    PIETRO  POMPONA.ZZI.    l’ oscillazione  di  Aristotile  dopo  le  profonde  osservazioni  del  Zeller,  che  pure  ha  letto,  a me  sembra  cosa  stra-  nissima ; ma  ognuno,  a vedere,  si  vale  degli  occhi  suoi  e non  degli  altrui.  Eppure  a lui  è saltato  negli  occhi  il  doppio  valore  del  Noo  aristotelico;  se  non  che,  invece  di  spiegare  la  causa  di  questa  duplicità,  ei  riconosce  una  sola  significazione  come  propria  della,  dottrina  ari-  stotelica,  l’altra  come  una  certa  metafora,  di  cui  Ari-  stotile si  fosse  valso  ; lui  che  dalle  metafore  era  alienis-  simo. Come,  dice  il  Brentano,  noi  diciamo  sano  tanto  chi  ha  la  sanità , quanto  le  cose  che  conferiscono  a pro-  curarla, cosi  Aristotile  ha  potuto  chiamare  Noo  tanto  il  subbielto,  che  ha  in  sè  il  pensiero,  come  il  desiderio  spirituale,  che  n’  è un  corollario,  e Dio  che  n’  è il  prin-  cipio creatore. 1 Cosi  nella  lingua  tedesca,  ei  soggiunge,  Geruch  vuol  dire  ugualmente  ed  il  senso  che  coglie  gli  odori,  e l’odore  come  qualità  dei  corpi.  E lutto  questo  va  bene  ; ma  Aristotile  piglia  il  Noo  tutte  e due  le  volte  in  significato  proprio  e serio;  tanto  nel  terzo  libro  dell’Anima,  dove  ne  parla  come  di  differenza  dell’ anima  umana,  come  nel  dodicesimo  libro  della  Metafisica,  dove  lo  descrive  come  primo  motore  immobile  nella  relazione  che  ha  con  lutto  l’ universo.  E le  descrizioni  rinvergano  cosi  bene , che  paia  sempre  lo  stesso  Noo  che  si  descri-  ve : tanto  il  primo  motore  della  metafisica  rassomiglia  al  Noo  attivo  dei  libri  dell’anima!  Da  qui  l’oscillazione  del  sistema  aristotelico,  che  nessuna  interpretazione,   o distinzione  al  mondo  varrà  a far  cessare.   * ‘ <   des  Ar  ilio  tele*,  intbetondere  teine  Lehre  vom  vojj  noi  n ti  xeg  vou  D*  Frani  Brentano,  Maini,  1807.   1 a So  knnnte  aucb  Aristoteles  nicht  bloss  das,  was  die  Gedanksn  io  sich  bat,  sonderà  aucb  das,  was  Folgc  dea  Deokes  iat,  wie  dea  geistige  Begebren , aber  auch  das , was  ala  Princip  die  Gedanken  bervorbringt , ala  #>9Ù;  bczeichoen.  — Brentano,  op.  cit.,  pag.  171-172.    CAPITOLO  PRIMO.    89    Una  nuova  difficoltà  ci  si  affaccia  nel  conciliare  le  due  differenze  che  Aristotile  introduce  nel  Noo,  perchè  il  passivo  è detto  corruttibile,  e legato  con  la  memoria,  col  desiderio,  con  tutte  le  altre  facoltà  inferiori  ; e l’at-  tivo, per  contrario,  immisto,  separabile,  e perciò  im-  mortale : ed  intanto  il  primo  ed  il  secondo  appartengono  del  pari  all’  intelligenza,  che  n’  è il  genere  comune.  Ari-  stotile nel  distinguere  il  Noo  in  passivo  ed  in  attivo  ha  voluto  occorrere  a due  condizioni,  imposte  entrambe  dal  suo  sistema.  Prima  ha  voluto  legare,  il  meglio  che  si  poteva,  l’ intelletto  con  le  facoltà  rimanenti  ; perciò  ha  dovuto  introdurre  in  esso  i fantasmi  per  intendere,  i desideri  per  volere;  e gli  uni  e gli  altri  si  fondano  su  la  sensibilità,  e perciò  su  la  materia,  su  la  possibilità  del  corpo.  Dipoi  ha  voluto  far  dell’  intelletto  la  facollà  che  pone  la  scienza,  che  coglie  l’universale  puro,  sce-  verato da  ogni  qualsiasi  possibilità,  e che  perciò  non  avesse  nessuna  mistura  di  potenza,  o di  materia,  e fosse  puro  atto.  Da  qui  la  distinzione  di  due  intelletti  ; uno  che  attinge  ancora  alle  sorgenti  della  materia,  l’altro  che  non  vi  comunica  punto.  Perciò  vedemmo  che  l’ in-  telletto puro  non  può  patire,  e consiste  tutto  nell’ atto;  mentre  chel’  intelletto  passivo  patisce,  ed  in  certo  senso  si  dee  dire  che  abbia  della  materia,  perchè  ogni  potenza  è materia,  considerata  per  rispetto  all’ atto.  Hegel  ha  cercato  di  conciliare  questa  contraddizione,  che  si  possa  cioè  dare  un  intelletto  che  partecipi  alla  materia,  di-  cendo che  la  possibilità  nell’  intelletto  non  abbia  nessuna  materia,  perchè,  nel  pensare,  la  possibilità  è ella  mede-  sima un  essere  per  sè. 1 Però  conciliazione  siffatta  tien    1 « Die  Moj>lichkeit  eelbst  ist  abcr  liier  nicht  Materie;  dar  Versta  mi  hat  nOinlicti  keine  Mitene,  scinderti  die  Moglickeit  geliort  zu  seiner  Substanz  eelbst.  Denn  das  Denken  ist  vielmrhr  dieses , nicbt  an  sicli  za  sein  ; and.  v egeti  seiner  Reiobeit  ist  seme  Wirklickeit  nielli  das  Fùrcinandersein , scine    Digitized  by  Googte    90    PIETBO  P0MP0NAZ7I.    più  del  sistema  proprio  dell’ Hegel,  che  di  quello  di  Aristotile.   Quindi  proviene  ancora  l’ incertezza  di  determinare  in  che  consista  veramente  l’ intelletto  passivo.  Il  Tren-  delemburg  ha  opinato  eh’  esso  sia  costituito  da  tutte  le  facoltà  raccolte  quasi  in  un  nodo,  e considerate  come  condizioni  del  pensare.  Il  quale  può  aver  pigliato  il  nome  di  passivo  sia  perchè  vien  recato  a perfezione  dall’  intelletto  attivo,  sia  perchè  viene  occupato  dalle  cose  esterne. 1   Tale  interpretazione  però  va  incontro  a questo  inconveniente,  di  rendere  inutile  la  distinzione  che  Ari-  stotile aveva  fatto  tra  sentire;  immaginare  e pensare.  Se  il  pensare  non  è altro  che  il  sentire  e l’ immaginare  annodati  insieme,  perchè  distinguerli  da  quello?  Non  bisogna  dimenticare  mai  che  dell’intelletto  in  generale  Aristotile  fece  un  altro  genere  di  anima.  Pare  adunque  che  nello  sviluppo  della  intelligenza  , medesima  bisogna  trovare  quei  gradi  che  appartengono  al  Noo  passivo , e  gli  altri  che  sono  propri  del  Noo  attivo.  Già  di  questo  ultimo  noi  vedemmo  che  Aristotile  avesse  posto  la  fun-  zione peculiare  talvolta  nei  primi  principi,  tal’ altra  nel  ripiegarsi  sopra  di  sè.  I gradi  precedenti  della  scienza,  che  del  resto  appartengono  certo  alla  intelligenza,  biso-  gna che  si  attribuiscano  aH’intelletto  passivo.  Tale  è la  ne-  cessaria conclusione  a cui  si  perviene  a guardare  nel  lutt’  assieme  la  dottrina  aristotelica,  e cosi  vedo  che  ha  interpretato  pure  il  Zelier,  che  nelle  cose  di  Aristotile    Mogliclikeit  «ber  selbst  cin  Fursichsein.  » Hegel , GeschicMe  der  Philoi ..  tom.  II,  pag.  540—54 1 .   1 a Qua?  a sensu  inde  ad  imagiuationem  mentera  anteccssorunt , ad  rea  parcipiendas  menti  necessaria,  sed  ad  intelligendas  non  suflìciunt.  Orno es  iilas , qua?  p r eccedimi , facultates  in  nnum  quasi  nodum  colleetas  ,  □natenus  ad  rea  cogitaodas  postula  nlur,  vouv  TtuSriTixo  v dietas  esse  in-  nicamus.  > Trendclembnrg,  De  Anima,  Comment.,  pag.  493.    CAPITOLO  PRIMO.    9f    vede  molto  addentro,  ed  ha  grande  autorità.  L’ intelletto  passivo  per  lui  consiste  in  quei  gradi  intermedi  che  stanno  tra  il  sollevarsi  delle  forze  rappresentative  ed  il  pensiero  compiuto  che  quieta  in  sè  stesso  ; in  quel  pro-  cesso riflessivo  e discorsivo  che  Aristotile  stesso  con-  trassegna con  la  parola  ScuvousOca. 1   Guardando  ora  tutta  insieme  la  dottrina  del  Noo  aristotelico,  essa  ci  presenta  questa  contraddizione,  di  essere  cioè  considerato  come  l’ ultimo  sviluppo  dell'  at-  tività pensante  nell’  uomo,  e di  essere  presupposto  fuori  dell’uomo,  perfetto,  compiuto  in  sè,  separato.  È per  questa  ragione  che  il  Noo  passivo  ci  vien  mostrato  come  processo,  come  discorso,  ed  il  Noo  attivo  come  intui-  zione ; e che  il  primo  è tenuto  in  minor  conto  del  se-  condo. Affinchè  la  posizione  aristotelica  fosse  riuscita  precisa  e diritta,  ei  si  sarebbe  dovuto  disfare  di  quel-  l’universale separato,  ed  ambiguo,  e tener  fermo  nel  ri-  guardare lo  spirito  come  processo  rigoroso  ed  ordinato.  Ma  per  fare  ciò,  non  bisognava  modificare  soltanto  la  dottrina  dell’  intelletto , sì  veramente  mutare  1’  anda-  damento  generale  del  sistema  ; cosa  che  forse  non  era  da  pretendere  in  quei  tempi.  Il  concetto  dello  spirito  come  sviluppo  è risultato  della  filosofia  moderna.   Un  valoroso  storiografo  tedesco,  il  prof.  Carlo  Pranll,  non  ha  dubitato  di  presentarci  come  genuino  sistema  di  Aristotile  quello  che  per  noi  è piuttosto  un  desiderio.  Nò  al  dotto  critico  manca  ingegno  o copia  di  testi  ; ma  il  suo  fare  sa  troppo  di  moderno,  e perciò  di-  viene subito  sospetto.   L’intelletto,  il  Noo  aristotelico,  è per  lui  una  im-  mediata unità  nella  duplicità  della  Giostra  essenza,  e da  un  lato  coglie  l’uno  trascendente,  il  divino,  dall’altro  i    1 Zellcr,  op.cit.,  pag.  441.    Digitized  by  Google    f    D2  PIETRO  POMPONAZH.   molli,  l’ individuo  ; o in  altri  termini  è l’unità  originaria  del  senso  e della  ragione , il  principio  e la  fine,  l’ alfa  e  l’ omega.1  In  un  luogo  dei  morali  nicomachei  si  dice  che  il  senso  è Noo  ; e su  tal  dichiarazione  il  critico  tedesco  rifà  da  capo  tutta  la  teorica  di  Aristotile.  Dove  gli  altri  avevan  visto  un  altro  genere  di  anima,  egli  scorge  un’originaria  medesimezza;  dove  gli  altri  avevan  tro-  vato incertezze,  egli  sicuramente  afferma  che  il  Noo  aristotelico  è sviluppo,  che  muovendo  dalle  impressioni  sensibili  arriva  sino  all’  universale.   L’intelletto,  dice  il  Franti , secondo  il  modo  di  ve-  dere aristotelico,  non  è una  passiva  intuizione,  ma  un*  attività  che  nel  progresso  del  suo  sviluppo  va  dalla  potenza  all’atto.  È un  accrescimento  dentro  sè  stesso,  Zuwachs  in  sich  selb&lhinein,  come  dice  il  critico  te-  desco traducendo  l’ iniSoais  ì<?>’  tàuro  di  Aristotile.  Che  se  l’ intelletto  si  dice  potenza , esso  è una  potenza  tale  •che  si  distingue  da  tutte  le  altre  non  solo  perchè  com-  prende gli  opposti,  ma  ancora  perchè  si  fonda  sopra  un  precedente  attuale.   La  continuità  dello  spirito  in  questo  processo  si  pare  a ciò,  che  i primi  pensieri  si  distinguono  appena  dalle  sensibili  impressioni  ; talché  il  sapere  non  è qualcosa  apparecchiato  d’avanzo,  ma  nasce  la  prima  volta  come    * « Der  voi;  ist  fur  dia  Stale , vvas  dea  Ange  fur  den  Korper  i«t , rr  ist  die  anraittelbare  Einheit  in  der  Duplicil&t  nnseres  VVescn  , deno  er  < rfasst  einerseits  das  trascendente  Eioe , Gòttlicbe , and  andrerseits  ist  er  cs  atich  , welcher  das  Einzelne , Viete  ergreift , ja  es  wird  io  diesem  Sion  , d.  li.  von  einem  wabrhaften  Antropologismns  aus  , selbst  die  Sinneswabrnehraung  aiisdriiklicli  voi;  gena noi;  und,indem  so  der  voi;  der  geistige  Sion  fQr  dia  beiderseitigen  Crtheile  ist , sowohl  fOr  jene , welche  ein  Ewìges  und  Crsprùn-  fjliebes  aussprerben,  als  aocb  ffir  jene , welche  anf  das  Gcbiet  des  Verglii-  glicheo  sich  beziehen , a»  kann  er  mit  Rccbt  der  Anfaog  und  das  Eode  , das  vahre  A und  Q,  des  Apndeiktischeo  genannt  wcrdon.  » Getchichle  der  Logik.   ’ Erster  Band,  pag.  106-407.    Dii    by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    93    , tale. 1 Quando  il  Noo  si  solleva , sopra  tutte  le  opposi-  zioni, al  supremo  Uno,  ivi  pensa  sè  stesso,  ed  il  pen-  siero ed  il  pensato  s’ identificano  : in  tale  attività  egli  mostra  la  sua  eternità.*  •>   Tal’  è per  sommi  capi  la  teorica  del  Noo  aristote-  lico secondo  il  Prantl  : prima,  attività  originaria , unità  del  senso  e della  ragione  ; poi  sviluppo  sino  al  pensare,  sviluppo  tale  che  tra  le  impressioni  sensibili  ed  i primi  gradi  del  pensiero  v’  è appena  differenza  ; infine  processa  intimo,  ed  indipendente  dalla  materia,  fino  ad  attingere  il  pensiero  di  sè  stesso,  e con  questo  l'eternità.   Questa  esposizione  toglie  ogni  dubbietà  ed  irreso-  lutezza dal  sistema  aristotelico,  e lo  fa  rigorosamente  logico,  però,  a quel  che  mi  pare,  a scapito  della  genui-  nità. Quella  unità  originaria  sa  troppo  di  moderno,  e  quella  eternità  conseguita  dal  nostro  spirito  nel  colmo  del  suo  sviluppo  è un’  intuizione  moderna  del  pari.  Ciò  che  mi  sembra  schiettamente  aristotelico  è il  concetta  dello  sviluppo  applicato  all’  attività  dello  spirilo  ; ma  il  pensare  puro  rimane  pur  sempre  staccato  dalla  serie  preclara  come  diceva  il  Trendelemburg.  Ammettendo  difatti  la  spiegazione  del  Prantl,  il  Dio  aristotelico  spa-  risce, perchè  il  Noo  è perfetto  e compiuto  nello  spirito  umano;  ed  il  Dio  di  Aristotile,  se  bisogna  a qualcosa,  è  per  cotesta  ultima  finalità.   Il  Prantl  tocca  dell’  intelletto  per  arrivare  al  comin-  ciamento  della  Logica.  Per  lui  l’ intelletto  si  compie  nel  concetto,  cioè  nel  cogliere  l’universale,  il  quale  non  è    1 Prantl,  op.  cit.,  loc.  cit.,  pag.  412.   * • Und  indetti  dar  voù;  in  dem  Denkcn  dieses  bòchsten  Einen  aicb  se'btt  deukt , erreicbt  er  das  Ziel  and  das  Zweck  seiner  Actnaliiat  : er  denkt  das  Angich  and  deukt  kiebei  steli  selbst  in  einer  Tbeilnabme  an  dem  Geda-  chten,  ao  dass  Denken  und  Gedacbtes  ideatiseli  siod  ; in  solcber  TbStigkeit  erweister  arine  Ewigkeit.  » Pag.  115,  loc.  cit.    $4    PIETRO  POMPONAZZI.    altro  che  l’ atto  medesimo  dell’  intendere  ; talmente  che  la  logica  s’ inizia  là  dove  la  psicologia  finisce.  L’ unilà  immediata  del  Noo  è il  principio  della  psicologia;  l'unità  immediata  del  concetto  è il  cominciamento  della  logica.1  Il  Prantl  fa  una  dotta  e profonda  investigazione  delie  ca-  tegorie aristoteliche,  delle  quali  mi  rincresce  non  poter  qui  discorrere,  tanto  più  che  nel  Saggio  sulla  filosofia  greca  io  mi  trovai,  inconsapevolmente,  d’accordo  col  professore  tedesco  nei  risultati  di  quella  ricerca.  Qui  però  non  voglio  omettere  di  dire  come  il  Prantl  si  accorge  che  lo  sviluppo  dello  spirito  si  riannoda  colla  dottrina  delle  categorie,  dove,  oltre  alle  determinazioni  estrinseche  •della  sostanza,  bisogna  ammettere  un  processo  genetico  -ed  intimo.1  Ma  cotesto  processo  per  il  quale  la  sostanza  -si  genera,  rimane  nel  sistema  aristotelico  ciò  che  direb-  besi  una  semplice  esigenza.  Perchè  la  sostanza  diventi  •questa  o quest’  altra  essenza,  non  apparisce  ; e cosi  non  apparisce  neppure  nello  sviluppo  dello  spirito  la  necessità  del  passaggio  da  una  forma  all’  altra  ; perciò  neppure  la  necessità  del  Noo,  che,  per  tal  causa,  può  dirsi  nell’  in  -  sieme  del  sistema  introdotto  da  fuora.  Il  Prantl  ha  un  bel  chiamare  il  Noo  unità  immediata,  Ansich  ; tutte  coteste  vedute  sono  più  profonde  come  scienza  che  vere  come  storia.  L’intelletto  separato,  il  motore  immobile  della  me-    1 • Dass  aber  Aristotele*  eine  Selbstentwicklung  der  Denktliàtigkeit  voo  ciucili  erstcr  Stadium  aa  bis  tu  einem  letztea  wesentlicli  erreicbbsreu  Zieie  «nerkennt,  sahea  wir  gleicbfalls  scbon  obeu....  ; und  so  ist  ihiu  aucb  die  tìrsprùogliche  Conception  der  Begriffe  aio  erstcs  Lumittelbares.  • Pag.  216.   1 Voglio  riferire  questa  osservazione  del  Praotl  eoo  le  parole  eoa  cui  I’  ha  compendiata  un  mio  giovane  amico  in  una  bella  tesi  di  laurea:  a Cosi  intorno  all’  individuo  si  raggnippano  amendue  i processi , nel  processo  gene  4ico,  o nel ytvsoàai  vltOÒiì  l’individualità,  la  sostanza  funziona  da  predi,  ceto,  ed  il  suo  soggetto  è la  materia  indeterminata;  uel  processo  categorica  funziona  da  soggetto,  e regge  e sostiene  tutte  le  determinazioni  categoriche.  »  Delle  varie  interpretazioni  dell'  idea  platonica  e della  categoria  aristo-  telica, Tesi  per  laurea  di  Felice  Tocco.    *C  -«V-    Digitized  by  Gt    CAPITOLO  PRIMO.    95    tafisica,  resiste  ad  ogni  più  benevola  interpretazione.  Certo  se  Aristotile  avesse  volato  e potuto  essere  conseguente,  avrebbe  pensato  come  lo  fa  pensare  il  Prantl.   Passando  ora  dall’  intelletto  alla  libertà  noi  troviamo  nella  dottrina  aristotelica  le  tracce  della  prima  indeter-  minatezza. 11  Brandis  ha  detto  che  la  libertà  secondo  Ari-  stotile consiste  nella  facoltà  che  ha  lo  spirito  di  svilupparsi  da  sè  e mediante  se  stesso  secondo  la  misura  della  sua  originaria  disposizione.  Ma,  domanda  con  molla  ragio-  nevolezza il  Zeller,  a qual  parte  dell’anima  debbe  ap-  partenere questo  sviluppo  ? alla  ragione  no,  perchè  im-  mobile ed  inalterabile;  all’anima  sensitiva  ed  appetitiva  nemmanco,  perchè  non  sono  capaci'  di  svilupparsi  con  libertà,  non  potendo  trovarsi  libertà  se  non  dov’è  la  ragione.  Rimarrebbe  l’intelletto  passivo,  al  quale,  sia  detto  una  volta  per  sempre,  si  ricorre  d’ordinario  quando  si  scorge  l’impossibilità  di  dare  uno  scioglimento  risoluto  ; ma  esso  stesso  oscillando  tra  la  ragione  e la  sensibilità,  avrebbe  bisogno,  al  pari  della  volontà,  di  uno  schiarimento  per  vedere  in  che  modo  si  possa  dare  * una  facoltà  che  partecipi  di  due  altre  cosi  opposte,  come  sono  il  senso  e la  ragione.1  Aristotile  stesso  accortosi  della  specie  di  altalena  che  fanno  la  ragione  pratica  ed  il  desi-  derio, li  rassomiglia  a due  palle  che  si  rimandano  da  uno  all’ altro.1  Un  filosofo  francese,  il  Waddington,  ta-  glia come  Alessandro  il  nodo,  invece  di  scioglierlo,  di-  cendo il  principio,  la  causa  dell’atto  volitivo  esser  l’Io;  degli  altri  atti  essere  soltanto  partecipe,  ma  qui  il  caso  esser  diverso,  e sentirsi  assoluto  e sovrano  padrone.*  Ma  appunto  di  questo  Io  noi  cerchiamo  invano  in  Ari-   1 Zeller  , op  cit. , loc.  cit.,  psg.  461.   1 Aristotile , De  anim.,  lib.  IH,  csp.  41,  $3.   8 La  Piicologia  di  Ariiloliie,  esposta  da  Carlo  Waddiogton  e Toltala  in  italiano  dalla  marchesa  Marianna  Floreozi  Waddington , pag.  284.    Digìtized  by  Google    96    PIETRO  POMPONAZZI.    stotile,  e vogliamo  scoprire  (love  si  annida,  se  nella  ra-  gione, o nella  sensibilità,  perchè  la  volontà  non  è facoltà  originaria,  come  non  è l’ intelletto  passivo,  nè  l’ intelletto  pratico.  La  vera  personalità  dello  spirito  è da  cercare  dunque  o nella  sensibilità,  o nella  ragione,  almeno  se-  condo i dati  della  psicologia  aristotelica.   La  scuola  ecclettica  di  Francia  ha  ripetuto  sempre  che  la  volontà  è l’ Io,  essendoché  la  ragione  è impersonale  ed  i fatti  sensibili  traggono  origine  dal  mondo  esteriore.  Con  questa  intuizione  peculiare  del  loro  sistema,  ei  si  fanno  ad  interpretare  Aristotile.  Se  non  che  la  volontà  per  il  filosofo  greco  non  è una  facoltà  originaria , quanto  meno  perciò  può  essere  la  intera  personalità  dello  spi-  rito! La  volontà  è una  specie  di  risultante  prodotta  dal  connubio  della  ragione  col  desiderio.  Le  quali  due  facoltà  essendo  si  opposte,  rimane  assai  difficile  il  definire  in  quale  di  esse  stia  la  libera  determinazione  di  se  stessa. 1   Quando  Aristotile  appaia  la  ragione  speculativa  con  le  facoltà  rappresentative,  e ne  fa  l’ intelletto  passivo  ;  ovvero  quando  accoppia  la  ragione  pratica  col  desiderio,  e ne  fa  la  libera  volontà,  rimane  sempre  incerto  quale  dei  due  elementi  debba  prevalere:  se  la  parte  sensitiva  ed  appetitiva  debba  trarre  dalla  sua  la  ragione,  ed  in-  trodurre in  lei  la  mutabilità  ed  il  patire;  ovvero  se  la  ragione,  signoreggiando  il  senso  e l’ appetito , debba  far  questi  partecipi  della  propria  impassibilità  ed  eternità.  Nella  vera  conciliazione  di  cotesti  due  opposti  termini  sarebbe  stala  riposta  la  persona  umana,  se  in  Aristotilo  il  loro  accoppiamento  non  fosse  rimasto  un  accostamento  esterno,  e,  come  dicono  i Tedeschi,  un  Zusmrmensetzung~    1 « Der  Wille  musa  demnach  cioè  ans  Vernnnft  and  Bugiarde  snsam-  mengetetzte  Thatigheil  saio.  Aber  auf  welcber  Scita  io  dieser  Verbiudong  da&  eigentliche  Wesen  dea  Willens,  die  Krafta  der  freieu  Selbslbestimmung  liegt ,  ist  sclmer  za  sagea.  • Zeller,  op.  cit. , peg.  460.    CAPITOLO  PRIMO.    97    Esclusa  la  volontà,  dove  si  deve  dire  che  alberghi  la  persona  umana?  Talvolta  pare  che  Aristotile  la  faccia  consistere  nella  propria  ragione  di  ciascuno;  ma  la  ra-  gione è un  puro  universale,  incapace  di  mutazioni  e di  patimenti,  eterna  ed  impassibile;  ed  invece  la  persona  è il  subbielto  proprio,  e la  causa  intrinseca  dei  suoi  mutamenti.  Tal’ altra  volta  pare  che  Aristotile  attribuisca  la  personalità  all’anima,  in  quanto  senziente  ed  appeti-  tiva; ma,  oltre  che  questa,  come  osserva  il  Zelter,  è  incapace  di  produrre  movimenti  da  sè,  secondochè  so-  stiene Io  stesso  Aristotile,  viene  esplicitamente  esclu-  ' sa,  dicendo  che  non  nell’  anima,  ma  nell’  uomo  in  quanto  consta  di  corpo  e di  anima,  dee  riporsi  il  subietlo  dei  movimenti  sensibili.  Il  corpo  intanto  non  è cagione  del  moto,  perchè  esso  verso  l’anima  è come  la  potenza  verso  l’ atto.  Ecco  in  quali  difficoltà  ci  siamo  imbattuti  nel  cercare  dove  consista  la  personalità  umana  secondo  i principi  di  Aristotile.  Le  quali  difficoltà,  a parer  mio,  procedono  dal  non  aver  Aristotile  fatto  vedere  per  qual  modo  1’  universale  si  determini,  per  intrinseca  energia  e per  dialettica  necessità,  nel  particolare,  e diventi  in-  dividuo; e per  qual  modo  poi  T individuo,  rifacendo  nel  processo  conoscitivo  il  cammino  inverso  del  processo  genetico,  si  sollevi  dalle  determinazioni  particolari  ed  accidentali  all’  universale  ed  all’  assoluto.  Non  è già  che  siffatto  processo  non  sia  stato  intraveduto  dall’ acume  di  Aristotile,  ma  non  è stato  spiegato  con  sufficiente  chiarezza , perchè  le  sue  dottrine  s’ informassero  tutte  secondo  quel  processo.  Il  Franti  accennando  al  processo  genetico,  come  intimo,  e diverso  dal  processo  catego-  rico, e trovandone  le  tracce  nella  Metafisica  di  Aristo-  tile, ed  in  altre  sue  opere,  ha  mostrato  come  la  deter-  minazione dell’  universale  nel  particolare,  il  concretarsi  della  forma  in  una  materia  sia  il  primo  postulato  di   F.  Fiomntiiso.  7    Digitized  by  Google    98    PIETRO  POMPONAZZI.    Aristotile.  E spiegando  dipoi  come  il  Noo,  per  assur-  gere alla  condizione  assoluta  di  pensiero,  ha  dovuto  essere  fin  da  principio  unità  originaria,  individuo  ed  z universale,  senso  e ragione,  affinchè  fosse  possibile  tutto  lo  sviluppo  intrinseco  dello  spirito,  ha  posto  in  evidenza  il  secondo  postulato,  non  meno  del  primo  in-  dispensabile. I due  postulati  che  la  critica  del  Prantl  richiede  nel  sistema  aristotelico,  nella  metafisica  il  primo,  nella  psicologia  il  secondo,  sono  però,  lo  ripetiamo,  appena  intraveduti  da  Aristotile,  e non  pienamente  de-  dotti. Forse  il  concetto  di  sviluppo  nello  spirito  è molto  più  evidente  che  non  il  processo  genetico  nella  sostan-  za; ma  ciò  non  toglie  tutte  le  irresolutezze,  ed  anche  le  contraddizioni,  che  noi  abbiamo  fatto  notare,  giovan-  doci degli  studi  del  Zeller,  il  quale  ha  collocato  il  si-  stema di  Aristotile  nella  sua  vera  luce,  tanto  per  ri-  spetto a Platone,  come  nel  suo  intrinseco  organamento.   Dalle  cose  premesse  apparisce  chiaramente  quel  che  debba  dirsi  della  immortalità  dell'  anima  secondo  Ari-  stotile. Per  lui  tutto  ciò  che  si  altera  è soggetto  alla  morte;  onde  le  facoltà  sensitive,  le  appetitive,  le  rap-  presentative, e perfino  l’ intelletto  passivo  finiscono  con  l’ organismo  corporeo,  da  cui  dipendono,  e con  cui  sono  indissolubilmente  legati.  Solo  superstite  è per  Aristotile  l’ intelletto  attivo,  il  quale,  se  fosse  provato  che  fosse  da  solo  la  persona  umana,  basterebbe  ad  assicurare  l' immortalità.  Ma  l' intelletto  attivo  è il  solo  elemento  universale,  una  specie  della  ragione  impersonale  della  scuola  eccletlica,  e perciò  la  sua  durata  non  ha  nulla  che  fare  con  la  durata  dell’  individuo  e della  persona.  Questo  intelletto  attivo  superstite,  slegato  che  sarà  dal  corpo,  non  avrà  nè  sensazioni,  nè  fantasmi,  nè  memo-  ria, nè  desideri;  e perciò  neppure  volontà,  nè  intelletto  passivo;  talché  non  potrà  avere  più  coscienza,  nè  per-    Digitized  by  Google    CAPITOLO  PRIMO.    99    sonalità  che  sodo  inseparabili  da  tutte  quelle  determi-  nazioni. Che  se  si  pon  mente,  come  il  Noo  attivo  per  pensare  avesse  bisogno  del  passivo,  noi  potremo  dire,  che  Aristotile  non  poteva,  secondo  i suoiprincipii,  far  sopravvivere  l’ intelletto  attivo  alla  morte  dell’ intelletto  passivo,  e se,  non  ostante  la  forza  della  logica,  lo  ha  fatto,  ciò  ne  dà  nuova  riprova , che  per  lui  non  era  ben  fermo  il  vero  concetto  del  Noo,  e che  una  volta  Io  po-  neva come  termine  supremo  dello  sviluppo  psichico,  un’altra  volta  ne  lo  stralciava,  attribuendogli  una  esi-  stenza separata,  impassibile  ed  immortale.   Aristotile  non  è pervenuto  sino  all’  autogenesi  dello  spirito',  perchè  non  si  può  creare  quel  che  si  suppone  esterno  non  solo,  ma  sproporzionalo  alle  facoltà  umane.  L’ infinito  per  lui  ora  consisteva  nel  concetto  dello  spi-  rito, ed  ora  in  qualche  cosa  di  esterno.  Tolta  l’ ipostasi  dell’  universale  che  aveva  ammesso  Platone  per  ciascuna  !  cosa,  ei  la  ritenne  per  rispetto  a Dio,  perciò  il  processo  dello  sviluppamento  rimase  dimezzato,  imbottendosi  in  un  termine  esteriore  che  gliene  impediva  il  prosegui-  mento. Non  ci  è un’  idea  preformata  della  natura , per-  :  ciò  la  natura  può  svilupparsi  per  virtù  intrinseca  ; ma  ;  ci  è l’ idea  di  Dio  sussistente  d’avanzo,  perciò  lo  spi-  rito non  può  farsi:  egli  già  è fatto,  e non  gli  rimane  se  non  d’ insinuarsi  nel  mondo  e di  svegliarvi  il  pen-  i  siero.  Questa  mi  pare  la  posizione  dell’  aristotelismo:  ;  Aristotile  rimase  platonico  per  metà.   Il  prof.  Augusto  Conti  è ricorso  a cause  esteriori  ed  accidentali  per  trovare  una  spiegazione  del  sistema  aristo-  telico, e perchè  l’egregio  professore  di  Pisa  è il  primo  ai  nostri  tempi  che  siasi  dato  a scrivere  una  storia  della  filo-  sofìa in  Italia,  mette  il  conto  di  dare  un  saggio  del  suo  modo  di  criticare  i sistemi.  Aristotile  è passato  dall’idea-  lismo platonico  alla  scienza  delle  cose  reali  : perchè?  Ecco    "'Otgitized  by  Google    •too    PIETRO  POMPONAZZI.    la  risposta  del  Conti:  « dacché  la  civiltà  greca,  uscendo  da’ propri  confini,  si  distendeva  nell’ Asia  con  l’armi,  era  naturale  che  alle  idealità  interiori,  tutte  di  raccogli-  mento, succedesse  la  scienza  delle  cose  reali.  » Ma  tutto  colesto,  dico  io,  non  ci  ha  nulla  che  fare.  Prima  di  ogni  cosa  non  è certo  che  Aristotile  abbia  pensato  il  suo  si-  stema proprio  al  lempo  che  i Greci  passarono  in  Asia  ;  ma,  poniamo  che  sì,  qual  relazione  ci  è fra  una  spedi-  zione a mano  armata  con  una  polemica  su  le  idee?   Il  prof.  Conti  discorre  dei  vizi,  pei  quali  i Greci  vennero  specialmente  in  mala  voce,  ed  eccoti  scoverta  la  causa,  perchè  la  loro  filosofia  « non  giunse  mai  al  puro  concetlo  di  creazione,  pernio  della  scienza.  » An-  che qui  la  causa  mi  pare  troppo  lontana  dall’  effetto,  e  non  veggo  in  che  modo  la  corruzione  dei  costumi  greci  potesse  appannare  il  loro  intelletto.  Forse  non  concepi-  rono tante  cose  vere  e belle  con  tutte  quelle  passioni?  Forse,  ai  tempi  in  cui  fioriva  1’  accademia  platonica,  a  Firenze  non  dominavano  vizi  somiglianti?  Dagli  scrit-  tori di  quel  secolo  parmi  scorgere  che  quelle  brutture  fossero  molto  in  voga,  e intanto  giunsero  al  puro  con-  cetto della  creazione  non  solo,  ma  concepirono  perfetta-  mente tutti  i dommi  cattolici,  e li  disposarono  alla  filo-  sofia.   Il  prof.  Conti  inclina  troppo  a far  la  critica  filoso-  fica con  la  nascita  e l’ educazione  cristiana,  con  le  rette  inclinazioni  del  cuore,  con  il  candore  dei  costumi;  ma  tutto  ciò  se  prova  a favore  del  suo  animo  bennato,  non  dà  pari  fondamento  ad  apprezzarne  l’acume  critico*  La  scienza  non  si  giudica  con  la  fede  di  buona  condotta  del  curato.   Ma  lasciando  queste  osservazioni  generali,  che  ap-  partengono al  suo  criterio  storico,  voglio  notare  che  nella  teorica  dell’  intelletto  di  Aristotile,  egli  ha  frantesi    lIÀQOglc    CAPITOLO  PRIMO.    ÌM   la  mente  dello  Slagirita.  Di  lui,  difatti,  dice  il  Conti  che  « distinse  l’ intelletto  agente  che  fa  intelligibili  le  cose,  dal  possibile  che  le  concepisce.  » 1 Aristotile  invece  chiama  intelletto  possibile  quello  che  tutto  diventa,  agente  quello  die  tutto  fa , come  si  può  vedere  nel  testo  medesimo  dei  libri  dell’Anima  che  ho  di  sopra  allegato.  L’ atto  con  cui  l’ intelletto  concepisce  gli  intelligibili,  e gli  intelligi-  bili medesimi  sono  tutt’ uno.  Non  ci  sono  già  le  cose  in-  telligibili distinte  dal  concetto;  onde  se  Aristotile  avesse  posto  veramente  questa  differenza  tra  i due  intelletti,  si  sarebbe  contraddetto.  E che  il  prof.  Conti  abbia  travisato  la  dottrina  aristotelica,  si  pare  da  ciò , che  l’ intelletto  possibile  per  Aristotile  precede  l’ agente,  come  la  potenza  precede  l’ alto;  mentre  pel  professor  Conti  av-  viene il  contrario,  forse  perchè  non  ha  attinto  questa  distinzione  dalla  sorgente  aristotelica,  ma  da  qualche  espositore  che  1*  avea  compreso  male.  Il  peggio  poi  si  è  che  il  professore  di  Pisa  ha  l’ aria  di  non  sospettare  «eppure  l’importanza  di  questo  problema,  non  meno  che  di  parecchi  altri  rilevantissimi,  contento  a sfiorarli  leggermente,  quando  non  li  trasanda  del  tutto. Francesco Fiorentino. Fiorentino. Keywords: idealismo, l’idea di natura in Talesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore, filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fiorentino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51689818509/in/photolist-2mKDQcp-2mPBcdN-2mKCnei-2mKDA5r-2mPLygi-2mKj9Vm-2mJqjKS-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mGnP2f-2mKw3hq-DvhhWW-DhRHD2-CcQom5-BpZQLP-BpUj3L-CizXhT-Bm2xGQ-Cix5XZ-CdAEaL-CfWKjF-CdDizG-Bq3qnZ-obW75K-oa5425-oa52o5-2mQuZ9p-o9gw6u-nhHPhH-nhRBAG-nfDpKm-nhfmz6-njgyUp-nhFqkp-nj9RAK-nfppU1-nfCuEo-nhqgt7-nfCCMe-nje4Xa-njaa4a-nhsppz-nfCL9Q-nhFDy8-nhc3FN-njanDk-nfCYM5-nhFvTt-nhs4nv-nfCRmU

 

Grice e Fioretti – pro-ginnasmi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercatale). Filosofo.  – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata. Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che recita: Resurrexit, non est hic.  Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di nessuno, ad eccezione di Dio".  Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio, pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente franco.  Al suo pseudonimo era solito aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e politici impegnati.  Lasciò come ela sua biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Tiraboschi.  Luca, Scheda Biografica su Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia: Il Seicento.  Gian Vittorio Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini” (Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij..., Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,  storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani, I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B. Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana, Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  8, Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano,  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Benedetto Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro.  Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente,[1] anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati.[1][2][3][4] Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito.[2][3][4] Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile,[5][6] poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili.   Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici.[7] Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività.[8][9][10][11]  Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità.[12]  Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.[13] Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme[14]; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni[15].  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel libro del Dr. Ronald F. Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio)[16]. Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile[17].  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti[18]. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere[19].  Natura ed educazioneModifica  Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9"[20] la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità[21].  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi[22].  Mascolinità egemonicaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership[23]. Raewyn Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne"[24].  Il Dr. Joseph Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta"[25]. Kimmel[26] promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  CriticheModifica Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi.  Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità[27].  Scholar Peter Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo "[28].   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi[29][30].  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza[31].  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica[32].  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari"[33].  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa)[34][35][36].  Terminologia             Modifica I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità[37].  NoteModifica ^ a b ( EN ) Constance L. 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Voci correlate          Modifica Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 48856 · LCCN( EN ) sh85081797 · GND ( DE ) 4123701-8 ·BNE ( ES ) XX546447 (data) · BNF( FR ) cb119462329 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007555599305171 (topic)   Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Ultima modifica 1 mese fa di Aslog Murivel PAGINE CORRELATE Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso  Wikipedia Il contenutoFioretti.  Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio, ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi --. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica. Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690421812/in/photolist-2mPMBQM-2mKGVxb

 

Grice e Fisischella – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “I love Fisichella; for one, he was a nobleman; for another, he died during Messina’s earthquake – leaving unfinished quite a few essays – he philosophised on both ‘nature’ and ‘convention,’ and the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in nature, even if he fills it with charming Roman detail!” Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a Messina. Morì vittima del terremoto di Messina. Altre opere: “Roma e il Mondo” (Eugenio Coco); “Pena temporaria, pena perpetua”; “Il concetto d’ “obbligazione naturale””; “Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII” (Carmelo de Stefano); “Matrimonio, questione di stato – la legge di matrimonio”. Fu nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I Viceré.   Whoever has glanced through the pages of  any text-book on Mercantile Law will hardly deny  that Contract is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that when  Rome was in her infancy and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in towns hucksters do  not employ them. 'Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out' that the Roman house-  hold consisted of many families under the rule of a   ' Ancient Law, p. 312.   B. E. 1   Digitized by Microsoft®     2 INTRODUCTION.   paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Con-  tract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As Roman civilization  progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER I.   THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either (1) by the person interested,  or (2) by the gods, or (3) by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a con-  ception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punish-  ment the alternative of performance.   I. Self-help, the most obvious method of re-  dress in a societj' just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even   1 2   Digitized by Microsoft®     4 THE EEGAL PERIOD : EARLY AGREEMENTS.   encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, sdf-help  must have proved a difficult and therefore inade-  quate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete.   II. Eeligious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delin-  quent and may even have entailed religious disabili-  ties. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege.   III. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strength-  ened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corre-   Digitized by Microsoft®     EARLY PACTA. 5   spending to the three kinds of sanction. They  might consist of (1) an entirely formless compact,  (2) a solemn appeal to the gods, or (3) a solemn  appeal to the people.   I. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompani-  ment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided ^ If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising   1 Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20.  Digitized by Microsoft®     6 THE BEGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agree-  ment belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the fashion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals was alone con-  sidered, and their form was of no importance.  But under the influence of custom or of the priest-  hood, they assumed by degrees a formal character,  and it is thus that we find them in our earliest  authorities.   Since Eeligion and Law were both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious  forms of promise have their counterpart in the  customs of Greece and other primitive peoples,   Digitized by Microsoft®     PUBLIC AGREEMENTS. 7   whereas the secular forms are peculiarly RomanS  the religious forms are evidently the older, and  formal contract has therefore had a religious origin.  Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise was to place it under divine  protection. This could be accomplished in two  ways, by iusiurandum or by sponsio, each of which  was a solemn declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the gods.  Each of these forms has a curious history, and as  they are the earliest specimens of true Contract,  we may discuss them in the next chapter.   III. Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggested itself for the  protection of agreements, was to perform the whole  transaction in view of the people. Publicity ensured  the fairness of the agreement, and placed its ex-  istence beyond dispute. If the transaction was  essentially a public matter, such as the official sale of  public lauds, or the giving out of public contracts,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement was in that case  binding. The same validity could be secured for  private contracts by having them publicly witnessed,  and, the nexuTn was but one application of this  principle. In testamentary Law it seems probable  that the public will in comitiis calatis was also  formless, whereas in private the testator could only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens " testimonium, mihi perhibetote."   Thus the two elements which turned a bare  1 See p. 22.   Digitized by Microsoft®     8 THE REGAL PERIOD: EARLY AGREEMENTS.   agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since, their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast ofif.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was fully attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER II.   CONTRACTS OF THE EEGAL PERIOD.   Art. 1. IvsiVRANDVM is derived by some  from louisiurandum^, which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath inLivy^ where Scipio says: "Si  sciens /alio, turn me, luppiter optime maxime, domum  familiam remque meam pessimo leto afficias," and  from the oath upon the luppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens folio, turn me  Dispiter saliia urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem." A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. Cicero remarks^ that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53.   3 Off. III. 31. 111.   Digitized by Microsoft®     10 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   in the time of Cicero, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of Hercules  (called Ara Maxima) was a place at which solemn  compacts (a-vvOrJKai) were often made', while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath''- It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods*; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn proniise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed*. Periuriwm did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath', the commission of any act at  variance with the uerba concepta'^.   There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt' thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz^ is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49. Cic. Flace. 36. 90.   3 Biv. 1. 16. 28. " Seru. ad Aen. 12. 13.   " i.e. sciens fallere, Plin. Paneg.d'i. Seneca, Ben. iii. 37. 4.  8 Off. III. 29. 108. ' lus Nat. in. 229. 8 j{g„i. ^(j_ „_ g 149     Digitized by Microsoft®     EFFECTS OF IVSIVSAJSfDVM. 11   they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god^  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius^  and in the XII Tables' was the epithet of condem-  nation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as Cicero hints'*, was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius" is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus^ for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  only the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him to the punishment of his fellow-men'.  The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare.   » Seru. ad Aen. 6. 609. ^ Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25.   5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.   Digitized by Microsoft®     12 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian, the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath'. But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman'',  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by Dionysius'. But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi ohligatio was en-  forced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipu-  lation, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n, iq.   * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10.   Digitized by Microsoft®     THE EARLY SP0N8I0. 13   worded^ formula (concepta uerba), wherein he called  upon the gods (testari deosY, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio^, but this was  clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae.   Art. 2. Sponsio. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as spon^io, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise^. The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  (Tirovhrj, a-rrevSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine'*, quite distinct from the con-  vivial Xot^T) or lihatio^, so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by   1 38 Dig. 1. 7, fr. 3. ^ Plaut. Rud. 5. 2. 52.   5 46 Dig. 4. 13. '' Danz, Sacr. Schutz, p. 105.   5 Featus-p. 329 s.u. spondere. ^ Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o.   Digitized by Microsoft®     14 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Varro' and Verrius^ from spons, the will, whence  according to Girtanner' spmsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology.   I. This pouring out of wine, as Leist* has  ■ shown, was in the Homeric age a constant accom-  paniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (opKia iriaTo) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of cere-  monial.   II. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring  alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals ^ and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connec-  tion with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride °, were very  like those of other Aryan communities'. We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation.   III. In the third and last stage sponsio meant   ^ L. L. VI. 7. 69. ° Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p. 84.  •* Greco-It. B. G. § 60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443.   » Gell. IV. 4. Varro, L. L. vi. 7. 70. ' Leist, loc. cit.     Digitized by Microsoft®     PECULIARITIES OF SPONSIO. 15   nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force ; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others' thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine ? " "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by Gaius^, was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gains expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine ((nrovBal aKprjToi) was one of the early  formalities of an international compact (opKia iria-Ta),  it was natural that the word spo'ndeo should survive  on such occasions, even after the oath and the wine-  pouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subse-  quently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know,  1 Gai. HI. 93. ^ m. 94.   Digitized by Microsoft®     16 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro^ informs us that, besides being used at be-  trothals the sponsio was employed in money (pecunia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely^  that nesBum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  numerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the actio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institu-  tion, but was introduced at a date subsequeat to the  XII Tables. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early  1 L. L. VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF SP0N810. 17   sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Com-  mentaries of Papirius' should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code". Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandmn, which we know of only through a  casual remark of Cicero's '>-   The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of nexum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left^. This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism^ One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply".     1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4.   3 Off. m. 31. 111. * Maine, Anc. Law, p. 326.   5 Hunter, Bovian Law, p. 385. " Gai. ii. 24.   B. E. 2   Digitized by Microsoft®     18 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare- one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Rome as well as in Latium'. He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influenced In  another place' he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to ■  this view are (1) that the etymology is probably  wrong, and (2) that the inference drawn as to the  original meaning of spondere involves us in serious  diflSculties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words '' spon-  desne ? spondeo." (3) This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43.   3 lus Nat. §§ 33-4.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF SPONSIO. 19   to be regulated by the laws of Romulus \ is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed^ the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from spans, the  vvill; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind^. His chief argu-  ment for this view is to be found in Paulus Diaconus,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ?   {d) Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz^, maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516.   ^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft.   2—2   Digitized by Microsoft®     20 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evideiice than that of  Danz'. Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactwn) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modem law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original caiisa ciuilis which dis-  tinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris ciuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious cere-  monial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we mav  conclude that sponsio was a primordial institution  1 See Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291.   Digitized by Microsoft®     GROWTH OP SPONSION 21   of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, (a) It was originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not jtnade under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, (c) Lastly it became a verbal formula,  expressed in language implying the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justi-  nian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. " Filiam mihi spondesne ? "  " Spondeo." " Centum dari spondes ? " " Spondeo."  Throughout its history this was a form which Roman  citizens alone could use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they used question and answer rather  than plain statement is a minor point the origin  of which no theory has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the   Digitized by Microsoft®     22 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum, and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations'.   Art. 3. NEXVM. There is no more disputed sub-  ject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses^; that the commodity so weighed was  a loan' ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage* and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipivjn^. To assert, as Bech-  mann does, that since nexum included conveyance as   1 Alt Ar. I. Civ. !•" Abt. pp. 435-443.   2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro, L. L. 7. 105.  " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L. § 22.   Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ORIGIN OF NEXVM. 23   well as loan " mancipiuvique " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables S is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexum and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of manus, ownership ; nexum implies the making of  a bond {cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexum and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modem deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold " and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexum, how  are we to explain the fact that nexum is used  by Cicero' and by other classical writers' as equi-  valent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that nexum had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n.   3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Farad. 5. 1. 35.; pro  Mur. 2.   * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua Aelius in Festus, s.u.  nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105.   Digitized by Microsoft®     24 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mandpata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucins  Scaeuola was the Papinian of his day. ManiUus* on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  iwgotia per aes et Ubram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of trans-  actions. In this he was followed by Gallus Aelius'.  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because neon liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem^. One pecuUarity men-  tioned by Gains in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gains says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res mancijri  included land and cattle. Therefore if mandpivm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mandpi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum.   s Gai. III. 173-5.     Digitized by Microsoft®     NBXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM. 25   aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted S and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmann^ thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur^  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Republic, partly  to denote the binding force of any contract*, partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram'^. Even in Cicero we find the word  nexum used chiefly with a view to elegance of style"  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where' there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical sense and  actually tells us that it had become obsolete'.   1 See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. § 22.   2 lb. p. 131. " Varro, I. c. — Pestus, s.u. nexum.  ■» Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7.   5 Cio. de Or. iii. 40. 159.   6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28.  ' As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35.   8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1.   Digitized by Microsoft®     26 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   Rejecting then as untenable the notion that  neseum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending com or copper or any <other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexum was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public super-  vision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, — a strong argument that  neoeum and mancipium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed.   The fixing of the number of witnesses at five',  which we find also in mancipium, is the only  modification of nexum that we know of prior to  ' Gai. III. 174.   Digitized by Microsoft®     FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. 27   the XII Tables. Bekker^ suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian census, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius^ that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author',  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  ■ witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann*, who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the intro-  duction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange^. This view  is part of Huschke's theory, that neosum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act per-  formed under public authority, and (2) it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight.   The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that neooum was confined to loans of money or of   1 Akt. I. 22 ff. 2 jy_ IS -J jj. 15.   * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff.   Digitized by Microsoft®     28 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   copper. Indeed we gather from a passage of Cicero  that far, corn, may have been the earliest object of  neooum', while Gains states that anything measurable  by weight could be dealt with by nexi solutio'. No  inference in favour of Huschke's theory can be  drawn from the name negotium per aes et lihram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal signifi-  cance, and when the aes {rauduscidum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as ,  we certainly should, that nescum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann* rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Huschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neivum  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities^ but which  has few if any supporters among modern jurists.  This view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as   1 Cio. de Leg. Agr. ii. 30. 83. ^ in. 175. » Xauf, i. p. 87.  * See Sell, Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in  Danz, BSm. RG. ii. 25.     Digitized by Microsoft®     NEXVM A LOAN BY WEIGHT. 29   a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes\ The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexvm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a newum'K  Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor Tnan-  cipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtor's person, for the idea of treating a debtor like  a res mmicipi or like a thing quod pundere numero  C07istat, is absurd. Again, if neccu/m = mancipium, the  conveyance of the debtor's body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore (1) by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capita deminutus^, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was*. Clearly then mancipium was under no cir-  cumstances a factor in nexum,.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungihiles.   1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52.   2 nexum inire, Liu. vii. 19. 5.   " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311.   Digitized by Microsoft®     30 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neancm, the first  genuine contract of the Eoman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked the great  advantage of accurate measurement, which necmm  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neocum from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neooum is  all that can be given with certainty. The details  of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistants   Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number,  ' See page 52.     Digitized by Microsoft®     EARLY FORM OF NEXVM. 31   probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time.   The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  .seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the noto-  riety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement.   The release (neooi solutio) was a ceremony pre-  cisely similar to that of the neocum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses '.   Art. 4. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision  1 Gai. III. 174.   Digitized by Microsoft®     32 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   of that code. As to the origin of uadimonium,  we cannot fee certain, but judging from a passage  in Gellius* we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of " uades et subuades et XX V  asses et taliones...omnisque ilia XII Tabularum  antiquitas." We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period.  The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio.   Art. 0. DOTIS DICTIO. Dionysius^ informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian' we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio was a promise by stipu-  lation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is diflBcult to know  whence it acquired its binding force as a contract,  1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi. 1.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO DOTIS DICTIO. 33   since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  also by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law'. An illustration occurs in Terence^ where the  father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta,"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  " Accipio " ; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code°,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian*  and by Gaius^ was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the father's side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian'' distinguishes between dictum and promis-  sum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  (a) Von Meykow' holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  biide and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ■' 3. 13. 4.   * Reg. VI. 2. ^ Epit. ii. 9. 3. « 21 Dig. 1. 19.   ' Diet. d. Rom. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3   Digitized by Microsoft®     34 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted.   (6) Bechmann^ again, connects dotis dictio with  the ceremony otsponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectam, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is that it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz^  i.e. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer : " ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress  1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G. vn. 243.     Digitized by Microsoft®     THEORY OF DANZ. 35   upon US that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that  " accipio " was an indispensable part of the trans-  action. He may merely have meant that the bride-  groom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by lulianus" and Marcellus^ who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance.   A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz'. He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium, pietatis*,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing'. The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an officium to bis patron, and which he  acknowledged by the iurata operarum promissio. The  dos and the operae were both officia pietatis, but   1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163.   ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98.   .3—2   Digitized by Microsoft®     36 CONTEACTS OF THE REGAL PERIOD.   it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt^ states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell.   A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia^ ; (2) the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason';  and (3) a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his posses-  sion, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with   1 XII Taf. II. § 123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio. Top. i. 23.   Digitized by Microsoft®     FORM OF DOTIS DICTIO. 37   regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of (1) the bride's father or male cognates, (2) of the  bride herself, or (3) of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner'. No  particular formula was necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Eoman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral : the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to  any counterperformance on the part of the promisee.  1 Gai. Ep. 3. 9.   Digitized by Microsoft®     38 CONTRACTS OF THE REGAL PERIOD.   The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion.  Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore  modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used  to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was  not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or  State.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER III.   THE TWELVE TABLES.   Art. 1. The causes leading to the enactment  of the great Reform Bill known as the XII Tables  were chiefly social, and the indefinite state of the  law was the grievance which called most loudly  for a remedy. Contracts and conveyances were but  little respected, the powers of the nexal creditor  were sorely abused, and legal procedure in general  was most uncertain. Yet more than all else the law  of torts and crimes needed radical reform : so that  though we possess but few actual fragments of the  XII Tables we have enough to tell us that very  little space was devoted to reforms in the law  of Contract. This fact ought not to surprise us,  knowing as we do that commerce was still in a  very backward state.   We hear nothing of any provision in the  XII Tables with respect to sponsio, but we know  from Cicero that iusiurandwn was recognised and  enforced'. Botis dictio was not mentioned, so far  as we can discover. A new form, the lex mancipi,   1 Off. HI, 31. 111..  Digitized by Microsoft®     40 THE TWELVE TABLES.   was created by one provision of this code, though  its creation was not apparently intended by the  Decemvirs, but was rather the result of juristic  interpretation. Vadimoniitm,, a contract which we  have not yet examined, was either created or  considerably modified by the XII Tables, and con-  stituted the earliest form of suretyship.   As the hard condition of nexal debtors was one  of the evils which led most directly to the secession  of the plebs and to the consequent enactment of the  new code, we should naturally expect to find laws  passed for their protection. Accordingly it is with  nexum that the contractual clauses of the XII Tables  are principally concerned.   Art. 2. NEXVM. I. The first provision as to  this contract was embodied in the famous words  which Festus has transmitted to us: CVM nexym   FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT   ITA ivs ESTO^ This was equivalent to saying that  the language used by the party making a nexum  was to be strictly followed in determining what  his rights and liabilities should be. The fact that  such a declaratory law was needed discloses two  features of the primitive nexum. We can see  (1) that the act of weighing, not the words which  accompanied that act, was the essence of the original  transaction, so that the scales must have been  used actually, and not symbolically as they were  in later days : (2) that the terms of a nexal loan  must often have been disobeyed; if, for instance,   ' Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia.     Digitized by Microsoft®     CHANGES IN NEXVM. 41   the debtor had agreed to pay at the end of one  year, it might happen that a harsh creditor would  enforce payment at the end of six months. This  shows that the people were not feared as witnesses  to the same extent as were the gods who presided  over msiurandum and sponsio. The fact of the  loan was proved beyond question by the witnesses  present, but there was evidently no sacred virtue in  the words which went with the loan, and these were  not therefore binding simply because spoken in the  people's hearing. This defect was what the XII  Tables aimed at correcting. They thenceforth  placed the verbal terms of nexum on as strong a  footing as the words of sponsio. Conditions as to  the amount of interest payable, the date of maturity  of the loan, the security to be given by the debtor,  could all now be inserted in the verbal nuncupatio.  And still more important was the fact that the sum  or amount of the loan itself could be verbally  announced at the ceremony, so that if the debtor  said " I hereby receive and am bound to repay  fifty asses," this speech was as binding upon him as  if the fifty asses had been actually weighed out to him  in copper. As long as the money or corn was really  weighed in the scales, nexum continued to be a  natural and material method of loan ; but when by  the introduction of coined money it became possible  to count instead of weighing a given quantity of  copper, then nexum tended to become an artificial  and symbolical operation. The reason obviously is  that counting is far more simple than weighing.  Thus when a loan of 100 asses was being made.   Digitized by Microsoft®     42 THE TWELVE TABLES.   it became customary to name this sum in the  nuncupatio without weighing it at all. The scales  and witnesses appeared as before, but the scales  were not used. The borrower, instead of taking 100  asses out of the scale-pan, simply struck it with a  piece of copper so as to conform with the outward  semblance of the transaction. Though the weighing  had been dispensed with, yet by this rule of the  XII Tables he was as much bound in the sum of  100 asses as though they had actually been weighed  out to him. Hence the important efifect of the  clause which I have quoted. Given a proper coinage  that clause transformed the loan of money into  a datio imaginana and the release of such a loan  into an imaginana solutio. The outward form of  neacum remained the same, but the actual process  was greatly simplified. This change was doubtless  not intended when the rule was made by the  Decemvirs. It was the result of a more or less  unconscious and probably gradual development.  The genuine weighing and the fictitious weighing  doubtless existed side by side. But it seems fairly  certain that the introduction of coined money was  another of the Decemviral reforms', and if so, we may  assume that nexum changed from a ceremony  perfoi-med with the scales into one performed with  copper and scales (negotium per aes et libram) not  long after the Decemviral legislation.   II. Another important provision relating to  nescum modified the harsh remedy hitherto appUed  by the creditor against the delinquent debtor.  1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175.     Digitized by Microsoft®     RESTRICTIONS ON POWER OF CREDITOR. 43   The words of the XII Tables have been fortu-  nately preserved by Gellius', and run as follows:   AERIS CONFESSI REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES  IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO.  IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO  EO IN IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT  NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE AVT  SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO.  NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS  FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS DATO.   There are two knotty points in the above passage.  (1) What is the exact distinction between ac-  knowledged money debts {aes confessum) and judg-  ments obtained by regular process of Law (res iure  iudicatae) ? (2) To what class of delinquents did  the punishment apply ?   (1) It can hardly be doubted^ that aes con-  fessuTn included a debt contracted by nexum, as  well as any other kind of debt the existence of which  was not denied by the debtor. For example, a  debt incurred by formless agreement or by sponsio  would be an instance of aes confessum, provided  the debtor admitted his liability. But in nexum  this liability had already been admitted solemnly  and before witnesses; to deny the existence of a  nexal debt was impossible. Therefore aes confes-  sum seems to be a term quite applicable to a  debt contracted by nexum. The words aeris nexi  were probably not used in the context because  aeris confessi had a wider meaning, and this law   1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note.   Digitized by Microsoft®     44 THE TWELVE TABLES.   was apparently intended to cover much more than  the one case of nexal indebtedness.   The other class of debts here described as res  iure iudicatae are no donbt judgment-debts. Where  damages had been judicially awarded to one of the  parties to an action, some means had to be provided  of compelling payment from the other party. The  executive in those early times was too weak to  enforce its decisions, and self-help, as we have seen,  was the usual resource of aggrieved persons. The  only way in which the law could assist judgment  creditors was by declaring what extent of retalia-  tion they might lawfully take. And this brings us  to the second question :   (2) In what cases was the above mentioned  manus iniectio to be exercised ? Voigt^ remarks  that the XII Tables never mention manus iniectio  as being a means of punishing default in a case of  nexum. He then proceeds to state that the remedy  for nexum was an actio pecuniae nuncupatae. Not  only is this statement purely fanciful, as there is  no mention of actio pecimiae nuncupatae in any of  our authorities, but Voigt has surely ignored the  evidence before him. Admitting, as we must, that  nexum is included among the cases named at the  beginning of the above clause, we can scarcely  avoid the further conclusion long ago reached by  Huschke that the rest of the clause, with its 30  days of grace, manus iniectio, ductio in ius, and all  the consequences of disregarding the iudicatum, is a  description of the punishment to which a breach of  1 XII Taf, I. 169.     Digitized by Microsoft®     JUDICIAL RECOGNITION OF NEXVM. 45   nexum might lead, as well as of that annexed to the  other kinds of aes confessum and to res iure iudi-  catae. The whole clause is one continuous state-  ment, and to hold that the latter part of it, beginning  at Ni IVDICATVM FACIT, provides a penalty solely  for the case of judgment-debts, seems a very  strained and unnatural interpretation. Why ex-  plain iudicatum as referring only to judgment  indebtedness ? Just before it in the text we find  the direction IN ivs DVCITO, so that a nexal debtor  after manus iniectio evidently had to be brought  into court. The precaution was probably a new  restraint upon the violence of creditors, in order  that the justice of their claims and the propriety of  manus iniectio might be judicially determined. But  if a judge had to pronounce upon the validity of  such proceedings, surely his decree might be de-  scribed by the term iudicatum, as found in the  above passage. It is no answer to say that the  nature of aes confessum precludes the possibility of  a judicial decision, and that therefore iudicatum  can only refer to a res iure iudicata, that is, a  judgment-debt. For in spite of this alleged dis-  tinction we find here that debtors of aes confessum  and judgment-debtors were treated in exactly the  same way. Each of them was at first seized by his  creditor and brought into court. Now why should  this have been necessary in the case of a iudicatus  more than in that of a nexus 1 For a judgment-  debt seems to need judicial recognition just as  little as a nexal debt. And yet we find that ductio  in ius was prescribed in both cases. The only     Digitized by Microsoft®     46 THE TWELVE TABLES.   rational way of explaining the difficulty, seems  to he to take iudicatum in the sense not of a  judgment-debt but of a judicial decree, and to  translate the passage as follows: "Let the creditor  bring the debtor into court. Unless the debtor  obeys the decree of the court or finds meanwhile  a champion of his cause^ in the court, let the  creditor lead him off into private custody, and  fetter him" etc. etc. Thus the ductio in ius, the  iudicatum, the domum ductio, and the directions as  to the right kind of fetters and the proper quantity  of food, must all have applied equally to aes con-  fessum (including nexum) and to res iure iudicatae.  This view is confirmed by the passage in which  Livy '^ describes the abolition of the severe penalties  of nexum,. The bill by which this was done or-  dained, so Livy tells us, " nequis, nisi qui noxam  meruisset, donee poenam lueret, in convpedibus aut in  neruo teneretur . . .ita nexi soluti, cautumque in pos-  teru/m ne necterentur." This law, the Lex Poetilia,  was evidently passed for the relief of nexi, and  relief was given by abolishing the use of compedes  et neruum. Now as this was the very description of  fetters given by the XII Tables in our text, it  seems certain that the language of the Lex Poetilia  referred to this clause of the Decemviral Code.  Hence it follows that the punishment provided by  this code was nexum, which is the view already  deduced from the words of the XII Tables them-  selves. The contrary interpretation, which is there-   1 PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28.     Digitized by Microsoft®     FURTHER RESTRICTIONS. 47   fore probably erroneous, has strong supporters in  Muirhead^ and Voigt^   But even though a iudicatum was thus necessary  in order to permit the nexal creditor to lead off his  debtor into custody, we may agree with Muirhead that  the preliminary manus iniectio was within the power  of the nexal creditor without any judicial proceed-  ings. The nexum being a public transaction, a debt  thereby contracted was so notorious as to justify  summary procedure. Before the XII Tables, when  self-help was subject to no regulations that we  can discover, this summary procedure could be  carried to all lengths in the way of severity and  cruelty. But when the XII Tables had interposed  the ductio in ius for the protection of nexal debtors,  no other precaution against injustice was needful,  and a preliminary trial before the manus iniectio  would have been so superfluous that we cannot  believe it to have ever been required.   The elaborate provisions for the punishment of  debtors did not end with the text which has come  down to us and which has been quoted above.  The substance, though not the actual wording, of  the remainder of the law has fortunately been  preserved by Gellius'. As far as our text goes,  the proceedings consist of (1) manus iniectio, the  arrest or seizure of the debtor by the creditor;  (2) ductio in ius, the bringing of the debtor into  court, that is, before the praetor or consid ; (3) iudi-  catum, a decree of the praetor recognising the  creditor's claim as just and the proceedings as  ' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52.     Digitized by Microsoft®     48 THE TWELVE TABLES.   properly taken. At this stage a uindex may step  in on the debtor's behalf. What was the exact  nature of his intervention we cannot know, but from  Festus' definition he seems to have been a friend of  the debtor, who denied the justice of his arrest and  stood up in his defence. By the XII Tables he had  to be of the same class as the debtor whom he  defended^ and if his assertions proved to be false he  was liable to a heavy fine^. If on the other hand  his defence was satisfactory to the Court, further  proceedings were doubtless stayed. But if no satis-  faction was given either by the uindex or by the  debtor, then (4) the creditor was entitled to lead  home his debtor in bondage, though not in slavery,  and to bind him with cords or with shackles of not  less than 15 lbs. weight. Meanwhile the law as-  sumed that the debtor would prefer to live upon his  own resources. This shows that a nexal debtor was  not always a bankrupt, and that it must often have  been the will and not the power to pay which was  wanting in his case. As there existed in those days  no means of attaching a man's property, the only  alternative was to attach his person. If however  the debtor was really a ruined man and could not  afford to support himself, the law bade the creditor  to feed him on the barest diet by giving him a pound  of corn a day, or more at the creditor's option.   Here our textual information leaves off and we   have to depend on Gellius' account. He says^   that this stage of domum duetto and uinctio lasted   sixty days, and that during that period a com-   ' Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex. ' xx. 1. 46.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO NEXAL PENALTY. 49   promise might be arranged which would stay further  proceedings. Meanwhile (5) on three successive  nundinae, or market-days, the debtor had to be  brought into the comitiuni before the praetor, and  there the amount of his debt was publicly pro-  claimed. This was a second precaution intended to  protect the debtor by giving thorough publicity to  the whole affair. At last (6) on the third market-  day, and at the expiration of the sixty days, the full  measure of punishment was meted out to the un-  fortunate delinquent: he was addictus^ by the praetor  to his creditor, and thus passed from temporary  detention into permanent slavery.   The extreme penalty is said by Gellius to have  been either death or foreign slavery, and the words  in which the former was enacted are given by him  as follows: Tertiis nvndinis partis secanto. Si   PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO. The   meaning of these words has been much disputed,  for ever since the beginning of the century many  attempts have been made to soften their literal  sense. We should a priori translate them thus :  " On the third market-day let the creditors cut up  and divide the debtor's body. If any should cut  more or less than his proper share, let him not  suffer on that account." That this is how the  ancients understood the passage, we know from the  testimony of Gellius, Quintilian^ and Tertullian^  But Gellius and Dio Cassius, though they had no  doubts as to the meaning of the law, both say that   1 Gell. XX. 1. 51. ^ Inst. or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4.   B. E. 4   Digitized by Microsoft®     50 THE TWELVE TABLES.   this barbarous practice of cutting a debtor in pieces  was never carried out, so far as they knew, even in  ancient times'. The law was therefore practically a  dead letter. Some commentators, whose views are  ably summed up by Muirhead'', make the most  of this admission, and hold that the interpretation  of "partis secanto" should be entirely different.  They regard the division of the debtor's body  between the creditors as too shocking a practice  to have ever existed at Rome, and they take  Secare to refer (as in the later phrase bonorwm sectio)  to a sale and division of the debtor's property.  In the event of his property being insuflScient  to cover the debt, the debtor would then, as  Gellius informs us, be sold into slavery "beyond  the Tiber." The objections to this theory have  been well pointed out by Niebuhr^. Not only is it  opposed to all the ancient authorities, who knew at  least the traditional meaning of the XII Tables as  handed down to them through many generations,  but it also conflicts with a well recognised principle  of early Law. That principle was that the goods of  a debtor were not responsible for his debts. His  person might be made to suffer, but his property  could not be touched. As we have seen, it was by  no means unusual for a nexal debtor to support  himself while in bondage. This can only be ex-  plained on the supposition that neither his property  nor his earnings were attachable by the creditor.  It is this exemption of property which accounts for '   > Gell. XX. 1. 52. Dio Cass, fragm. 17. 8.   2 R. Law, p. 208—9. ^ B. G. i. 630.     Digitized by Microsoft®     EXTREME PENALTY WAS DEATH. 51   the severity of the nexal penalties. Now a sale and  partition of the debtor's goods would have been  quite inconsistent with the whole system of personal  execution so plainly set before us in the rest of the  law, whereas the killing of the debtor was but a  fitting climax to his cruel fate. The inhumanity of  the proceeding is not likely to have been perceived by  men who tolerated such barbarities as the lex talionis  and the killing of a son by his paterfamilias. When  our classical authorities express their astonishment  at the cruelty of the law, we must remember that  they lived in a gentler age, in which the powers  even of the paterfamilias were much curtailed ; and  when they confess that they never knew of an  instance in which the law was literally executed, we  may discount their testimony by recollecting that  the nexal penalties of the XII Tables were abolished  centuries before they wrote.   Comparative jurisprudence furnishes another  argument in favour of accepting the literal sense of  the phrase "partis secanto." Kohler^ has collected  from different quarters various instances of customs  which closely correspond with this harsh treatment  of the Roman debtor. Unless therefore we dis-  regard analogy, probability, and the whole of the  classical evidence, we must clearly take the words  literally and understand that the creditor could  choose between selling his debtor into slavery  "beyond the Tiber," or putting him to death.  In the latter case, if there were more than one   ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp.   4—2  Digitized by Microsoft®     52 THE TWELVE TABLES.   creditor, they might cut up the body and each  carry off a piece.   III. There is a third clause of the XII Tables  in which neim/m. is mentioned, but it does not alter  the form of the contract. As far as we can make  out, it simply declares that certain persons mys-  teriously described as forcti et sanates shall have  an equal right to the advantages of neaymn\   IV. Lastly there is a clause of the XII Tables  intended to secure truthful testimony, that most  essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes-   TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI-  ATVR IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO. That is,   whoever had been testis or libripens at the perform-  ance of a nexum or mancipiwm was bound to give  his testimony as to the fact of the transaction  or as to its terms under penalty of permanent  disqualification. This passage goes to show what  we also gather from other authorities ^ that the  libripens was a mere witness and not as some  have supposed a public official. The phrase "qui  libripens fuerit" would imply that any citizen might  fill the position ; and since we find that the libripens  was treated like any other witness it seems clear  that he could not have been a public personage.   We are now able to understand the meaning of  Varro's remark : " liber qui suas operas in seruitutem  pro pecwnia quam debet dat dum solueret nexus  uocatur." This merely means that a man who  had contracted a neooum, if unable to repay the   ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364.  2 Gai. II. 107 ; Ulp. Eeg. xx. 7.     Digitized by Microsoft®     RESULTS OF LEGISLATION. 53   loan and therefore subject to an addictio, was  obliged to serve like a slave, and retained the  epithet of nexus till the debt was paid.   On the whole then the legislation of the XII  Tables produced two results:   (1) By increasing the importance of the verbal  part of the ceremony it increased the flexibility of  the contract, and eventually changed it from a real  into a symbolical transaction. The culminating  point of the change was reached when the money  constituting the loan was not weighed out, but  merely named in the nuncupatio, while the borrower  struck the scale-pan with a piece of copper.   (2) By fixing certain limits to the violence of  the creditor it softened the hardships endured by  the nexal debtor. Though the extreme penalty of  death was finally permitted, yet this could not be  inflicted till the debtor had had many opportunities  and ample time to clear himself   The formula of neooum having now acquired  great importance, its wording was doubtless soon  reduced to a definite shape running somewhat as  follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere aeneaque  libra dedi, eas tu 7nihi...post annum... cum semissario  foenore. . .dare damnas esto." This is the formula  adopted by Huschke^ and modified by Rudorff.  The words "damnas esto" appear to be wrongly  rejected by Voigt, who disregards the analogy of  the solutio though that seems our safest guide.   The formula of nsad solutio is given by Gaius^ as  follows, though Karlowa's reading differs consider-  1 Nexum, p. 49, etc. ^ iii. 174.   Digitized by Microsoft®     54 THE TWELVE TABLES.   ably from that of Huschke: "Quod ego tihi tot  mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te soluo  ' liberoque hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram  primam postremximque expendo secunduTn legem pvh-  licam."   Art. 3. The XII Tables did not, as far as we  know, contain any clauses affecting sponsio or dotis  dictio. The existence of those forms at such an  early period has to be inferred from other sources,  and we have seen that there is reason to assert  their great antiquity, which the silence of the  XII Tables cannot disprove. lusiurandum is known  to have been approved by the XII Tables', but to  what extent we cannot tell. We may therefore  at once proceed to examine one of the most impor-  tant innovations of the decemviral Code, namely  the contract which despite its ambiguous name is  known as the lex mancipi.   Art. 4. Lex mancipi. This form, as its  name indicates, was a covenant annexed to the  transaction known as mandpiMm (later as mMnd-  patio). Let us see first what mancipium was.  Ulpian^ says that it was the mode of transferring  property in res mancipi. Gains describes its use  shortly as a fictitious sale', "imaginaria uenditio,"  and states that it could only be performed between  Roman citizens, and applied only to res mancipi*.  He describes the ceremony thus : — The parties meet  in the presence of five witnesses and of a person  (called libripens), who holds a pair of scales. The   1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3.   8 I. 113. ■> I. 119-20.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF THE LEX MANCIPI. 55   object of the transfer Gaius supposes to be a  slave. The alienor remains passive, but the alienee,  grasping the slave, solemnly declares aloud that  he owns him by right of purchase ; then he strikes  the scales with a piece of copper, and hands the  piece to the alienor as a symbol of the price paid.  Such is our meagre evidence as to the nature  of mandpium. On this slender foundation of fact  a vast amount of controversial theory has been  heaped up. One certainty alone can be deduced  from the evidence, that Tnancipium was not origi-  nally a general mode of conveyance, as Gaius and  XJlpian found it in their day, but that it began  by being a genuine sale for cash, in which the price  paid by the alienee was weighed in the scales and  handed over to the alienor. The nuncupatio, or  declaration made by the alienee, was merely explana-  tory of his right of ownership, while the grasping of  the object by the alienee and the acceptance of the  price by the alienor were no doubt originally the  essential elements in the transfer. The words spoken  by the alienee probably had at first no more binding  effect than the words of the borrower in nexum. We  may be sure that in such a state of the law disputes  would often arise as to the terms of the sale. And  it was probably to prevent such disputes that the  XII Tables made their famous rule: CVM NExyM   FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA   IVS ESTO. The extraordinary emphasis (not nuncu-  passit but lingua mmcupassit) which is here laid on  the verbal part of the ceremony is very striking.  Bechmann rightly argues that it would be wrong to   Digitized by Microsoft®     56 THE TWELVE TABLES.   take this rule as referring only to the leges mandpi,  but it would seem that it was to the language as  ' distinct from the acts used in the ceremony that  the XII Tables meant to give force and validity.  The legal results which followed from seizing the  object of sale in the presence of witnesses, and  from weighing out the price to the seller, had  long since been thoroughly well recognised. What  the XII Tables now introduced was the recog-  nition of the oral statement which accompanied  those outward acts. We can hardly accept the  sense which Bechmann has given to these words^.  He notes the contrast between words and acts which  is implied in the phrase lingua nuncupassit, but he  thinks that the object of the rule was to reconcile  the language of the transaction with its real nature.  His view is based on the assumption that even  before the XII Tables mancipium had changed from  a genuine into a fictitious sale. In other words  he assumes that while the alienee professed to buy  the object with money weighed in the scales, he  really weighed no money, but simply handed to the  alienor a piece of copper, "quasi pretii loco." In  fact the imaginaria uenditio of classical times was,  according to Bechmann^, already in vogue. The  purpose of the XII Tables was therefore to confirm  this change, by declaring that the words and not the  acts of the parties should henceforth have legal  effect. It was as if this law said : " Pay no attention  to the acts of the alienee, but listen to his oral  statement. He merely delivers a piece of copper,  1 Kauf, I. p. 197. ■■' lb. p. 167.     Digitized by Microsoft®     CHANGES IN MANCIPIUM. 57   but do not imagine that this is the whole price due.  In his declaration, the alienee states that the price  is such and such. Let that be considered the real  price of the object, and let the outward ceremony be  regarded as a mere fiction." All this appears to be  a very far-fetched interpretation of lingua nuTwupassit,  and the assumption on which Bechmann has based  it seems unwarranted, for two reasons :   (1) We do not know that mancipium had  already turned into an imaginaria uenditio. There  is not one shred of evidence to prove that such a  change had occurred before the XII Tables. So far  indeed from preceding the XII Tables, the change  would seem to have been directly caused by them.  Until coin was introduced the weighing of the  purchase-money was clearly necessary. If, as there  is good reason to believe, coinage was first instituted  by the Decemvirs^, the actual weighing must have  continued till their time. If on the other hand we  suppose that coined money was a much older  institution (Cornelius Nepos de uir. ill. 7. 8. attri-  butes its invention to Seruius Tullius), so that the  actual weighing had long been dispensed with, man-  cipium could still not have been an imaginaria  uenditio, because   (2) We can imagine no way in which a sale on  credit could have been practised before the XII  Tables. How could a vendor have permitted his  property to be conveyed to a purchaser for a nominal  and fictitious price, when the nuncupatio was as yet  devoid of legal force ? After the uti lingua nuncu-  ' See above, p. 42.   Digitized by Microsoft®     58 THE TWELVE TABLES.   passit of the XII Tables the nuncupatio doubtless  specified the exact amount of the purchase-money,  and this the alienor might lawfully claim. Moreover  before the Decemviral reforms mancipium would  have transferred full ownership to the purchaser,  and the seller might have clamoured in vain for his  money, unless he had previously taken security by  means of vxidvmoniwm or sponsio. For since a well  known provision of the XII Tables' was that no  property should pass in things sold till the purchase-  money was either paid or secured, we are bound to  infer that before this the very reverse was the case/  and that property did pass even when the price had  not been paid. Such having been the early law,  how can we hold, as Bechmann does^, that the cash  payment of the purchase-money was frequently not  required, though the forms of weighing etc. were  carried out in the original manner ? He urges' that  credit, not cash, must often have been employed,  because we caimot reasonably suppose that cash  payment was possible in every case. But the force  of this argument is weakened by the fact that  mancipation was only practised to a limited extent.  Tradition was the most ordinary mode of transfer  employed in every-day life. And in a solemn affair  such as mancipium, where five witnesses and a  scale-holder had to be summoned before anything  could be done, it cannot have been a great hardship  for the purchaser to be obliged to bring his purchase-  money and weigh it on the spot. Instead of credit  purchases having been usual before the XII Tables,  1 2 Inst. 1. 41. , 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8.     Digitized by Microsoft®     STATUTOPY OEIGIN OP LEX MANCIPI. 59   it seems likely that the XII Tables virtually intro-  duced them. For by enacting that no property  should pass until the price was paid or secured to  the vendor, the Decemvirs made it possible for the  conveyance and the payment of the price to be  separately performed. Mancipium was thus made to  resemble in one respect a modern deed. The vendor  who has executed a deed, before receiving the  purchase-money, has a vendor's lien upon the  property for the amount of the price still owing to  him ; and similarly the mancipio dans who had not  received the full price, retained his ownership of the  property until that full price was paid to him, or  security given for its payment.   We may therefore reject Bechmann's idea that  the words lingua nuncupassit referred principally  to the fixing of price in the nuncupatio. They  simply gave legal force to the solemn oral state-  ment made in the course of mancipium. On the  one hand they bound the seller to abide by the  price named, and to deliver the object of sale in the  condition specified by the buyer. On the other  hand they compelled the buyer to pay the full  price stated in the nuncupatio, and to carry out all  such terms of the sale as were therein expressed.  In short, every lex mancipi embodied in the 7iun-  cupatio became henceforth a binding contract.   It is natural to inquire next what kind of   agreement might constitute a lex mancipi. The   nwncupatio placed by Gaius^ in the mouth of the   purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex iure   I 1. 119.   Digitized by Microsoft®     60 THE TWELVE TABLES.   Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc  aere aeneaqiie libra." To this might no doubt be  annexed various qualifications, and these were the  leges in question. Voigt' indeed considers that  these leges might contain every conceivable pro-  vision, but Bechmann seems to come nearer to the  truth in stating that no provision conflicting with  the original conception of mancipiwm as a sale for  cash could be inserted in the nuncupatio. For  instance, Papinian states that no suspensive con-  dition could be introduced into the formula of  mancipiwm^. The reason of this obviously was that  suspensive conditions are inconsistent with the  notion of a cash sale. The purchaser could not  take the object as his own and then qualify this  proceeding by a condition rendering the ownership  doubtful, A resolutive condition was also out of the  question, for when the mancipium had transferred  the ownership and the price was paid, it would have  been absurd to say that the occurrence of some  future event would rescind the sale. The transfer  was in theory instantaneous, so that future events  could not affect it.   The following then are a few cases in which the  lex mancipi could or could not be properly used:   (a) The creation of an usufruct by reservation  could be thus made', and the formula is given to us  by Paulus : " Emtus mihi esto pretio dedvxito usu-  frtijctu*."   (b) Property could thereby be warranted free   1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329.   3 Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. 50.     Digitized by Microsoft®     USES OF LEX MANCIPI. 61   from all servitudes by the addition to the nuncupatio  of the words "uti optimus matvimiisque sit^." The  means by which the vendor was punished if the  property failed to reach this standard of excellence  will be presently examined.   (c) The contents and description of landed  property might be inserted in the nuncupatio, and if  they were so inserted the vendor was bound to  furnish as much as was agreed upon. Failing this,  the deceived purchaser, so Paulus tells us^ could  bring against the vendor an actio de modo agri,  which entailed damages in duplum.   (d) The accessories of the thing sold, destined  to be passed by the same conveyance, would also  doubtless be mentioned.   (e) We might naturally have supposed that  the quality of slaves or of cattle could have been  described just as well as the content of an estate.  Cicero says : " cum ex XII Tabulis satis erat ea  praestari quue essent lingua nuncupata^," as though  descriptions of all kinds might be given in the  nuncupatio. Nevertheless Bechmann* has shown  that such was not the case, inasmuch as we find no  traces of any action grounded upon a false description  of quality. The only actions which we find to  protect mancipium are the actio auctoritatis and the  actio de modo agri. There is no authority for  supposing, as Voigt does^ that the actio de modo  agri was not a technical but a loose term used by  Paulus. According to Voigt, there was an action   1 18 Dig. 1. 59. ^ Sent. i. 19. 1. ^ Off. iii. 16. 65.   « Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. 120.     Digitized by Microsoft®     62 THE TWELVE TABLES.   (the name of which has perished) to enforce all the  terms of a nuncupatio of whatever kind. The so-  called actio de modo agri would then have been only  a variety of this general action. This theory is  inadmissible: for in making his solemn list of  the actiones in dztpZwm ^Paulus would hardly have  used the clumsy phrase actio de modo agri, if there  had been a comprehensive term including that  very thing. Consequently, the description of slaves  or cattle in the nuncwpatio does not seem to have  been in practice allowed. The greater protection  thus afforded to a purchaser of land than to one  of other res mancipi may probably be explained by  the fact that land was not and could not be con-  veyed inter praesentes, whereas oxen or slaves could  be brought to the scene of the mancipiwrn and their  purchaser could see exactly what he was buying.   (/) Provisions as to credit and payment  by instalment might also be embodied as leges in  the nwncupatio. This has been denied by Bechmann",  Keller', and Ihering', but their reasons seem far from  convincing. We may indeed fully admit their view  for the period prior to the XII Tables, since there  was then no coinage, and mancipium was an absolute  conveyance of ownership. But when coinage had  been introduced, when mancipium was capable of  transferring dominium only after payment of the  price, and when the oral part of mancipium had  received legal validity from the XII Tables, the  whole situation was changed.   1 Sent. I. 19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33.   •> Geist d. R. R., ii. 530.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF CREDIT IN MANCIPIUM. 63   If it be said that credit is inconsistent with the  notion of mancipium as an unconditional cash transac-  tion, we may reply that this exceptional lex was  clearly authorised by the XII Tables, since its use is  implied in the legislative change above mentioned'.  If it be urged that no action can be found to enforce  any such lex, the obvious answer is that no action  was needed, inasmuch as the ownership did not vest  in the vendee till the vendor's claims were satisfied,  and therefore if the vendee never paid at all the  vendor's simple remedy was to recover his property  by a rei uindicatio. Nor is there much force in the  argument that clauses providing for credit would  have been out of place in the nuncupatio because  inconsistent with the formula " Hanc rem meam esse  aio, mihique emta esto." On the one hand it is  probably a mistake to suppose that this fixed form  was always used, for the expression uti lingua  nuncupassit seems clearly to imply that the oral part  of mancipium and nexum was to be framed so as  best to express the intentions of the parties, and the  same conclusion may be drawn from the comparison  of the formulae of mancipatio given in Gains I On  the other hand, admitting that " hanc rem meam esse  aio, etc." was a necessary part of the nuncupatio, it  must have been used in mancipations made on  credit, which by the XII Tables could not convey  immediate ownership, and the existence of which in  classical times no one denies. We are forced then  to conclude either that "hanc rem meam esse aio"  was not the phrase used at a sale on credit, or else  1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '■' i. 119 and ii. 104.   Digitized by Microsoft®     64 THE TWELVE TABLES.   that it became so far a stereotyped form of words  that it could be used not only in its literal sense  but also as applying to credit transactions which the  Decemviral Code so clearly contemplated. It is  indeed inconceivable that if the price was, as every  one admits, specified in the mmcupatio, the terms of  payment should not have been specified also.   It is worth while to notice how the legal  conception of mandpium was indirectly altered by  the XII Tables. That very important clause which  prevented the transfer of ownership in things sold,  until a full equivalent was furnished by the vendee^,  had the effect of separating the two elements of  which mancipimn consisted. Delivery of the wares  and receipt of the price had at first been simul-  taneous ; they now could be effected singly. Thus  mancipium became a mere conveyance, and after a  while, as was natural, the notion of sale almost  completely disappeared, so that mancipium came to  be what it was in Gains' system, the universal mode  of alienating res mancipi.   The lex mancipi, as we have now considered it,  was an integral part of the formula of viancipium  which the vendee or alienee solemnly uttered.  Gains and Ulpian give us no hint that the vendor or  alienor played any part beyond receiving the price  fi:om the other party. But was this really so ?  Could the vendee have known how to word his  formula if the vendor had remained altogether  silent ? We have therefore to enquire next  (1) what share the vendor took in framing the   1 2 Inst. 1. 41.     Digitized by Microsoft®     THE vendor's dicta. 65   leges mancipi, and (2) how the lex mancipi was  enforced against him.   1. The part played by the vendor is denoted  in many passages of the Digest^ by the word  dicere. In others the word praedicere^ or commemo-  rare^ expresses the same idea, and we find that the  vendor sometimes made a written and sealed decla-  ration^. The object of such dicta was to describe  the property about to be sold^ and they necessarily  preceded the mancipium, or actual conveyance. They  were thus no part of the mancipatory ceremonial and  were quite distinct from the nuncupatio uttered by  the vendee, which explains their not being mentioned  by Gaius in his account of mancipatio^. It is to such  dicta that Cicero doubtless alludes', when he says  that by the XII Tables the vendor was bound to  furnish only "quae essent lingua nimcupata" but  that in course of time " a iureconsultis etiam reticen-  tiae poena est constituta." The reticentia here  mentioned was evidently not that of the vendee,  but was a concealment by the vendor of some defect  in the object which he wished to sell, and hence  this passage is useful as showing the contrast  between nuncupatio and dictu/m. The former might  repeat the statements contained in the latter, thus  turning them into true leges mancipi, and this ex-  plains the fact that lex mancipi (or in the Digest  lex uenditionis^), is sometimes used in the secondary   1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18 Dig. 1. 59.   2 19 Dig. 1. 21. fr. 1. » 19 Dig. 1. 41. * 19 Dig. 1. 13. fr. 6.  5 19 Dig. 1. 6. fr. 4. « i. 119.   =■ Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6.   B. E. 5,   Digitized by Microsoft®     6,6 THE TWELVE TABLES.   sense of the vendor's dictum, as well as with the  primary meaning of the vendee's nwncupatio. The  leges embodied in the nuncupatio were thus binding  on the vendor, whereas his dictum was at first of no  legal importance. But in course of time the dicta  Came also to be regulated, and though their terms  were not formal and were never required to be  identical with those of the nwncupatio, yet it was  essential that the vendor in making them should  not conceal any serious defects in the property. The  dictum itself produced no obligation ; that could only  be created by incorporating the dictum, into the nun-  cupatio. The only function of dictum seems to have  been to exempt the vendor from responsibility and  from all suspicion of fraud. This is well illustrated  by a case to which Cicero' refers, where Gratidianus  the vendor had failed to mention, " nominatim dicere  in lege mancipi " (here used in the secondary sense),  some defect in a house which he was selling, and  Cicero remarks that in his opinion Gratidianus was  bound to make up to the vendee any loss occasioned  by his silence. Bechmann^ questions whether the  action brought against Gratidianus was the ocii'o  eniti or the actio auotoritatis. But from the way in  which Cicero speaks, it seems almost certain that he  had been trying to bring a new breach of bona fides  under the operation of the actio emti, and had not been  pleading in a case of actio auctoritatis, which would  scarcely have been open to such freedom of inter-  pretation. We cannot therefore agree with Bech-  mann that dicta not embodied in the nv/ncupatio  1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257.     Digitized by Microsoft®     NVNCVPATIO AND DIOTIO DISTINGUISHED. 67   could be treated as nuncupata and made the ground  for an actio auctoritatis, though we know that in  later times they could be enforced by the actio emti.  The distinction between the formal nuncupata and  the informal dicta was never lost sight of, so far as  we can discover from any of our authorities, nor is  dictum ever said to have been actionable until long  after the actio emti was introduced. The matters  contained in the dicta of the vendor were descrip-  tions : (i) of fixtures or of property passing with an  estate', (ii) of servitudes to which an estate was  subject^, (iii) of servitudes enjoyed by the estate^. It  is noticeable that these are all mere statements of  fact and that they exactly agree with the definition  given by Ulpian*, who expressly excludes from dictum  the idea of a binding promise. Thus the distinction  between nuncujpatio and dictio may be briefly sum-  marized as follows :   Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas  dictio might appear in sales of res nee mancipi as well  as in mancipatory sales ^.   Nuncupatio was a solemn and binding formula;  dictio was formless and, until the introduction of the  actio emti, not binding.   Nuncupatio, as we have seen, did not touch  upon the quality of the thing sold, whereas dictio  might give, and eventually was bound to give, full  information on this point.   We must notice in conclusion what Bechmann   1 19 Big. 1. 26. = 21 Big. 2. 69. fr. 5.   3 Cio. Or. I. 39. 179. * 21 Big. 1. 19.   « 19 Big. 1. 6.   5—2   Digitized by Microsoft®     68 THE TWELVE TABLES.   has pointed out\ that lex, besides meaning a condi-  tion embodied in a sale or mancipation, signified  also a general statement of the terms of a sale or  hire. This sense occurs in Varro", Vitruvius', Cicero*  &c., and should be borne in mind, in order to avoid  confusion and to understand such passages correctly.   2. The methods by which the true leges nuneit-  patae could be enforced were two :   (a) Actio de modo agri. Of this we only know  that it aimed at recovering double damages from the  vendor who had inserted in the nuncupatio false state-  ments as to the acreage of the land conveyed^   (6) Actio auctoritatis (so called by modern civil-  ians'). This was an action to enforce auctoritas, an  obligation created by the XII Tables', whereby the  vendor who had executed a mancipatory conveyance  was bound to support the vendee against all persons  evicting him or claiming a paramount title. Auctor  apparently means one who supplies the want of legal  power in another, and thereby assists him to maintain  his rights. It is so used in tutela, of the guardian  who gives auctoritas to the legal acts of his ward.  In the present case, auctor means one who makes  good another man's claim of title by defending it;  and this explains why the obligation of auctoritas  varied in duration according to the nature of the  thing sold. Thus if the thing was a moveable (e.g.  an ox) the auctoritas of the vendor lasted only one  year, since the usucapio of the vendee made it un-   1 Eauf, I. p. 265. 2 £. ^ vi. 74. » i. 1. 10.   « Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190.   s Lenel, Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19. 54.   Digitized by Microsoft®     SOURCE OF AV0T0RITA8. 69   necessary after that time. But if the thing sold was  land, usucapio could not, by the XII Tables, take  place in less than two years, and the avctoritas was  prolonged accordingly ^ The penalty for an un-  successful assertion of auctoritas was a sum equal  to twice the price paid^. This shows that at the  date of the XII Tables, as we have seen, mancipium  was still a genuine sale and involved the payment  of the full cash price. The same conclusion may  be drawn from Paulus' express statement that unless  the purchase money had been received no auctoritas  was incurred. This last rule was a logical sequence  of the enactment that no property vested until  payment was fully made, since it was impossible  that the vendee should need the protection of an  auctor before he had himself acquired title.   The question has been much debated whether  this liability of a vendor to defend his purchaser's  title arose ipso iure out of the mancipation, or  whether it was the product of a special agreement.  The latter view is held by Karlowa^, and Ihering*,  but the weight of evidence against it seems to be  overwhelming^   (a) Paulus* expressly states that warranty of  title was given in sales of res nee maiicipi by the  stipulatio duplae, but existed ipso iure in sales by  mancipation.   (6) Varro' says that if a slave is not conveyed   1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3.   3 L. A. 75. * Geist des R. R. m. 540.   5 See Girard, in N. E. H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180.   6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R. ii. 10. 5.   Digitized by Microsoft®     70 THE TWELVE TABLES.   by mancipation, his purchaser's title should be  protected by means of a. stipulatio smvplae uel duplae,  thus implying that in cases of mancipation such a  step was unnecessary.   (c) In recommending forms for contracts of  sale, Varro advises the use of the stipulatio in sales  of res nee mancipi'^, but gives no such advice and  mentions no stipulatory warranty in the case of res  mancipi.   (d) We find that there were two ways in which  the vendor could escape the liability of aitctoritas;  either (i) he could refuse to mancipate^, or (ii) he  could have a merely nominal price inserted in the  nuncupatio (the real price being a matter of private  understanding between him and the vendee), so that  the penalty for failing to appear as auctor would be a  negligible quantity. This we actually find in a man-  cipatio HS nummo uno, of which an inscription has  preserved the terms' where the object in mentioning  so small a sum must have been to minimise the  poena dupli in case the purchaser M'as evicted. Both  these expedients to avoid liability are absolutely  fatal to the theory of a special nwncupdtio as the  source of auctoritas. In short from all this evidence  we must conclude that after the enactment of  the XII Tables mandpium contained an implied  warranty of the vendee's title.   The origin of the heavy penalty for failing to  uphold successfully a purchaser's title has also been  much debated. Bechmann'' attributes its severity to   1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3. S7.   » Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF PENALTY IN AYCTOBITAS. 71   a desire to punish the vendor who had suffered his  vendee to say "hanc rem meam esse aio," when he  knew that such was not the case. But this would  have been to punish the vendor for reticentia, which  was not done till much later times, as we know from  Cicero; and moreover as we cannot be sure that  the phrase " hanc rem meam esse aio " was invariably  used in mancipium^, this view of Bechmann's comes  too near to the theory of the nuncupative origin of  auctoritas, not to mention the fact that it fails to  explain why the penalty was duphmi instead of sim-  plum. The best theory is probably that of Ihering-,  who sees in the poena dupli a form of the penalty  for furtum nee manifestum. It may be true, as  Girard has pointed out', that the actio auctoritatis  was not an actio furti in every respect. The sale of  land to which the seller has no good title lacks the  great characteristic of furtum, that of being com-  mitted inuito domino, since the real owner of the land  may often be entirely ignorant of the transaction.  Still it is plaia that the conscious keeping and selling  of what one knows to be another man's property is  a kind of theft ; and, in that primitive condition of  the law, it may have been thought unnecessary to  impose different penalties on the hona fide vendor  whose trespass was unconscious, and on the vendor who  was intentionally fraudulent. This poena dupli can  hardly be explained as a poena infttiationis, for if  such, would not Paulus have been sure to mention  it among his other instances of the latter penalty* ?   i See above, p. 63. ^ Geist des R. R. in. 229.   ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. i. 19. 1.   Digitized by Microsoft®     72 THE TAVELVE TABLES.   Auctoritas had to be supplied by the vendor  whenever any third person, within the statutory  period of one or two years, attacked the ownership of  the vendee by a m uindicatio, or by a uindioatio  libertatis causa if the thing sold was a slave, or by  any other assertion of paramount title. Bechmann  seems to be right in holding that the warranty of  title also extended to all real servitudes enjoyed  by the property, and to any other accessiones which  had been incorporated in the nwncwpatio. To attack  the vendee's claim in that respect was to attack  a part of the res mancipata. Hence actio avctori-  tatis was the remedy mentioned above' in connection  with the true leges mancipi, and we may hold with  Bechmann and Girard" that the actio auctoritatis  and the actio de modo agri were the only available  methods of punishment for the non-fulfilment of a  lex mancipi.   How the vendor was brought into court as  aioctor is a question not easy to answer. But in  Cicero ° we find an action described as being in  auctorem praesentem, and apparently opening with  the formula : " Quando in iure te conspicio, quaero  anne fias auctor." The opening words do not lead us  to suppose that the vendor had been summoned, but  rather that he had casually come into court. This  formula was probably uttered by the judge*, in every  case of eviction, before the inauguration of the actio  avxytoritatis, in order to give the defendant an oppor-  tunity of answering and so of avoiding the charge.   ' See above p. 61. ^ loc. cit. p. 203.   3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26. < Lenel, Ed. Perp. p, 427.     Digitized by Microsoft®     FUNCTION OF THE AVOTOR. 73   If no answer was made to this question, the  vendor was held to have defaulted, and the vendee  might properly proceed to bring his actio auctori-  tatis for punitive damages. But supposing that the  ■aiictor duly appeared to defend his vendee, what  were his duties ? It is not probable that he took  the place of the vendee as defendant, because the  word auctor does not seem to imply this, and because  the vendor having conveyed away all his rights had  no longer any interest in the property. The most  probable solution seems to be that which regards  the auctor simply as an indispensable witness. In  the XII Tables we know^ what severe penalties were  laid upon a witness who did not appear, as well as  upon one who bore false testimony. Now an atictor  who appeared but failed to prove his case was  clearly a false witness, while one who failed to  appear was an absconding witness. This was pro-  bably an additional reason for the severe punishment  inflicted on the auctor by the XII Tables. Thus  "the ingenious supposition of Voigt'', that the vendor  cannot possibly have incurred so heavy a penalty by  mere silent acquiescence in the nuncupatio of the  vendee, and must therefore have made a nuncupatio  of his own in which he repeated the words used by  the vendee, seems to be purely gratuitous as well  as wholly unsupported by evidence.   The last question to be considered is this: did   •auctoritas apply solely to the warranty of things   alienated by mancipium, or did it also apply to   things alienated by in iure cessio ? An answer in   1 See above p. 52. » XII Taf. ii. 120.   Digitized by Microsoft®     74 THE TWELVE TABLES.   the broader sense is given by Huschke^ who cites  Gaius^ as proving that mancipatio and in iure  cessio had identical effects. But this is at best a  loose statement of Gaius', and cannot prevail against  the stronger evidence which goes to prove that  auctoritas was a feature peculiar to mancipmm^  Bekker' points out that in iure cessio cannot have  produced the obligation of auctoritas, because the in  iure cedcTis took no part in the proceedings beyond  making default, and could not therefore have made  deceptive representations rendering him in any way  responsible. In iure cessio must then have been  from its very nature a conveyance without war-  ranty, and Paulus confirms this inference by stating*  that the three requisites of auctoritas were (i) man-  cipatio, (ii) payment of the price, (iii) delivery of  the res.   We may then sum up the foregoing remarks by  defining lex mancipi and auctoritas as follows :   Lex mancipi in its primary meaning, was a  clause forming part of the mmcupatio spoken by the  vendee in the course of mancipiimi, and constituting  a binding contract. It might embody descriptions  of quantity, specifications of servitudes whether  active or passive, conditions as to payment, and any  other provisions not conflicting with the original  conception of mancipium as a cash sale.   In its secondary meaning, which we must care-  fully distinguish, it referred to the dicta made by  the vendor.   ' Nexum, p. 9. ^ li. 22.   s Akt. I. p. 33, note 10. * Sent. ii. 17. 1-3.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO FIDVOIA. 75   Thirdly, we even find it applied to the terms  of sale as a whole, including nuncupatio, dicta, and  any other private agreement between the parties  respecting the sale.   The two means of enforcing leos mancipi in the  first sense were actio de modo agri and actio auc-  toritatis.   Auctoritas was an implied warranty of title intro-  duced by the XII Tables into every mancipatory con-  veyance, subject to the condition precedent that the  vendee must have received the goods and paid the  price. If the vendee was evicted, his proper remedy  was the actio auctoritatis (most probably an instance  of legis actio Sacramento'^), the object of which was  to recover punitive damages of double the amount of  the price paid, and which could be brought against  the vendor within two years, if the object sold  was an immoveable, and within one year, if a  moveable.   Since the lew mancipi is often credited with a  still wider function, we are next brought to consider  the agreement known as fidticia.   Art. 5. FIDVCIA. This agreement is thought by  many scholars to have been a species of lex mancipi,  and consequently a creation of the XII Tables.  Among those who thus regard fiducia as an agree-  ment contained in the nuncupatio are Huschke^,  Voigt', Eudorfif* and Moyle'. The first writer of  any weight who disputed the correctness of this view   1 Girard, I.e. p. 207. ^ Nexum, pp. 76, 117.   s XII Taf. II. 477. * Z. fur EG. xi. 52.   5 App. 2 to his ed. of the Inst.   Digitized by Microsoft®     76 THE ITVEtVE TABLES.   was Ihering^, and he has now been followed by Bek-  ker", Bechmami', and Degenkolb*. The view held by  these writers would seem to be the only tenable one.  They assert that fiducia never was a part of manci-  pium, but was simply an ancillary agreement tacked  on to mancipium and couched in no specific form.  The arguments againsb the former theory are :   (1) That fiducia might exist in cases of in iure  cessio as well as in cases of mancipium. Now in  iure cessio gave no opportunity for the introduction  of nuncupative contract. How then could a nuncu-  patio containing a fiducia have been introduced  among the formalities of the uindicatio ?   (2) We know that the actio fiduciae was bonae  fidei, and ionae fidei actions were of comparatively  late introduction ; how then is this fact to be  reconciled with the theory which derives fiducia from  the nuncupatio of the XII Tables ? Voigt" states that  the actio fidiuiiae was but one form of the ordinary  action on a lex mxmcipi (it must be remembered  that he regards every lex mancipi as having been  actionable), but he gives no explanation of the  surprising fact that fiducia alone of all the species of  lex mancipi should have been provided with an actio  bonae fidei.   (3) If we admit, as we have done', that the  only actions based upon mancipium are the actio  auxitoritatis and the actio de modo agri, how can  the actio fiduciae be classed with either ?   1 Geist des R. R. ii. p. S56. = Akt. i. 124.   3 Kauf, i. p. 287. « Z. fur RG. ix. p. 171.   " XII Taf. II. p. 475. « supra, p. 68.     Digitized by Microsoft®     THE FWVOIAE INSTBVMBNTVM. 77   (4) The strongest piece of evidence which we  possess in favour of Ihering's theory has appeared  since he wrote. It consists of a bronze tablet in-  scribed with the terms of a pactum fiduciae^ which  Degenkolb" has carefully criticised and which seems  to be conclusive in favour of our view. It contains,  not a copy of the words used in mancipation, but a  report of the substance of a fiduciary transaction.  The mancipation is said to have taken place first,  fidi fiduciae causa, and then the terms of the fiducia  are said to have been arranged in a pactum conuen-  tum between the parties, Titius and Baianus. It is  evident from the language of the tablet that this  fiduciary compact was independent of the mancipatio  and informally expressed, so that any attempt, such as  those made by Huschke and Rudorff, to reconstruct  the formula of fiducia, and to fit such a formula into  the nuncupatio of mancipium, is necessarily futile.  Voigt' has even taken pains to give us the language  used in the arbitrimn by which, according to him,  fiducia was enforced. This bold restoration is a good  instance of Voigt's method of supplementing history,  but it cannot be said materially to advance our  knowledge.   We are nowhere told that fiducia could not be  applied to cases of traditio, and a priori there  is no reason why this should not have been the  case. Yet all our instances of its use connect it  solely with mancipatio or in iure cessio*, and all the   1 Printed in C. I. L. No. 5042 and Bruns, Font. p. 251.   2 Z. filr EG. IX. pp. 117—179. '' XII Taf. ii. p. 480.   * Isid. Orig. v. 25. 23 ; Gai. ii. 59 ; Boeth. ad Gic. Top. iv. 10, 41.     Digitized by Microsoft®     78 THE TWELVE TABLES.   modem authorities, except Muther', are agreed in  thus limiting its scope. If indeed we could extend  fiducia to cases of traditio, it would be very hard to  see why there should not have been a contractibs  fiduciae as well as a contraxitus cotnmodati, depositi or  pignoris. We know from Gains' that fiducia was  often practised with exactly the same purpose as  pignut or depositum, and we may reasonably infer  that it was the presence of mancipaiio or in iure  cessio which caused the transaction to be described,  not as pigrms or depositum, but as fiducia. If we  admit that fiducia was never connected with traditio,  we can readily see why it never became a distinct  contract. Bechmann' points out that in iure cessio  or mancipatio was naturally regarded as the prin-  cipal feature in such transactions as adoptions,  emancipations, coemtiones, etc. The solemn transfer  of ownership was in all these cases so prominent,  that fiducia was always regarded as a mere pactum  adiectum.   If then we cannot admit fiducia to any higher  rank than that of a formless pactum, it follows that  the actio fiduciae, being borme fidei, and therefore  most unlikely to have existed at the period of the  XII Tables, must have originated many years later  than fidvMa itself, which as a modification of  mancipatio probably dated from remote antiquity;  This may serve as an excuse for discussing ^tfcia in  this place, although the XII Tables do not actually  mention it. But it must have existed soon after  that legislation, since it was the only mode of accom-   1 Sequestration, p. 337. " ii. 60. s Kauf, i. p. 293.     Digitized by Microsoft®     ARGUMENT FROM VSVBECEPTIO. 79   plishing the emancipation of a filiusfamilias as based  upon the XII Tables.   The theory that fiducia originated long before  the actio fiduciae is corroborated by the account  which Gaius gives' of the peculiar form of usucapio  called usureceptio. This was the method by which  the former owner of property which had been man-  cipated or ceded by him subject to a fiducia could  recover his ownership by one year's uninterrupted  possession. It diflfered from ordinary usucapio only  in the fact that the trespass was deliberate, and that  immoveable as well as moveable things could be thus  reacquired in one year instead of in two. This  peculiarity as to the time involved may perhaps be  explained by supposing that the objects of fiducia  were originally persons and therefore res mobiles, or  else consisted of whole estates which, like hereditates,  would rank in the interpretation of the XII Tables as  ceterae res. Now ii fiducia had been incorporated, as  some think, in the formula oi mancipium, and had been  actionable by means of an actio fiduciae based on the  lex mancipi, could not the owner have recovered the  value of his property by bringing this action, instead  of having been forced to abide the tedious and doubtful  result of a whole year's possession ? The fact noted  by Gaius that where no money was paid no usureceptio  was necessary, simply follows from the well-known rule  that an in iure cedens as well as a mancipio dans did  not lose his dominium until the price had been fully  paid to him. We may therefore conclude that man-  cipatio fiduciae causa resembled in its effect any  1 II. 59-60.     Digitized by Microsoft®     80 THE TWELVE TABLES.   other mancipatio. If this be the case, then fduda,  as we have already said, must for many years have  been an informal and non-actionable pactum, sup-  ported by fides and by nothing else. Bechmann  holds that' the object of the fiduciary mancipation  was expressed in the nuncupatio by the insertion of  the words fidi fiduciae causa, but this is a minor  point which it is impossible to determine with  certainty.   Fiducia then may be briefly described as a  formless pactum, adiectwm, annexed to Tmrndpatio or  in iure cessio, but not originally enforceable by action,  and therefore having no claim at this early date to  be considered as a contract.   Art. 6. VADIMONIVM is a contract which we  know to have been mentioned and perhaps intro-  duced by the XII Tables^. Gellius, however, speaks  of the ancient uades' as having completely passed  away in his time, so that in the opinion of Karlowa*  we can scarcely hope to discover the original form  of the institution. The most thorough inquiry into  the question is that made by Voigt', who has treated  the authorities and sources with the minutest care,  but whose conclusions do not always seem to be well  founded.   Let us first examine the essence of the trans-  action, a point as to which there is no doubt.  Vas meant a surety, and uadimonium the contract  by which the surety bound himself. Thus uadem   1 Kauf, I. p. 294. " Gell. xvi. 10. 8.   » ibid. * L.A. p. 324.   ^ Phil. Hist. Abhandl. der k. S. Ges. d. Wiss. viii. 299.     Digitized by Microsoft®     NATURE OF VADIMOS'irM. 81   poscere^ meant to require a surety, vadem dare to  provide a surety, uadem accipere to take a man  as surety for another man^, and uadari either to give  surety or to be a surety*. From the point of view  of the principal (uadimonium dans) uadimonium  sistere meant to appear in due course ^ uadimonium  deserere, to make default, while uadivionium differre  meant to postpone the obligation which the ims had  undertaken. The penalty for nonperformance was  the payment (depen^io) by the uas of the sum pro-  mised by his principal, who however was bound to  repay him**. There might be more than one uas,  and Voigt is probably right in stating that the  svbuas was a surety for the performance of the  obligation by the original uas''.   There were two kinds of luidimonium, (i) that  which secured the performance of some contract';  (ii) that which secured the appearance of the party  in court, =bail'. Under the first of these heads  Voigt places the satisdatio secundum mancipium  which is found in the Baetic Fiduciae Instrumentumi  as well as in Cicero", but whether or not this satis-  datio was given in the form of a uadimonium must  remain undetermined ; though, if it had been so  given, we might perhaps have expected Cicero to  use the technical phrase.   1 Cio. Rep. II. 36. 61; Var. L. L. vi. 8. 74.   ' Cio. Fin. ii. 24. 79. ^ Cic. Brut. i. 18. 3.   " Prise. Gram. i. 820. ^ Cic. Quint. 8. 29.   6 Cic. ad Brut. i. 18. 3. ; Plaut. Bud. 3. 4. 72.   ' I. c. p. 307. ^ Varro, L. L. vi. 7. 71.   » Cio. Off. IV. 10. 45. " ad Att. v. 1. 2.   B. E. 6   Digitized by Microsoft®     82 " THE TWELVE TABLES.   Next comes the question, in what form was  uadimonium origiQally made ?   The verbal nature of the primitive contract seems  to be proved by the passages that Voigt quotes^  while he also completely denrolishes the old view  which regarded uadimonium as having always been  a kind of stipulation, and points out Varro's^ ex-  press statement that uas and sponsor were not the  same thing. On the other hand it is plain that  uadimonium had come by Cicero's time to denote  a mere variety of the stipulation, a fact which may  be gathered from his language' and that of Varro*,  as well as from the frequent use of promittere in  passages describiag the contract. The later aspect  of uadimonium, need not however detain us, and  we may occupy ourselves solely with its primitive  form.   (a) Leist seems to think that both uadi-  monium and praediatura were binding, like the  spon^sio, in virtue of a sacred " word-pledge," or in  other words that " Vas sum" " Praes swm'' had a  formal value analogous to that of " Spondeo." This  view he bases on the etymology of vms, praes and  their cognates in the Aryan languages, but an ex-  amination of Pott^ Curtius' and Dernburg' serves  to show how entirely obscure that etymology is. If  we cannot be sure whether uas is derived from fari,   1 Gic. ad Qu. fr. ii. 15. 3. ; Ovid, Am. i. 12. 23 : uadimmia  garrula; etc.   a L. L. VI. 7. 71. 3 Q„int. 7. 29. * loc. cit.   6 Etymol. Forsch. iv. p. 612. « Civ. Stud. iv. 188.   ' Pfdr. I. 27..     Digitized by Microsoft®     PRIMITIVE FOEM OF VADIMONIVM. 83   to speak, uadere, to go, or from an Indo-Germanic  root meaning to bind, it is clearly impossible to  build any theory on so iasecure a foundation. More-  over, whatever the true etymology of uas may  ultimately be proved to be, we can find in the above  derivations no suggestion of a binding religious  significance such as we discover in sponsio.   (b) Voigt boldly assumes a knowledge of the  ancient ceremony, and assigns- to the iwtdimonium  connected with the sale of a farm the following  formula : " Ilium fundum qua de re agitur tihi habere  recte licere, haec sic recte fieri, et si ita faMum non  erit, turn x aeris tihi dare promitto." This is not  only purely imaginary, like many of Voigt 's recon-  structed formulae, but the unilateral form in which  it is expressed has no justification from historical  sources. The scope of promittis? promitto in a  stipulation is well established, but how can pro-  mitto in an unilateral declaration have had any  binding effect ? Voigt justifies his view by a com-  parison with dotis dictio and iurata operarum pro-  missio'^, but in both of these there was, as we have  seen, a binding power behind the verbal declaration.  The word promitto alone could never have produced  the desired effect, unless we admit the principle laid  down by Voigt^ that an unilateral promise was suffi-  cient to create a binding obligation, which is merely  to beg the question. If indeed we take promittere in  its ordinary sense, we cannot doubt that uadimonium  in Cicero's time was contracted by sponsio or stipu-   1 loc. cit. p. 315. ' lusNat. in. 178.   6—2   Digitized by Microsoft®     84 THE TWELVE TABLES.   latio, but on the other hand it is equally certain that  the ancient uadimonium, whatever it was, disappeared  soon after the Lex Aebutia.   The old form known to the Decemvirs cannot  then be stated with the absolute certainty which  Voigt seems to assume, but we may hazard one  theory as to its nature which appears not im-  probable, or at least far less so than that of an  unilateral promissio. Gains' tells us that there  were several ways of making uadimonia, and that  one of them was the ancient method of iusiurandwm.  That this was an exceptional method is proved by  our rarely finding it in use^ and its adoption is  almost inconceivable, except in the earliest times  when the oath was fairly common as a mode of  contract. We may be sure that the old uadimonium  was embodied in some particular form of words, else  it is hard to imagine how the penalty could have  been specified. But if so, and if we exclude sponsio,  as we are bound to do, what form of words could  have had such binding force as an oath ? The rarity  of this oath in Gellius' time may have induced him  to state that it had quite disappeared', while Gaius  may have mentioned it in order to make his list  of vadimonia complete.   Further, on examining the remedies for a breach  of iitsiurandum*, we find that self-help was resorted  to, just as it was in cases of neooum. And when  self-help began to be restrained by law, the natural     ' IV. 185. 2 e.g. 2 Dig. 8. 16.   3 See above p. 32. « See above p. 11.     Digitized by Microsoft®     POSSIBLE USE OF IV8IVRANDVU. 85   substitute would have been manus iniectio. Now  there is good reason to believe that the early  iwbdimonium was enforced by the legis actio per  maniis iniectionem'^, and as Karlowa rightly says^, we  cannot imagine such a severe penalty to have been  entailed by an ordinary sponsio. lusiurandum, on  the contrary, may easily have had this peculiarity,  since it is the only form of verbal contract which  we know to have been protected by means of self-  help.   Again, nanus iniectio seems to have been employed  not only by the principal against the uas, but also  by the uas against the principal. When Gaius states  that sponsores were authorized by a Lex Puhlilia  to proceed by manus iniectio against a principal  on whose behalf they had spent money (depensum),  he seems to show that facts and circumstances  were sometimes recognized as a source of legal  obligation. But we are bound to reject this ex-  planation, since no obligation ex re was recognized  until much later in the Roman jurisprudence. It  is far more likely that, as Muirhead suggests^, the  Lex Puhlilia merely extended to sponsores the  remedy already available to nodes; so that sponsio  became armed with the manus iniectio simply on  the analogy of its older brother uadimonium. The  theory here put forward as to the early form of  uadim.oniu/ni must remain a pure conjecture in the  absence of positive evidence; but its connection  with iusiurandum is at least a possibility.   1 Karlowa, L. A. p. 325 : Voigt, XII Taf. ii. 495.   2 L. A. p. 324. 3 R. L. p. 166.   Digitized by Microsoft®     86 THE TWELVE TABLES.   This vexed question may then be summed up as  follows :   (i) In the legal system of the XII Tables  uadimonium was a contract of suretyship, possibly  entered into by iusiurandwm, and probably entailing  manus iniectio, (a) if the surety (uas) failed to fulfil  his obligation, or (b) if the principal (uadimonium  dans) failed to refund to his surety any money  expended on his behalf   (ii) In later times uadimonium was clothed  in the ordinary sponsio and its old form had  completely disappeared.   Art. 7. There are a few other fragmentary  provisions in the XII Tables, which relate to  contracts and require a brief notice.   I. Paulus^ speaks of an actio in duplimi as  given by the XII Tables ex causa depositi. This  cannot have had any connection with the actio  depositi of the Institutes and Digest, for the latter  was an invention of the Praetor {honoraria), and  therefore could not have appeared till towards the  end of the Kepublic, while its usual penalty was  simplum, not duplum. Voigt explains^ this action  of the XII Tables as an instance of actio fduciae  based upon a fiducia cvrni amico. But we cannot  admit that fiducia at such an early period was  actionable at all', and still less can we base on  Voigt's assumption the further theory that every  breach of fiducia must have had a penalty of du-  plum annexed to it. The conjecture made by   1 Sent. II. 12. n. ^ XII. Taf. ii. 4. 79.   ' See above, page 78.     Digitized by Microsoft®     ACTIO EX CAV8A DEPOSIT!. 87   Ubbelohde' that the actio ex causa depositi of the  XII Tables was an actio de perfidia seems still more  rash than that of Voigt, and has deservedly met with  but little favour.   There are two points to be noted in this state-  ment of Paulus :   (i) He states that the action was ex causa  depositi: he does not call it actio depositi.   (ii) He does not say how the depositum was  made, but implies that it might be made by traditio  as well as by Tnancipatio, which also goes against  Voigt 's theory.   It was an ancient rule^ that if a man used the  property of another in a manner of which that other  did not approve, he was guilty of common theft, and  was punishable in duplum like any other fur nee  manifestus. It seems therefore quite reasonable  to suppose that the XII Tables mentioned this  kind o{ furtumi as arising ex causa depositi. If so,  the penalty of duplum mentioned by Paulus is no  mystery. It was merely the ordinary penalty as-  signed to furtum nee manifestum, and depositum as  a contract had nothing to do with it. Hence this  actio ex causa depositi does not properly belong to  our subject at all.   II. Gaius° says that by the pignoris capio of,  the XII Tables (a) the vendor of an animal to be'  used for sacrifice could recover its value if the  purchaser refused to pay the price, and (6) a man  who had let a beast of burden in order to raise  money for a sacrifice could recover the amount of   1 Gesch. der ben. R. G. p. 22. ^ gai. iii. 196. » iv. 28.     Digitized by Microsoft®     88 THE TWELVE TABLES.   the hire. Hardly anything is known of the legis  actio per pignoris capionem, but it was evidently  some proceeding in the nature of a distress, through  which the injured party could make good his claim  by seizing the property of the delinquent. The  only points in which this passage of Gains is in-  structive are these. First, we are here shewn what  were evidently exceptional instances of the legal  liability of a man's property, as distinguished from  his person, for his breaches of agreement. Secondly,  we here have conclusive proof that the consensual  contracts of sale and hire were unknown at the  period of the XII Tables : these two special in-  stances in which the contracts were first recognised  were both of a religious nature, and the makers of  the XII Tables do not seem to have dreamt that  other kinds of sale or hire needed the least protec-  tion. Thus for many years to come the most  ordinary agreements of every-day life, such as hire,  sale or pledge, were completely formless, depended  solely on the honesty of the men who made them,  and were not therefore, properly speaking, contracts  at all. The principle of the old Roman law that  neither consent nor conduct could create an obliga-  tion ex contractu, but that every contract must be  clothed in a solemn form, appears in the fullest  force throughout the XII Tables.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER IV.   THE DEVELOPMENT OF CONTRACT.   At the threshold of a new period we may pause  to review briefly the ground already covered, and to  observe the very different aspect of our future field  of inquiry.   We find the legal system of the XII Tables to  have possessed five distinct forms of contract,  iusiurandum (including uadimonium ?), sponsio, dotis  dictio, neooum, and leoc mancipi. But though the  list sounds imposing enough, these forms were still  primitive and subject to many serious limitations :   (i) Roman citizens only were capable of using  them, and hence they were useless for purposes of  foreign trade.   (ii) They all alike required the presence of  the contracting parties, and were therefore available  only to persons living in or near Rome.   (iii) They all required the use of certain formal  words or acts, so that, if the prescribed formula or  action was not strictly performed, the intended  contract was a nullity.   (iv) The remedies for a breach of contract,  except in the case of nexum and lex mancipi, were  probably of the vaguest description, and may have  consisted only of self-help carried out under certain  pontifical regulations.     Digitized by Microsoft®     90 THE DEVELOPMENT OF CONTRACT.   A system with so many flaws was plainly  incapable of meeting the many needs which grew  out of immense conquests and rapidly extending  trade. Accordingly by the end of the Republic we  find that the law of contract had wholly freed itself  from every one of these four defects :   (i) Contracts had been introduced in which  aliens as well as Romans could take part.   (ii) Means had been devised for making con-  tracts at a distance.   (iii) Forms had by degrees been relaxed or  abolished.   (iv) Remedies had been introduced by which."  not only the old contracts but all the many new.  ones were made completely actionable.   The question now before us is: how had this  wonderful development been achieved ?   It is customary in histories of Roman Law to  subdivide the period from the XII Tables to the  end of the Republic into two epochs, the one before  the Lex Aebutia, the other subsequent to that law.  The reason for this subdivision is that the Lea:  Aebutia is supposed to have abolished the legis  actio procedure and to have introduced the so-called  formulary system, which enabled the Praetors to  create new forms of contract by promulgating  in their Edict new forms of action.   Such a division doubtless has the merit of giving  interest and definiteness to our history, but it has two  great drawbacks : First, that we do not know what  the Lex Aebutia did or did not abolish ; and secondly,  that its date is impossible to determine.     Digitized by Microsoft®     OBSCURITY OF LEX AEBVTIA. 91   As to its provisions, the two passages in which  the law is mentioned by Gains ^ and Gellius''' merely  prove that the legis actio system of procedure and  various other ancient forms had become obsolete as  a result of the Lex Aebutia. But that these were  not suddenly abolished is proved by the well-known  fact that Plautus and Cicero refer more often to the  procedure by legis actiones than they do to that per  formulas. The most plausible theory seems to be  that which regards the Lex Aebutia as having  merely authorized the Praetors and Aediles to  publish new formulae ia their annual Edicts. But  even this is nothing more than a conjecture.   The date of the Lex Aebutia (probably later than  A. V. C. 500) is also involved in obscurity, as is proved  by the fact that scarcely two writers agree upon the  question".   It seems clear that a law about which so  little is known is no proper landmark. The plan  here adopted will therefore be a different one. We  shall content ourselves with a detailed examination  of each of the kinds of contracts which we know  to have existed at Rome between the XII Tables  and the beginning of the Empire, treating in a  separate section of each contract and its history  down to the end of the period. By this means  we may avoid confusion and repetition, though the  period in hand, extending as it does over nearly five  hundred years, is perhaps inconveniently large to  be thus treated as a whole.   1 IV. 30. ' XVI. 10. 8.   ' A. V. c, 584 according to Poste and Moyle ; 513 aecording  to Voigt ; 507 according to Muirhead ; etc.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER V.   FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   Art. 1. Nexvm. The severity and unpopu-  larity of nexum did not prevent its continuance for  at least one hundred years after the modifications  made in it by the XII Tables. Its character  remained unchanged, until at last the Roman  people could suffer it no longer. In A. v. c. 428'  a certain nesous was so badly treated by his credi-  tor that a reform was loudly demanded. The Lex  Poetilia Papiria was the outcome of this agitation.  Cicero', Livy' and Varro* have each given a short  account of the famous law, and from these it  may be gathered that its chief provisions were as  follows :   (i) That fetters should ia future be used only  upon criminals.   (ii) That all insolvent debtors in actual bondage  who could swear that they had done their best to  meet the claims of their creditors °, should be set  free.   1 According to Liyy, but Dionysius makes it 452.   2 Bep. II, 30. 40. 59. s viii. 28. * L. L. vii. 5. 101.  ' Next qui bonam copiam iurarent : cf. Lex lul. Mun. 113,     Digitized by Microsoft®     LEX POETILIA PAPIRIA. 93   (iii) That no one should again be neccus for  borrowed money, i.e. that manus iniectio and the  other ipso iure consequences of nescum should  henceforth cease.   Varro is the one writer who mentions the  qualification that it was only nexi qui honam copiam  iurarent who were set free. But Cicero and Livy  may well have thought this an unnecessary detail,  considering what an immense improvement had  been made by the statute in the condition of all  future borrowers. A clause of the Lex Coloniae luliae  Genetiuae^ shows that imprisonment for debt was  still permitted, but that the effects of ductio were  much softened, the uinctio neruo ant compedibus  and the capital punishment being abolished along  with the addictio. But diici inhere was still within  the power of the magistrate^, and Karlowa" seems to  be right in holding that this was not a new kind of  ductio originating subsequently to the Lecc Poetilia.  The Praetor doubtless always had the power to  order that a iudicatus should be taken and kept in  bonds. But this was a very different thing from  the utterly abject fate of the nexus under the XII  Tables. It was only therefore the special severities  consequent upon nexum that can have been abolished  by the Lex Poetilia. Nexum itself was not abro-  gated, for the way in which later authors speak of it  shows that there still survived, if only in theory, a  form bearing that name and creating an obligation.  But as soon as its summary remedies were taken   1 cap. 61; Bruna, Font. p. 119.   2 Lex Bubr. cap. 21 ; Bruns, Font. p. 98. ^ L. A. p. 165.     Digitized by Microsoft®     94 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   away, neocum became less popular as a mode of  contract and gave way to the more simple obligatio  uerbis. Another reason for its being disused, wlien  it no longer had the advantage of entailing capital  punishment, was that the introduction and wide-  spread use of coinage made the use of scales  unnecessary. Stipulatio, which required no acces-  sories and no witnesses, was now the easiest mode  of contracting a money loan. We shall see in the  next section that it came to have still further  points of superiority, and thus it was certain to  supersede newum, when neoswii ceased to have  special terrors for the delinquent debtor.   The solutio per aes et libram which we find in  Gaius, as a survival of solutio nesd, was not  the release of nexii/m, but the similar release used  for discharging a legacy per darrmationem or a  judgment debt. Its continued existence is no proof  that neam/rn survived along with it, for in later days  it had nothing to do with the release of borrowed  money. But though nexum proper certainly died  out before the Empire, we have seen' how the  meaning of the word became more vague and com-  prehensive. By the end of the Republic we find  neocum used to describe essentially different trans-  actions, and simply denoting any negotiwm per aes  et libram.   Art. 2. Sponsio and stipvlatio. The origin and   early history of sponsio have already been considered.   There is no authority for Bekker's opinion that sponsio   was enforceable before the XII Tables by the legis   1 See above p. 24.     Digitized by Microsoft®     THREE USES OF SPOHiSIO. 95   actio Sacramento^, nor do we know that it gave  rise to any action, but notwithstanding this fact we  have seen good reason for concluding that it existed  at Rome from the earliest times. As we found that  its origin was religious, and as the XII Tables do  not mention it, we may regard the remedies for a  breach of sponsio as having been regulated by  pontifical law, down to the time when condictiones  were introduced. In the law of this last period  sponsio appears in three capacities :   (1) As a general form of contract adapted to  every conceivable kind of transaction.   (2) As a form much used in the law of pro-  cedure.   (3) As a mode of contracting suretyship.   Its binding force was the same in all these three  adaptations, but its history was in each case different.  Thus sponsio was used as a general form of contract  down to the time of Justinian, though it had then  long since disappeared as a form of suretyship. And  there were statutes affecting the sponsio of surety-  ship which had nothing to do with the sponsio of  contract or of procedure. It will therefore be con-  venient to treat, under three distinct heads, of the  three uses to which sponsio became adapted, remem-  bering always that in form, though not in all its  remedies, it was one and the same institution.   I. Sponsio as a general form of contract.   We have seen that the form of sponsio consisted  of a question put by the promisee and answered  by the promisor, each of whom had to use the   1 AU.i. p. 147.     Digitized by Microsoft®     96 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   word spondere. For example : Qu. : " Sponden ticam  gnatam filio uxorem meo ? " Ans. : " Spondeo^." Qu. :  "Centum dari spondes?" Ans.: " Spondeo^." This  form was available only to Roman citizens. But  there subsequently came into existence a kindred  form called stipulatio, which could be used by  aliens also, and could be expressed in any terms  whatsoever, provided the meaning was made clear  and the question and answer corresponded.   The connection between sponsio and stipulatio  is the first question which confronts us. There is no  doubt that sponsio was the older form of the two,  because (i) it alone required the use of the formal  word spondere, (ii) it was strictly iuris ciuilis, where-  as stipulatio was iuris gentium^, and (iii) it had to be  expressed in the present tense (e.g. dari spondes?)  whereas stipulatio admitted of the future tense (e.g.  dabis ? fades ?), which Ihering^ has shown to be a  sign of later date. Since the rise of the tits gentivm,  was certainly subsequent to the XII Tables, we are  justified in ascribing to the stipulatio a comparatively  late origin, though the precise date cannot be fixed  with certainty.   Though stipulatio was a younger and a simpli-  fied form, yet it is always treated by the classical  jurists as practically identical with sponsio. Both  were verbal contracts ex interrogatione et responsione,  and their rules were so similar that it would have  been waste of time and useless repetition to discuss  them separately.   1 Varro, L. L. vi. 7. 70. ^ Qaius in. 92.   3 Gaius loc. cit. * Geist d. B. B. ii. 634.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF 8TIPVLATI0. 97   The derivation of stipulatio has been variously  given. Isidorus^ derived it from stipula, a straw ;  Paulus Diaconus^ and Varro" from stips, a coin;  and the jurist Paulus*, followed by the Institutes,  from stipulus, firm. The latter derivation is doubt-  less the correct one^ but it does not help us much.  What we wish to know is the process by which a  certain form of words came to be binding, so that  it was distinctively termed stipulatio, the firm trans-  action. Now if we conclude, as Voigt does', that  the stipulatio and the sponsio were both imported  from Latium, their marked difference with respect  to name, age and form must remain a mystery.  Whereas we may solve, or rather avoid, this diffi-  culty by acknowledging that sponsio was the parent  of stipulatio, and that the latter was but a further  stage in the simplification of sponsio which had  been steadily going on since the earliest times.  We have already reviewed the three stages through  which sponsio seems to have passed. Stipulatio in  all probability represents a fourth and wider stage  of development. The binding force of a promise  by question and answer, apart from any religious  form, at last came to be realized after centuries of  use', and as soon as the promise became more  conspicuous than the formal use of a sacred word,  the word spondere was naturally dropped, and with   1 Orig. 5. 24. - s. u. Stipem.   3 L. L. VI. 7. 69-72. * Sent. v. 7. 1.   ^ See Ihering, Geist ii. § 46, note 747, who compares the  German Stab, Stift, bestatigen, bestiindig.   6 lus Nat. II. 238. '' Ihering, Geist ii. p. 585.   B. E. 7     Digitized by Microsoft®     98 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   it fell away the once descriptive name sponsio, to  make way for that of stipulatio, now a more correct  term for the transaction. Thenceforward, as a matter  of course, stipulatio became the generic name, while  sponsio was used to denote only the special form spon-  desne? spondeo.   The precise date of the final change is a matter  of guess-work. But as stipulatio was the form avail-  able to aliens^ it was probably the influx of strangers  which made the Romans perceive that their old  word spondere, only available to Roman citizens,  was inconvenient and superfluous. Unless contracts  with aliens had become fairly common, the need of  the untrammelled stipulatio would hardly have been  felt. Therefore it seems no rash conjecture to suppose  that the stipulatio was flrst used between Romans  and aliens, and first introduced about A.V.C. 512*,  the date generally assigned to the creation of the  new Praetor qui inter peregrinos ius dicebat.   As to the form of the stipulatio :   (a) Ihering* and Christiansen* have expressed  the opinion that originally the promisor did not  merely say spondeo, faciam, daho, etc., as in most of  the known instances, but repeated word for word all  the terms of the promise as expressed in the question  put by the promisee. This view is based upon the  passages in Gaius^ and the Digest*, which lay great  stress upon the minute correspondence necessary  between the question and the answer in a vaHd   ' Gai. III. 93. 2 Liu ^^j-^ ^ix.   » Geist II. 582. * Inst, des B. B. p. 308.   •^ in. 92. « 45 Dig. 1. 1.     Digitized by Microsoft®     VARIOUS STIPULATORY FORMULAE. 99   stipulation. It is hard to see how such a rule could  have arisen unless there had been some danger of  a mistake in the promisor's reply, and if this reply  had been confined to the one word spondeo,  promitto, or faciani, a mistake would hardly have  been possible. Hence this view seems highly pro-  bable.   (b) Voigt"^ has given the following account of  the origin of the various formulae.   (i) The form spondesne ? spondeo is the oldest  of all, and dates back into very early times ^ which  is probably quite correct. But in a more recent  work' this view expressed in "lus Naturale" is unfor-  tunately abandoned, and Voigt regards sponsio as a  Latin innovation dating from the fourth century of  the City. This seems surely to place the birth of  sponsio far too late in Roman history.   (ii) The looser form dabisne ? dabo is found in  Plautus*, and was no doubt, as Voigt says^ a product  of the ius gentium and first introduced for the benefit  of aliens.   (iii) Lastly, the origin of the forms promittis ?  promitto, and fades? faciam^, is placed by Voigt  not earlier than the beguming of the Empire. But  his reasons for so doing seem most inadequate. If  the form dabisne? dabo occurs in Plautus, the form  fades? fadam, which is essentially the same, can  hardly be attributed to a later period. And since   1 Ius Nat. IV. 422 ft.   2 See Liu. iii. 24. 5, A.v.c. 295, and iii. 56. 4, A.v.c. 305.   3 Bom. RG. i. p. 43. ■• Pseud. 1. 1. 112, A.v.c. 663.  5 /. N. IV. 424. « Of. Gaius, in. 92. 116.   7—2     Digitized by Microsoft®     100 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   prondttam is used by Cicero as a synonym for  spondea/m}, and fidepromittere was an expression  used in stipulations, as Voigt admits, two centuries  before the end of the Republic'-', it seems rash to  affirm that promittere, the shortened phrase, was  not used in stipulations until the time of the  Empire. We may therefore attribute both of these  forms to republican times.   (c) The admissibility of condicio and dies as  qualifications to a stipulation must always have  been recognized, since a promise deals essentially  with the future and requires to be defined.   (d) The insertion of a conventional penalty into  the terms of the contract was probably practised  from the very first, whenever facere and not dare  was the purport of the promise, because the candictio  certi was older than the condictio incerti, and there-  fore for many years an unliquidated claim would  have been non-actionable unless this precaution had  been taken.   We have now seen that verbal contract by ques-  tion and answer, whether called sponsio or stipulatio,  existed long before it became actionable. When it  finally became so is uncertain, though we know  what forms the action took.   (a) Condictio certae pecuniae.   Gains' speaks of a Lex Silia as having introduced  the legis actio per condictionem for the recovery of  certa pecunia credita. This law is mentioned nowhere  else, and its date can only be approximately fixed.   1 Cic. pro Mur. 41. 90. ^ I. N. iv. 424, note 77.   -' IV. 19.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF PECTNIA CBEDITA.   We know from Cicero^ that pecwnia credita, a re"  money loan, might in his time originate in  ways, by datio (mutuum), expensilatio, or stipulatio.  But we cannot infer from this that the Lex Silia  made all those three forms of loan actionable'', for  mutuum and expensilatio, as will presently be seen,  were certainly of more modern origin than the  condictio certae pecuniae. It appears indeed that  stipulatio was the original method of creating pecunia  credita^: consequently the Lex Silia must have  simply provided for the recovery of loans made by  sponsio or stipulatio. It is noticeable, moreover,  that Gaius speaks as though by this law money  debts had merely been provided with a new action :  he does not imply that stiptdatio or sponsio was  thereby introduced, as Voigt'' and Muirhead' have  ventured to infer. Their view is surely an un-  warrantable inference, for if the Lex Silia had  created so new and important a contract as stipu-  latio, Gaius would hardly have expressed so much  surprise at the creation of a new form of action to  protect that contract. His language seems clearly  to imply that pecunia credita was already known,  and was merely furnished by this law with a new  remedy. We may conclude then that pecunia  credita must have existed before the Lex Silia, and  can only have been created by stipulatio. Stipulatio   ' Rose. Com. 5. 14. ^ Puohta, Imt. 162.   3 Cf. the dare, credere, expensum ferre of the Instrumentum  fiduciae in Bruns, p. 2-51, with the dare, gtipulari, and expensum  ferre of Rose. Com. 5. 13-14, and see Voigt, lus Nat. it. 402.   * Ills Nat. II. 243. ■' R. L. p. 230.     Digitized by Microsoft®      102 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   cannot, therefore, have been introduced by this law,  though it probably was thereby transferred from the  religious to the secular code.   The age of the Lex Silia has been variously  given', but there are no trustworthy data, and any  attempt to fix it must be somewhat conjectural.  The only thing we do know is that this law must  have been enacted a considerable time before the  Lex Aquilia of A.V.C. 467, for the latter law pun-  ished" the adstipulator who had given a fraudulent  release, and as this release must have applied to the  stipulatio certae rei of the Lex Galpurnia', it is evident  that the Lex Aquilia must have been younger than  the Lex Calpurnia, which, as we shall see, was itself  younger than the Lex Silia.   We may perhaps approximate even more closely  to the date of the Lex Silia. Muirhead^ has con-  jectured with much plausibility that the introduction  of the condictio certae pecmviae was a result of the  abolition of the nexal penalties, or in other words  that the Lex Silia followed soon after the Lex  Poetilia of A.v.c. 428. There are several strong  points in favour of this hypothesis :   (i) It explains Gaius' difiiculty as to the reason  why condictio was introduced. For when the terrors  of nexum were abolished, it was natural to substitute  some penalty of a milder description and not to let  defaulting debtors go entirely unpunished. Now   1 A.V.C. 311 to 329, according to Voigt, I. N. iv. 401.  " Gai. III. 215.   ' Of. quanti ea res est in Gai. loc. cit. with 13 Dig. 3. 4.  * R. L. p. 230.     Digitized by Microsoft®     PROBABLE OBJECT OF LEX SILIA. 103   this is just what the condictio certae pecuniae,  with its sponsio poenalis tertiae partis, presumably  accomplished, for like neocum it dealt only with  pecunia.   (ii) This hypothesis helps us also to understand  why the condictio certae pecuniae should have been  introduced before the cmidictio certae rei, thus  making a stipulation of certa pecunia actionable,  while a stipulation of res certa had not this protec-  tion. As we found above', the introduction of coin  must have made the stipulatio certae pecuniae a very  convenient substitute for nexiom. It was therefore  natural to give a remedy to this stipidatio and so to  make it take the place of nexum as a binding  contract of loan ; while certa res, never having had  and therefore not immediately requiriag a remedy,  was not protected by condictio until several years  later.   (iii) We can also see why the condictio ceiiae  pecuniae should have been the only condictio fur-  nished with so severe a penalty as the sponsio  poenalis. It was because money loans had been  jealously guarded in the days of nexum, and it was  therefore thought proper to protect the money loan  by stipulation far more carefully than the promise of  a res certa.   All these seem strong points in confirmation  of Muirhead's hypothesis. By connecting stipulatio  and condictio with the downfall of nexum and of its  manus iniectio, we not only get a plausible date for  the Lex Silia, but what is far more important, we  1 p. 94.     Digitized by Microsoft®     104 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   obtain a satisfactory explanation of the curious fact  that, while stipulationes were made actionable, they  were not all made so at once.   The forms of condictio under the legis actio system  are not known, but under the formulary system, this  condictio had the following formula: Si paret N^  N'egidium A" Agerio HS X dare oportere, iudesc, iV™  Negidium A" Agerio X condemna. s. n. p. a} Its  peculiar sponsio will be given in another place.  (b) Condictio triticaria or certae rei.   The Lex Calpurnia, which must have preceded  the Leoo Aquilia^ and must therefore have been  enacted earlier than A.v.C. 467, extended the legis  actio per condictionem to stipulations of triticum, corn,  {condictio triticaria) ; and this, being soon interpreted  by the jurists as including every debt of res certa,  gave rise to the condictio certae rei. This new kind  of condictio omitted, for the reason above '-stated, the  sponsio and restipulatio tertiae partis, in place of  which the defendant merely promised to the plaintiff  a numnvus wnus which was never exacted or paid*.  Therefore, as the severer law invariably precedes the  milder, we might be sure that the Lex Silia with its  heavy penalty was older than the Lex Calpurnia  with its nominal fine*, even if Gains had not clearly  led us to this conclusion by the order in which he  mentions the two laws'.   The formula ran thus : Si paret N'^ Negidiwm A"  Agerio tritici optimi X modios dare oportere, qvtanti   1 Gai. IV. 41. Lenel, Ed. Perp. 187. ^ See above, p. 102.   » p. 103. * Voigt, I. N. III. 792.   ' Keller, Civilp. 20. « Gains, iv. 19.     Digitized by Microsoft®     DEVELOPMENT OF OONDICTIO. 105   ea res est, tantam pecuniam, index, iV™ Negidium A"  Agerio condemna. s. n. p. a.   (c) Condictio incerti.   The above condictio triticaria, or certae rei, was  in course of time extended by the interpretation of  the jurists or by the Praetor's Edict to res incertae,  and gave rise to a condictio incerti, which was the  proper action on a stipulation involving facere or  praestare or some other object of indefinite value.  The thing promised might be defined as quanti in-  terest, or quanti ea lis aestimata erit etc.', and it is  plain how much this comprehensive mode of ex-  pression must have increased the adaptability and  general usefulness of the stipulation. In this way,  for instance, the cautio damni infecti and the stipu-  lations of warranty were doubtless always expressed.  The nature of this condictio may perhaps be best  understood from its formula, which was as follows :  Quod A^ Agerius de N" Negidio incertum stipulatus  est, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio dare facere oportere, eius iudex, N™ Negidium  A" Agerio condemna. s. n. p. aJ' This was so far  an advance upon the condictio certae rei that, the  condemnatio here left the damages entirely to the  discretion of the judge; but it was still a stricti  iuris action, in which no equitable pleas were ad-  mitted on the part of the defendant.  {d) Actio ex stipulatu.   We have seen that the condictiones certae pecuniae  and certae rei were due to legislation, and the con-  dictio incerti to juristic interpretation: it remains  1 Voigt, RG. I. pp. 601-2. 2 (jai. iv. 131, 136.     Digitized by Microsoft®     106 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   to inquire what was the origin of the actio ex  stiffulatu, i.e. the honae fidei action on a stipulation  for incertwm dare or for certwm facere^, which  completed this series of legal remedies. Its ap-  pearance was an event of great importance to the  subsequent history of Contract, since it applied ex-  clusively to stipulations containing a honae fidei  clausula, and it was by means of this action alone  that such stipulations were enforced I Voigt's ex-  planation of its origin is that the actio ex stipulatu  was devised as the proper remedy for fidepromissio  and for the cautio rei uxoriae introduced in A.V.C.  523'. But it is very doubtful if the date can be  fixed with such exactness. There is nothing to  show that the actio ex stipulatu did not exist earlier  than those particular forms of stipulation ; and if it  had been, as Voigt thinks, the original action on a  fideproTnissio, it would probably have been known as  actio ex fidepromisso or by some such descriptive  name.   The introduction of the doli clausula is the most  important event in the whole history of the stipulatio,  yet the exact moment at which this took place is  hard, if not impossible, to fix. Girard* attributes its  invention to C. Aquilius Gallus. But if this had  been the case, Cicero^ would hardly have overlooked  the fact. On the other hand Voigt, who rightly  identifies the actio ex stipulatu with the action on a   1 Bethmann-Hollweg, C. P. p. 267.   2 44 Dig. 4. 4. fr. 15-16.   3 I. N. IV. 407. Gellius iv. 1, 2.   * N. Rev. Hist, de Droit, xiii. 93. ^ Off. in. 14. 60.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO ACTIO EX STIPVLATV. 107   doli clausula, and regards the two as inseparable,  places the introduction of doli clausula earlier than  the time of Cicero, because that writer mentions the  actio ex stipulatu among the " indicia in quibus ad-  ditur ' ex fide bona^.' " The introduction of the first  clausida doli was, according to Voigt", made by the  words fides, in fidepromissio, and "quod melius aequius  sit" in the cautio rei uxoriae^. This conjecture is  unsupported by evidence ; for though we know that  cautio rei ihxoriae* and fidepromissio^ were both  actionable by the actio ex stipulatu, and therefore  must have contained doli clausulae, we have no  right to assume that they were the first of their  kind.   We cannot, moreover, follow Voigt in supposing  the actio ex stipidatu to have been expressly invented  for fidepromissio and cautio rei uxoriae. We have to  presuppose the existence of a condictio incerti before  the doli clausula could become actionable, since a  claim of damages for dolus was necessarily an in-  certum; and there is no reason why the actio ex  stipulatu should not have been developed from the  condictio incerti by mere interpretation. Its essential  connection with the stipulatio containing the clausula  doli may readily be admitted, but we cannot be  certain what were the first stipulations containing  clausulae of the kind.   The doli clausidae are well summarized by Voigt '^  as follows :   1 I. N. IV. 413. 2 I. N. IV. 407.   3 Boeth. ad Top. 17. 66. " 23 Dig. 4. 26.   s 45 Dig. 1. 122. « I. N. iv. 411.     Digitized by Microsoft®     108 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   (i) " Quod melius aequius erit," as in " cautio  rei uxoriae."   (ii) " Fide," in fidepromissio.   (iii) " Si quid dolo in ea re factum sit^."   (iv) "DoluTn Tnalum, huic rei abesse afuturuinque  esse spondesne^ ?"   (v) " Gui rei si dolus malus non abest, non  abfuerit, quanti ea res est tantam pecuniam, dari  spondes^ ? "   The date of each of these forms is, however,  impossible to determine. The cases of contracts by  stipulation in which doli clausulae are found have  been collected by Voigt*, but need not be enumerated  here.   The effect of the clausula was to convert the  action on the stipulation containing it from a stricti  iuris action into a bonaefidei action, in which equitable  defences might be entertained by the judge. This ex-  pansion was effected by introducing the words " dare  facer e oportere ex fide bona " in the intentio of the  action. If "ex fide bona " had not appeared in the  formula of an actio ex stipulatu, the action would  simply have been a condictio incerti. It seems there-  fore reasonable to suppose that the actio ex stipulatu  was nothing more than a development of the condictio  incerti, and that the words ex fide bona, perhaps  suggested by the actio emti, were inserted to suit the  liberal language of the stipulation.   In praetorian stipulations the doli clausula was     1 4 Dig. 8. 31. ^ 46 Dig. 7. 19, 50 Dig. 16. 69.   3 46 Dig. 1. 38. fr. 13. " I. N. iv. 416 ff.     Digitized by Microsoft®     EXCEPTIO DOLI UNCONNECTED WITH OLA VSVLA. 109   an usual part of the fonnula; e.g. in cautio legis  Falcidiae^, stipulatio iudicatum soltii', stipulatio ratam  rem haberi^, etc. But in conventional stipulations it  was purely a matter of choice whether the doli  clausula should be inserted or not.   We must not fancy that the actio de dolo and  the exceptio doli, which Cicero attributes to his  colleague C. Aquilius Gallus', had anything in com-  mon with the actio ex stipulatu based upon a  clausula doli^. The former remedies were a pro-  tection against fraud where no agreement of a  contrary kind had been made", whereas the action  on a stipulation containing the clausula doli was  available only when dolus maltts had been specially  excluded by agreement. Hence it follows that  where the stipulation had omitted the clausula doli  there can have been no remedy for dolus until the  great reform introduced by Aquilius Gallus.   As soon as stipulations of all kinds had thus  become actionable, and had probably passed out of  the hands of the Pontiffs into the far more popular  jurisdiction of the Praetor, the law of contract  received an extraordinary stimulus, and we find the  stipulation producing entirely new varieties of obli-  gation, though its form in each kind of contract re-  mained of course substantially the same. Here are  some of the purposes for which stipulatio was em-   1 35 Big. 3. 1. = 46 Big. 1. 33.   » 46 Big. 8. 22. fr. 7.   ' Off. in. 14. 60. Nat. B. in. 30. 74.   » Voigt, I. N. 3. 319.   ' See the case of Canius, in Cio. Off', in. 14. 58-60.     Digitized by Microsoft®     110 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   ployed, apart from its uses in procedure and surety-  ship.   (1) It produced a special form of agency by  means of adstipulatio^. The promisee who wished  a claim of his to be satisfied at some far-off period,  when he might himself be dead, had only to  get a friend to join with him in receiving the  stipulatory promise. This friend could then at any  time prosecute the claim with as good right as the  principal stipulator, and the law recognised him as  agent for the latter. Even a slave could in this way  stipulate on behalf of his master*.   (2) In consequence of its universal adaptability,  the stipulation gave rise to nmiatio. The reducing  to a simple verbal obligation of some debt or  obligation based upon different grounds (e.g. upon a  sale, legacy, etc.) was accomplished by stipulatio, and  known as expromissio debiti proprii.   (3) It created a rudimentary assignability of  obligations by virtue of delegatio, another form of  nouatio. In the one case, the debtor was changed,  and the creditor was authorised by the former  debtor to stipulate from the new debtor the amount  of the former debt : in the other case {expromissio  debiti alieni) the creditor was changed, and the new  creditor stipulated from the debtor the amount owed  by him to the former creditor.   (4) It also created the notion of correal obli-  gation, by which two or more promisors in a  stipulation made themselves jointly responsible for  the whole debt, and so gave additional security to   1 Gai. III. 117. = .? Inst. 17. 1.     Digitized by Microsoft®     FKUITS OF 8TIPVLATI0. Ill   the promisee. The effects of this will be seen in a  later section.   (5) It served to embody in a convenient shape  any special condition annexed to a separate contract  — e.g. a promise to pay the price agreed upon in  a sale', and the stipulationes simplae et duplae  annexed to sales of res nee mancipi^. Thus an  enforceable contractus adiectus could be made on the  analogy of a pactum adiectum.   (6) It clothed in an actionable form so many  different kinds of agreements that it would be  impossible to exhaust the list. For instance, agree-  ments as to interest^ wagers, the promise of a  dowry^, the making of a compromise^ the creation of  an usufruct, could all be thrown into stipulations  either single or reciprocal, and thus turned into  binding obligations.   (7) Most of the events in the history of this  immense development of stipulatio are impossible to  fix at any given period, though the attempt to do so  has been often made. Yet the invention of one  famous stipulation can be exactly dated, from its  bearing the name of Cicero's colleague, C. Aquilius  Gallus, and having therefore been invented by him  in the year of his Praetorship^. This Aquilian  formula, which operated as a general release of all  obligations, and which the Institutes' give us in full,  is an excellent instance of the usefulness of the  stipulation, and it also clearly shows what long and   1 Cato, R. R. 146. ^ Varro, R. R. ii. 3.   ' Plant. Most. 3. 1. 101. * See p. 32.   « Plant. Bacch. 4. 8. 76. « A.v.c. 688. ' 3 Inst. 29. 2.     Digitized by Microsoft®     112 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   elaborate forms this contract sometimes assumed  in later times, so that all kinds of terms, de-  scriptions or warranties might without difficulty be  incorporated in a single comprehensive formula.  It was probably this increasing length of stipu-  lations which caused them to be put in writing,  and induced lawyers to publish formulae in which  they should be expressed. Both of these results  had already taken place in the time of Cicero. He  not only speaks of written stipulations, but also  describes the composition of stipulatory formulae as  one of the chief literary occupations of a leading  lawyer'. We know from a constitution of the  Emperor Leo, which changed the law in this respect,  that the written stipulations of the Republic and  early Empire were merely put into writing for the  sake of evidence". The writing in itself constituted  no contract, and raised no presumption in favour of  the existence of a contract; but the written stipu-  lation had to conform with all the rules of the  ordinary spoken stipulation, since it was nothing  but a spoken stipulation recorded in writing.   The legislative changes of the period were mostly  devoted to modifications in the stipulations of  suretyship. But in a few cases the ordinary stipu-  lation was itself affected.   (i) By the Lex Titia of A.v.c. 416—426° stipu-  lations for the payment of money lost at gambling  were declared void.   (ii) Various laws against usury were enacted,   1 de leg. i. 4. 14. 2 3 Inst. 15. 1.   ' Voigt in Phil. Hist. Ber. der S. G. der W. xiii. 257.     Digitized by Microsoft®     SPONSIO IN PROCEDURE. 113   all of which affected the stipulation, since that was  the mode in which fenus was usually contracted.   (ui) The Lex Cinaia de mwieribus of A. v. c. 550,  the object of which was to restrain lavish gifts to  pleaders and public men, naturally limited all stipu-  lations between parties within range of the prohibi-  tion, and in the corresponding condictio gave rise to  the exceptio legis Ginciae, which probably ran thus :  ...si in ea re nihil contra legem Ginciam factum  sit...   (iv) The Praetor C. Aquilius Gallus, as above  mentioned^, instituted in his Edict the exceptio doli  mali, and thereby nullified stipulations which, how-  ever perfect ia form, had been procured by fraud.  This exceptio was of course inapplicable to cases in  which the stipulation contained a clausula doli.   II. Sponsio in the law of Procedure.   The original function of the processual sponsio  seems to have been that of helping to decide the  question at issue by expressing it in the form of a  wager. As a common feature of practice, sponsio  made its appearance in many other different connec-  tions, and sometimes developed into the more modern  stipulatio. We find it employed :   (i) As a means of obtaining a decision by a  wager, in which the contention of either party was  succinctly stated and so submitted to the judge.  This was known as sponsio praeitodicialis.   (ii) As a means of fixing a penalty, as well as  of obtaining a decision, in (a) the condictio certae   1 p. 109.  B. E. 8     Digitized by Microsoft®     114 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   pecuniae or (6) the interdicts, in which case it was  known as sponsio poenalis.   (iii) As a mode of giving security ; for instance  in the uindicatio, where we find the stipulatio pro  praede litis et uindiciarum.   Bekker's classification^ does not exactly correspond  with this one. He divides processual sponsiones into  (A) sponsiones made in the course of a trial,   (a) as to the chief question,   (6) as to conditions and incidental matters,  and (B) sponsiones made apart from a trial,   (a) with a view to some future trial,   (b) with no such view.   The objection to this classification seems to be  that the whole of class (B) were not properly pro-  cessual sponsiones at all.   1. Sponsio praeiudicialis' was a promise to pay  a fixed sum, made by the plaintiff to the defendant,  and conditioned upon the plaintiff's defeat. It was  accompanied by a similar promise (restipulatio) on  the part of the defendant, conditioned upon his defeat.  These mutual sponsiones were in fact nothing more  than a bet on the result of the action. They generally  involved a merely nominal sum, and were perhaps first  introduced in the actio per sponsionem in rem, as a  means of settling the question of ownership without  employing the larger and more costly sacramentum  of five hundred asses'. The date of their origin is  impossible to fix, but the custom of making such  sponsiones and having them decided by a judge   1 Akt. I. 257. 2 Gai. iv. 94. 165.   3 Baron, p. 403.     Digitized by Microsoft®     SPONSIO PRAEIVDIGIALIS. 115   seems to have been one of great antiquity, and  must have existed long before the sponsio became  armed with any condictio. The very notion of a  bet submitted to a judge as a means of deciding  rights of property seems, as Sir Henry Maine has  said ', to savour of the primitive time when the judge  was simply a man of wisdom called in to arbitrate  between two disputants. Moreover, it is hard to  imagine that the actio per sponsionem in rem could  have been introduced in any but the most ancient  times, when in Cicero's age there were the rei  uindicatio sacramento and the far simpler m uin-  dicatio per formulam petitoriam to accomplish the  same objects There is therefore every probability  that the actio per sponsionem was at least as old as  the legis actio sacramento. According to Voigt* the  procedure per sponsionem was the original form also  of the actio Publiciana introduced in A.v.C. 519. In  Cicero's time it was still a favorite method of pro-  cedure for all sorts of litigation^.   (a) In questions as to property the plaintiff  might choose whether he preferred to bring an actio  per formfublam, petitoriam, or one per sponsionem^.  If he chose the latter course, the defendant was  compelled sponsions se defenders.   (b) In really trivial praeiitdicia the question  was stated in the formula and sent straight to the  i^tdex without any condemnation, but the procedure   1 E.H. of I. 259.   2 KeUer, C. P. § 28. ^ j. j^. ly. 506. " e.g. Caec. 8.   5 Lex Ruhr. e. 21, 22; Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gaius, iv. 91.  ^ Gai. IV. 44.   8—2     Digitized by Microsoft®     116 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   in this case was not necessarily based upon a sponsio  praeiudicialis and might be a simple preliminary  inquiry ordered by the Praetor.   The sponsio praeiudidalis thus worked in a  peculiarly roundabout way; its penalty was nomi-  nal and not therefore its real object, and it brought  about a decision on the main question by treat-  ing that question as a thing of secondary im-  portance.   2. Sponsio poenalis (a) in the condictio, was pecu-  liar to the legis actio per condictionem introduced by  the Lex Silia. It was accompanied by a restipulatio,  so that either party to the action promised to the  other a penalty of one-third ' in the event of losing  his case. Eudorff" reconstructs the formula of this  sponsio as follows : Si pecuniam certam creditam qua  de re agitur mihi debes, earn pecuniam cum tertia  parte amplius dare spondes? But this seems in-  correct, since from Cicero's language' we gather  that the sponsio was for the tertia pars only; the  sum in dispute plus one-third is never mentioned.  The formula then was probably as follows: Si  pecuniam certam creditam qua de agitur mihi debes,  dus pecuniae tertiam partem dare spondes ? Hence  Rudorff* seems also wrong in stating that the con-  demnatio of the formula in the corresponding condictio  must have involved the principal sum plus one-third.  Voigt ^ more correctly holds that the condemnatio can  only have involved the summa sponsionis. We can   1 Cic. Base. Com. 5. 14. 2 Ed. Perp. p. 103.   '' " legititnae partis sponsio facta est." Rose. Com. 4. 10.  * Rom. RG. II. 142. ^ j_ j^ m 741^     Digitized by Microsoft®     SPON^SIO POENALIS. 117   see that, as Gains '■ implies, this sponsio was just as  much praeiudicialis as that of the actio per sponsio-  nem, giving as it did a ground for the decision of the  main question ; but it was also distinctly poenalis, be-  cause the sum which it involved was worth having  and worth extorting from the unsuccessful party,  and therefore the condemnatio was carried out in  the usual manner. The principal sum in dispute  was then no doubt quietly paid, since the decision as  to the sponsio tertiae partis had also settled to whom  the disputed sum belonged.   (b) In the private interdicts (possessoria and  restitutoria) if the party to whom the interdict was  addressed chose to dispute it, he might do so by  challenging the plaintiff to make a sponsio and  restipulatio, the rights of which should be deter-  mined by recuperatores. This sponsio differed from  the former (1) by being purely poenalis and having  no trace of praeiudicium for its object ; (2) by being  in factwm concepta ^.   The origin of these two uses of sponsio cannot be  dated, in the case of (a) because we do not know the  date of the Lex Silia, and in the case of (6) because  we do not know when the possessory interdict was  first granted by the Praetor. But it is fairly certain  that the sponsio poenalis of the interdict was more  modern than the sponsio poenalis of the condictio,  partly because it had no sort of connection with a  praeiudicium, which seems to have been the original  object of the processual sponsio, and partly because  it was in factum concepta.   1 IV. 93, 94. 2 Gai. iv. 166; Cic. Caec, 8. 23.     Digitized by Microsoft®     118 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   3. Another purpose for which the sponsio was  adopted in procedure was to give bond against pos-  sible losses. It thus furnished a substitute for the  old form of obligation contracted by the praes in  real actions. The stipulatio pro praede litis et uindi-  ciarum, accompanied by sureties ', was given by the  plaintiff who wished to bring an actio per sponsionem  in rem, or who disputed an interdict, and the amount  promised in the stipulation was double the value  of the property in dispute.   Another contract of the same kind was the  stipulatio ivdicatum solui ', by which the plaintiff in  an actio per formulam petitoriam obtained a promise  from the defendant that he would pay up the value  of the property in dispute and of its fructus, in the  event of being defeated in the action.   Voigt gives imaginary formulae for these two  stipulations", but in reality we do not know much  about them. Stipulations of this kind were not  peculiar to the law of procedure. They were simply  varieties of the cautio, a very common method of  securing future rights, and they had their counter-  part in the cautio damni infecti, cautio Muciatm,  cautio legis Falcidiae and all the praetorian stipula-  tions. The origin of the cautiones in general cannot  however be dated : we know merely that they must  have been invented subsequently to the introduction  of the condictio.   III. Sponsio as a means of Suretyship.   The introduction of the new idea of correal obli-   1 Cic. 2 Verr. i. 45. 115; Gai. iv. 91-94.   2 46 Dig. 7. 20 ; Gai. rr. 89. ' Im Nat. in. 588 and 820.     Digitized by Microsoft®     SPOJfSIO IN SURETYSHIP. 119   gation which resulted from the use of the stipulation,  naturally led to the use of the stipulation as a mode  of suretyship. For if three sponsores promised the  same sum to the same stipulator, the latter obviously  had three times as good security as if he had put  his question to one sponsor instead of to three.   1. The consequence was that sponsor soon  acquired the special meaning of a co-promisor or  surety, and this change probably took place soon  after the sponsio became actionable by the Lex Silia.  But if the surety -sponsor had had no recourse against  the principal-spojisor whose debt he had been com-  pelled to satisfj"^, his case would have been hard indeed.  To provide against this hardship, the Lex Publilia '  of A. V. c. 427 enacted :   (a) That the surety-spo?iso?' might make use  of an actio depensi against the principal debtor for  the amount spent on his behalf   (6) That the mode of procedure in this actio  depensi should be the legis actio per manus iniec-  tionem, and that the penalty should be duplum^.   (c) That the principal debtor should however  have six months' grace for the repayment of his  surety, but   (d) That a surety who paid a gambling-debt on  behalf of his principal should forfeit his right of  action.   This law is alluded to by Plautus, and was  clearly prior to the introduction of fidepromissio.   1 Voigt in Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. d. Wiss. xlii. p. 259.   2 Gai. IV. 22. 171.     Digitized by Microsoft®     120 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   In later times the surety had in the actio mandati  a further remedy against the principal sponsor.   2. About the beginning of the fifth century, as  new forms of stipulatio grew up alongside of the old  sponsio, another sort of suretyship was introduced  under the name oi fidepromissio. It was so called  because the sureties entered into a stipulation con-  taining the words : "Jide tua promittis ? fide mea pro-  mitto." The new form was no doubt devised for the  benefit of foreigners and marked the further growth  of ius gentium. It seems to have been treated as  exactly equivalent to sponsio, for sponsio as well as  fidepromissio could only be used to secure a verbal  obligation \ Since it is coupled with sponsio in the  Lex Apideia, and since the heirs of sponsores and  fidepromissores were both alike free from the obliga-  tion of their predecessors ^ it is fairly certain that  the actio depensi and inanus iniectio of the Leoo  Publilia must have been extended to fidepromissio  by interpretation '. The fidepromissor also had the  remedy of the actio mandati, but this was of later  origin.   The Lex Apuleia de sponsoribus et fide promis-  soribus of A.v.C. 525 ^ applying to both Italy and  the provinces, gave to any sponsor or fidepromissor  who had paid more than his aliquot share of the  principal debt a right to bring the severe actio  depensi against each of his co-promisors to recover  the amount overpaid. This law, giving as it did  protection to the sponsor against his co-sponsor, was   ' Gai. III. 119 ; iv. 137. 2 Gai. in. 120.   ' Gai. III. 127. " Voigt, I. N. iv. 424.     Digitized by Microsoft®     FIDEPROMISSIO. 121   the natural complement to the Lex Puhlilia which  had already secured him against the principal  debtor.   The object of the next law, Lex Furia de sponso-  ribus et fidepromissoribus of A.V.c. 536 \ is rather  obscure, but it seems to have re-enacted the Lex  Apuleia with reference to Italy only, and probably  provided the spmisor with a more thorough mode of  redress. What this mode was the language of Gains ^  does not make plain ; but Moyle is no doubt wrong  in asserting ' that it was the actio pro socio, unmis-  takably of much later origin. Its only clearly new  enactment was that sponsores or fidepromissores in  Italy, whose guarantee was for an unlimited period,  should be liable for two years only. This limited  liability Voigt thinks was perhaps borrowed from  the rules applying to the uas.   Lastly, the Lex Cicereia (Studemund) of uncertain  date, but which must have been passed before  A.V.c. 620, since it ignored fideiussio, gave further  protection to sureties by enacting :   (<x) That any creditor who secured his debt by  taking sponsores or fidepromissores must announce  the amount of the debt and the number of the  sureties before they gave their adpromissio.   (b) If he failed to do this, any surety might  within 30 days institute a praeiudicium to inquire  into his conduct ; and if the judge declared that the  required announcement had not been made, all the  sureties were freed from their liability*. This law   1 L. Furius Philue was Praetor in that year. Voigt, I. N. iv. 424.   2 ni. 122. 2 Inst. p. 411, note. * Gai. iii. 123.     Digitized by Microsoft®     122 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   was subsequently, we know, extended by interpreta-  tion to fideiussores.   3. A third form of suretyship was at last de-  vised, by which obligations other than verbal ones  could be similarly secured. This was done by a  stipulation containing the words "fide tua ivbes ? fide  mea ivheo" and it was hence known as fideiussio.  It must have been iuvented about the beginning of  the sixth century, and was doubtless needed, as Voigt  suggests^, in order to provide a form of suretyship  for the newly invented real and consensual con-  tracts ". Its chief points of difference from the other  two forms were that (a) it applied to all kinds of  contractual obligations ; (6) the heir of the fideiussor  was bound by the same obligation as his predecessor ;  and (c) the provisions of the foregoing legislation as  to sponsio and fidepromissio did not as a rule apply  to fideiussio. The only point of resemblance was  that the fideiussor, like the sponsor and fidepro-  missor, had the actio mandati^ against his principal,  whereas the sponsor and probably the fidepromissor  had the actio depensi of the Lex Puhlilia in addition  to the more modem remedy.   The Lex Cornelia mentioned by Gains * as affect-  ing all sureties alike, whether sponsores, fidepromis-  sores or fideiussores, has been shown by Voigt ' to be  a part of the Lex Cornelia swmtuaria of A.V.C. 673.  Two sections of this act provided :   (i) That no surety should validly become re-   1 I. N. IV. 425. 2 Gai. ni. 119.   » Gai. m. 127. » in. 124.   ° Phil. Hist. Ber. der k. s. Ges. der Wiss. xlii. p. 280.     Digitized by Microsoft®     BXPMNSILA TIO. 123   sponsible for more than two million sesterces > on  behalf of the same person in any given year. Except  in the case of dos^, whatever liability was contracted  over and above that amount was void.   (ii) That no suretyship of any sort should be  valid when given for a gambling debt I   In thus tabulating all the laws on this subject,  we must not omit to mention the rule applying to  all forms of suretyship alike, that if the surety had  guaranteed a lesser sum than the principal debt, his  guarantee held good, but if a larger sum or a differ-  ent thing, the guarantee became void.   In conclusion, it is very remarkable how largely  the law of suretyship was developed by means of  legislation. The reason was, that while sufficient  means existed for enforcing the mutual obligations of  debtor and creditor, there were no rules to regulate  the relations of debtor and surety, or of sureties  among one another. The old uadimonium was ap-  parently inadequate, while the newer uadimonium,  as we saw, was but a form of stipulatio, and the  ordinary condictio would clearly have been inapplic-  able to cases of this kind. Hence it became neces-  sary that legislation should intervene.   Art. 3. EXPENSILATIO. So many irreconcilable  statements have been made as to the nature of this  peculiarly Roman contract" that no one can hope  to describe it with perfect accuracy. Confident   1 20,000 according to Dauz, B. BG. ii. 83.   2 Gai. m. 124-5. ^ Voigt, Bom. BO. i. 616.   * See a full summary of the various opinions in Danz, B. BG.  II. pp. 43-60.     Digitized by Microsoft®     124 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   assertions on the subject serve only to show our  real ignorance, and ignorant we must be, owing to  the vagueness of the evidence. Yet it is only as to  the form of the contract that much controversy has  prevailed. Its operation and its history are tolerably  certain.   Form: Our ignorance respecting the mode in  which the contract was made is partly due to  the fact that tabulae, which meant account-books  in general, meant also a chirograph, or a written  stipulation, or an ordinary note-book'. We can  never be quite sure in what sense a technical term  of such ambiguity is used in any given passage.  Everyone agrees that the entry of a debt in the  creditor's account-book imposed a correspbnding  obligation upon the debtor, and the theory that  debts were entered for this purpose in separate  documents has been exploded ever since Savigny'''  refuted it. But the question so difficult to answer  is this : what sort of account-book was the codex in  which these binding entries were made ? We gather  from Cicero's speech for Roscius the actor that there  were in his day at least two principal books in general  use, (1) aduersaria ', and (2) codex or tabulae rationwm.  The former was a day-book, in which the details of  every-day business were jotted down, while the latter  was a carefully kept ledger, containing a summary  of the household receipts and expenditure, copied at  regular intervals from the aduersaria. These two   1 See Wunderlich, Liu. oblig. p. 19.   s Verm. Schrif. i. 211 ff.   ' Also called ephemeris. Prop. iii. 23. 20.     Digitized by Microsoft®     THEORIES OF BOOK-KEEPING. 125   books were also used by bankers (argentarii) ; and in  their codew or ledger were entered their accounts-  current with their different customers '. Similarly in  the codex of the householder there were probably  separate accounts, on separate folios, under such  heads as ratio praedii, ratio locitlorum, &c.^ There  was sometimes used a book known as (3) kalendanum,  in which the interest on loans was computed and  entered ', the making of loans at interest being  hence called kalendarium exercere.   (a) Some writers are of opinion that these  book -debts were entered by the creditor in the main  codex, and that this codex was a mere cash-book.  In that case, unless the debt was a loan actually  paid in cash, it must have been entered on both  sides of the account, debtor as well as creditor,  otherwise the book would not have balanced. This  twofold entry is said to have been called transcriptio;  and nomen transcripticium would accordingly have  been the name applied to an}' debt contracted in  that manner. The weakness of this theory lies in the  clumsiness of the alleged twofold method of entry;  we can scarcely believe that an imaginary receipt  would have been credited in the account simply  for the purpose of making both sides balance. More-  over it is unwise to assume, as these writers do  in support of their theory, that the Roman method  of keeping accounts was an easy matter and therefore  needed but few books ; for in a large town house, or  on a large estate with bailiffs, tenants and slaves to   1 2 Big. 13. 10 and 2 Dig. 14. 47. - 33 Dig. 8. 23.   3 12 Dig. 1. 41 and 33 Dig. 8. 23.     Digitized by Microsoft®     126 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   be provided for, it seems far more likely that the  accounts should have been elaborate and the account-  books numerous.   (6) According to Voigt, book-debts (nomina)  were entered in a (4) codex accepti et expensi  kept for the express purpose. Whether such a  fourth book existed, or whether the rationes accepti  et eccpensi were kept as a separate account in the  main codex rationum, is a question which our  authorities hardly enable us to answer. This  does not however seem very important, and it is  certainly impossible to tell in any given passage  whether the author is speaking of the main codex  (2), or of the codex accepti et expensi (4), which  Voigt supposes to have been a distinct book. His  theory is plausible, for codex accepti et expensi would  be a very natural name for a book containing only  expensa lata and accepta lata. But we may fairly  doubt the existence of this fourth book, partly be-  cause there is no passage which clearly distinguishes  it from the other account-books, and partly because  it is hard to see why the books of a Roman house-  hold, though clearly numerous, should have been  thus needlessly multiplied. Why should not 'no-  mina facere'-' have meant " to open an account"  with a man, and why could not such an account  have been opened as well on a folio of the prin-  cipal ledger as on a folio of the imaginary codex  accepti et expensi ? Perhaps a banker may have  found it worth his while to keep, as Voigt supposes,  a separate book for his loans and book-debts, but we  1 Cic. 2 Verr. i. 36. 92 ; Seneca, Ben. in. 15.     Digitized by Microsoft®     NATURE OF TRANSCRIPTIO. 127   cannot imagine that this would have been the common  practice of ordinary householders, when their codex  would have done equally well.   Eaypensilatio was the name of the transaction,  while the entry itself was called nomen; and the  term nomen transcripticium, which has been ex-  plained as the equivalent of nomen, because the  entry was transcribed from the aduersaria into the  codex, or because it was copied into both sides of the  account, seems rather to have denoted only a nomen  of a novatory character'. That nomen could produce  an original obligation is proved by the cases of Visel-  lius Varro" and of Canius' in which there is no  mention of transcriptio. Further Gaius clearly im-  pKes* that the nomen transcripticium was but one  instance of the use of expensilatio, and the cases  cited by him are purely novatory. Voigt therefore  is probably right in distinguishing the ordinary  nomen which created an obligation, from the nomen  transcripticium, which novated an obligation already  existent. If so, the name transcripticium comes from  the fact that   (a) a debt entered in one place as owed by Titius  might be transcribed into another part of the codex  as owed by Negidius (transcriptio a persona in per-  sonam), or   (h) a debt owed by Negidius, on account of (e.g.)  a sale, might be embodied in an expensilatio and  thus converted from a honae fidei into a stricti iuris   1 See Gaius in. 128. ^ Val. Max. vni. 2. 2.   ^ Cic. Off. III. 14. 59.   * " ueluti nominibus transcripticiis ," in. 130.     Digitized by Microsoft®     128 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   obligation by being entered in the codex {transcriptio  a re in personam).   Some passages are supposed to describe the entry  of book-debts in the books not only of the debtor and  creditor, but of third persons also' ; but it is difficult  to imagine that any man would have entered in the  midst of his own accounts a record of transactions  which did not actually concern him. Here again we  may believe that the ambiguity of the word tabulue  has led the commentators astray. What they have  taken for the account-books of a third party may  have meant simply his memorandum or note-book.  Salpius^ has endeavoured to explain away the  difficulty by asserting that these tabulae of third  parties really mean in every instance the tabulae of  either debtor or creditor. But the passages do not  seem to be capable of bearing such an interpretation,  and it appears far more likely that the word tabulae  has caused all the difficulty.   To summarise then this view of the Literal  Contract, we may believe it to have been made by  an entry written by the creditor on a separate folio  of the codex (2) or chief household ledger, and that  its form was very probably that given by Voigt' as  follows :   "HS X a Numerio Negidio promissa tfcc. expen-  sa Numerio Negidio fero in diem " ; whereupon the  debtor might, if he liked, make this corresponding  entry in his codex: "HS X Aulo Agerio promissa Jkc,  Aulo Agerio refero in diem,."   1 E.g. Cio. Att. IV. 18; Rose. Com. i.l; de Or. ii. 69. 280.   2 Novation, p. 95. 3 Bam. BG. i. 64.     Digitized by Microsoft®     FOKM OF ENTRY. 129   In cases of novation, the form would be as follows :   Creditor: "HS X a Lucio Titio dehita expensa  Numerio Negidio fero in diem" (transcriptio apersona  in personam), or else : "HS X a Numerio Negidio ex  emti causa dehita expensa Numerio Negidio fero in  diem," {transcriptio a re in personam). As in the  previous case, the debtor might make similar entries  in his codex.   Having thus opened an account, which could  only be done with the authorisation of the debtor,  the creditor would naturally enter on the same page  such items as payment of interest on the debt,  payment of the principal on account, &c. According  to Voigt, the entries showing repayment of the  principal would be made in the following form :  "HS X a Numerio Negidio dehita accepta Numerio  Negidio fero." Such an entry constituted a valid  release and went by the name of acceptilatio. Voigt'  thinks that the acceptilatio, as here given, was made  first by the debtor, and that the creditor followed him  with a corresponding accepti relatio. But the word  acceptum seems rather to imply that the release was  looked upon from the creditor's point of view. It is  therefore more likely to have been the creditor who  took the initiative in entering the acceptilatio, just  as he did in enteiing the expensilatio, while the debtor  perhaps followed him with an accepti relatio.   We know from Cicero^ that expensilatio could be  used to create an original obligation, while Gaius  tells us that it was much used for making an assign-  ment or a novation. Where however a loan made in  1 ib. p. 65. 2 Off. III. 14. 58-60.   B. E. 9   Digitized by Microsoft®     130 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   cash was entered in the creditor's book, the contract  was regarded as a case not of expensilatio but of  mutuum, and the entry was called nomen arcarium}.  This name seems to have come from the fact that  the money was actually drawn from the area or  money-chest^; and in such case the entry on the  creditor's books constituted no fresh obligation, but  served merely as evidence of the mutuum,.   History: The old theory of its origin, given by  Savigny and Sir Henry Maine, is that ecopensilaiio  was a simplified form of neacum. They argued that  the word expensum pointed clearly to the fiction  of a money -loan made by weight. But they never  succeeded in explaining how it happened that the  nexal loan should have produced a contract so  strangely difierent from itself.   The newer theory, which Voigt has ably set  forth ^ is far more intelligible and agrees with all  the facts. Its merit lies in recognising expensilatio  as a device first used by bankers and merchants  and subsequently adopted by the rest of the com-  munity. Nothing indeed could be plainer than the  commercial origin of expensilatio. Like the negoti-  able instrument of modem times it is a striking  instance of the extent to which Trade has moulded  the Law of Contract. This institution probably did  not originate at Rome, but the Greek bankers of  Southern Italy may have adopted and used it  centuries before we hear of its existence. It seems  to have been first iatroduced* by the Greek argen-   1 Gaius in. 131. ••' Cic. Top. 3. 16.   3 Z. N. II. 244 ft. * Voigt, mm. RG. i. 60.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF EXPENSILATIO. 131   torn or tarpezitae (TpaTre^Tai), who came to Rome  about A. V. c. 410 — 440, and took the seven shops  known as tabernae ueteres^ on the East side of the  Porum^ Their numbers were subsequently increased,  when the tabernae nouae were also occupied by them.  Their business was extremely varied and their system  of book-keeping doubtless highly developed. They  made loans^, received deposits*, cashed cheques  {perscriptionesY, managed auctions', and exchanged  foreign monies for a commission (collybusy. They  also used codices accepti et expensi, in which, as we  have seen, accounts-current were kept with their  customers ^ We learn from Livy' that by A. v. C.  5.59 the expensilatio thus introduced by them had  become a common transaction among private in-  dividuals. It cannot have been long before the  conception of pecunia credita was extended so as  to cover book-debts as well as stipulations ; but  we do not know the exact date. From Cicero"  however we learn that pecunia expensa lata was a  branch of pecunia credita within the scope of the  Lex Silia, and that the proper remedy for its  enforcement was the condictio certae pecuniae with  its sponsio tertiae partis. As Voigt" has well  pointed out, the expensilatio presupposes the exis-  tence throughout the community of a high standard  of good faith. It was therefore ill adapted for   ' Liu. XXVI. 27. 2 Liu. vii. 21.   3 Plaut. Cure. 5. 2. 20. * ib. 2. 3. 66.   5 ib. 3. 62-65. « Cio. Caec. 6. 16.   ? Cio. Att. XII. 6. 1. 8 2 Dig. 14. 47.   ^ Liu. XXXV. 7. ^'' Rose. Com. 5. 14.  11 I. N. II. 420.   9—2   Digitized by Microsoft®     132 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   general use among the Greeks, whose bad faith was  proverbial'. The fact that it was at Rome, and at  Rome only, that this contract received full legal  recognition, is proved by Gains' doubts" as to  whether a peregrin could be bound by a nomen  transcripticiwn. By the end of the Republic eocpen-  silatio was at its height of favour, but it died out,  except among bankers, soon after the time of Gains,  for in Justinian's day it was unknown.   Art. 4. Chirographvm and Stngrapha were  forms of written contract borrowed, as their name  implies, from Greek custom, and chiefly used by pere-  grins, as Gaius informs us°. The distinction between  the two was purely formal, the one being signed by  the debtor (cAiro^rrop/i Mm), and the other being written  out in duplicate, signed by both parties, and kept by  each of them (syngraphay. These foreign instru-  ments at first produced nothing more than a pactum  nudrmi, for wherever we find syngrapha mentioned  in Plautus, it denotes a mere agreement (pactum),  the terms of which had been committed to writing  and which was certainly not actionable, while chiro-  graphum, never occurs in his plays. The Roman  magistrates, finding these instruments recognised by  aliens, ventured at length to enforce debts ew syn-  grapha, and thus their legal validity was secured^  They had received, some sort of recognition by the   1 Plaut. Asin. 1. 3. 47.   ■" m. 133. s III. 134.   * See Diet, thirteenth cent, in Heimbach, Greditum p. 520, and  Ascon. in Gic. Verr. i. 36.   s Cic. pro Rah. Post. 3. 6; Har. resp. 13. 29 ; Phil. ii. 37. 95 ;  ad Att. Yi. 1. 15 ; ii. v. 21. 10 ; ib. vi. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     CHIROGRAPHVM. 133   time of Cicero, but when they were first enforced  does not appear, though it was certainly late in the  history of the Republic. Gneist^ has advanced the  theory that in Cicero's time neither chirographum  nor syngrapha was a genuine literal contract, but  only a document attesting the fact of a loan, which  could always be rebutted by evidence aliunde. This  theory is the more plausible because Gains himself  does not seem certain as to the binding nature of  these documents^   An interesting passage in Theophilus° is some-  times said to give the form in which litterarum  obligatio proper, i.e. expensilatio, was contracted.  This view is certainly wrong, for the context  shows that Theophilus meant to describe a contract  signed by the creditor and known as chirographum.  As a sample of how chirographa were made, the  Latin translation of this instrument may therefore  be quoted : " Centum aureos quos mihi ex caussa  locationis dehes tu ex conuentione et confessione lit-  terarum tuanrni dabis?" And to this the debtor  wrote the following answer: "Ex conuentione deheo  litterarum nuearutn." This was evidently not a nomen  transcripticium, but a chirographum or syngrapha,  since Gaius expressly states debere se aut daturum  se scribere to be the usual phraseology of such  instruments. Both parties also seem here to have  been present, whereas one of the chief advantages  of expensilatio was that it enabled debts (by expensi-  latio) and assignments (by transcriptio) to be validly  made without requiring the presence of the parties   1 Form. Vertr. p. 113. ' in. 134. » Paraphr. in. 21.   Digitized by Microsoft®     134 FORMAL CONTRACTS OF THE LATER REPUBLIC.   concerned. Heimbach* is therefore wrong in taking  the above passage as equivalent to " Eacpensos tiM  tuli ?" " Expensos mihi tulisti." The transaction was  evidently dififerent from expensilatio, and can have  been nothing else than a dhirographtim. Another  specimen chirographum preserved in the Digest^  shows that the promise or acknowledgement was  sometimes made in a letter from the debtor to the  creditor.   > Cred. p. 330. 2 2 Dig. 14. 47.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VI.   CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part I.   Consensual Contracts.   Art. 1. Emtio Venditio. The forms of con-  tract hitherto examined have been distinguished from  most of the contracts of modern law in one or more  of the following respects :   (i) They were confined to Roman citizens.   (ii) They were unilateral.   (iii) They were capable of imposing obligations  only by virtue of some particular formality.   (iv) They were available only inter praesentes.   The contract which we are now about to consider  was modem in all its aspects :   (i) It was open to aliens as well as to citizens.   (ii) It was bi-lateral.   (iii) It rested only upon the consent of the  parties, required no formality, and could be re-  solved like any modem contract into a proposal by  one party' which became a contract when accepted  by the other party.   1 Plant. Epid. 3. 4. 35.     Digitized by Microsoft®     136 CONTRACTS OF THE IVS OENTIVM.   (iv) It could be made at any distance, provided  the parties clearly understood one another's meaning.   How then can the formal contracts of the older  law ever have produced such a modem institution to  all outward appearance as the consensual contract of  sale?   The elements which make up the popular con-  ception of sale are usually fourfold ; they consist of:   (1) The agreement by which buyer and seller  determine to exchange the wares of the latter for  the money of the former;   (2) The transfer of the wares from the seller to  the buyer ;   (3) The pajrment of the price by the buyer to  the seller ;   (4) The representation, express or implied, of  the seller to the buyer, that his wares are as good in  point of quantity or quality as they are understood  to be.   Mandpatio was at first a combination of the  second and third elements above-mentioned. It  was a transfer of ownership followed by an imme-  diate payment of the price. Subsequently, as we  saw, the payment became separated from the trans-  fer, so that mancipatio represented only the second  element. The fourth element, that of warranty,  existed to a certain extent in those sales in which  the transfer of property was made by moundpatio,  and this fourth element we shall consider further in  a later section. But throughout the early history of  Rome the first element, indispensable wherever a  sale of any kind takes place, was completely un-     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF ACTIO EMTI. 137   recognised by the law. The reason is that the  preliminary agreement between buyer and seller was  nothing more than a pactum, an agreement without  legal force because usually without form. The parties  might always of course embody their agreement of  sale in a sponsio and restipulatio, but in such a case  all that the law would recognise would be the re-  ciprocal sponsiones, not the agreement itself Why,  we may ask, was recognition ever accorded to this  preliminary pactum ? In other words, what was the  origin of emtio uenditio, which turned the pactum  into a contract ?   Bekker's plausible theory' adopted by Muirhead"  is that contracts of sale were originally entered into  by means of reciprocal stipulations, and that the actio  emti was but a modification of the actio ex stipu-  latu founded on those stipulations, while it borrowed  from the actio ex stipulatu its characteristic bonae  fidei clause. But how then did the notion of bona  fides arise in the actio ex stipulatu itself? Bekker  seems to have put the cart before the horse, and  Mommsen" holds the far more reasonable view that  the actio emti was the original agency by which  bona fides found its way into the law of contract, in  which case the actio ex stipulatu must have been not  the prototype but the copy of the actio emti.   The origin of the actio emti was indeed very  curious, since it seems clearly to have been suggested  and moulded by the influence of public law. The  sales of public property, which used at first to be   1 Akt. I. 158. ^ Bom. Law, p. 334.   3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. 265.     Digitized by Microsoft®     138 CONTRACTS OF THE IVS OENTIVM.   carried out by the Consuls and afterwards by the  Quaestors', became increasingly frequent as the  conquests of Rome were multiplied, and as the  supplies of booty, slaves and conquered lands be-  came more and more plentifiTl. The purchase by  the State of materials and military supplies was  also of frequent occurrence, as the wealth of Rome  increased. Now these public emtiones and iiendi-  tiones constantly occurring between private citizens  and the State were founded upon agreements neces-  sarily formless. The State could clearly not make a  iusiurandum or a sponsio, but the agreements to  which the State was a party (according to the  fundamental principle laid down at the beginning  of this inquiry that the sanction of publicity was as  strong as that of religion) were no less binding than  the formal contracts of private law. A public breach  of bona fides would have been notorious and dis-  graceful. Whenever therefore the State took part  in emtio uenditio, the agreement of sale was thereby  invested with peculiar solemnity ; and thus in course  of time the pactum uenditionis became so common as  an inviolable contract that the actio emti uenditi was  created in order to extend the force of the public  eTTitio uenditio into the realm of private law. As  soon as this action was provided, emtio uenditio  became a regular contract, which was necessarily  bilateral because performance of some sort was  required from both parties. An action could thus  be brought either by the buyer against a seller  who refused to deliver (actio emti), or by the  ^ MommseD, Z. der Sav. Stift. E. A. vi. p. 262.     Digitized by Microsoft®     INFLUENCE OF PUBLIC SALES. 139   seller against a buyer who failed to pay {actio  uenditi).   The history of the words emere uendere is in-  structive. We can see that at first they were not  strictly correlative. Vendere or uenumdare meant to  sell, not in the sense of agreeing upon a price, but  in the sense of transferring in return for moneys ;  while eniere meant originally to take or to receive,  without reference to the notion of buying''. But  neither emere nor uendere was at first a technical  term. Emere subsequently got the specialized sense  of purchasing for money as distinct from permutare,  to barter ^, but this particular shade of meaning seems  like the actio to have had a public origin. The old  technical expression for the purchase of goods at public  sale was emtio sub hasta or sub corona, while the object  of the sales was to get money for the treasury, and  therefore the consideration was naturally paid by  purchasers in coin. These public uenditioiies thus  led to three results:   1. The agreement of sale came to the front as  the element of chief importance, and as a transac-  tion possessing all the validity of a contract.   2. The word emere came to denote the act of,  buying for money, as distinct from permutatio which  meant buying in kind.   3. The uenditio of public law resting wholly upon  consent, which was probably signified by a lifting up of  the hand in the act of bidding*, and being necessarily  a transaction bonae fidei, it follows that when emtio   ^ Voigt, I. N. IV. 519. ^ Paul. Diac. s. u. emere.   2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word manceps.     Digitized by Microsoft®     140 CONTRACTS OF THE lYS GENTIVM.   uenditio was made actionable in private law, consent  was the only thing required to make the contract  perfectly binding, and that the rules applicable to  it were those, not of iiis strictwm, but of bona  fides.   The complete recognition of emMo uenditio was  only attained by degrees. The first step in that  direction seems to have been the granting of an  exceptio rei uenditae et traditae to a defendant  challenged in the possession of a thing which he had  honestly obtained by purchase and delivery. The  second step was the introduction of the actio Puhli-  ciana, through which a plaintiff, deprived of the  possession of a thing that had been sold and de-  livered to him (1) by the owner or (2) by one whom  he honestly believed to be the owner, might recover  it by the fiction of usucapio^.   These remedies, the exceptio and the actio, were  necessary complements to one another. The former  was a defensive, the latter an offensive weapon, and  they both served to protect a bona fide purchaser  who had by fair means obtained possession of an  object to which in strict law another might lay  • claim. The exceptio rei uenditae et traditae^ was  founded upon an Edict worded somewhat as follows :   SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM  VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO ^ ; and in   the formula of an action by the seller to recover the  thing sold this exceptio would have been introduced  thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius   1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ i_ 20.   3 Voigt, I. N. IV. 517.     Digitized by Microsoft®     ACTIO PYBLIOIANA. 141   N" Negidio vendidit et tradidit Its effect was to   protect the bona fide purchaser even of a res mancipi  against the legal owner who attempted to set up his  dominium ex iure Quiritium. On the other hand  the actio Publiciana in its alternative form, was  based on two Edicts worded somewhat as follows:   (i) SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA  CAVSA A DOMINO ET NONDVM VSVCAPTVM PETET,  IVDICIVM DABO\   (ii) SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET EI  TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV-  CAPTVM PETET, IVDICIVM DABO I   The precise wording of these Edicts is much dis-  puted, but the question of their correct emendation  is too large to be discussed here. The formula of an  actio Publiciana based on the second Edict is given  by Gaius '" and ran as follows : Si quern hominem A^  Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset,  turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri-  tium esse oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato, s. n.p. a.   The usefulness of these actions as a protection to  sale is apparent. They secured the buyer in posses-  sion of the object sold to him until usucapio had  ripened such possession into full dominium ; but  they were useful only when his possession had been  interrupted and he wished to recover it. On the  other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro-   1 Voigt, I. N. IV. 478.   2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36.   ■• BONA FIDE here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.  2. 7. fr. 15.     Digitized by Microsoft®     142 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   tected him till the period of tisucapio agaiost the  former owner; but it was only usefal where his  possession had not been interrupted. The date of  the actio Publidana and of this exceptio are not  to be fixed with absolute certainty; but it is quite  clear that neither of them had anything to do  with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as  having existed about A.v.c. 685'. Though there  is no mention of either actio or exceptio in the  writers of the Republican period, yet it is clear  from some passages of Plautus^ that the tradition  of res mancipi sold was in his time a transac-  tion protected by the law, and Voigt ^ has shrewdly  argued that both actio and exceptio must be older  than the actio emti, because the latter aimed at  securing delivery (habere licere) which would have  been of no use had not delivery already been protected  by legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a  Consul M. Publicius Malleolus of A. v. c. 5 22*, and the  conjecture that he was the author of the actio Publi-  dana seems very plausible °. The exceptio rei uen-  ditae et traditae was probably somewhat older, for  the defensive would naturally precede, not follow, the  offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's  opinion have been contemporary with the actio  Publidana, because it does not bear the name of  exceptio Publidana, which it otherwise would have  borne ° This argument does not seem to me strong,   1 Cie. Cluent. 45. 126.   2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2. 23.   ' I. N. XV. 469. < = Praetor in a.v.c. 519.   " Voigt, I. N. IV. 505. 6 I. N. iv. 468.     Digitized by Microsoft®     SALE ENFORCED BY EDICT. 143   since we know that the famous exceptio doli was not  called exceptio Aquiliana. But the point is not an  important one. It is enough to be able to say with  approximate certainty that the exceptio rei uenditae  et traditae and the actiones Puhlicianae were intro-  duced by some Praetor about A.v.c. 520.   Still the agreement of sale was not yet enforce-  able as such. In private affairs it remained what it  had been from the time of the XII Tables, a formless  agreement supported only by the mores of the com-  munity, whereas in public affairs it was still techni-  cally a pactum as before, except that the publicity  of sales made by the Quaestors gave to their terms  a peculiarly binding force. The solemnity always  attaching to transactions done in the presence of the  people was, as we have seen, at the root of this respect  paid to the public uenditio.   At last the Praetor of some year decided to  make the emiio uenditio of private law the ground  of an action, and thus put it on a level with the  public uenditiones. We do not know the terms of  the important Edict by which the actio emti was  introduced, but the formula of the action (ex uendito)  brought by the seller is partly given by Gains ^ and  must have been as follows : Quod Aulus Agerius  mensam N" Negidio uendidit, quidqvid paret oh earn  rem iV™ Negidium A" Agerio dare facere oportere  ex fide bona'', eius, index, N™ Negidium A" Agerio  condemnato. s. n. p. a. The intentio here was exactly  the same as that of the actio ex stipulatu, and was  probably its prototype, both of them being equally  1 IV. 131. 2 cio. Off. III. 16. 66.     Digitized by Microsoft®     144 CONTRACTS OF THE lYS GENTIVM.   bonae fidei actions. The formula of the action (ex  emto) brought by the purchaser was worded in like  fashion: Quod A' Agerius de N" Negidio hominem  quo de agitur emit, quidquid oh earn rem N^ Negidium  A" Agerio dare facer e oportet ex fide bona, eiv^, index,   t&C. (&C.   The age of the a^tio emti has been very hotly  disputed, and the most knotty question has been  whether the action existed or not in the days of  Plautus, who died A.v.c. 570. The chief opponent  of the affirmative theory has been Bekker', but the  arguments of Demelius", Costa', Voigt* and Bech-  mann' are so convincing that little doubt on the  subject can any longer be entertained. It appears  absolutely certain that the actio emti was a feature  of the law as Plautus knew it. An elaborate proof of  this proposition has been so well given by Demelius  and Costa that it is not necessary to do more than  sum up the evidence.   (i) The contract of emtio uenditio was discussed  by Sex. Aelius Paetus Catus (Cos. A.V.C. 556) pro-  bably in his Tripertita, and by C. Liuius Drusus  (Cos. A.v.c. 642)«.   (ii) The aedilician Edict, which presupposed  that emtio uenditio was actionable, is mentioned by  Plautus '.   (iii) We find in Plautus many passages which  are only intelligible on the supposition that emtio   ' AU. I. 146, note 38. ^ z.fiir SG. ii. 177.   3 Dir. Pnvato 365-73. * I. N. iv. 542.   5 Kauf, I. pp. 511-526. « 19 Dig. 1. 38.  7 Capt. 4. 2. 43.     Digitized by Microsoft®     INSTANCES IN PLAUTUS. 145   uenditio was actionable. For instance in Mostel-  laria^, where the son of Theuropides pretends to  have bought a house, and where the owner of the  house is represented as begging for a rescission of  the sale, we cannot suppose, as Bekker does''', that  fides was the only thing which bound the owner.  Had it not been for the existence of the actio emti  he could not have been represented as trying to have  the sale cancelled'.   Again, in Act 5, Scene 1, the slave Tranio ad-  vises his master Theuropides to call the owner into  court and bring an action for the mancipation of the  house *, and this can be nothing else than a reference  to the actio ex emto. In the same play° it is also  plain that hona fides was a principle controlliiig the  iudicium ex emto.   Again in Persa ' it is clear that Sagaristio, when  selling the slave-girl, would not have taken such  pains to disclaim all warranty if he could not have  been compelled by the actio emti to make good the  loss sustained by the purchaser. To prevent this  liability Sagaristio is careful to throw the whole  periculum on the buyer. Why should he have done  so, had there been no actio emti ?   Again in Rudens the leno, who had taken  earnest-money for the sale of a slave girl and had  then absconded with her, would not have been so  much afraid of meeting the buyer Plesidippus, if he   1 3. 1. and 2. ^ de Empt. Vend. p. 16.   3 3. 2. 110.   * 5. 1. 43. Cf. Gai. iv. 181. « 3. 1. 139.   8 4. 4. 114. and 4. 7. 5.   B. E. 10   Digitized by Microsoft®     146 CONTRACTS OF THE IVS 0ENTIVM.   had not feared the actio emti. And when the slave  girl was finally abiudicata from the leno *, Demelius  and Costa are unquestionably right in regarding this  as a result of a iudicivmi ex emto. Bekker's opinion  that it was the result of a uindicatio in libertatem  seems hardly to agree with the fact that the leno is  not represented as knowing of her free status till  two scenes later''. We might multiply instances,  but the evidence is so fully given by others that it is  not worth repeating. The general conclusion to be  drawn from the above facts is that emtio uenditio  became actionable before A.v.c. 550; and, if our  argument be right, later than 520, the date of the  actio Publiciana.   From Plautus we gather further that arrha or  arrhabo, the pledge or earnest money which Gaius  mentions in this connection, was often given to bind  the bargain of sale as well as other bargains. From  this it has been argued that pure consensus must have  been insufficient to make the contract binding'; but,  if that be so, why should the arrha have been used  in Gains' day, when we know that sale was purely  consensual ? In Rudens " it is clear that the arrhabo  was not a necessary part of the transaction, but a  mere piece of evidence, so that arrhahonem acceperat  simply means uendiderat^. The use of arrhaho is  mentioned also in Mostellaria^ and Poenulus^. It  was probably forfeited by the purchaser in case the  bargain fell through.   ^ 5. 1. 1. 2 5. 3—8.   ' Bekker, Heid. Krit. Jahrschrift, i. 444.   ■* 2. 6. 70. « Brid. Prol. 45-6.   6 3. 1. 111—4. 4. 21. ' 5. 6. 22.     Digitized by Microsoft®     WARRANTY IN SALE. 147   Having now seen how the actio emti uenditi  originated and what was its probable age, let us see  what obligations were imposed by the conclusion of  the sale upon each of the parties to it :   (1) Upon the purchaser (emtor).   His chief duty was reddere pretium, to pay  the price agreed upon', and if the price consisted  partly of things in kind, his duty was to deliver  them " ; but according to Voigt ' there was no obli-  gation iipon him to do more than deliver.   A duty which the purchaser seems very early  to have acquired was that of compensating the seller  for mora on his part *.   (2) Upon the vendor (tienditor-).   His chief duty was rem praestare ° (or rem habere  licere), to give quiet possession to the vendee ; but  this did not include the obligation to convey  dominium ex iure Quiritium,".   The actio emti, as we have now examined it,  enforced three things : (1) recognition of the con-  sensual agreement of sale, (2) delivery by the seller,  (3) prompt payment by the buyer. Thus it dealt  with three of the elements involved in the general  conception of sale. The fourth element, that of  warranty, remains to be considered.   We know that this fourth element was covered  by the actio emti in the time of Ulpian, but it does  not seem to have been so during the Eepublic.  Both Muirhead' and Bechmann* have involved the   ' Varro, R. R. n. 2. 6. ^ Cato, R. R. 150.   3 /. N. in. 985. ^ 19 Dig. 1. 38 fr. 1.   « 19 Dig. 1. 11. " 19 Dig. 1. 30 ; 18 Dig. 1. 25.   !■ R. Law, p. 285.. ^ Kauf. i. 505.   10—2   Digitized by Microsoft®     148 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   subject in unnecessary difficulty by confusing a honae  fidei contract of sale with one in which warranty  was employed. They speak as though bona fides  included warranty, a proposition not necessarily tnie  and of which we have no proof. It appears, on the  contrary, that the actio emti to enforce warranty was  of much later origin than the actio emti to enforce  consensual sale '. We have therefore to inquire how  warranty was originally given and how it was made  good.   The only kind of warranty which we have hitherto  encountered is that against eviction implied in every  mancipatio and enforced by the actio auctoritatis.  This method was but of limited scope, since it ap-  plied only to res mancipi.   After the introduction of the condictio incerti, it  became possible to embody warranties in the form of  a stipulation. This was accomplished in one or more  of the following ways :   (1) The stipulatio duplae specified the warranty  given by the vendor, and provided in case of a breach  for liquidated damages in the shape of a poena dupli,  which was doubtless copied from the duplwm of the  a^tio auctoritatis. The best specimens of this stipu-  lation are texts 1 and 2 of the Transylvanian Tablets  printed by Bruns ''-. It was apparently used in those  sales of res mancipi, which were consummated not by  mancipatio but by traditio '. Its superiority to the  warranty afforded by the actio auctoritatis was that  it guaranteed quality as well as title, which the actio   1 Girard, Slip, de Garantte, N. R. H. de D. vii. p. 545 note.  ^ Font. p. 256. ^ Varro, B. R. ii. 10. 5.     Digitized by Microsoft®     STIPULATIONS OF WARRANTY. 149   auctoritatis could not do. The Tablets indeed show  that the warranties against defects in this stipulation  "were exceedingly comprehensive, and that it defended  against eviction not only the buyer, but also those in  privity with him (emtorem eumue ad quern ea res per-  tinebit).   (2) We also find a stipulatio simplae, of which  the best instances are texts 3 and 4 of the Transyl-  vanian Tablets and which, according to Varro ^ might  be used as an alternative to the stipulatio duplae, if  preferred by the two parties. Its aim in securing the  buyer against eviction and defects was precisely the  same as that of the former stipulation; its only  difference being that the damages were but half  the former amount, i.e. were exactly measured by  the price of the thing sold. Girard and Voigt are  probably wrong in identifying this stipulation used  for res mancipi with the next one, which was  apparently used only in sales of res nee man-  cipi.   (3) Another stipulation of frequent occurrence  was the stipulation recte habere licere. This guaran-  teed quiet possession so far as the seller was con-  cerned. Its scope was therefore not so wide as that  of the stipulatio siviplae or duplae. The vendor  simply promised recte habere licere, but specified no  penalty in the event of his non-performance, so that  the action on the stipulation must have been a  condictio incerti, in which the damages were assessed  by the judge. The import of the word 'recte' was  doubtless not the same as that of ex fide bona ; but,   1 R. R. II. 2. 5.     Digitized by Microsoft®     150 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   as Bechmann ^ has pointed out, it simply implied a  waiver of technical objections.   (4) A stipulation as to quality alone is men-  tioned by Varro " as annexed to the sale of oxen and  other res mancipi. The vendor simply promised  sanos praestari, so that in this case also the remedy  was condictio incerti for judicial damages.   (5) A satisdatio secundum mancipiimi is also  mentioned by Cicero' and in the Baetic Tablet ^  But its nature and form are quite uncertain. Its  name implies that it had some connection with  auctoritas, and the most likely theory seems to be  that it was a stipulation of suretyship, by which  security was given for the auctor, either to insure  his appearance (and if so, it was a form of uadimo-  nium/') or to guarantee his payment of the poena  dupli, in the event of eviction (and if so, it was a  form oifideiiissio ').   The three first of the above stipulations prove  that even in the early Empire (a.d. 160 is the sup-  posed date of the Transylvanian Tablets) actio emii  was not yet an action for implied warranty. Ulpian's  language also indicates that the implication of war-  ranty was a new doctrine in his day '.   Thus far we have seen that stipulations of war-  ranty were customary, and that by the stipulatio  duplae or simplae both title and quality were  secured. The next step was to make these stipu-   1 Kauf. I. p. 639. ^ ii. 5. 11.   » ad Att. V. 1. 2. * Bruns, Fcmtes, p. 251.   " Varro, vi. 7. 54. ^ gge Girard, loc. cit. p. 551.   ' 21 Dig. 1. 31 fr. 20.     Digitized by Microsoft®     LOGATIO OONDVGTIO. 151   lations compulsory, and this was first accomplished  by the Aediles, in their Edict regulating, among  other things, sales in the open market. Plautus  mentions this Edict, and refers to the rule of red-  hibitio which it enforced \ The first positive mention  of aedilician regulations as to warranty occurs how-  ever in Cicero ^ and from this it appears that the  Aediles first compelled a stipulatio duplae in the sale  of slaves. This innovation was doubtless intended to  punish slave dealers, who were, as Plautus shows, a  low and dishonest class, by imposing upon them the  old penalty of duplum. The two aedilician actions  which could be brought, if the stipulatio duplae had  not been given, were (1) the actio redhibitoria, avail-  able within two months, and by which the vendor  had to restore the duplum of the price"; (2) the  actio quanti emtoris intersit*, available within six  months for simple damages. Further than this,  however, the law of the Republic did not advance.  It was not till the day of Trajan and Septimius  Severus that the stipulations of warranty were  compulsory for other things than slaves*, and we  cannot therefore here trace the development of  warranty to its consummation.   Art. 2. LocATio Condvctio. The word locare  has no technical equivalent in English, for it some-  times expresses the fact of hiring, sometimes that of  being hired. It means literally to place, to put out.   1 Capt. i. 2. 44 ; Bud. 2. 3. 42 ; Most. 3. 2. 113.   2 Off. III. 17. 71.   3 21 Dig. 1. 45. « 21 Dig. 1. 28.  5 Girard, N. B. H. de D. viii. p. 425.     Digitized by Microsoft®     152 CONTRACTS OF THE IVS GBNTIVM.   As we say that a capitalist places his money, so the  Romans said of him pecunias locat\ The State was  said opios locare when it paid a contractor for doiag  a job, while the gladiator who got paid for fight-  ing was said operas locare. This contract was con-  sensual and bi-lateral like emtio uenditio, and had a  very similar origin. It is easy indeed to see that for  a long time there was no distinction made between  locatio and uenditio. The latter meant originally, as  we have seen, to transfer for a consideration, and  thus included the hire as well as the sale of an  object. Festus accordingly says that the locationes  made by the Censors were originally called uendi-  tiones ^ The confusion thus produced left its traces  deeply imprinted in the later law, for we find Gaius'  remarks on locatio condiictio chiefly devoted to a  discussion of how in certain doubtful cases the  line should be drawn between that and emtio uen-  ditio.   Like emtio uenditio, this contract was developed  in connection with the administration of public busi-  ness. The public affairs in which contractual relations  necessarily arose were of four kinds ' :   (1) Sales of public property, such as land, slaves,  etc., which devolved upon the Quaestors. This class  of transactions produced the contract of emtio uen-  ditio, as above explained.   (2) Contracts for the hire of public servants,  generally known as apparitores. These were the  lictores and other attendants upon the different   ' Most. 1. 3. 85. ^ Festus, s. u. uenditiones.   " Mommsen, Z. der Sav. Stif. R. A: vi. 262.     Digitized by Microsoft®     VARIOUS FORMS OF HIRE. 153   magistrates, and were naturally engaged by those  whom they respectively served. This hiring gave  rise to the contract known as condiictio operarum,  while the offer of such services to the State con-  stituted locatio operarum.   (3) Business agreements connected with public  work, such as the building of temples or bridges,  the collection of revenue, etc. This class was in  charge of the Censors \ and developed the contract  of locatio operis, while the transaction viewed from  the standpoint of the contractor became known as  conductio operis.   (4) Agreements for the supply of various kinds  of necessaries for the service of the State, such as  beasts of burden, waggons, provisions, etc. This  hiring produced the contract known as conductio rei,  while the contractors who supplied such commodities  were said rem locare.   Thus the first group of public transactions gave  birth to the contract of sale in private law, while the  three last groups each became the parent of one of  the three forms of the contract of hire.   Just as uenditio seems to have been the original  equivalent of locatio, so must emtio have been the  original term for what was afterwards known as  conductio. Conducere can originally have applied  only to the second class of agreements; it must  have denoted the collecting and bringing together  of a body of apparitores. Afterwards, when the  notion of hiring became conspicuous, conducere doubt-  less lost its narrow meaning, and was extended to   1 Liu. xMi. 3.     Digitized by Microsoft®     154 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   the pther two kinds of hire, as the correlative to  locare '-   The wholly distinct origin of these various kinds  of locatio conductio, and the fact that they were  transacted by different magistrates, are sufficient  reasons for the curious distinction which the classical  jurisprudence always drew between locatio conductio  r&i, operis and operarum. A trace of the old word  emere as equivalent to conducere always remained in  the word redemtor, meaning a contractor for public  works. This term was never applied to the apparitor,  since it was he who took the initiative and who  was thence regarded as a locator operarwm.   When the conception of locatio conductio became  separated from that of emtio uenditio it is impossible  to determine. But since the two transactions appear  in Plautus distinct as well as enforceable, and since  the contract of sale was only recognised shortly before  Plautus' day, the conceptions of sale and of hire pro-  bably became quite distinct before either transaction  became actionable. We can trace in many passages  of Plautus the three forms locatio rei", locatio operis',  locatio operarum* ; and it can hardly be imagined  that these contracts could have been so common and  so distinctly marked had they not been provided  with actions. Voigt ' however is of opinion that the  three different forms of locatio conductio became  actionable at different periods. Locatio conductio   ' Mommsen, ib. p. 266.   2 Pseud. 4. 7. 90 ; Merc. 3. 2. 17.   3 Bacch. i. 3. 115 ; Persa, 1. 3. 80.   * Aul. 2. 4. 1 ; Merc. 3. 4. 78 ; Epid. 2. 3. 8.  = I. N. IV. 596, ff.     Digitized by Microsoft®     AGE OF THE VARIOUS FORMS. 155   operis and operarwm he places earliest, and admits  that they were known as contracts by the middle of  the sixth century, which would bring them very  nearly to the age of emtio uenditio ; but from  Cato ^ he infers that locatio conductio rei was of later  origin and that it did not become actionable until  the first half of the seventh century. The earliest  actual mention that we possess of locatio conductio is  by Quintus Mucins Scaeuola, author of 18 books on  the IxiS Giuile'', whom Cicero quotes^, though we  cannot tell whether the quotation refers to all  kinds of locatio conductio or only to the locatio  conductio operis. Certain it is that in Cato ' locatio  conductio rei seems to be treated rather as emtio  uenditio fructus rei. It is also remarkable that lo-  catio conductio rei is seldom mentioned in Plautus ^  and so briefly that we can form no conclusion as to  whether it was or was not actionable; whereas on  the contrary locatio conductio operis and operarum  appear very often and exhibit all the marks of  ' thoroughly developed contracts. For instance, the  locatio conductio operancni in Asinaria" contains a  lex commissoria, and that in Bacchides'' provides for a  bond to be given by the locator operarum binding  him to release the person whose operae he had been  employing, as soon as the work was finished. Again  in Miles Gloriosus^ the technical term improbare  opus is used to express the rejection of work badly  carried out by a contractor. All this points to the   1 R. B. 149. 2 i.y.c. 661-672. •* Off. in. 17. 70.   * R. R. 149, 150. 5 Cure. 4. 1. 3 ; Merc. 3. 2. 17.   6 1. 8. 76. ' 1. 1. 8. ? 4. 4. 37.     Digitized by Microsoft®     156 CONTRACTS OF THE IV8 GENTIVM.   existence of an action for locatio conductio operarum  and for locatio conductio operis at the time when  Plautus wrote'; hut Voigt seems right in concluding  that locatio conductio rei did not become actionable  till a good deal later.   The origin of this action, as of the actio emti, was  in the Praetor's Edicts and in form it differed but  little from the actio emti uenditi. Like the latter it  was bonae fidei^ and its form {ex locato) must have  been as follows : Quod A^ Agerius N" Negidio  operas locauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negi-  dium A" Agerio dare facere oportere ex fide bona,  eius, iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato.  s. n. p. a. Like emtio uenditio it is also clear that  locatio conductio of all kinds could be made by mere  consensus, and that from the first it must have been  a 6onae fidei contract like its prototjrpe.   The writings of Oato * are our chief authority for  the existence of the locatio conductio operis and  operarum in the second half of the seventh century,  and for the manner in which these locationes were  contracted. It appears to have been customary to  draw up with care the terms (leges locationis) of such  contracts, and when these were committed to writing,  as they doubtless must have been, they exactly  corresponded to the contracts made in modem  times between employers and contractors.   Already in the Kepublican period the jurists had   ^ So Demelins, Z.filr RG. ii. 193 ; Bechmann, Kauf. i. p. 526 j  but Bekker denies it Z.fUr RG. iii. 442.   ■•i .50 Dig. 16. 5. ^ Cic. N. D. iii. 30. 74 ; Off. a. 18. 64.   * R. R. 141-5.     Digitized by Microsoft®     FURTHER DISTINCTIONS. 157   begun to subdivide the classes of contracts above  mentioned.   (1) They distinguished between various sorts of  locatio cmiductio rei. There was (a) rei locatio frii-  endae in which the use of the object was granted ^  (6) rei locatio ut eadem reddatur in which the object  itself had to be returned, and (c) rei locatio ut eiusdein  generis reddatur ''■ in which a thing of the same kind  might be returned.   (2) The two kinds of locatio condiictio operis  were also most probably distinguished at an early  date into : (a) locatio rei faciendae in which a thing  was given out to be made (epyov), and (6) locatio  operis faciendi^ in which a job was given out to be  done {aTTOTeXea/jia).   (3) Locatio condvxtio operarum alone does not  seem to have been subdivided in any way.   The object of these distinctions was doubtless to  define in each case the rights and duties of the  conductor. The technical expression for the remu-  neration in locatio conductio was m,erx*, and it was  always a sum of money, probably because it was  originally paid out of the aerarium and therefore  could not conveniently have been given in kind.  The fact that in Plautus the word pretium was often  used instead of merx, shows that the distinction  between locatio conductio and emtio uenditio was still  of recent origin when he wrote; but our general  conclusion must be that this contract was known   ^ Gai. III. 145 ; Lex agraria, c. 25.   2 19 Dig. 2. 31 ; 34 Dig. 2. 34.   3 19 Dig. 2. 30 ; 50 Dig. 16. 5. * Varro, L. L. v. 36.     Digitized by Microsoft®     158 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   to him in some at least of its forms, and that in  all its branches it arrived at full maturity in the  Republican period.   It is worth remembering that the Lex Rhodia  de iactu, the parent of the modern law of general  average, was enforced by means of this action. The  owner sued the ship's magister ex locato, and the  magister forced other owners to contribute by suing  them ex conducto\ This law was discussed in Re-  publican times by Servius Sulpicius and Ofilius".   Art. 3. Before proceeding further with our  history of the ius gentmm contracts we must notice  the important innovation made by the Edict Pacta  conuenta, the author of which was C. Cassius Longi-  nus, Praetor A.v.c. 627'. We have seen how the  pactum uenditionis and the pactwn locationis had  been recognised and transformed into regular con-  tracts about seventy years before this time. The  present Edict gave legal recognition to pacta in  general, and thus rendered immense assistance in  the development of formless Contract.   Its language was somewhat as follows^: PACTA   CONVENTA, QVAE NEC VI NEC DOLO MALO NEC AD-  VEESVS LEGES PLEBISCITA EDICTA MAGISTKATVVM  FACTA ERVNT, SERVABO.   The scope of the Edict was, however, less broad  than might at iirst be supposed. It might well be  understood to mean that all lawful agreements would  thenceforth be judicially enforceable. But as a  matter of fact the test of what should constitute   » Camazza, Bir. Com. p. 172. ■' 14 Dig. 2. 2. fr. 3.   3 Voigt, Bom. EG. i. 591. ■• 2 Big. 14. 7. fr. 7.     Digitized by Microsoft®     EDICT PACTA OONVENTA. 159   an enforceable pactum lay in the discretion of  the individual Praetor. He might or might not  grant an action, according as the particular agree-  ment set up by the plaintiff did or did not appear  to him a valid one. This Edict was therefore  nothing more than an official announcement that the  Praetor would, in proper cases, give effect to pacta  which had never before been the objects of judicial  cognizance. It needs no explanation to show what  important results such an Edict was sure to produce,  even in the hands of the most conservative Praetors;  and accordingly we find that in the next century new  varieties of formless contract arose from the habitual  enforcement by the Praetor of corresponding pacta.   The mode in which tentative recognition was  accorded to the new praetorian pacta was the  devising of an actio in factum^ to suit each new set  of circumstances. The formula of such an action  simply set forth the agreement, and directed the  judge to assess damages if he should find it to  have been broken. This was doubtless the means  by which societas, mandatum, depositivm, commoda-  tum, pignus, hypotheca, receptum, constitutum — in  short, all the contractual relations originating in  the last century of the Kepublic — were at first  protected and enforced. A curious historical parallel  might be drawn between these actiones in factum  and our "actions on the case." Not only are the  terms almost synonymous, but the adaptability of  each class of actions to new circumstances was  equally remarkable; and the part played by the  1 2 Dig. 14. 7. fr. 2.     Digitized by Microsoft®     160 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   latter class in the expansion of the English Law of  Tort bears a striking reseniblance to that played  by the former in the development of the Roman  Law of Contract.   We shall see specimens of the actio in factum  based upon the edict Pacta conuenta, when we come  to examine the various contracts of the later Re-  public which all owed their origin to the Praetor's  Edict.   Art. 4. Mandatvm. The age of the actio man-  dati is difficult to fix, but there are good reasons for  believing that it was the third bonae fidei action  devised by the Praetor, and that it is older than  the actio pro socio. Mandatv/m was an agreement  whereby one person, at the request of another,  usually his friend', undertook the gratuitous per-  formance of something to the iaterest of that others  In short, it was a special agency in which the agent  received no remuneration. Its gratuitous character  was essential, for where the agent was paid, the  transaction was regarded as a case of locatio conductio.  We know that the testamentum per aes et libram was  virtually a mandatum to the familiae emtor', and  that fideicommissa, which began to be important  towards the end of the Republic, were nothing but  mandata*; it is plain too that as an informal trans-  action mandatum, must always have been practised  long before it became recognised by the Praetor.   The earliest piece of direct evidence^ which we   1 Cie. Eosc. Am. 39. 112. == Gai. iii. 156.   s Gai. II. 102. 4 Ulp. Frag. 25. 1-3.   » Auot. ad Her. ii. 13. 19.     Digitized by Microsoft®     MAJVDATVAf. 161   have as to the actio mandati is that it existed in  A.V.C. 631 under the Praetorship of S. lulius Caesar.  It is probable that the action was then of recent  origin, and represented the first-fruits of the Edict  Pacta conuenta^, for Caesar treated it as non-  hereditary, whereas the Praetor Marcus Drusus soon  afterwards granted an actio in h&redem according to  the rule of the later law''   From Plautus it distinctly appears that Tnandatum  was a well developed institution in his day, but there  is no evidence to prove that an actio mandati already  existed. The transaction is often mentioned', and  must have been necessary in the active commercial  life which Plautus has pourtrayed. In Trinummus*,  for instance, we see a regular case of mandatv/m  generate. The phrase "mandare fidei et fiduciae"  here indicates that fides pure and simple was the  only support on which mandatum rested, and that  there was no motive beyond friendly feeling to  compel the performance of the mandatum. On the  other hand the word infamia is thought to have had  a technical meaning, as an allusion to the fact that  the actio mxvndati was fam,osa ^ ; but this is surely  a flimsy basis for Demelius' opinion that the actio  mandati was in existence as early as the middle of  the sixth century *.   It seems much safer to regard this action as   1 Voigt, Rom. EG. i. 681. ^ 17 Dig. 1. 53.   ' E.g. Bacch. 3. 3. 71-5 ; Gapt. 2. 2. 93 ; Asin. 1. 1. 107 ;  Epid. 1. 2. 27, 31 ; Gist. i. 2. 53.   ■< 1. 2. 72-121.   5 Cic. pi-o S. Rose. 38. Ill ; Gaec. 3. 7.   « Z. fur EG. II. 198 ; Costa, Dir. Priv. p. 390.   B. E. 11   Digitized by Microsoft®     162 CONTBACTS OF THE IVS GENTIVM.   younger than those of emtio iienditio and locatio  conductio, and to trace its origin to the influence of  the Edict Pacta conuenta. The earliest form of  relief granted to the agent against his mandator was  doubtless an actio in factwrn,, based upon that Edict,  and having a formula of this kind^ :   Si paret N™ Negidium A" Agerio, cv/ni is in  potestate l!- Titii esset, mandauisse ut pro se solioeret,  et A™ Agerium emancipatum soluisse, quanti ea res  erit, tantam pecuniam index N^ Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a.   When at length the Praetor was prepared to-  recognise mandatum as a regular contract of the ius  duile, he placed it on an equal footing with the older  bonae fidei contracts by granting the actio mandati,  with its far more flexible formula in ius concepta.  The actio mandati directa brought by the principal  against the agent had the following formula :   Quod A' Agerius N" Negidio rem curandam man-  dauit, quidquid paret oh earn rem N™ Negidium A"  Agerio darefacerepraestare oportere ex fide bona, eius,  iudex, N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.   In the actio contraria, by which the agent sued  the principal, the formula began as above, but the  condemnatio was different, thus:   quidquid paret ob eam rem A™ Agerium N"   Negidio dare facere praestare oportere e. f. b. eius  A™ Agerium N" Negidio condemna. s. n. p. a.   Or again, where the claims and counter-claims  were conflicting, the condemnatio might be made  still more indefinite, thus :   1 17 Dig. 1. 12. fr. 6.     Digitized by Microsoft®     GROWTH OF ACTIO MANDATI. 163   quidquid paret oh earn rem alterum alteri   dare facere praestare oportere e. f. b. eius alterum  alteri condemna. s. n. p. a.'   Unfortunately we do not know the language of  the Edict by which the actio mandati was instituted;  but the fact that it was modelled on the actions of  sale and hire is one that nobody disputes.   There is no direct authority for assuming the  existence of an actio in factum in this case, as there  is in the cases of commodatum and depositum, where  we have Gaius' express statement to that effects  But it is clear, from Gaius' allusion to "quaedam  causae" and from his use of "uelut," that double  formulae existed in many other actions. We may  well accept Lenel's ingenious theory' that the exist-  ence of an actio contraria always indicates the  existence of formulae in ius and in factum conceptae,  and the assumption here made is therefore no rash  conjecture.   The conception of mandatum changed somewhat  before the end of the Republic. It meant at first  any charge general or special*. But by Cicero's  time it had acquired the narrow meaning, which it  retained throughout the classical period, of a par-  ticular trust ^, while procuratio was used of a general  trust °, and its remedy was the actio negotiorum ges-  torum '   Thus it still remains for us to inquire to what   1 Lenel, Ed. Perp. p. 235.   2 Gai. IV. 47. ' Ed. Perp. p. 202.  * Cato, R. R. 141-3. = 17 Dig. 1. 48.   6 Cic. Top. 10. 42. ' Gai. in 3 Dig. 3. 46.   11—2   Digitized by Microsoft®     164 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   extent procuratio, i.e. general agency, was practised,  as distinguished from mandatv/m generate, i.e. special  agency with general instructions, and how general  agents (procuratores) were appointed.   Now it is one of the most striking features of the  Boman Law that agency of this sort was unknown  until almost the end of the Republic. How and  why so great a commercial people as the Romans  managed to do without agency, is a question that  has received many different answers. We may be  sure that mandatum was practised long before it  ever became actionable, but if so, it was practised  informally and had no legal recognition. The cir-  cumstance which made it almost impossible for  general agency to exist was that the Romans held  fast to the rigid rule : " id quod nostrum est sine  facto nostra ad ahum transferri nan potest \" Such  a rule evidently had its origin in the early period  when contracts were strictly formal, and when he  alone who uttered the solemn words or who touched  the scales was capable of acquiring rights. In a  formal period the rule was natural enough; but  the curious thing is that it should not have been  relaxed as soon as the real and consensual contracts  became important.   This fact has sometimes been accounted for on  ethical grounds. It has been said that the keen legal  conscience of the Romans made them loth to depart  from the letter of the law by admitting that a man  who entered into a contract could possibly thereby  acquire anjdihing for anybody else. But the true   > 50 Dig. 17. 11.     Digitized by Microsoft®     RARITY OF AGENCY. 165   reason seems rather to have been a practical one ^ —  that the existence of an agency of status precluded  that of an agency of contract. Thus we know that  householders as a rule had sons or slaves who could  receive promises by stipulation, though they could  not bind their paterfamilias by a disadvantageous  contract; and so to a limited extent agency always  existed within the Roman family. It is also obvious  that, in an age when men seldom went on long  journeys, the necessity for an agent or fully em-  powered representative cannot have been seriously  felt. Plautus shows however that agency was not  developed even in his day, when travel had become  comparatively common. In Trimimmus and Mostel-  laria, for instance, no prudent friend is charged with  the affairs of the absent father, and consequently the  spendthrift son makes away with his father's goods  by lending or selling them as he pleases \   We can however mark the various stages by  which the Roman Law approximated more and  more closely to the idea of true agency.   1. The oldest class of general agents were the  tutor es to whom belonged the management (gestio)  of a ward's or woman's affairs, and the curatores of  young men and of the insane.   2. The next oldest kind of general agents were  the cognitores, persons appointed to conduct a par-  ticular piece of litigation ", and not to be confounded  with the cognitores of praediatura *. They were ori-   1 Pemice, Labeo, i. 489. " Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74.   3 2 Verr. in. 60. 137 ; Gaee. 14.   * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp. 45.     Digitized by Microsoft®     166 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   ginally appointed only in cases of age or illness ^ and  their general authority was limited to the manage-  ment of the given suit. Gaius has shown us how  they were able to conduct an action by having their  names inserted in the condemnatio ^ Whether they  existed or not under the legis actio procedure is  uncertain ; but they probably did, since we know that  they were at first appointed in a formal manner =-  Subsequently the Edict extended their powers to the  informally appointed procuratores. The action by  which these agents were made responsible to their  principals was after Labeo's time the actio mandati*.  During the Republic however and before his time  the jurists do not seem to have regarded the relation  between cognitor and principal as a case of mandatum,  but simply gave an action corresponding to each par-  ticular case, as for instance an actio depositi if the  cognitor failed to restore a depositwn.   3. Procuratores were persons who in Cicero's  day" acted as the agents and representatives of  persons absent on public business ^ They often  appear to have been' the freedmen of their re-  spective principals, and their functions were doubt-  less modelled on those of the curatores. The  connection between curatores and procuratores is  seen in the Digest where pupilli and absent in-  dividuals are often coupled together', while the   ' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86.   3 Gai. IV. 83. ■< 17 Dig. 1. 8. fr. 1.   = Quint. 19. 60-62 ; -2 Verr. v. 7. 13 ; Lix lui. Mm. 1.   « Gaec. 57. • ' Cio. Or. 2. 249.   8 29 Dig. 7. 2. fr. 3 ; 47 Dig. 10. 17. fr. 11 ; 50 Dig. 17. 124.     Digitized by Microsoft®     PROOVRATIO. 167   definitions of procurator show that his power was  confined to occasions on which his principal was  absent \ and the word procuratio itself indicates  that it was copied from the curatio of furiosi ^ or of  prodigi.   One passage of Gaius " seems to imply that the  procurator was not always carefully distinguished  from the negotioruTn gestor or voluntary agent, and  Pernice interprets some remarks of Cicero * as indi-  cating the same fact. From this he infers with much  likelihood^ that the remedy against the procurator  was originally not the actio mandati but the actio  negotiorum gestorum^. Even in Labeo's time the  actio mandati was probably not well established in  the case of procuratores, though it was so by the  time of Gains'.   A procurator might conduct litigation for the  absent principal; but the acquisition of property  through an agent was not clearly established even  in Cicero's time °, though the principal could always  bring an action for the profits of a contract made  in his name".   4. Negotiorum gestio was a relation not based  upon contract, but consisted m the voluntary in-  tervention of a self-appointed agent, who undertook  to administer the affairs of some absent or deceased  friend. In the Institutes it is classed as a form of   1 Paul. Diac. s.u. cognitor. ' Lex agr. c. 69.   3 IV. 84. ^ Top. 42 and 66. " 17 Dig. 1. 6. fr. 1.   •> Labeo, I. 494. ' 4 Dig. 4. 25. fr. 1.   8 3 Dig. 3. 33. " Cic. Att. vi. 1. 4.   i» 3 Dig. 3. 46. fr. 4.     Digitized by Microsoft®     168 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM,   quasi-contract, and it was always regarded as a  relation closely analogous to mandatum^.   The mode of enforcing claims made by the  negotiorum gestor and his principal against one  another was the actio negotiormn gestorum, which  might, like the actio mandati, be either directa or  contraria. It was based upon an Edict worded thus :   SI QVIS NEGOTIA ALTERIVS, SIVE QVIS NEGOTIA  QVAE CVIVSQVE CVM IS MORITVR FVERINT, GES-  SERIT, IVDICIVM EO NOMINE DABOl   We do not know the date of this Edict, but it  was certainly issued before the end of the Republic,  inasmuch as the action founded upon it was discussed  by Trebatius and Ofilius'. This action had a formula  in ills concepta which ran somewhat as follows :   Quod N' Negidius negotia A^ Agerii gessit, qua  de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A"  Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona,  tantam pecuniam index JV'" Negidium A" Agerio  condemna. s. n. p. a.*   5. Another means by which agency could prac-  tically be brought about was adstipulatio, as we saw  above ". This was not a case of true agency, for the  adstipulator acquired the claim in his own name,  and if he sued upon it, he did so of course in his own  right : yet he was treated as agent for the other  stipulator and made liable to the actio mandati^.   6. Fideiussio was probably treated as a form of  special agency almost from the time of its invention,   1 3 Dig. 5. 18. fr. 2. 2 3 Big. 5. 3.   » 17 Big. 1. 22. fr. 10. * Lenel, Ed. Perp. p. 86.   ° p. 110. » Gai. III. 111.     Digitized by Microsoft®     SOOIETAS. 169   since we know that it possessed the remedy of the  actio mandati as early as the time of Quintus Mucius  Scaeuola ^   Art. 5. SociETAS. This was the common name  given to several kinds of contract by which two or  more persons might combine together for a common  profitq,ble purpose to which they contributed the  necessary means. These contracts could be formed  by mere consent of the parties, and except in the  case of societas uectigalis they were dissolved by the  death of any one member, so that even societas in  perpetuum meant only an association for so long as  the parties should live '.   Ulpian distinguishes four kinds of societas": (1)  omnium honorum, (2) negotiationis alicuius, (3) rei  unius, and (4) uectigalis.   The first of these has no counterpart in our  modem law, but may be described as a contractual  tenancy in common. The second and third may be  treated under one head, as societates quaestuariae,  corresponding to modem contracts of partnership.  The fourth may best be regarded as the Roman  equivalent of the modem corporation.   Except in the case of this fourth form, which  was in most respects unique, the remedy of a socius  who had been defrauded, or who considered that the  agreement of partnership had been violated, or who  wished for an account or a dissolution, was either an  actio in factum or the more comprehensive actio pro  socio ■*.   1 17 Dig. 1. 48. " 17 Big. 2. 1.   3 17 Dig. 2. 5. * Cic. Rose. Com. 9.     Digitized by Microsoft®     170 CONTRACTS OV THE IVS GENTIVM.   Both these actions were of praetorian origin, and  the former was doubtless the experimental mode of  relief which prepared the way for the introduction of  the latter. At first we may fairly suppose the  Praetor to have granted an actio in factwm adapted  to the particular case, with a formula worded some-  what as follows : 8i paret iV™ N™ cum A" A° pactum  bonuentum^ fecisse de societate ad rem certam emendam  ideoque renuntiauisse societati ut solus em^ret^, quanti  ea res est tantam pecuniam, iudex, N'^ iV™ A" A"  condemna. s. n. p. a. When the pactum societatis  had thus been protected, and the juristic mind had  grown accustomed to regard societas in the light of a  contract, the Praetor then doubtless announced in  his Edict that he would grant an actio pro socio to  any aggrieved member of a societas. In this way  agreements of partnership became fully recognised  as contracts, and were provided with an actio in iiis  conoepta, the formula of which must have been thus  expressed':   Quod A' Agerius cum N" Negidio sodetatem coiit  universoru/m quae ex quaestu veniunt, quidquid oh  eam rem N"^ Negidium A" Agerio (or alterum alteri)  pro socio dare facere praestare oportet ex fide bona,  eius iudex N™ Negidium A" Agerio (or alterum  alteri) condemna. s. n. p. a.   The superiority of this honae fidei action to  the former remedy, as a mode of adjusting com-  plicated disputes arising out of a partnership, is  too obvious to require explanation. The actio in   1 17 Dig. 2. 71. "^ 17 Big. 2, 65. ir. 4.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 237.     Digitized by Microsoft®     AGE OF ACTIO PRO SOCIO. l7l   factum may still however have proved useful in  certain cases.   Societas appears in Plautus with much less dis-  tinctness than either of the other three consensual  contracts. Socius is not used by him in a technical  or commercial sense, but means only companion ^ or  co-owner^. The nearest approach to an allusion to  societas in its more recent form is to be found in  Rudens^ where the shares of socii are mentioned;  but this is no reason for supposing that Plautus  knew of societal as a contract. The date of the  actio pro socio is impossible to fix, though Voigt^  has suggested that the Praetor P. Kutilius Rufas  must have been its author in the year 646 ^ Abso-  lute certainty on the subject is unattainable, because  we cannot tell whether this Rutilius originated or  merely mentioned the edict, nor can we positively  identify him with the Praetor of a.v.c. 646. On  these points there is hopeless controversy", so that  they must remain unsettled. But what we can do  with a certain measure of accuracy, is to trace the  process by which societal came to be regarded as a  contractual relation, and slowly grew in importance  till it called for the creation by the Praetor of a  honae fidei action to protect it. This action certainly  existed about the end of the seventh century, for  it is mentioned in the Lex Julia Municipalis of   1 Bacch. 5. 1. 19 ; Cist. 4. 2. 78.  ' Bud. i. 3. 95. ' 1. 4. 20 and 2. 6. 67.   * lus N. IV. 603 note 204.  5 38 Dig. 2. 1.   " See Husehke, Z. fur Civ. wnd Proc. 14. 19 ; Schilling, Inst.  §313.     Digitized by Microsoft®     172 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   A.V.C. 709 ^ and was discussed by Quintus Mucius  Scaeuola". A closer approximation to the date of  its "origin seems to be impossible.   1. Societas omnium bonorum.   The original conception of societas seems not to  have been that of a commercial combination, but of  a family. Not indeed that the term societas was  ever applied to the association of father, mother,  children and cognates; but they were practically  regarded as a single body, each member of which  was bound by solemn ties to share the good or bad  fortune which befell the rest. The duty of avenging  the death of a blood-relation, the duty of providing  a certain portion for children, as enforced by the  querela inofficiosi testamenti, the obsequia which  children owed to their parents, are illustrations of  the principle. Now this body, the family, could  hold common property: and here is the point at  which the family touches the institution of partner-  ship. The technical term which expressed the  tenancy in common of brothers in the family pro-  perty (hereditas), was consortivmi^, and the brother  co-tenants were called consortes. This institution  of consortium was of great antiquity, being even  found in the Sutras*. It is compared by Gellius'  to the relation of societas, and arose from the  descent or devise of the patrimonial estate to several  children who held it undivided. Division might at  any time be made among them by the actio familiae   1 Bruns, Font. p. 107. ^ gaj. ni. 149 ; Cic. Off. in. 17. 70.   » Cie. 2 Veir. ii. 3. 23 ; Paul. Diao. 72.   " Leist, Alt.-Ar. lus Gent. p. 414. ■> i. 9. 12.     Digitized by Microsoft®     SOCIETAS OMNIVM BONORVM. 173   erciscundas \ but they might often prefer to continue  the consortium, either because the property was  small, or because they wished to carry on an es-  tablished family business. If the latter course was  adopted, the tenancy in common became a partner-  ship, embracing in its assets the whole wealth of the  partners ; and it is easy to see how this natural part-  nership, if found to be advantageous, would soon be  copied by voluntary associations of strangers. Thus  socius, as we know from Cicero*, was often used as  a synonym of censors, and there can be no doubt  that consortium was the original pattern of the  societas omnium bonorum". That there were some  differences between the rules of consortium and those  of societas does not affect the question. For in-  stance *, the gains of the consortes were not brought  into the common stock, but those ot socii were; while  the death of a socius dissolved the societas, but that  of a consors did not ^ dissolve the consortium. These  points of difference and others " probably arose from  the juristic interpretation applied to societas, when  it had once become fairly recognised as a purely  commercial contract. But consortium and societas  omnium bonorum have two points in common which  show that they must have been historically connected,  (i) In societas omnium, bonorum there was a complete  and immediate transfer of property from the indi-  viduals to the societas'', whereas the obligations of   ■■ Paul. Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2.   3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in. 85.  i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo i. p. 69.   « See Pernice, Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2. 1.     Digitized by Microsoft®     174 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   each remained distinct and were not shared by the  others'. Now this is exactly what would have  happened in consortium : the property would have  been common, but the obligation of each consors  would have remained peculiiar to himself, (ii) The  treatment of socii as brothers' is clearly also a  reminiscence of consortiv/m ; and this conception of  fratemitas, being peculiar to the societas omnium  bonorum^, makes its connection with the old con-  sortium still more evident.   The fraternal character of this particular societas  is responsible for the existence of a generous rule  which subsequently, under the Empire, became  extended so as to apply to the other kinds of societas^  The rule was that no defendant in an actio pro socio  should be condemned to make good any claim beyond  the actual extent of his means ^ This was known as  the beneficium competentiae ; and it gave rise to a  qualified formula for the actio pro socio, as follows :   Quod A' Agerius cum N" Negidio societatem  omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"'  Negidium A° Agerio dare f. p. oportet ex f. b.  dumtaxat in id quod i\r* Negidius facere potest,  quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius index  N™ Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a.   2. Societas negotii uel rei alicuius.   This second form of partnership must have been  the most common, since it was presumed to be in-  tended whenever the term societas was alone used '.   1 17 Dig. 2. 3. 2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63.   * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16 and 22.   « 17 Dig. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     THEORIES OF ACTIO PRO SOCIO. 175   It has also been derived from consortium by  Lastig\ His theory is that consortes, or brothers,  when they undertook a business in partnership  with one another^, often modified their relations  by agreement. The special agreement, he thinks,  then became the conspicuous feature of the partner-  ship, and the relations thus established were copied  by associations not of consortes but of strangers.  The object of the theory is to explain the correal  obligation of partners. This correality did not how-  ever exist at Rome^, except in the case of banking  partnerships, where we are told that it was a peculiar  rule made by custom*, so that Lastig's theory lacks  point. A further objection^ is that this theory does not  explain, but is absolutely inconsistent with, the exist-  ence of the actio pro socio as an actio famosa. The  fraternal relations existing between consortes could  never have suggested such a remedy, for Cicero in  his defence of Quinctius lays great stress on the  enormity of the brother's conduct in having brought  such a humiliatiag action against his client.   Another explanation of the actio pro socio is  given by Leist". He derives it from the actio so-  cietatis given by the Praetor against freedmen who  refused to share their earnings with their patrons.  This societas of the patron must have been a one-  sided privilege, like his right to the freedman's   1 Z. filr ges. Handelsrecht. xxiv. 409-428.   2 As in 26 Dig. 7. 47. 6.   3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17 Dig. 2. 82.   * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9,   5 As Perniee has pointed out, Labeo i. p. 94.   6 Soc. p. 32.     Digitized by Microsoft®     176 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   services' ; for the freedman could never have brought  an action against his patron, since he was not entitled  to any share in the patron's property. The actio  societatis was therefore a penal remedy available  only to the patron, and consequently it cannot pos-  sibly have suggested the bilateral actio pro socio  of partners. Nor can the bonae fidei character of  the actio pro socio be explained if we assume such  an origin.   The most reasonable view appears to be that  which regards the actio pro socio as the outcome of  necessity. The Praetor saw partnerships springing  up about him in the busy life of Rome. He saw  that the mutual relations of socii were unregulated  by law, as those of adpromissores had been before  the legislation described above in Chapter v. He  found that an actio in factum, based on the Edict  Pax>ta conuenta, was but an imperfect remedy; and  as an addition to the Edict was then the simplest  method of correcting the law, it was most natural  for him to institute an actio pro socio, in which  bona fides was made one of the chief requisites  simply because the mutual relations of socii had  hitherto been based upon fides \   3. Societas uectigalium uel pMicanorwm.   This kind of societas was a corporation rather  than a partnership, and we have proof in Livy that  such corporations existed long before the other kinds  of societas came to be recognised as contracts. These   1 38 Dig. 2. 1.   2 Cie. Quint. 6. 26 ; Q. Rose. 6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr.  III. 58. 134.     Digitized by Microsoft®     SOGIETAS AND COLLEGIVM. 177   societates acted as war-contractors^ collectors of taxes ^,  and undertakers of public works'. In one passage in  Livy * they are called redemtores, and we find three  societates during the second Punic War in A.v.c. 539"  supplying the State with arms, clothes and com. It  was perhaps the success of these societates publica-  norwm" which iatroduced the conception of com-  mercial and voluntary partnership. But still they  were utterly unlike partnerships', so that their his-  tory must have been quite different from that of the  other societates. They were probably derived from  the ancient sodalitates or collegia^, which were per-  petual associations, either religious (e.g. augurium  collegia), or administrative {quaestorum collegia), or  for mutual benefit, like the guilds of the Middle  Ages (fabrorwm collegia). This theory of their  origia is based upon three points of strong resem-  blance which seem to justify us in establishing a  close connection between societas and collegium:   (1) Both were regulated by law", and were  established only by State concessions or charters.   (2) Both had a perpetual corporate existence,  and were not dissolved by the death of any one  member "-   (3) Both were probably of Greek origin. We   > Liu. XXXIV. 6 in a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544).   » Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150.  • XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9.   " Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1.   8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro  domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36.   9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22. 1.   "I 28 Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1.   B. E. 12   Digitized by Microsoft®     178 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   are told that societates publiccmorum existed at  Athens', while Gaius^ derives from a law of Solon  the rule applying to all collegia, that they might  make whatever bye-laws they pleased, provided  these did not conflict with the public law.   These three facts may well lead us to derive this  particular form of societas from the collegium. We  know further that the jurists looked upon it as quite  different from the ordinary societas, and that it did  not have the actio pro socio as a remedy'- The  president or head of the societas was called manceps*,  or magister if he dealt with third parties ', and the  modes of suretyship which it used in its corporate  transactions were praedes and praedia', another  mark perhaps of its semi-public origin.   1 Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt, I. N. ii. 401.   2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808.   * Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam.   10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64.   ' Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr.   11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167.  ' Lex Mai. c. 65.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VII.   CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. Part II.   Real Contracts.   Art. 1. MvTWM. We have not yet really dis-  posed of all the consensual contracts, for we now  come to a class of obligations entered into without  formality and by the mere consent of the parties,  but ia which that consent was signified in one par-  ticular way, i.e. by the delivery of the object in  respect of which the contract was made. The con-  tracts of this class have therefore been teirmed Eeal  contracts, though they might with equal propriety be  called Consensual. The oldest of them all is mutumn,  the gratuitous loan of res fungibiles, and it stands  apart from the other contracts of its class in such  a marked way, that its peculiarities can only be  understood from its history. It differed from the  other so-called real contracts, (i) ia having for its  remedy the condictio, an actio stricti iuris; (ii) in  being the only one which conveyed ownership in the  objects lent, and did not require them to be returned  in specie. Both peculiarities requfre explanation.   12—2  Digitized by Microsoft®     180 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   The most important function of Contract in early-  times was the making of money loans, and for this  the Romans had three devices peculiarly their own,  first Tiexum, then sponsio, and lastly earpensilatio.  But these were available only to Roman citizens, so  that the legal reforms constituting the so-called ius  gentium naturally included new methods of per-  forming this particular transaction. One such in-  novation was the modification of sponsio, already  described, and the rise of stipulatio in its various  forms : another was the recognition of an agreement  followed by a payment as constituting a valid  contract, which might be enforced by the condictio,  like the older sponsio and expensilatio. This latter  innovation was the contract known as mutuwm. It  doubtless originated in custom, and was crystallised  in the Edict of some reforming Praetor.   As its object was money, or things analogous to  money in having no individual importance, such as  com, seeds, &c., the object naturally did not have to  be returned in, specie by the borrower.   Though the bare agreement to repay was suffi-  ciently binding as regards the principal sum, the  payment of interest on the loan could not be pro-  vided for by bare agreement, but had to be clothed  in a stipulation. This rule may have been due to  the fact that mutuum was originally a loan firom friend  to friend ; but it rather seems to indicate that bare  consensus was at first somewhat reluctantly tolerated.   In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan,  generally made between friends^ and in sharp con-  > Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51 ; Paeud. 1. 3. 76.     Digitized by Microsoft®     AGE OF MVTrVM. 181   trast to foenus, a loan with interest', which was  always entered into by stipulation. When mutuv/m  is used by Plautus to denote a loan on which interest  is payable, we must therefore understand that a  special agreement to that effect had been entered  into by stipulation, since mutuum was essentially  gratuitous.   From three passages " it is evident that mutuum  was recoverable by action in the time of Plautus*  (circ. A. V. c. 570), and it seems probable that Livy^  also uses it in a technical sense ^ If then we place  the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513,  and suppose, as Voigt does ', that mutuum being a  iuris gentium contract must have been subsequent  to that law, we shall be led to conclude that mutuum  came into use about the second quarter of the sixth  century. This theory as to date is supported by the  fact, which Karsten points out', that mutuum would  hardly have been possible without a uniform legal  tender, and that Rome did not appropriate to herself  the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We  thus see that the introduction of mutuum and that  of emtio uenditio, i.e. of the first real and the first  consensual contract, took place at about the same  time.   As regards its peculiar remedy we know that  money lent by mutuum was recoverable by a con-  dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and   1 Asin. 1. 3. 95.   2 Trin. 3. 2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16.   3 Cure. A.v.c. 560. ■^ xxxii. 2. 1. » Of A.v.c. 555.  6 I. N. IV. 614. ' Slip. p. 38.     Digitized by Microsoft®     182 CONTRACTS OF THK IVS GENTIVM.   restipulatio tertiae partis\ It seems, like expensila-  tio, to have received this stringent remedy by means  of juristic interpretation, which extended the meaning  and the remedy of pecimia certa credita so as to cover  this new form of loan. Thus we find credere often  used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m *.   When this final extension had been made iu  the meaning of pecunia credita, we may reconstruct  the Edict on that subject as follows ° :   SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS  CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DE-  DERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT PROMISE-   RITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here  referred to was the condictio certae pecuniae, the  formula of which has already been given*.   We know that mutuvm, could be applied to other  fungible things besides money, such as wine, oil or  seeds, and in those cases the remedy must have been  the condictio triticaria'^.   FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con-  tract very similar to mviuvm,, which we know to  have existed in the Republican period, since we find  it mentioned by Seruius Sulpicius * and entered into  by Cato', was foeniis nauticum, a form of marine  insurance resembling bottomry^. It consisted of a  money loan (pecunia traiecticia) to be paid back  by the borrower, — ^invariably the owner of a ship, —   1 Cic. Rose. Com. 4. 13.   2 As in Pers. 1. 1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91.   s Voigt, I. N. IV. 616. •* p. 104. » 12 Dig. 1. 2.   8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch, Cat. Mai. 21.   ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff.     Digitized by Microsoft®     FOENVS NAVTIGVM. 183   only in the event of the ship's safe return from her  voyage. A slave or freedman of the lender apparently  went with the ship to guard against fraud'; but there  was no hjrpothecation of the ship, as in a modem  bottomry bond.   The contract resembled mutuum in being made  without formality; but its marked peculiarities  were:   (i) That it was confined to loans of money,  (ii) And to loans from insurers to ship-owners,  (iii) And because of the great risk it was not  a gratuitous loan, but always bore interest at a very  high rate ^ It is, however, quite possible that this  interest was not originally allowed as a part of  the formless contract, but that it was customary, as  Labeo states ', to stipulate for a severe poena in case  the loan was not returned. If that be so, the stipu-  l&tory poena spoken of by Seruius and Labeo must  have been the forerunner in the Republican period  of the onerous interest mentioned by Paulus'' as  an inherent part of this contract in his day.   Art. 2. CoMMODATVM. The next three real  contracts are not mentioned by Gains, who appa-  rently took his classification fi-om Seruius Sulpicius,  and it therefore seems certain that in the time of  Seruius and during the Republic they were not re-  garded as contracts, but as mere pacta praetoria.   Commodatum was the same transaction as mutuum  applied to a different object. In mutuum there was  a gratuitous loan of money or other res fungihilis,   1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1.   ■' 22 Big. 2. 7. ' 22 Big. 2. 9. " 22 Big. 2. 7.     Digitized by Microsoft®     184 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   whereas in commodatum the gratuitous loan was one  of a res nonfungihilis '   Both were originally acts of friendship, as their  gratuitous nature implies. Plautus shows us that in  his day the loan of money was not distinguished from  that of other objects, for he uses commodare^ and  iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as well  as in describing genuine cases of commodatum. We  do not, however, discover from Plautus that commo-  datum, was actionable in his time, as mmiuwrn clearly  was. Vtendmn dare, we may note, is in his plays  a more usual term than commodare *. If it be asked  why the condictio was not extended to commodatum  as it was to mutwu/m, the answer is that the latter  always gave rise to a liquidated debt, whereas in a  case of commodatum the damages had first to be  judicially ascertained, and for this purpose the con-  dictio was manifestly not available.   The earliest mention of commodatum as an action-  able agreement occurs in the writings of Quintus  Mucins Scaeuola (ob. A.v.c. 672) quoted by Ulpian"  and Gellius *. Cicero significantly omits to mention  it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex lulia  Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it'.  The peculiar rules of the agreement seem to have  become fixed at an early date. Quintus Mucins  Scaeuola is said to have decided that culpa leuis   ^ e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i.  94.   2 Asin. 3. 3. 135. « Persa, 1. 3. 37.   * Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. 3. 1. 9. » 13 Dig. 6. 5.   « VI. 15. 2. ' Bruns, Font. p. 107.     Digitized by Microsoft®     AGE OF COMMODATVM. 185   should be the measure of responsibility required from  the bailee (is cui commodatur), and to have established  the rule as to furtum usus, in cases where the res  commodata was improperly used. It seems therefore  probable that the Praetor recognised commodatum  at first as a pactum praetoriwn, and granted for  its protection an actio in factum, with the following  formula :   Si paret A™ Agerium N" Negidio rem qua  de agitur commodasse (or utendam dedisse) eamque  A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit,  tantam pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a.   The agreement between bailor and bailee pro-  bably did not come to be regarded as a regular  contract until after the time of Cicero. We must  therefore place the introduction of the actio commo-  dati at least as late as A.v.c. 710, and by so doing we  explain Cicero's silence. Whatever conclusion we  shall arrive at as to depositum must almost neces-  sarily be taken as applying to commodatum, also.  They both had double forms of action in the time  of Gaius\ neither is mentioned by Cicero, and  Scaeuola evidently dealt with them both together.  Hence their simultaneous origin seems almost  certain. The actio commodati is said to have been  instituted by a Praetor Pacuuius'', who, like Plau-  tus, used the words utendum dare instead of com-  modare. The terms of his Edict must therefore  have been:   1 IV. 47. 2 13 Dig. 6. 1.     Digitized by Microsoft®     186 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO  IVDICIVM DABOl   The author of this Edict was formerly supposed  by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo", the  father of Labeo the jurist ; but this statement has  recently been withdrawn' on the ground that this  Pacuuius, having been a pupil of Seruius Sulpicius *,  could not have been Praetor as early as the time of  Quintus Mucius. If however the above theory as to  the dates be correct, Voigt's former view may be  sound : Q. Mucius may have been speaking of the  actionable pactum, while Pacuuius may have been  the author of the true contract. The aMio com-  modati directa had a formula as follows: Qiiod A'  Agerius N" Negidio rem q. d. a. commodauit (or  utendam dedit) quidquid oh earn rem M™ Negi-  dium A" Agerio dare facere praestare oportet ex  fide bona, eius iudex N"^ Negidiwm A' Agerio con-  demna. s. n. p. a. It was doubtless in this form  that the action on a commodatum was unknown to  Cicero. He must have been familiar only with the  actio in factvmi, and for that very reason he must  have regarded com/modatwm not as a contract, but as  a pactum conuentum.   Art. 3. Depositvm. The most general word  denoting the bestowal of a trust by one person  upon another was commendare', and Voigt has  shown' that corrvmendaiumh was the technical term   1 I. N. III. 969. 2 I. N. in. 969 note 149G.   » B. HG. i. 622 note 25. * 1 Dig. 2. 2. 44.   ' Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cio.  Fin. III. 2. 9. « R. RG. i. App. 5.     Digitized by Microsoft®     OBIGIN OF DEPOSITVM. 187   for a particular kind of pactum. If the object of  commendatio '■ was the performance of some service,  the relation was a case of mandatwm'^ : if its object  was the keeping of some article in safe custody, the  relation was described as depositvmi^. This case  clearly shows how arbitrary is the distinction  drawn by the Roman jurists between Real and  Consensual Contract. Though starting, as we have  seen, from the same point, mandatum came to be  classed as a consensual, and depositv/m as a real  contract. This was simply because the latter dealt,  while the former did not deal, with the possession  of a definite res.   Depositum distinctly appears in Plautus* as an  agreement by which some object is placed in a  man's custody and committed to his care, though  deponere is not the word generally used by Plautus  to denote the act of depositing. He prefers the  phrase seruandimi dare, corresponding to utendvmi  dare, which we found to be his usual expression for  commodatum'. These very words, semandum dare,  were also used by Quintus Mucins Scaeuola in dis-  cussiDg depositum ', but we cannot ascertain from his  language whether or not the actio depositi was  already known to him. He may merely have been  discussing an actionable pactum,. Nor can we  infer from any passage of Plautus the existence  of depositum as a contract in his time. He seems   1 Cic. Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. 5. 1. 6.   3 16 Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. 2. 1. 22. * Bacch. 2. 3. 72.   6 Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10.   8 Gell. VI. 15. 2.     Digitized by Microsoft®     188 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   rather to represent it, as Cicero does ', in the light of  a friendly relation based simply on fides '^-j and in  most of the Plautine passages the transaction is that  which was afterwards known as depositum irregulare,  i.e. the deposit of a package containing money either  at a banker's ', or with a friend *   Some have thought that there must have been  an action in Plautus' time for the protection of such  important trusts °, but Demelius° points out that  the actio furti (to which Paulus alludes as actio ex  catosa depositi) would have afforded ample protection  in most cases; and it would be extremely rash to  infer that either commodatum or d&positwm was  actionable in the sixth century of the City.   At first sight it even looks as though depositum,  was not protected by any action in the days of  Cicero. The passages in which he mentions it'  appear to treat the restoration of the res deposita  rather as a moral than a legal duty. Similarly  where he enumerates the bonae fidei actions',  where he mentions the persons qui bonam fidem  praestare debent ', and where he describes the indicia  de fide mala'^', he entirely leaves out the actio depositi  and does not make the slightest allusion to depositum.   But all this is equally true of commodatum^.  And since we have the clearest evidence that com-  modatum. was actionable in the time of Quintus   1 2 Verr. it. 16. 36. ^ Merc. 2. 1. 14.   5 Cure. 2. 3. 66. * Bacch. 2. 3. 101.   » Costa, Dir. Priv. p. 320. « Z. fur RG. ii. 224.   ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25. 95.  8 Off. III. 17. 70. 9 Top. 10. 42.   " N. D. III. 30. 7. " Gai. iv. 47.     Digitized by Microsoft®     LATENESS OF ACTIO DEPOSIT!. 189   Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid the con-  viction that depositurn also was actionable in his  day by means of an actio in fojctvmi, whereas the  actio depositi was not introduced, as Voigt holds, till  the beginning of the eighth century==-   This theory of development, already applied to  mandatum and societas, has the advantage, not only  of explaining why commodatwm and depositvmi were  not numbered among hoTiae fidei contractus, but also  of accounting for the existence in Gains' day of their  double formulae which have puzzled so many jurists'.  We may then believe that depositurn was first made  actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum  praetorium, and with the protection of an actio in  factum concepta as given by Gains: Si paret A™  Agerium apud N™ Negidiwm mensam argenteam  deposuisse eamque dolo N^ Negidii A" Agerio red-  ditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam,  iudex, N™ Negidium A" Agerio condemnato. s. n.  p. a.   This formula was doubtless the only one pro-  vided for depositumi down to the end of Cicero's  career. But about A.v.c. 710^ juristic interpre-  tation began to regard commodatvmi and depositurn  as genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a  second formula was iutroduced into the Edict, with-  out disturbing the earlier one, so that depositurn, like  commodatwm, was finally recognised as a contract.   1 13 Dig. 6. 5. " Earn. EG. i. 623.   * See Muirhead's Gaim, p. 293 note.   * 41 Dig. 2. 3. 18 ; 16 Dig. 31. 1. 46 ; Trebatius was trib. pleb.  A.V.C. 707.     Digitized by Microsoft®     190 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM.   We know that the Praetor's Edict by which this  change was brought about ran somewhat thus : QVOD  NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE  NEQVE NAVFRAGII CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM,  EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE  SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD  DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS  SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM   DABO'. The penalty of dwplwm shows that, where  the depositwn had been compelled by adverse cir-  cumstances, a violation of the contract was regarded  as peculiarly disgraceful and treacherous. In other  cases, where the depositwn was made under ordinary  circumstances, the amount recovered was simplwm,  and the new formula must have been that given by  Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N™ Negi-  dium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur,  quidquid oh earn rem JSf™ Negidium A" Agerio dare  facere oportet ex fide bona, eius index N™ Negidiv/m  A" Agerio condemnato. s. n. p. a.   Art. 4. PiGNVS. The giving and taking of a  pledge appears in Plautus as a means of securing a  promise, but seems then to have belonged to the  class of friendly acts which the law did not con-  descend to enforce. In Gaptiui^ for instance, the slave  who had been pledged is demanded in a purely in-  formal way, and in Rudens^ pignus is a mere token  given to prove that the giver is speaking the truth.  Its connection with arrhabo is very close. Each  served to show that an agreement was seriously   1 16 Dig. 3. 1. ••' IV. 47.   » 5. 1. 18. • 2. 7. 23.     Digitized by Microsoft®     ^0270 PIGNERATICIA. 191   meant by the parties, or was a means of securing  credit as a substitute for money', and if the agree-  ment was broken, the pignus or arrhabo was doubtless  kept as compensation. This practice of giving pawns  or pledges was probably of great antiquity, but we  hear nothing of it from legal sources, simply because  it was an institution founded on mores alone. It pro-  bably applied only to moveables and res nee mancipi\  for res mancipi could be dealt with by a pactvmi  fiduciae annexed to mancipatio. Gaius ' derives the  word from pugnuTn, because a pledge was handed  over to the pledgee ; but the correct derivation is  doubtless from the same root as pactum, pepigi,  Pacht, Pfand*. Pignus must then have meant a  thing fixed or fastened, and so a security. And  this derivation suits the word in the phrase pignoris  capio equally well, without leading us to suppose that  the custom of giving a pledge was in any way derived  from the pignoris capio of the legis actio system.   We do not know when pignus became a contract,  though it certainly was so before the end of the  Republic. Long before being recognised as such it  doubtless enjoyed the protection of an actio in factum,  with a formula as follows : Si paret A^ Agerium N"  Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori  dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satis-  factum esse, aut per N™ Negidium stetisse quominus  soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio redditam  rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course   1 Bechmann, Kauf, ii. 416. ''■ 50 Big. 16. 238. ' ibid.   * Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch. ii. p. 49.  ' Lenel, Ed. perp. p. 201.     Digitized by Microsoft®     192 CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM,   of time the actio pigneraticia was introduced as an  alternative remedy, and Ubbelohde ' has argued that  since its place in the edict was between commodatum  and depositum, the Praetor must have introduced  the actio pign&raiicia after the actio com/modati and  before the actio depositi ; which seems a very plausi-  ble conjecture. We have no direct evidence of the  existence of an actio pigneraticia earlier than the  time of Alfenus Varus, a jurist of the later Re-  public"''; it is not mentioned by Cicero; in short  everything points to the origin of the contract of  pigrms as corresponding in age to that of commo-  datwm and depositwm. The language of the Edict  by which pignus was made a contract has not  survived, while the formula of its actio pigneraticia  resembled of course that of the actio depositi, and  need not therefore be given.   Though pignus was doubtless a very inadequate  security from the point of view of the pledgor, since  it might at any time be alienated or destroyed, it is  the only form which appears to be common in  Plautus, and of fiducia he shows us not a trace '-  Pignus seems to have been much used for making  wagers, and pignore certare was probably as common  as sponsione certare ^ which we treated of in a pre-  vious article.   The contracts of a kindred nature which seem to  have arisen even sooner than pignus will be discussed  in the next chapter.   1 6. der ben. Bealcont. p. 62. 2 13 jjjgr. 7. 30.   3 Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt. i. 253.     Digitized by Microsoft®     CHAPTER VIII.   CONTRACTS NOT USUALLY CLASSIFIED AS SUCH.   Art. 1. FiDVCiA. We have examined in a  former chapter the early origin of the pactwm  fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn  conveyance, by which the transferee of the object  conveyed as security agreed to reconvey, as soon as  the debt was paid, or whenever a given condition  should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta,  and before Cicero's time'', this pactum became en-  forceable by the actio fiduciae.   This action was in factum, like the others of its  class, and its function was to award damages, but  it could not otherwise compel the actual recon-  veyance of the object. Its formula must have been  worded as follows^ :   Si paret A™ Ageriwm N" Negidio fwndum quo de  agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio  dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis-  f actum esse, aut per N™' Negidium stetisse quominus  solueretur, eumque fwndum redditum non esse, nego-   1 Supra, p. 78. '^ Cie. Off. in. 15. 61.   3 Lenel, Ed. Perp. p. 233.   B. E. 13   Digitized by Microsoft®     194 CONTEACTS NOT CLASSIFIED.   tiumue ita actum non esse ut inter honos T)ene agier  oportet et sine fraudatione, quanti ea res erit tantwm  pecuniam index N™ Negidium A" Agerio condemna.  s. n. p. a.   The peculiar clause "ut inter honos bene agier  oportet"'^ virtually made this a bonae fidei action.  That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never  protected by a formula in ius coTicepta, and hence  was never regarded as a true contract.   Art. 2. Hypotheca. We have seen that there  were two ways in which a tangible security might be  given: (i) the object might be conveyed with a  pactum fiduciae, providing that it should be recon-  veyed on the fulfilment of a certain condition, or  else (ii) the mere detention of the object might be  granted on similar terms. In the former case  the pledge or its value could be recovered by  the actio fiduciae, in the latter by the actio pigne-  raticia whose origin we have just discussed. But  neither fiducia nor pignus was a contract of pledge  pure and simple; each consisted of an agreement  plus a delivery of the object.   The abstract conception of mortgage, i.e. pledging  by mere agreement, is a distinct advance upon both  these methods. The contract which embodied this  form of pledge was known as hypotheca ; and as its  name indicates it was borrowed from the Greeks,  from whom the Romans also took the Lex Rhodia  de iactu and the foeitms nauticum. Precisely the  same contract is found in the speeches of Demos-   1 Cic. Top. 17. 66.     Digitized by Microsoft®     ORIGIN OF HYPOTHECA. 195   thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could  he applied to moveables or immoveables, and even  to articles not yet in existence. The Romans how-  ever regarded hypotheca not as a contract but as a  pactum.   It is quite certain that a legal conception so refined  as the pactum hypothecae could not have had a place  in the legal system of the XII Tables. There are  passages in Festus" and Dionysius" in which the  words si quid pignoris and eveyypat^eiv have been  supposed to indicate the existence of some such  practice at an early period. But the evidence is  much too vague to supply trustworthy data, and we  may confidently assert that mortgage was unknown  to the early law*. Accordingly, we find that hy-  potheca was introduced and made actionable by  slow degrees. Its popular name was pignus oppo-  situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary  pignut above described.   Its LQtroduction seems to have been one of the  many legal innovations produced by the large immi-  gration of strangers into Rome after the Second Punic  War. These strangers must generally have become  tenants of Roman landlords, since the lack of ius  commercii prevented their buying lands or houses,  and in order to secure his rent, the only resource  open to the landlord was to take the household goods  of these tenants as security. Such household goods  {inuecta illata) probably constituted in most cases  the only wealth of the foreign immigrant, conse-   1 Dernburg, Pfdr. i. p. 69. ^ s.u. nancitor.   " VI. 29. * Dernburg, Pfdr. i. 55.   13—2   Digitized by Microsoft®     196 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   quently the landlord could not remove them, and  the method of pignus was not available. The ex-  pedient which suggested itself was that the tenant  should pledge his goods without removal, by means  of a simple agreement. The relation thus created  was the original form of hypotheca and was precisely  analogous to that of a modern chattel mortgage.   As the idea was introduced by foreigners ', it was  very natural that this agreement of pledge should  have received a foreign name. Another class to  whom the new expedient was applied were the free  agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often  consisted of their tools and other agricultural stock^.  The necessity of making a pledge without removal  is obvious in their case also.   I. It was for the protection of landlords that  a Praetor Saluius introduced the interdictum Salui-  anum, which seems to have been the first legal  recognition that hypotheca received. Its date is not  known. Formerly the Praetor Saluius lulianus,  author of the Edictum perpetuum, was regarded as  the inventor of this interdict, but his own language  in the Digest^ contradicts this supposition. The  most reasonable theory is that the interdict origi-  nated before the Edict Pacta conuenta (A.v.c. 627)  at about the end of the sixth century.   The fact that Plautus knew hypotheca as a mere  nudum pactum can hardly be doubted*. It is true  that he not only uses, as Terence does a little later ',   1 Dernburg, Pfdr. i. 56. " 4 Big. 15. 3. 1.   » 1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232.   5 Phorm. 4. 3. 56.     Digitized by Microsoft®     INTERDIGTVM SALVIANVM. 197   the phrase pignori opponere ' to denote the making  of a pledge by mere agreement; but he also men-  tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems  to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony  to be gathered from these passages does not however  prove that hypotheca was actionable'.   The contents of the interdictum Saluianum can-  not be given with certainty. We only know two  things about it : (1) that it was a remedy of limited  scope, being available only against the tenant or  pledgor, but not against third parties to whom he  had transferred or sold or pledged the goods, and  (2) that the interdict was prohibitory and forbade  the pledgor to prevent the landlord from seizing  the objects which had been mortgaged.   (1) This first proposition is distinctly stated by  a constitution of Gordian", but flatly contradicted  by a passage in the Digest *. The latter authority,  however, seems open to strong suspicion " and the  fact that the actio Seruiana was presumably intro-  duced because the interdictum Saluianum was  inadequate further goes to prove the correctness of  Gordian's constitution.   (2) We may be fairly certain that the interdict  was prohibitory, like the interdictum utrvbi, and  not restitutory, as Huschke would have it'; since  the weight of authority is in favour of the former   1 Pseud. 1. 1. 85. * True. 2. 1. i.   3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr. i. p. 65.  * 8 God. 9. 1. = 43 Dig. 33. 1.   " Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A, iii. 181.  7 Studien, p. 398.     Digitized by Microsoft®     198 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   view^ We may therefore accept KudorfiPs restora-  tion of its formula, which runs as follows*: Si  is homo quo de agitur est ex his rebus de quibus inter  te et conductorem (colonum, &c. &c.) conuenit, ut quae  in eu/m fwndum quo de agitw inducta illata ibi nata  factaue essent ea pignori tibi pro mercede eiusfimdi  essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satis-  f actum, est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo-  minus eum ducas uim fieri ueto.   II. The second remedy introduced to enforce  the formless agreement of mortgage was the actio  Seruiana, which was far more efficacious. Its author  cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the Mend  of Cicero, because he never was Praetor Vrbanus, and  the action must have existed long before his time.  The Praetor who devised it was doubtless one of the  many Seruii Sulpicii whose names constantly appear  in the fasti consulares, and its age is probably not  much less than that of the interdictum Saluianum.  The action was certainly younger than the interdict,  and an improvement upon it, because the jurists  treated the law of mortgage under the head of inter-  dict', which indicates that this was the form of the  original remedy. We may be sure that the interdict  is older than the Edict Pacta conuenta, for otherwise  it would not have been needed. And as soon as  pa(Aa were thus legally recognised, it is safe to say  that a more perfect remedy for hypotheca was sure   ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re-  cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p.  394. ■   2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282.   ' Dernburg, Pfdr. i. p. 61.     Digitized by Microsoft®     ACTIO SERVIANA. 199   to be devised. The probability is then that the actio  Seruiana was one of the first products of the Edict  Pacta conuenta, partly because we know that the  interdict was an imperfect remedy, partly because  hypotheca was much in vogue at that early date.  Thus we may gather from Plautus' allusions that  hypotheca was already in a well developed state  about A.v.c. 570. Cato the Censor^ also seems to  have alluded to it, and Caec. Statins {oh. A.v.c.  586), as cited by Festus", unquestionably did so.  The curious circumstance that Cicero should have  mentioned it only twice ^ may perhaps be accounted  for by the fact that pignus in its looser sense was  always a synonym for hypotheca *, and as he mentions  it so seldom in its Greek form, we may suppose that  the term hypotheca was then only just coming into  general use. We know that pignus in the narrower  sense was distinguished by Ulpian from hypotheca as  sharply as we distinguish a pawn from a mortgage ^,  but the earlier writers lead us to infer that the  term pignus oppositum, or simply pignus, was origi-  nally the equivalent of hypotheca.   The effect of the actio Seruiana was probably a  mere enlargement of the scope of the interdictwm  ■ Saluianum, giving the landlord a legal hold upon  the inuecta illata of his tenant even in the possession  of third parties. But since the right of thus pledging  by agreement was as yet recognised only as between  the colonus or the house-tenant and his landlord,   1 jj. i{. 146. ^ s.u. reluere.   3 Att. n. 17 and Fam. xiii. 56. ■* 20 Dig. 1. 5.   » 13 Dig. 7. 9.     Digitized by Microsoft®     200 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   hypotheca was a transaction still confined to a small  class.   III. A final improvement was effected, perhaps  shortly after the one just mentioned, when the  Praetor granted an action on. the analogy of the actio  Seruiana, upon all agreements of pledge of whatever  description. From the creation of this action, known  as cuctio quasi Seruiana ^ or hypothecaria ", or simply  Seruiana^, dated the introduction of a law of mort-  gage applicable to objects of all kinds. The name  hypothecaria, which we find applied only to the last  of these three remedies, implies either that this was  the only action available for all forms of hypotheca, or  else that the Greek term was not introduced until  the contract had thus become general.   The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo-  thecaria was of course in factum concepta *, because  the pactum hypothecae never was treated as a con-  tractus iuris ciuilis, though it became in reality as  binding as any contract. The words are restored  by Lenel° as follows, in an action by the mortgagee  against a third party : Si paret inter A™ Agerium et  Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de agitur A°  Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam  debitam, eamque rem tunc cum conueniebat in bonis D  Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam neque eo  nomine satisfactum esse neque per A^ Agerium, stare  quominus soluatur, nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo   1 4 Inst. 6. 7. 2 16 Dig. 1. 13.   ' Bachofen, Pfdr. p. 28.   * Ed. perp. p. 397 ; cf. Dernburg, Pfdr. i. p. 78.  ' ib. p. 81 ; cf. Budorfl, Ed. perp. 234.     Digitized by Microsoft®     AQTIO HYPOTHEOARIA. 201   restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam index  N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a.   No mortgage can be of much practical use unless  it empowers the creditor to sell the thing pledged,  so as to cover his loss. But it is evident that the  mere pledgee or mortgagee could have had no in-  herent right to sell or convey what did not belong to  him. This was an advantage possessed by fiduoia,  since the property was fully conveyed and could  therefore be disposed of as soon as the condition was  broken. The only way out of the difficulty both in  pignus and hypotheca was to make a condition of  sale part of the original agreement. This was un-  necessary under the Empire ^ when the power of sale  came to be implied in every hypotheca, but during  the Republic the power had to be explicitly re-  served, or else the vendor was liable for conversion  (furtumy. Even Gains " speaks as though a pactum  de uendendo was usual in his time. Labeo describes  a sale eoc pacta conuento^, but the usual name for the  clause of the agreement containing the power of sale  was lex ccmimissoria. When it became possible to  insert such a clause is uncertain, but Demburg  seems right in maintaining that, as the lex commis-  soria was known to Labeo and to the far more  ancient Greek law, it must certainly have been  customary at Rome long before the end of the  Republic.   1 13 Dig. 7. 4.   2 47 Dig. 2. 74 ; Demburg, Pfdr. i. p. 91. ^ n. 64.  * 20 Dig. 1. 35.   = Pfdr. I. p. 86 as against Baehofen, Pfdr. p. 157.     Digitized by Microsoft®     202 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   The custom of committing hypothecae to writing  (tabulae), which is indicated by Gaius', doubtless pre-  vailed also in the Republican period, the object of  the writing being simply to facilitate proof   When we translate hypotheca by the English  word mortgage, we must not forget that the latter  denotes technically a conveyance defeasible by con-  dition subsequent, closely resembling ^cZwcia, where-  as the former denoted the mere creation of a lien.   On the other hand it is true that our modem  mortgage has lost its original resemblance to fidma,  and has now become almost identical with hypotheca.   Art. 3. Praediatvea. This was a peculiar form  of suretyship which the Roman jurists never treated  as a contract, though it doubtless had a very ancient  origin. It was connected with the public emtiones  and locationes, and was the regular method by which  contractors or undertakers of public work gave bond  to do their work properly.   The transaction resembled the giving of sponsores  in private law. The friends of the contractor who  were willing to be his sureties (praedes) appeared  before the Praetor or other magistrate, and entered  into a verbal contract by which they bound them-  selves with all that they possessed. The magistrate,  we are told, asked each surety " Praesne es?" and  the surety answered "Praes"\ This has every  appearance of having been a formal contract like  sponsio, and it is difficult to accept the view of  Mommsen ^ who considers that the publicity of the   » 20 Dig. 1. 4 ; 22 Dig. 4. 4.   2 Paul. Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema, p. 468.     Digitized by Microsoft®     PRAEDIATVRA. 203   transaction leads us to infer its formless character.  If we follow him in assuming that praedes and  praedia were purely public institutions, how can we  explain the existence of the praedes litis et uindici-  arum, who certainly appeared in private suits ', and  how can we understand those passages in Plautus  and Cicero which clearly refer to praedes and praedia  in private transactions ^ ? If then we deny to prae-  diatura an exclusively public character, we must  class it with sponsio and uadimonium as another  formal mode of giving security.   The etymology which explains the word praes as  being the adverbial form of praesto is undoubtedly  false '. Ihering and Goppert ■* suppose that it comes  from the same root as praedium, and means one who  undertakes a liability. But in the Lex agraria the  spelling is praeuides instead of praedes, and this  indicates rather that the true derivation is from  prae and uas ', in the sense of " one who comes forth  and binds himself verbally "^ Pott' thinks that  uas was the generic term for surety, and that praes  was a composite word meaning a surety who makes  good (praestare) what he undertakes. Where the  derivation is so uncertain no safe conclusion can be  arrived at, and the origin of the contract must, in  this case as in that of the primitive vadimonium,  remain an enigma.   ' Cf. aduersariw, Gai. iv. 16, 94.   2 Plaut. Men. 4. 2. 28 ; Cio. Att. xiii. 3. 1.   3 Eivier, Untersuch. p. 29. * Z.fiir RG. iv. p. 26.^.  ' Fas bomfari, or uas from a root meaning " to bind."   8 Dernbur'g, P/dr. i. 27 ; Eivier, Untersueh. p. 14.  ' Etym. Forsch. iv. p. 417.     Digitized by Microsoft®     204 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   The obligation of the praes was enforced by com-  pulsory sale, the details of which we unfortunately  do not know. The expression praedes uendere^  shows approximately how the right was enforced^,  but it is uncertain whether this ^ meant to sell the  property of the surety, or merely to sell the claim  of the State against him K   Besides the personal responsibility thus assumed  by the praes, there was another kind of security  known as praedium^ which the principal might be  required to give. If the praedes furnished by him  were not sufficient, praediwm might be required as  an additional safeguard'; but we also find that  praedes or praedia might be separately given'.   The form in which a bond of praedia had to be  made was a written acknowledgment in the Treasury  (praediorum apud aerarium subsignatio), and the  only object capable of serving or being pledged as a  praedium was landed property owned by a Roman  citizen, and possessing all the qualities of a res  mancipi^. Hence the seciirity of praedia could not  in many instances have been available, for the  whole of solwm prouinciale and the holdings of  ager publicus in the possession of occupatorii would  of course have been excluded. The amount of   ' Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5.  2 Dernburg, Pfdr. i. p. 28. ' Cic. 2 Verr. i. 54. 142.   * Goppert, Z.filr EG. iv. p. 288.   ' Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo, Bruns,  Font. p. 272, aes Malac. cap. 64.  ' ae» Malac. cap. 60.   ' e.g. Lex Acilia repet. 61, 66, 67, and Festus s.u. quadrantal,  8 Cic. Place. 32. 80.     Digitized by Microsoft®     PRAEDIORVM SVBSIGNATIO. 205   praedia which had to be given was entirely in the  magistrate's discretion ^ and to help him in his  decision we find that there existed praediorum  cognitores^ who were probably persons appointed  to assess the value of praedia, and responsible to  the State if their information was wrong.   As to the nature of the transaction effected by  praediorum subsignatio, there can be no doubt that  the old theory held by Savigny and others is incor-  rect ', and that the State did not in virtue of svbsig-  natio become absolute owner of the praedia. Rivier  and Demburg * have demonstrated that the State  merely acquired a lien, and that praediorum sub-  signatio was therefore a species of mortgage. The  classical sources fully support this view", and it is  certain that while the property was subject to this  lien its owner still had the right to sell it and to  exercise other rights of ownership*. A public sale  (uenditio praediorum) followed closely no doubt  upon the default of the debtor, but did not neces-  sarily accompany the sale of the goods of the praedes^  (uenditio praedium). At Rome the former sale was  made by the praefecti aerario, and in the Lex Mala-  citana the duumvirs or decuriones are empowered to  make it °.   A peculiarity of the sale of praedia was that the   ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font. p. 84.   2 aes Malac. cap. 65.   3 Savigny Heid. Jahrsch. 1809, p. 268 ; Walter, E. G. p. 587 ;  Hugo, R. G. 449.   * Pfdr. 1. p. 33. ° Varro L. L. v. 40 ; Lex agraria, 74.   8 50 Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; Cie. 2 Verr. i. 55. 144.   8 cap. 64; Bruns, Font. p. 146.     Digitized by Microsoft®     206 CONTKACTS NOT CLASSIFIED.   dominiwm residing in the owner became instantly  transferred to the praediaior or purchaser from the  State, without any act on the owner's part. The  only advantage reserved to the dispossessed owner  was an exceptional right of recovering his property  from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious  usucapio S one of the few instances in which it was  possible to exercise usucapio otherwise than with a  bona fide colour of title. In this case, as the  praedia were always land, the statutory period of  two years was necessary to complete the adverse  possession.   The lex praediatoria mentioned in the aes  Malacitanum" has been thought to be a statute of  unknown date; but it more probably denotes some  collection of traditional terms used in praediatura  and analogous to a lex uenditionis in a contract of  sale °. The restoration of "praediatoria " in Gains'  is doubtful, and "censoria" seems much to be pre-  ferred.   The operation of praediatura as a general lien  on all the property of the praes was probably re-  cognised in the Republican period, although Dem-  burg° has doubts on this point. Such a lien is found  in the Lex Malacitana in the time of Domitian,  but this may have been an extension to the public  aerarium of the general hypotheca belonging to the  Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence  that the lien did not exist in our period ; and if it   1 Gai. II. 61. « cap. 64.   3 Boecking, Rom. Priv. B. 294.   * IV. 28. 5 Pfdr. X. p. 42.     Digitized by Microsoft®     ACTIO QVOD irssv. 207   did, we can readily see that the security of praedia-  tura was superior to that of sponsio.   It is perhaps natural that the subject of praedes  and praedia should be obscure, for the complicated  nature of the law of praediatura is attested by  Cicero \ who states that certain lawyers made it a  special study.   Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides intro-  ducing the actio mandati, the Praetor's edict en-  larged the scope of agency by instituting several  other important actions. These were the actiones  quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio  and de in rem uerso. In all of them alike the Prae-  tor's object was to fasten responsibility on some  superior with whose consent, or on whose behalf,  contracts had been made by an inferior. They  are known as actiones adiecticiae, because they were  considered as supplementing the ordinary actions  which could be brought against the inferior himself ^  As they made the principal liable on the contracts  of a subordinate, it is plain that they must have  been a most useful substitute for the complete law  of agency which the Romans always lacked. The  fact that they all had formulae in ius conceptae  points to a late origin, but they all doubtless origi-  nated before the end of the Republic.   (1) The actio quod iussu was an action in which  a son or slave, who had made a contract at the  bidding of his pater familias, was treated as a mere  conduit pipe, and by which the obligation was  directly imposed on the pater familias who had  1 Balb. 20. 45. = 14 Dig. 1. 5. fr. 1.     Digitized by Microsoft®     208 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   authorized it. Since Labeo mentioned the action as  though its practice was well developed in his day ',  we may fairly suppose that iussus was made action-  able in Republican times.   The formula was as follows :   Quod iussu N^ Negidii A" Agerius Gaio, cum is  in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua de  re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium A°  Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex  iV™ Negidium patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a.  Here the express comniand of the superior was the  source of his obligation.   (2) The actio exercitoria was an action in which  a ship owner or charterer {exercitor) was held directly  responsible for the contracts of the ship master " (ma-  gister nauis). Its formula probably ran as follows:  Quod A^ Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis  quam N' Negidius exercebat, eius rei causa in quam  L' Titius ibi praepositus fuit, incertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium  A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N™'  Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.- It was  known to Ofilius in the eighth century of the city*,  and was very probably even older than his day.   The necessities of trade were obviously the source  from which this particular form of agency sprang,  because in an age of great commercial activity,  when even bills of lading were not yet introduced,  it was expedient that the delivery of goods or the   1 15 Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. 1. 1.   ' Baron, Abh. aus dem B. C. P. ii. 181.  * 14 Dig. 1. 1. fr. 9.     Digitized by Microsoft®     ACTIO INSTITORIA. 209   making of contracts by the master should be equi-  valent to a direct transaction with the ship owner  himself.   (3) The actio institoria no doubt had a like  commercial origin. This was an action by which  the person who employed a manager (institor) in a  busiuess from which he drew the profits, was made  liable for the debts and contracts of the manager.  This action was known as early as the days of  Seruius Sulpicius^, and its formula closely resem-  bled that of the actio exerdtoria. The difference  between these two and the actio quod iussu con-  sisted simply in the fact that the iiissus or autho-  rization was special in the one case, and general in  the other two. In the actiones exercitoria and insti-  toria an implied general authority was ascribed to the  agent in virtue of his praepositio^, whereas in the  actio quod iussu the agent had only an express special  authority. Thus the magister nauis and the institor  were genuine instances of general agents ; and we  find therefore, as we should have expected, that the  acts of the magister and institor only bound the  master when strictly within the scope of their  authority'. This is an excellent instance of the  manner in which Mercantile Law has developed the  same rules in ancient as in modem times.   (4) The actio tributoria was that by which a  master was compelled to pay over* to the creditors  of a son or slave trading with his consent whatever   1 14 Dig. 3. 5. fr. 1.   2 46 Dig. 3. 18 ; Oosta, Azioni ex. p. 40.   ' 14 Dig. 1. 1. fr. 7. •* tribui, 14 Dig. 4. 5. 5.   B. E. 14   Digitized by Microsoft®     210 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   profits he had received from the business. The  formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio qui  in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia  merce peculiari negotiaretur, -infiertum stipulatus est  qua de re agitur, quidquid ex ea merce et quod eo  nomine receptum est ob earn rem iV™ Negidium .4."  Agerio tribuere oportet, eius dumtaxat in id quod  minus^ dolo malo N^ Negidii A' Agerius tribuit,  N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a*.  This action was mentioned by Labeo ' and was there-  fore probably as old as the other actions of this class.  The knowledge and tacit approval of the superior  were here the source of his obligation.   (5) The actiones de peculio and de in rem uerso  were proceedings by which the master was required  to make good any obligation contracted by his son or  slave, to the extent of the son's or slave's peculium,  or of such gain as had accrued to himself {in rem  uersum) from the contract. Their peculiarity, as  Gaius has told us and as a recent writer conclu-  sively shows*, was that they had one formula with  an alternative condemnatio, which may be recon-  structed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio  cum is in potestate JV* Negidii esset, incertmn stipula-  tus est qua de re agitur, quidquid ob earn rem Lucius  Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona, eius  iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio  quod penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N*  Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This   » 14 Dig. 7. 3. " Baron, I. c. p. 176.   ■< 14 Dig. 4. 7.   * Baron, I. e. pp. 136-69 ; cf. Lenel, Ed. perp. p. 225.     Digitized by Microsoft®     GONSTJTVTVM. 211   formula might be so modified that the actio de  peculio and the actio de in rem uerso could be  brought either separately or together. These actions  were known to Alfenus Varus^, and it is safe to say  that they were introduced some time before the  end of the Republic. The knowledge or consent of  the superior did not here have to be proved.   The difference between the actio tributoria and  the actio de peculio was considerable. By the former  the master contributed his profits and then shared in  the distribution as an ordinary creditor. But by the  latter he became a preferred creditor, and deducted  from his profits the whole amount owed to him by  the son or slave. The peculium in the latter case  was in fact only the balance remaining after the  debts of the son to him had been satisfied.   Art. 5. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To-  wards the end of the Republic we find two kinds of  formless contract by which a debt could be created,  and both of which seem to have sprung fi-om the  requirements of Roman commerce ■'.   I. Gonstitutmn.   The chief characteristics of this contract may be  gathered from the constitution by which Justinian  ftised together the actio recepticia and the actio  pecuniae constitutae\ as well as from allusions in  the Digest. It seems to have been a formless pro-  mise of payment at a particular date ; depending on  the existence of a prior indebtedness to which the   1 15 Dig. 3. 16. == Ihering, Geist iv. 218-220.   3 4 Cod. 18. 2.   14—2   Digitized by Microsoft®     212 CONTBACTS NOT CLASSIFIED.   constitutwm became accessory^; unconditional^; en-  forced by an actio pecuniae constitutae of Praetorian  origin which was in some cases perpetua and in  others armalis ; and available to persons of all classes.  Constitutwm is discussed by Labeo ', and is men-  tioned by Cicero^ in a way which makes it certain  that the actio pecuniae constitutae existed in his day.  The action originated in the Praetor's Edict",  and it was thereby provided with a penal sponsio  similar to that of the condictio certae pecuniae. This  leads us to infer that pecwnia constituta was treated  by the Praetor as analogous to pecunia credita ; es-  pecially as Gains • states that pecwnia credita strictly  meant only an unconditional obligation to pay money,  while we know from Justinian's constitution that  unless constitutvmi was unconditional no action would  lie. But why should the penal sponsio of the actio  pecuniae constitutae have been so much heavier than  that of the condictio, namely dimidiae instead of  tertian partis ' ? The reason given by Theophilus'  is that constitutum, was generally entered into by a  debtor in order to gain time for the payment of a  debt already due, and that the Praetor instituted  this severe action in order to discourage insolvent  debtors from this practice. Labeo on the contrary  says * that constitutvm, was made actionable in order  to enforce the payment of debts not yet due. Both   ' li Dig. 5.1. fr. 5 ' God. l.c.   » 13 Big. 5. 3. ■» Quint. 5. 18.   ' 13 Dig. 5. 16. » in. 124.   ' Gai. IT. 171. 8 Paraphr. iv. 6-8.   18 Dig. 5. 3.     Digitized by Microsoft®     TWO FORMS OF ACTION. 213   Labeo and Theophilus are probably right ', but each  takes a one-sided view. The Praetor's aim presu-  mably was to enforce the payment of any debt, due  or not due, which the debtor had made a renewed  promise to pay at a particular date. The breach of  a repeated promise (for constitutum always implied  a previous promise or indebtedness) was doubtless  regarded by the Praetor as a singularly flagrant  breach of faith ; and hence he compelled the defen-  dant to join in a penal sponsio dimidiae partis.   This actio per sponsionem was not however the  only remedy for a breach of constitutum. The Digest  shows that the usual form of redress was an actio in  factum ", which ' probably had a formula as follows :  Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X  millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn  pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse quo-  minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur  debitam fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam,  Nunierium Negidium Aulo Agerio condemna ; and  that this actio in factum, existed in Gaius' time  as an alternative remedy seems probable from his  language in iv. 171. It is not likely that the actio  in factum arose simultaneously with the other; and  of the two Puchta* is almost certainly right in  assigning the earlier date to the actio per spon-  sionem, because the custom of sponsione prouocare  suggests an ancient origin. This sponsio, like that of  the condictio, was praeiudicialis, but it also contained  a strongly penal element. Its penal character was   » Bruns, Z. f. EG. i. p. 56. » 13 Dig. 5. 16. 2.   ' Bruns, loc. cit. p. 59. * Inst. ii. 168.     Digitized by Microsoft®     214 CONTRACTS NOT CLASSIFIED.   no doubt the reason why the action could not be  brought against the heir of the constituens, and why  it was annalis. As Bruns has shown, the remedy  after one year was probably the actio in factum'^,  by which the plain amount of the constitutwm could  alone be recovered.   Gonstitutvmn could be employed for the renewal of  the promisor's own debt {const, debiti proprii), as  well as of another man's {const, debiti alieni), and  this distinction was early allowed". In the later  law it could also be used to reinforce and render  actionable an obligatio naturalis. But this feature  probably did not exist at the origin of the action",  for the Praetor could only have had in mind pecunia  eredita, when he inflicted such a heavy penalty.  The effect of constitutwm was simply to reinforce the  old obligation by supplying a more stringent remedy.  It never produced novation as stipulatio or expensi-  latio * would have done.   //. Receptwm.   The agreement by which shipmasters, innkeepers  and stablemen {nautae, caupones, stabularii) under-  took to take care of the goods or property of their  customers was known as receptwm, and was enforced  by means of an actio de recepto as rigorously as the  duties of common carriers are enforced by the Common  Law". The Edict was expressed as follows : navtae  CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore   RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM DABO ;   ' Bruns, loc. cit. J). 68. " 13 Dig. 5. 2.   ' Bruns, ib. p. 69. < 13 Dig. 5. 28.   ' Camazza, Dir. Com. p. 106.     Digitized by Microsoft®     THEORIES AS TO RECEPTVM. 215   and the remedy was an ordinary actio in factv/m,  authorising the judge to assess damages for the loss  or non-production of the goods.   But the contract which more nearly concerns us  is receptum argentariorum, the nature of which has  been a subject of much controversy.   This was a formless promise to pay on behalf of  another man, and we gather from Justinian ' that it  was capable of creating an original debt; capable  of being made svb conditione or in diem, and en-  forced by an actio recepticia, which was perpetua;  while Theophilus tells us' that it was confined to  bankers (argentarii). Bruns" indeed supposes that  receptum was a formal contract iuris ciuilis, while  according to Voigt* it was a species of expensilatio  devised by the argentarii. Lenel^ however has  proved that receptum argentariorum was introduced  and regulated by the Praetor in the same part of  the Edict in which he treated of the recepta  nautarum, cauponarum and stabulariorum. This  appears from the fact that in 13 Big. 5. 27 and  28, constituere has evidently been substituted by  Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian  treated of constitutwm in his 27th book on the  Edict": but the passage quoted in the Digest is  from his 14th book on the Edict, in which we know '  that he discussed the clause Nautae caupon^s sta-  hularii. So also Pomponius, who discussed recepta     1 4 Cod. 18. 2. 2 IV. 6-8. » Z. fur RG. i. 51 ft.   * fiSm. EG. I. 65-8. ' Z. der Sav. Stift. ii. 62 S.   « 13 Dig. 5. 16. ' 4 Dig. 9. 1.     Digitized by Microsoft®     216 CONTBACTS NOT CLASSIFIED.   nautarvm, &c. in his 34th book^ and constitutum in  his 8th*, is described' as mentioning the latter in his  34th book. Gains also is represented to have dealt  with constitutum in the very same book* in which he  treated of recepta nautarum^.   We must conclude, either that all these writers  introduced into their discussion of recepta naviarum  &c. the totally irrelevant subject of constitutum, or  that the subject thus introduced was not constitutum  but receptum argentariorum. If the latter conclusion '  is correct, as we may well believe that it must be, it  follows that receptum, argentariorum was, like the  other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and  was therefore not a contract iuris ciuilis. By analogy  with the other recepta we may further conclude that  receptum argentariorum was formless, and hence  cannot have been a species of eoopensilatio. The  remedy was of course an actio in factum.   Recipere is used by Cicero* in the sense of under-  taking a personal guarantee, but with no clearly  technical meaning. Justinian states that the ouctio  recepticia was objectionable on account of its "solem-  nia uerba," and Lenel has explained this to mean  that the actio recepticia, being necessarily in factum  like those of the other recepta, had to contain the   words "si paret soluturwm recepisse. n^que   soluisse quod solui recepit," of which recipere was  a technical term. This term, being misunderstood  by the Greeks, was translated in Justinian's time   > 4 Dig. 9. 1 fr. 7 and 9. 3. ^ 13 Vig. 5. 5 fr. 5.   » ib. 5. 27. * ib. 5. 28. = 4 Dig. 9. 2 and 5.   « Phil. V. 18. 51. ; ad Fam. xiii. 17.     Digitized by Microsoft®     A MERCANTILE DEVICE. 217   by constitmre. It is almost certain that the actio  recepticia was known before the end of the Republic,  since Labeo evidently ' discussed it.   The function of receptum probably was to provide  an international mode of assigning indebtedness,  because transcriptio a persona in persona/m was not  available to peregrins'. The existence of the debt  between the creditor and the original debtor was  clearly not affected by the obligation of the argen-  tarius who had made a receptum; and from the  passages above cited Lenel also infers that receptum  pro alio was the only known form which the contract  ever took. In short, it seems to have closely resem-  bled the acceptance of a modem bill of exchange",  and it was doubtless made by the argentarius on  behalf of his clients or correspondents.   1 13 Dig. 5. 27. ' Lenel, Z. der Sav. Stift. n. 70.   3 Carnazza, Dir. Com. p. 93.     Digitized by Microsoft®     CONCLUSION.   We have now traced the development of the  Roman Law of Contract from an early stage of  Formalism, in which few agreements were actionable,  and those few provided with imperfect remedies,  to the almost complete maturity to which it had  attained by the end of the Republia   Of all the contracts which we have examined,  nexum and uadimoniwn seem to be the only two  that became obsolete during this period, while the  new contracts of Praetorian origin, such as depositwm  and constitutum, attained their full growth, as we  have seen ; so that the jurists of the Empire found  little to do besides the work of interpretation and  amplification.   The one great improvement, and almost the only  one, which the Law of Contract underwent sub-  sequently to our period, was the introduction of the  actiones praescriptis uerhis, by which the scope of  Real Contract was immensely enlarged.   Li other respects, the Law of the Republic  has the credit of having generated that wonderful-  system of Contract which later ages have scarcely  ever failed to copy, and which lies at the root of so  much of English Law. Francesco Fisichella. Fisischella. Keywords: il duello, “del contratto” – giocco come contratto – wrestling as a contract, fencing as a contract, contract bridge as a contract -- pena temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale, obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fisichella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51760247338/in/dateposted-public/

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