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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 5

 

Baroncelli – compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Savona). Filosofo. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo  Nato e cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa assistente.  Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste.  Dal 1977 al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna.  Nel 1981 diventa ordinario all'Università della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di Filosofia morale.  Nel 1988 un grave incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel Wisconsin.  Nel frattempo collabora con molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il diario della settimana, il Secolo XIX.  Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti, segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte sopraggiunta nel 2007.  Il pensiero di Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato, invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso pianeta.  Pensiero e la ricerca Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza, il liberalismo e il politically correct.  Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano”  Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione" a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica,  "Come scrivere sulla tolleranza" in Materiali per una storia della cultura giuridica.  Note  Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, su pubblicitaprogresso.org. 7 maggio  (archiviato il 7 maggio ). Franco Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum,  14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is. Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to appreciate.  Info dalla pagina del Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Archiviato il 16 marzo 2007 in. di Giorgio Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790110604/in/dateposted-public/

 

Grice e Barone – linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa (1957), dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza (1987) nonché direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1958 al 1974.  Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza.  Pensiero Particolarmente interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della scienza.  Come pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della ideologia liberale e liberista.  Il tema principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica.  Il suo pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.  Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici della nascente informatica.  Altre opere: “L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica trascendentale,  I, Da Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note  Francesco Barone, Neopositivismo, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, 1979  Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sito ufficiale, su francescobarone.  Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,.  David Hume, il filosofo della non certezza di Francesco Barone, La Stampa, 26 agosto 19763. Addio a Barone il filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, 28 dicembre 200131, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790459935/in/dateposted-public/

 

Grice e Barone – dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --  Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia il 19 giugno 1946, trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola.  Ebbe subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani.  Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di Alcamo.  Per diversi anni, è stato anche Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita; ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche; ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili; tip. Bosco, Alcamo). Note  trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_e_saggistica_in_provincia_di_Trapani_02.pdf  Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968.  Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, 1968. trapaninostra,// trapaninostra/ libri/salvatoremugno/ Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_e_saggistica_in_ provincia_di_Trapani_02.pdf. 14 giugno.  Vincenzo Regina Tommaso Papa 305357714  Identities-305357714 Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Letteratura  Letteratura Categorie: Presbiteri italianiInsegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1914 2004 29 aprile 22 novembred Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789692301/in/dateposted-public/

 

Grice e Barsio – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, 1780, Parma., su books.google. 18 luglio.  Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, 1859., su books.google. Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese, 1973., su books.google.  Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51715493552/in/photolist-2mMVquy

 

BARTOLI search.gianpaolo --

 

Grice e Barzaghi – scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a stoic!” --  Direttore della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo.   Nella sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17).  Nel pensiero barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.  Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella “dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p. 96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p. 98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).  Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello del 29 novembre 2001 a Milano e quello del 12 giugno  a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio”  L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline,  La potenza obbedienziale dell’intelletto agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in  Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V. Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. PinnaD. Riserbato  Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas” 2 (),  13-27. Note  A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di Giuseppe Barzaghi...  Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani 2006), nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.  RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto  Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghiparte 1 e parte 2  E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 2 novembre 1999  Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3.  All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)  Apocalisse 13, 8  Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD,,  157-270  Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, 1963.  G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli, 200333.  UniPdL’eternità dell’essente  RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…  Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” 3 (1998),  57-81.  E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa  Dialogo Severino-Barzaghi a Milano  Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna  RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su youtube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790037784/in/dateposted-public/

 

Grice e Barzellotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “The good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia della filosofia con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle Pavia nel 1881 e di Napoli, nel 1887. Nel 1896 divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei nel 1899. Nel 1908 fu nominato senatore del Regno d'Italia.  Fu iniziato in Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente d'Italia.  Altre opere: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli);  “Monte Amiata e il suo profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, 200526.  Virginia Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani,  7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1970. 20 novembre. Giacomo Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. 20 novembre. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giacomo Barzellotti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giacomo Barzellotti  Giacomo Barzellotti, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Barzellotti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Giacomo Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  Opere di Giacomo Barzellotti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,.  Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.  Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore1844 1917 7 luglio 19 settembre Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro quadro,ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa conce zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,1886. ritratti?(1).A questa popolaritàegliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandon e il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi, solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale. La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta» aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta «appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz (tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla prima; m a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia,un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nellasuaastrattauniversalità,ma solidaeconcretanellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha dal lato letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è « mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia del 1.0 maggio 1889, p. 56. (2) D a l r i n a s c i m e n t o a l r i s o r g i m e n t o, P a l e r m o, S a n d r o n, 1 9 0 4, p. 2 0 1. suoi concetti; ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta, il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52 n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o s a z i a d i s a p e r e. Perchè, s e h o d e t t o c h e il B a r z e l l o t t i è u n a r t i s t a p i ù che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria (1)) che possa dirsi un artista finito, e che il suo capolavoro (ilLazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il B a r è al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che può forse considerarsi come il ca p o l a v o r o d e l B a r z e l l o t t i, il q u a l e i n e s s o si p r o p o s e b e n s ì d i f a r e u n o studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».(1) Vedi in questo fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi anni.Ma anche lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche il Barzellotti Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro.Il lettore,nemico della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e p o i i v o l u m i d e l R e n a n, e l e o p e r e d e l l ' H a r t m a n n e q u a l che fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. Il Barzellotti,che pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle 140 paginediroba! L'elementodescrittivoedrammaticorestaaffatto estraneo e sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche, mentre egli realmente non si mette mai inunasituazionesinceramenteartistica,sonoilmaggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui.Il modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento, p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, a.I, vol.II(1887), pp.3-33. con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro dellafilosofiadelsec.XVI, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti, mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1)Nella N. Antologia del 15 febbraio 1880,pp.591-630. (2)Fil.sc.ital., 1878,XVIII,42-3.(3)Pag.38n. egli ha detto di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni » non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della conoscenza e la metafisica dopo ilKant (1878-79), lavoro prevalentemente storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle fonti originali.In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un n e o k a n t i a n o v e r o n o n p u ò n o n f a r apparire i s u o i c r i t e r i i filosofici; e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte (3).Al Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come feceilFichte,dopol'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato, imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant alle loro ultime conseguenze» (1).– Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libridi Cicerone (1867),in cui si vede ancora lo scolaro di A. Conti edi T. Mamiani.Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di quellaRivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti, insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente.Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. (1) Pag. 45 (2)Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia, nella N. Antologia del 15 febbraio 1879, p. 630 (4) Ivi,p.639. (1) Nella Rivista difilos,scientifica, 1882,vol.I,pp.496-525. (2 ) P a g. 4 9 8. (3) Cosi nel libro sul Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant ».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della percezione, nella Fil. dellesc.ital.,1882, XXVI, 137-65; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n t e m p o, ideali ed empirici, subbiettivi e  obiettiv i, h a n n o il l o r o e s s e r e e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc larsiconl'idealismoberkeleiano!Masipuòpar lare di contraddizione? (4) Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE,I,1,364. (5 ) C f r. L a m o r a l e c o m e s c i e n z a e c o m e f a t t o, n e l l a R i v. i t a l. d i f i l o s., 1887,II,15-16elapref.aiSanti,p.xxi n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva (1871)– l'indirizzo psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede, esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e delle loro leggi. Nien t ' a l t r o c h e d a t i ! Non c e r t o «un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata,da un che in somma non ragionato, m a sentito e i n t u i t o ». C o n t r o c h i c r e d e, c o m e il R e n a n, che p o s s a la scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente,la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è,ottimo istrumento e guida all'azione,la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio e suo e d'op posto all'indole del sapere scientifico.; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva ». Qui n d i l ' i n e f f i c a c i a della scienza; q u i n d i il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione.Se la metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le potenze originarie e germinali » (1). E al Taine tributa la gran lode di aver avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione » (2), E l'autore continua: « Qui sta con buona pace dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il c a r a t t e r e e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi » (3). (1)Ippolito Taine, Roma, Loescher, 1895,pp. 191-2. (2) Ivi, p. 149. (3) Pag. 150. E così ci accostiamo al po'di filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota.La religione,dice in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento (1887), è «qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi (1881): « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » (2). Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà » (3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appenalarvato. Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando ha comin ciatoascrivereisuostudiieritrattiesaggipsicologici,intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) D a l r i n a s c. a l r i s o r g., p. 163. (2 ) S a n t i, p. 4 1 5. (3) Op. cit., p. 4 0 5  - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta lafilosofiaall'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio,direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. (1) Santi, pp. XII-XIII. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche nel 1903 (1): contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza (2). Pel Barzel lotti la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta, per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i p e n s a t o r i, e n o n v e d e il pensiero; e però non vede n è a n c h e veramente i pensatori.Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma il Barzellotti è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo:non èstato un filosofo, e neanche un artista riuscito; ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è statoun lucidospecchio di molta parte della cultura filosofica straniera contemporanea;ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filoso fanti italiani degli ultimi tempi. (1) Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che re stano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della fi losofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negli Atti d e l C o n g r. i n t e r n. d i s c. s t o r. (R o m a ).  Fra i più malagevoli ufficj della Critica istorica è per certo il determinare come e quanto contribuisca l'inge gno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori,o alla civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più che alla storia appartenente alla F i losofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della natura,onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e ilpatire,ilconservareeilprodurre,la reve renza alle tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d'un tale esame,la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de'Romani; giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole,e avvalorati dal quasi comune consentimento,negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gli argomenti che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti 1   Questa ultima affermazione tanto più è conforme alla storia,in quanto,sebbene la maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principj dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dot trine della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori,  2- concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e distolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del d o minare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abba gliati dallo splendore della civiltà greca,mancò una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negli esercizj della scienza e dell'arte.(Degerando, Brucker, Tennemann,Ritter,Kuehner ed altri).Ai quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica,la quale vieta potersi sempre dedurre da ciò,che un popolo fece in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare; se non mostrasse il contrario la scuola dei Giure consulti,che dalla coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l'Eneide emula all'Iliade, Lucrezio maggiore d'Esio do,la Commedia di Plauto,le storie di Livio,di Sallustio, di Tacito, la Satira togata di Giovenale e di Persio, l'Elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino,libero nella imitazione,seppe aggiungere all'ideale del vero e del bello greco un che d'universale e di so lenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima ri velazione degli umani affetti, ignota fin allora ai Gentili e resa più perfetta dal Cristianesimo,io mi restringerei alle sole opere filosofiche di Cicerone,che sono, parmi, una fra le prove maggiori del come la scienza deinostri padri, modestamente operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale.   e all'età delRinnovamento.(Ritter,Hist.dela Phil.an cienne,tom.IV, p. 136,e nota 2,Paris, 1858,Ladrange. Kuehner,M. T.Cic.inphil.ejusq.partesmerita.Ham burgi, 1825, P. V. C. IV. Epil.) La storia della Fi losofia ci mostra di fatto che Cicerone fu a’Padri latini molto in pregio,e segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle In stitutiones divinæ più volte; poi a sant'Agostino che ri conosce dall'Ortensio la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi Ciceroniano.Fra iDottori più principali è noto come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consola zioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fece sì da'pensieri e sì dallo stile; come san Tommaso ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua Somma,comeDante lomeditasse;piùtardinelsecolo decimosesto Erasmo lo esaltava con lodi famose, e nel decimosettimo l'Autore della Scienza nuova attingeva in parte dal libro de Legibus il pensiero d’un gius ideale eterno celebrato nella città dell'universo col disegno della Provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì costante, e che per certo doveva avere una causa non soltanto, come si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del filosofo latino si porgevano all'educazione morale e civile, m a nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj (Forsyth, Life ofCicero,London,1864,vol.II,XXV,p.282),con trastano singolarmente i giudizj di alcuni critici piùre c e n t i. L a o p i n i o n e e s p r e s s a d a t a l i g i u d i z j, a v o l e r l a r i a s sumere in breve,è la seguente:M. T. Cicerone,ingegno universale, acutissimo e disposto ai combattimenti dell'elo quenza, più che alle severe indagini speculative, pensò e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia greca  3   in servigio dei suoi connazionali digiuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti greche. Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio,dal fine pratico e letterario ch'e'sipropose,e dal difetto di studjpreparatorj la Criticamodernadeduce la natura delle sue dottrine; le quali,benchè guidate sempre da criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune,non vanno troppo addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè costituiscono,come le dottrine dei migliori filosofi greci, un largo e ben architettato disegno di scienza.(Brucker, H i s t. C r i t. P h i l., V. I I, p a r. 2, p. 1. C. 1. T e n n e m a n n, G. Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig, 1862, pag. 769, $ 119.) 2. Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abba stanza severi,parmi se ne potrebbe addurre innanzi tutto unacausaassairemota,ma inparterelativaalmodoben differente, con cui gli antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Francesco Bacone,che spez zando ogni autorità del passato,e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a fastidio,proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta novità dei sistemi. C o m e s'intendessero quella libertà, e quella novità; e quali resultati ne seguitassero alle let tere, alle scienze, alle arti,al vivere privato e civile,come se ne avvantaggiasse o ne patisse la Morale e la Reli gione,la Scuola,la Famiglia e lo Stato,non è qui luogo a mostrarlo,e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della riforma,e soprat tutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali dal Galilei,eda FrancescoBacone;chè,selariflessioneli bera ed esercitata desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le discipline morali e civili; perfezionò i suoi metodi la Medicina, si levò gigante la Chimica,la Geologia sfogliando  -4   illibrodellanaturavilesseleetàdelmondo;se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle manifat ture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con v e l o c i t à p i ù c h e u m a n a, e i n m e n d ’ u n b a l e n o il s a l u t o r i congiunge gli amici,benchè separati dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi trice l'Europa. M a le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della conoscenza umana,e quel nuovo si cercò da molti nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia ed in Francia la licenza della rifles sione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il panteismo superbo del Bruno, del Campanella e dello Spinosa;poi,scontenti del panteismo,ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke,lo scet ticismo dal Bayle e dall’ H u m e; più tardi le sconfinate immaginazioni degli Alemanni,e un ridurre Dio e l'uni versoall'uomo,dall'uomoalpensiero,dalpensieroall'idea, dall'idea novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza rag giungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare !Posta in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla ), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi,sof fermata un istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse l'assoluta indi  5-   6 pendenza del pensiero esaminatore dallo stato della n a turale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia comparata dei sistemi del Degerando,e la storia del Tennemann,dove si giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'ori gine dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici più temperati e meno imparziali,segnatamente Alemanni, e nei filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando Italia e Francia,stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota il Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei Romani e di Cicerone),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradi zioni.E nel vero anche piùtardi intuttoilsecoloXVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, m a tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali il Bossuet, il Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù n e gando i pregj dell'antichità,nemici d'ogni tradizione,non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande oratore avea 1    recato sulle verità eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine greche temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero diTullioilPomponaccio eilCampanella,citatidal Brucker,pag.49,tomo II,notaa.) M a d'altra parte, se per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la filosofia d'un popolo,che fu per eccellenza il popolo delle tradi zioni,giova riportarci alle sorgenti diquella Critica, ec cessivamente nemica al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo nella Storia della Filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra ifrancesi,per tacere dei p i ù a n t i c h i, il D e g e r a n d o v i s p e n d e il c a p. X V I I I d e l l a s u a Storia comparata dei Sistemi,dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla Filosofia trapiantata di Grecia, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. (Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des connaissances humaines, par M. Degerando, tom. III, parte I, 1823.) Giudizj assai meno temperati comparvero inAlemagna, dove fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e isto riche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze  C   Tra i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero fondatore della Storia della Filosofia.Ma considerando però il ca pitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di Cice rone,ti accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche;e secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine romane annoverando Cicerone tra iseguaci della Nuova Accademia;quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta,ma inclinò a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente ilBrucker nel proporsi ilquesito,perchè mai i Romani e Cicerone non crearono una filosofia propria,non ne accusa, come oggi il Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino (the unmetaphysical character of the Roman intellect.Life of Cicero,vol.II,p.282);ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupa zioni della vita civile, e nella setta Accademica, che cri ticando e sindacando tutti isistemi,svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a Cicerone, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico) preferiva il probabile all'esame profondo del certo, e delle greche dottrine rappresen tava nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e la generale armonia del sistema.(Brucker,Hist.Crit.Phil.,tom.II.) Al giudizio dato dal Brucker si avvicina in gran parte quello del Tennemann,e nelle loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella esposi  8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato, e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace l'Europa,ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli scrittori di quelle grandi e generose nazioni. 1   zione dei fatti;ma per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della Filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina, come quella di Cicerone, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? M a se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Enrico Ritter nella sua storia della Filosofia antica. 3. Le indagini dotte e meditate del Ritter movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche,  -9   ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva ildotto Alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli dice,dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica, perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon  10   volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine colle meditazioni della scienza.Era quindi ben naturale che il grande oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di Cicerone deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante;scetticismo moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre intemerata la nobiltà d e l l a v i t a, e il d e s i d e r i o d i u n a m o r t e g l o r i o s a; m a t u t t a v i a scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj delle  - 11 -   umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della Nuova Accademia;e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle  12   cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici l o lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè il Ritter movendo dal presupposto che  la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di riflessione e cri t e r i o d i s c i e n z a. (H i s t. d e l a P h i l. a n c., l i b r o X I I, c a p. I I, vol.IV,ed.cit.) una manifestazione 13 Se noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni del Degerando, del Brucker e del Ritter,è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare non piccola luce intorno ad una questione che   abbiam preso ad esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale dell'esame, e quel lento c h i a r i r s i d e ' p r i n c i p j s u p r e m i, c h e g o v e r n a n o i f a t t i, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di Cice rone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Ac c a d e m i a, e u n e c c l e t t i c o d u b i t a n t e ), e, q u e l c h e s o p r a t t u t t o importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia francese  14   15 delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des I n s c r i p t. e t B e l l. L e t t., v o l. X L I, X L I I, X L V I.) A questi difetti sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno pratico della natura romana.M a d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso e negli altriuomini,un cri    16 terio certo, universale, infallibile da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine, ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur.1825. Pars altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur, pag.130.) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi    Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino.  successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giu reconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. 17 2   18 1, Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene, un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia, le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire,l'abuso scon II.    umana  19 sigliato delle libertà cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. N o n è quindi a maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del popolo greco, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse   guenza necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi cacia sulla filosofia latina. 2. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e il non -ente, il neces s a r i o e il c o n t i n g e n t e, il r e l a t i v o e l ' a s s o l u t o; e p i ù, d a u n pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0,meglio,immaginare quella conciliazione, bisognava porre  20   un unico principio, in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima. Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a quello dacuierano mossiPlatoneeAristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. M a che cosa era questa materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura, infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una finzione immaginativa,è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno) collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que' pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse, si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni  21   22 delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov.Diog.L.,VII,136,e Cic.,De N. D.,libroII, cap. XXII,e pass.). La falsa induzione che per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte, e l'universo rassomigliavano a u n g r a n d e a n i m a l e; p e r c h è, d i c e v a n o (u s a n d o u n a r g o m e n t o di panteismo rigoroso adoperato più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà del l'umano,concepisseroDiodaunlatocomeprincipio prov vidente e ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De Divin.,De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e    la psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo  23 -   24 di conoscere,che conforme alla sua natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione?Ne rimaneva una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue proprie. M a in tal m o d o il sensista tira più là la questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea dell'obbietto s e n t i t o. M a è q u i a p p u n t o d o v ’ i o p r e g o il s e n s i s t a a d a r restarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la    conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il corpo del mondo, tra la m a t e r i a e l a f o r m a, il p a s s i v o e l ' a t t i v o, il p i ù e m e n p e r fetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile,quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e di Dio. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato dalla universale natura; peggiora  25   3. E d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età italo-greca,e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della  26 rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.)   - 27 Grecia,quando laNuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; m a q u e l r i g o r e, n o t a b e n e C i c e r o n e (D e F i n., L. I I ), e r a un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggio r a s s e il s e n s i s m o d e g l i S t o i c i e n o n m o v e s s e u n p a s s o o l t r e la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi Cicerone nel secondo degli Accademici),Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità e la    falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la logica degli E p i c u r e i (C i c., D e N a t. D e o r., L. I. C. X X V, 1 0. ) N è a d i verso cammino si volgeva la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito.Ora,se ben con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri i m m o r  28   tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: 1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della superstizione.) 4. Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delledottrinesocratiche,ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non po  29   30 tersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto dell'ente,e alle MatematicheeallaFisicaindagatricede'fattinegònome di scienza.Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità ri    conoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Cri tica della conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.)  31   La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori,perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic.,De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.) 5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj d’Italia; il  32   che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente.(Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV.)Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di scienza m a  33 era 3   nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma,dovefinoallamorted'Au gusto durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco,Plutarco,Apuleio ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni fanno  34   seguire un esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi.Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d ' E v e m e r o. M a la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e a f f e r m a z i o n i i n f i s i c a e d i n m o r a l e, r e s t r i n g e v a n o il soggetto della filosofia al problema del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli E m p i rici Alemanni, l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle cagioni del male, dovea consistere  35   segnatamente nel tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto dalle q u a lità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e civile di R o m a, e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale,condizionenecessariaal na scere della Filosofia.D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone  36 -   e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio,ci siamo allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano all'Ortensio(A. di Roma 709 in circa), appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava al buon uso dei m e  37   todi sperimentali; la morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di Cicerone, testimoniarono anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto,il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in Grecia ed in Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica sulla coscienza morale.  38   1. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj,fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa,  PARTE SECONDA. ESAME DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE DI CICERONE. I.   sembra doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali,evidente e misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone; entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato;più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di Ci cerone.E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal  40   - 41 D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in Arpino di famiglia provinciale (il terzo giorno di gennajo l'anno A. C. 106, coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione), venne a R o m a per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli fosse via alle cause del fôro e al pubblico arringo, eran tempi di più profondi rivolgimenti civili, conse guenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la storia romana,la prevalenza degli Ottimati sopra la plebe, la prevalenza di Roma sopra il resto di Italia e del mondo. (Cantù, St. Univ.) Già sin da quando tonò la prima volta nel fôro la potente parola de'Grac chi, un moto profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'era venuto propa gando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repub blicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le amministra  l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle lotte d'independenza; m a il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio amoroso del vero l'efficacia della filosofia italo-greca, che avea recato dal l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.   zioni delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei delitti narrati. (Sall., Catil.,cap.X,XI,XIV.)Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degli Ottimati che manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta  42 e   2. M a qui c'imbattiamo subito in una questione i m portante. - Cicerone fu egli soltanto condotto a filoso fare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? — Parecchi cri tici tra i quali il Ritter,ilDegerando, e il Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare filosofo vero esso che nella sua gioventù avea studiato la filosofia come semplice istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli fosse stata fatta da talunifraicontemporanei,quandoudiamo luistesso,il testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera, io era maggiormente intento a filosofare (De Nat.Deor.,I,III,6);parole che potreb bero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso,seiprimiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non mostrassero assai che ilsuo ingegno,giovanissimoancora,sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui problemi della Scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i Romani contemporanei affettavano verso la filosofia e le lettere greche.Ma inCicerone,appena ventenne,appa risce un sentimento vivo,e quasi direi religioso,dell'unità della scienza; poeta elegante e vigoroso ne'primi anni, poi traduttore di cose greche,udiva i più eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studiava con Q. Mucio Scerola il giure, coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose  43 una causa, vedreino essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che come riformatore filosofo, come riformatore civile.   civili, la declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone Rodio, e Demetrio di Siria (Cic.Brutodal91allafine;Forsyth,ThelifeofM. T: Cicero,chap.I,II,III.London,1864).Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e pro A r c h i a, V I ), c h e a c o s t i t u i r e il p e r f e t t o o r a t o r e n o n e r a s u f ficienteladestrezzaelacopiadellaparola,ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involutoecomprensivocomeunascienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat., III);concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel -de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva ilRitter) l'ora tore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta  44   l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte (III, 14, 19.). Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc.,II,5,6,7,8,9,10;I,1,2,3;III,3;De divin., I, 1 3; D e o f f., I I, 1, 2; A d f a m., V, 1 5 ). C h i c o n s i d e r a s s e partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli  45   consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che il Ritter e il Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al punto in cui concepisce chiaro l'ordine scien ziale.  46 Il primo e più notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina, si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente   47 il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia pag. 284, vol.III,p.IV.) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore risiede; e poi perchèilverorelativoallavita,sebbene manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico; la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli scritti morali. Dove si scorge (e lo mostreremo a suo tempo) com'egli procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai critici    e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca demia,ponesseildubbiouniversaleafondamentodiscienza. Così opinò il Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono il Brucker,ilDegerando e ilBernhardy.Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi assoluto d'Arcesilao e di Carneade;l'Ale manno mostrava invece con maggior verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinoncercarecheilprobabile,edirattenerel'assenso,con trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il dubbio  48   di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza.Egli,prima d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato, e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. » Nam quum animus cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque discesserit, volupta  sedDelphico deo tribueretur.Nam quiseipsenorit,primum 49 A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi,dove egli stesso in propria persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. « Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia riveduta dal Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore Græco verbo philosophia nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damquesapientiam,quoniamprincipiorerumomniumquasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore. 4   temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, o m n e m que mortis dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit,cultumque deorum et puram religionem su sceperit,et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut co gitaripoteritbeatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit,in hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ,diimmortales,quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. » (De Leg.,I,XXII,XXIII.)  50 Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e si   51 continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. 1° Lo stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo acmente)ravvisinell'intellezioneprima (adumbrata intelligentia),un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. 2o Ciò posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed univer    52 sale che lo palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off, I e II passim ); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani (I, 12) adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne'Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.»(Proem.)E nelleseguentiparolede'Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun altro    paresse dotto (S 16). E dice più oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26.) Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti,St. della Filo sofia, part.I,Lez.XVIII.) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi.  53 Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa   si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata.  54 E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole pel nostro esame. I n p r i m o l u o g o, p o i c h è s o l o p e r n o s t r o a v v i s o, il c o n t r a p porre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso   d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a teria,oquandosoltantol'accenna(V.Degerando,Brucker, Kuehner, Middleton.) Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni Oeconomica Xenophontis (scritta forse l'anno p. u. c.670, o il se guente),Protagoras ex Platone (lavoro giovanile secondo Quintiliano.) Timæus de Universo (trad., come app. dal p r o e m., d o p o g l i A c c a d e m i c i, c i o è d o p o i l 7 1 0 d i R o m a ); i libri vriginali, Hortensius de philosophia (2 libri del l'anno forse p.u.c.709),Consolatio de luctu minuendo (scritta dopo la morte della figlia avvenuta nel 709, poco prima dei Tuscolani), D e Gloria (2 libri, compiti circa alla metà del 710), Commentarius de virtutibus (incertadata),Cato,sivelausM. Catonis(709),Deiure civili in urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica (6 libri scritti dal 700 al 703 di Roma),De legibus(6 libri,composti dopo il De republica), Paradoxa (avanti il Giugno  55 e   del 708),Academicorum (ne fece due edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709),De finibus bonorum et malorum (5 libri del 709 di R.); Tusculanarum disputationum (5 libri, cominciati l ' a n n o d i R o m a 7 0 9, c o m p i t i il 7 1 0 a v a n t i l a m o r t e d i Cesare),De natura Deorum (3libri,compostitral'estate del709egl'idjdiMarzodel710),De Divinatione(2libri, cominciati il 710), De fato (un libro scritto a corredo dei due precedenti), De officiis (tre libri cominciati nella seconda metà del 710), Cato major de senectute (un li bro, scritto e pubblicato il 710), Lelius de amicitia (id.scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Il Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di Ci cerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. 1 Forsyth lo dice nato il 3 d i g e n n a i o, 1 0 6 a v. C r i s t o (6 4 8 d i R o m a ), m a a g g i u n g e i n n o t a a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre del 107 (647 di Roma). In questo anno pongono la sua nascita il Middleton, il Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, del 708 di Roma, (av. Cristo 46 e 62 della vita di Cicerone),eleopere De Natura deorum,DeDivinatione,DeFato,De Offi riis, Cato Vajor e Lælius, del 709 di Roma (45 av.Cristo c 63'della vita di Cicerone); il Forsyth e l'edizione di Lipsia del 1854 (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati al 7 0 9 d i R o m a (4 5 a v. C r i s t o, 6 2 d i C i c e r o n e ), e g l i a l t r i a l 7 1 0. N o i s t i a m o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wir ceb., 1822), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, e averli pubblicati nel principio circa del 703 di Roma.Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e francesi,citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine.  56   un fine pratico,ad esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche (De matura Deorum,De divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche (Academicorum, Topica, De inventione,etc.),lemorali(Definibus,Tuscu lanarum,Paradoxa,Delegibus,Deofficiis,De republica, De senectute,De amicitia);avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta,ma che si guardi alla qua litàche prevale.Fonti secondarj,ma dausarsiconmolto riserbo,sono,secondo nota opportunamente il Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi aggiungiamoleopererettoriche,segnatamente ilDe Ora tore e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. II. 1. Il prendere ad esame con quella larghezza e dili genza,che è necessaria allacriticaistorica,levarieparti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m a altresì quella  57   58 riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota il Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstessoinattinenzacollecose conDio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre    59 più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti.Due fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle Eleatiche,in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre lafisicasuperioreeledottrinesuDio, sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima cor ruzione laGentilità,si rinnovarono esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia delle sette contemporanee nelle tre parti della    scienza,e volendo mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbiodellaNuova Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad., 37, 38, 39). D a quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italo-greco spingendo all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio, ond'e'consigliavaun piùmodestosapere;mostravacome la notizia, che noi acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per indagare i fondamenti su cui posa laterra.(39.)Procedendo di questo passo l'Autore faceva vedere negli Accademici, nei T u sculani e nel libro della Natura degli Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza.  60   61  Nei luoghi citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al certo.(Acad.prior.,41,e De repub.,I,10.) M a la prova maggiore si è che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio,quasi direi   62 giovanile,nutrito dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose,proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive Cicerone)che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che supremamente è degno dell'uomo.»(Acad.prior., De fin.,IV,5).Innamo rato quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro (De fin.,I,6);lodava Zenone perchè imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (D e f i n., I V ); e i q u e s i t i d e l l a f i s i c a c h e l o m o s s e r o g i à vecchio a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione.(De rep.,I,17,VI,9 e De fin.,IV,5;Tuscul.,V,23,25).  Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bredelgentilesimononardissedeterminarle;2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente   e l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degliStoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli e n t i, e li g o v e r n a v o l g e n d o l i a d u n f i n e i m m o r t a l e, c h e n e è prima legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unitàassolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai provata dal metodo di S o crate, che movendo dalla coscienza produsse in Platone  63   64 u n a c o m p i u t a a r m o n i a d i s i s t e m a, e a i u t o il f i l o s o f o l a t i n o, venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosseilpensierodell'oratorelatinointornoaDio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'eglidell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di universale consenso.(Kuehner,Pars.IV,c.11,p.VIII.B. P. van Wesele Scholten,Dissertatiophilosophico-criticadephi losophiæ ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed,1783,c.I,V,p.35).Inquestocriterioioravvisoil riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali anche ilRitter,considerando ilmodo ora dubitativo,oradommaticoconcuiCiceronesiesprimeinsif fatta dottrina,ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj scientifici. (Ritter,Hist.,L.XII,c.II,p.112. Brucker,Degerando.)    M a questi storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno.Alloralavocedelsenso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione scienti fica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee,nèintendiamoch'e'fossesìfortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese dall'ateismo; redi Bayle,Diz.Art.Spinoza).E veramente la conclusione  65 5   Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato.Or qual eraquelfine? Chiamare  66 scenderebbe di necessità dai principj, quando si potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. M a la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto divino.   ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. (I. C. I,1;C. VI, 13, 14.) Con questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare (fra il 676 e il 679 di R o m a ), e trovatolo insieme con C. Vellejo, che alloraavevavoced'essereinRoma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo,stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini.La qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltipli c a n d o D i o, l ' a n n i e n t a v a; il m a t e r i a l i s t a e l ' i d e a l i s t a l ’ u n o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il concetto di Dio  67   68 tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I,dal C. VIII al XXI).Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata no tizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Cri    sippo (I, dal cap. 21 al 43, e tutto il libro terzo), ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come lo Scholten, il Kuehner e il Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum (11),partecipassequivideltuttoildubbio fon damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio dellaNuovaAccademia,moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao, più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade,doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non  69 1   però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte di con futatorecolmetododellaNuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14); e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza sui fondamenti della certezza morale (I. Cap.II, 1, 2,3,4,5).Il dubbio di Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice  70   71 evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune.(I,21,23.III,3,7.)Ora siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova Accademia,non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. U n tal criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.)  U n si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e   72 gliopotevaeglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi principj della r a g i o n e e l a l i b e r t à d e l v o l e r e (T u s c., d e N a t. D e o r., D e Leg.,passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. (D e Leg.,I,7,II,7.) Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose: 1° Il vero intendimento di C i cerone nello scrivere ilDe Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del G e n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva determi .   73 narlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. 3. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla rifles s i o n e, l e v a s i a l c o n c e p i m e n t o d e l l e c o s e i n f i n i t e. M a il c o n cetto dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però seb bene un intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoedell'uomovolgareitreconcettidelfinito,dell'infinito e del non definito, merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie logica    - 74 di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che,a dir così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario,non    75 limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i p o y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto,l'indefinito che nega quella i n d e t e r m i n a t e z z a, si r i d u c e a d u n a p r e t t a a s t r a z i o n e m e n talee per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore.    - 76 Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di tutti isistemi gentili, per quanto con nessiconsottilissimeprove,eanimatidaunintimoprincipio diidealità,siannidava pur sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipan    77 teisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa e p e r c i ò s e n z a f i n e (D e R e p., l i b. V I, c a p. X X V; e T u s c., lib.I,XXIII.). Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da divine menti,    dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata all'oggetto;  78 u o m o, è D i o e s s o p u r e c h e g o v e r n a e m u o v e il c o r p o come il Dio principe,l'universo;sempiterno,immortale, rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le remi niscenze di Platone e degli Stoici;ma degli Stoici v'è poco; laonde io non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul concetto della spi r i t u a l i t à d i v i n a (H i s t. d e l a p h i l. a n c., t o m o I V, p a g. 1 1 6 ); perchè, sebbene Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.»(Ritter, XII,cap.II,pag.116,Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia, lib.IV,cap. VI, 150, acutamente accennata l'opinione contraria.)   inadeguata,io dico,perchè l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e s p e culativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua pienezza nelle dottrine morali. U n primo passo di questa ardita speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si dimostra movendo dalla tra dal  79   80 dizione degli antichi, tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea,affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo ond'ella è discesa. (I.XXII.)In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato nel Cap.XXII ilvero senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. (XVII,XVIII,XIX, X X, X X I.) C o n c e d a n s i q u e s t e i n c e r t e z z e, d a c u i n o n a n d ò assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere (X X, XXII);colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argo    mento platonico tolto dall'eternità de'principj motori (XXIII),e chiama plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari (XXIV.).Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter concepire l'essenzadell'animaseparatadalcorpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci d e l l e d i s c i p l i n e s p e c u l a t i v e. (T u s c., I. X X I I, X X V, X V I I I, X I X; C. f. Cato M. 21, 23, de A m. 4. c. p.) Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche squarciodelleOrazioni(Miloniana,cap.30,31),sivede in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa  81 6   82 terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta;talchè,qualunque esso sia,ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima umana.» (XXVII, 66.) Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la ventunesima del libro VI,ad Diversos)de    Principio etherio flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat, Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul.1.II,v.De Divin.,1.I,c.11,§ 17.)  - 83 dussero ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente il Gautier de Sibert nell'Accademia di Francia,eilKuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario,immutabile,e qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia: 4.Oratornandoalladottrinateologica,questosegregare la mente dell'uomo da ogni natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M. Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare sipossano arrecare due cause;l'una co   84 mune allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del pan teismo quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da    un termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e l a l i b e r t à d e l l ' e s s e r e u m a n o. (D e L e g., 1 1, 7; 1, 8, F i n., I V, 5;V,11;Tusc.,I,49,25;N. D.,I,2;Catil.,I,5;pro M a r c e l l o, I I I; a d A t t., I, 1 6; a d D i v., V, 1 6. ) C e r t o s ' e g l i non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle e t à t r a p a s s a t e, (C o n f., l i b. I V, 1 0 8 ) a v r e b b e t r a t t o d a l l a  S5   notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nellastoriadellecredenzeumane,perchè trat  86   tando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio,console designato,nel 710 di Roma,fu scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al lora(come oggi)alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa. Che cos'è la libera volontà?  87 salità poi non dee intendersi costituita dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail   Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè illibroDe Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone.Nelle quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora,dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di costumi nefandi.Su  88   89 questi principj fondava l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene il Vannucci) « nella Divinazione ed altrove,allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia........ con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini.È un fatto omai noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della    90 logica: qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due scuole;ilCriticismofranceseealemanno, e ilCriticismo cristiano,che cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse sostanzialmenteneiprincipjontologicidelsistema,dis sentono pure nella logica.La prima desumendo le sue dot trine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Genti lesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede tra il pensiero e le cose, tra il sog getto e l'oggetto,e quell'attinenza odenaturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza,o ridusse a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua litàdell'esteso elequalitàdelpensiero,d'ondeilsistema delle cause occasionali del Malebranche, quello dell'ar monia prestabilita del Leibnitz e lo scetticismo del Bayle e del Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti creati. Or che si deduce da c i ò? C h e s e il p r i n c i p i o d e l C r i t i c i s m o, o n d ' è r i d o t t o a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo ri scontro nei fondamenti della dottrina dell'essere, e i si    M a qui cade per altro una considerazione importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la via ad affermare i n t e r a l a n o t i z i a d e l l ' e s s e r e u m a n o, d e n a t u r a n o il l e g a m e che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossi bilelapsicologia,ingannatricelalogica.Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che apparvero in Grecia dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia.Ora poi  91 stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di Lucrezio.   ci sia permesso venire su questo proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e la Nuova Accademia sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine della Nuova Accademia, non che lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità  92   dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il p e n s i e r o c o g l i o g g e t t i, l ' i n t e n d i m e n t o c o l s e n s o. C o n s i derato inquestegeneralitàilsistemadiZenoneabbraccia tutto intero il complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi,Dio e materia,anima e corpo,intelletto e senso,pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso,che la pone in atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici,si nascondeva per fermo una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile  93   a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello della Nuova Accademia. Chè, se fu cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu pessimo nella Nuova Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Nuova A c cademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva.  94 Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af fermative con altre assolutamente inquisitive era, come   dei nostri, un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice, dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Ca tulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo sostiene le parti d'Antioco (stoico) contro Filone (Accademico ); Tullio quelle di Filone con tro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle  95   96 fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero (Ritter, L. XI, 3.). L'osservazione del Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fonda menti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn),ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui,giovailripeterlo,stavalafallaciadell'ar    gomento;gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj indubitabili ed evidenti (Acad.,II,VI,17);quindi la necessità di mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera;secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeatquamintenditadeaquibusmovetur.(X,30.) Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici,  97   La prima parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto conoscitore. Posta in tal modo la que s t i o n e, è c h i a r o c h e p o i c h è il m e z z o d i p a s s a g g i o d e l v e r o conosciutodallacosa,occasionedelsentimento,allepotenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: 1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente laforza;2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. M a Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento spunta  98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso.   3. Il ragionamento di Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti: Cicerone non sostiene egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere seguace della riforma  99 il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento. Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura, ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»).   introdotta da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia, s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica,seguitòildubbiodellaNuova Accademia.(Brucker,Degerando,Bernhardy,Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle consuetudini; bisogna im  100   maginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti.(Hist.,lib.XII,cap.II,pag.105,106).Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato essen zialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto spirituale col vero (De Fin., lib.II,passim ), è poi esattaabbastanzal'asserzionedelRitter,checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alledottrinelogicheperviadellasensibilità?Sefosselecito affermare risoluto contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointantacorruzioneditempi)aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il  101   dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva l'attinenzatrailpensieroeipensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi face  102   vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 (adsentio) e della 2.zténnyes (comprehensio), movendo come da suo prin cipio dalla suurusis,o rappresentazione sensibile (visum ). (Ritter;Cic.,Acad.II,47).Ma,seconsideriamomeglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia;perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti,  103   al numero de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Cri sippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle potenze spirituali.Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti, vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile  104   Il sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei  e 105 e il termine materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. (Acad., I e II dal cap.28 in giù).   germi immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla Nuova Accade mia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea,nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv).Distin guevano quindi due specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade la  106..   scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Nuova Accademia recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, iPositivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia.(Ac.,1.II,15,16,29, 30, 31.) Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en  107   108 admettant la possibilité de saisir quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde.Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude..... On voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et invraisemblable,    mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata v e r o s i m i g l i a n z a n e ' c a s i p a r t i c o l a r i, c o m b a t t è g l i u n i e g l i altri rigettando il dubbio assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off,De Div.,De Nat.Deor.,Acad.) La sua psicologia in quelle parti che si collega alla logica, sebbene qua e là i n f e t t a d e l d u a l i s m o s o c r a t i c o, f a f e d e c o m ' e g l i e m e n d a s s e il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo (Tuscul.,lib.I,cap.XXII);nell'animo distingueva la ragione dal senso;la ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u  109   tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore.(De Leg., 1,23,26, 17,47;Tusc.,1,20;Ac.,1,8, 11,7.) Così col metodo induttivo di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele qualepiùtardisimodificònegliStoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae 1844.) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare  110   111 un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla  IV.   112 natura,presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito dell'Etica,allaquale,considerataperquestorispettocome scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della filosofia. L a F i s i c a, c o m e l a i n t e n d e v a n o g l i a n t i c h i, l a q u a l e m e ditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando    113 si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Vin cenzo Gioberti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie,  8   114 in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano igermi.Ei    115 germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di R o m a, i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti;.Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi, si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle tendenze n a    turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del D o vere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. 2. Ponendo mano impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrinadeiFini,trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi. G i o vanni Rodolfo Thorbecke in una sua dotta dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore,che più volte nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come  116   Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre, nell'offrire c o m e opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia trovarono anche in questa parte della m o  117 termini identici d'una stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura, comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della famiglia, come individuo e come membro della civil società.   rale di Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo (Ritter,Brucker ). A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in m a n o le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore, argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il consolare L. M. Torquato,M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso Tuscolo,e in fineall'ombrasilenziosadeplataninell'Accademiad'Atene. Per cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza, manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri  118   del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in u n ' a s s e m b l e a d i m a t r o n e. (D e f i n., L. I, I I, 2 2, 4, D e o f f., I, C. II.) Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di R o m a. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè  119   mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? M a badi, risponde Cicerone, che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere!  120 Questo intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei filosofi, avea per C i cerone il valore di una prova scientifica, come testimo nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo, e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati solenni e infallibili del senso comune. • Sennonchè, mentre nel secondo libro de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con   futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa dall'autorità edalleparolediCatoneUticense.E invero,qualunquevolta a mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso, nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose che sono secondo natura (L. III, C. X. 33). Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè  121   122 s t e s s o, v e n i v a p o i il c o n c e t t o d e l l a v i r t ù, a l q u a l e l o s t o i c o saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo l'infanzia,che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime inclina zionidellanaturamovevailprincipiodell'operare,ma non però quelle cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era vero in parte, m a nel l ' e s a g e r a r l o s t a v a il v i z i o f o n d a m e n t a l e d e l l a m o r a l e s t o i c a; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)    Esponendo e confutando i principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita civile (Capitoli VII, VIII, IX), procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero alKuehner,qualorasipensiche Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fonda v a n o l a m o r a l e, v i s c o p r e il p r i n c i p i o d ' o g n i l o r p a r a d o s s o, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna che turbasse la tranquillità  123 -.   del suo spirito. (Ritter, Morale des Stoïciens, T. III, pag.540.)Questaeraun'ambiziosaostentazionedelsommo bene,così la chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse unica parte della umana persona.(C.XII.) E qui è notevole davvero come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procedepiùinnanzi,indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per ridurla  124   125 poi a compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere: rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant,quod sitextra nostram potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta senten tia.Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela reliquerunt.»  Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio (Part. V, cap. 2), e che trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'uni   126 verso, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva ilRomano lascienzacome un ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa, era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica, intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze,a un tratto le a b bandonava per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva.(Cap.XIII,XIV,e glialtri sinoallafinedellibroIV;c.f.De legibus,I,C.XVI.) Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò consegue che la misura per determinare la bontà del m e t o d o d ' u n a s c u o l a, e il s u o a v a n z a r e o a l l o n t a n a r s i d a l    l'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non p o t e r s i d a r e q u a g g i ù, p e r c h è il b e n e a s s o l u t o è l ' e n t e i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beati t u d i n e e t e r n a (Q u o i w s i s S e w. D e r e p. e T h e a e t. ). A r i s t o t e l e, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui,perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento all'azione,della politica la parte principalissima della sua morale.  127 Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle   dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale diver sitàneifondamentidellamorale.Chèlapienezzadell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino s u l l a t e o r i c a d e l b e n e m o r a l e, c o n s i d e r a t o s o t t o il r i s p e t t o semplicemente speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche,aiverisupremicostituentilascienza.Da que ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a c u i m i r a il l i b r o D e f i n i b u s. Q u e s t ' o p e r a è d i u n a s i n golare importanza per la storia della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando ilSocrate del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava Epicuro mostrando quant  128   fosse difettivo il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Antica Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli altrianimali,simuta inconoscimento;vis'insegna come debba la filosofia tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio.(Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R. Thorbecke,e inquelladelKuehner,Part.V,4,5,6,7, 8,9,18,19,20. Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di G. Carlo Hinkel:D e variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem,earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione.Marburgi Cattorum, 1839).  129 9   130 Il concetto scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un termine superiore,che era l'integrità del soggetto u m a n o, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Q u e stioni Tusculane, e il libro dei Paradossi.Manifestano un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio)    131 illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi contem poranei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto romano.  mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i problemi e le controversie.Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice.Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M. Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa   132 principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filo sofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile, applicandovi l'esempio di R o m a e i larghi principj della Giurisprudenza e del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare,più acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via di rigorose indagini speculative. M a niente è più contrario a questa opinione quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: « quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter interduin    loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo, non debbo lasciare indietro come dal 490,età della prima guerra cartaginese, al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale, dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di scienza; non già che molte massime  133   134 generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodellarepubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De claris oratoribus (XLI); e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due rispetti    nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni degli u o mini.Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone,per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico savio, c h e p o n e v a a f o n d a m e n t o d i s a p i e n z a il c o n o s c e r s è s t e s s o. Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole,e va persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi  135   136 l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità delle massime,deglieditti,delle leggi,degl'interpretanti, onde spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma (Lib. I, c. IV, e XIII). Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj,gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi,e dettò le pagine più    137 eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del C a r tesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo d i D a v i d H u m e, il K a n t c h e n a c q u e il 1 7 2 4, e v i d e n e l l a seconda metà del secolo XVIII i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta. « Pel Kant (osserva giustamente il Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita (perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea..... Cotal dovere e cotale legislazione as    soluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano sub bietto,appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » (Confessioni, V. I, Lib. II, pag.294,95.) Tale è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza c h e l ' o r a t o r e r o m a n o, il q u a l e r i f i u t a n e l l i b r o D e f i n i b u s la parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi  138   Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro D e legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj,più tardi usciti a fondamento della sapienza cristiana.  139 cacia trascendente di quella virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e morali del filo sofonostro.In quellieglidubitailpiùdellevolte,e,meno che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro   140 delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto di Dio sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze.L'indaginetullianadellaleggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid  una   licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi m a gisteretimperatoromnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit.» (Cic.,lib.III,De Repub.,XXII,33,riportatoda Lattanzio Instit.div.,1.VI,cap.8.)Stupendadefinizioneèquestadel principio regolatore degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione informatrice del sistema di Emanuele Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della  141 -   filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile, necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo; egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore, solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla  142   vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio;simi litudine che può vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente scolpita l'effigie dell'animo.  143 Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: « est igitur respublica   144 Il cardine della morale di Cicerone posa dunque m a n i festamente in questa dottrina delle Leggi, il cui merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. (XVII, X V I I I, X I X.) L a q u a l c o s a, m e n t r e è u n a p r o v a d i p i ù per mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. M a innanzi tutto noi d o m a n diamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte dell'umano  res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 !   soggetto, affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. 4. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al vero ed al buono.  145 10 Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla parte   positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio comune,o m e dio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio.IlManuzio eilFacciolati difesero Cicerone; il Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e ilGrysar avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic.doctrin.mor.ad Cic.libr.De off.,1,  146   147  p.30;Kuehner,p.237;Fran.Binkes,Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq., 1818, pag. 11; Prolegomena ad Cic.libr.De Off.scripsit,C.I.Grysar,Köln,1844, pag.33.) Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima che cosa è il bene nell'umano soggetto (D e finibus), si leva alla nozione oggettiva di legge (D e legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis,De republica,De amicitia,De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura dell'uomo,ma l'intendimento primo a   La gentilezza degli Attici educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava all'invisibile bellezza degli animi. M a in R o m a dove ogni istituzione fu vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli Officj la conside  148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to *nava per l'ultima volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di R o m a. Tale è la dottrina del decoro (Tpétrov), esposta nel capi tolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016;ilsolobuonoèbello,collepa role: quod honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia.   rava in un rispetto quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino seguì liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che fosse cosìa chiconsidericomeildisgiungersidellamoraledalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle attinenze della  149 umana   morale colle altre scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge.La qual cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di Cicerone,che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti pagando, nè r e s t i t u i v a il d a n a r o; e p r o r o m p e c o n m o b i l e s d e g n o: p i r a tarum enim melior fides quam senatus ! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza il 1465, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e politiche  150   151 di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro D e officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso Dio,la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento dell'Evangelo.  5. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità greca,legrazieseveredell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.   Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera, spartita in sei libri, e condotta conlargaunitàdidisegno,ilgrandeoratoreimitò Pla tone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera nonsoloutileallelettere,ma vantaggiosaallapatriae alle più lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di R o m a. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma. 6. Da queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità.E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti  152 La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile.   Ma ataliprovediragioneedifattoaltreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere,nelle arti,nei p u b b l i c i n e g o z j, li r a c c o m a n d a v a a l l a r i c o n o s c e n z a d i R o m a. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù e d e g l i a n t i c h i c o s t u m i. P i ù t a r d i l e s v e n t u r e d e l l a p a t r i a lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati,e l'abito di conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno dell’Affricano  153 e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto.   154 e nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali.  Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Francesco Schneider ne ragionava in una sua dissertazione dottorale del l'anno 1835,dove suppose Cicerone avere trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tusco lane.La quale supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo.   CICERONE;LORO PARTE NELLA STORIA DELLA FILOSOFIA. CONCLUSIONE. 1. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo esameeapiùimparzialigiudizj.Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata come  PARTE TERZA. INDOLE, VALORE SPECULATIVO E FONTI DELLE DOTTRINE DI I.   156 norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle opere di Cicerone.E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e di buono, che si trova sempre in ogni sistema,mentre costituisce un pregio capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola, e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filo sofia tanto riguardosa e modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare fami g l i a r m e n t e i n m e z z o a g l i u o m i n i. » (M a m i a n i, C o n f., p. 2 4, vol. I.) Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza.  Coloro poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni, e giudicano   Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri, ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali, concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle, vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima  157   Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla b a r barie degli uomini. M a d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la n a t u r a e il d i v i n o, l ' e s i s t e n z a d i D i o, d e l l ' u n i v e r s o e d e l l'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spi rituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della  - '158 nelle storie che la critica degli antichi scrittori, segna tamente per opera degli Alessandrini,fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de'Greci, da cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi scritti ai più culti ingegni di R o m a.   159 r a g i o n e, il l i b e r o a r b i t r i o e l ' i m m o r t a l i t à. I n L o g i c a t e n n e salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune ricom poseilsistemaperfettodiquellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella coscienza del genere u m a n o e nei piùnobiliaffetti,aquest'uomo,parmi,non sipossane g a r e il n o m e d i f i l o s o f o g r a n d e. L ' i n d a g i n e d e i d o m m i p r i mitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie età,nelle diseguaglianze de'sessi,degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone,e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo,non hanno    160 inoltre considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella rara f e l i c i t à d e g l i a r d i m e n t i m e t a f i s i c i, c h e e b b e r o S o c r a t e, P l a tone,Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Renato Cartesio, Emanuele Kant e G. Batt.Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune,e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere    alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « D i f ficile est in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»  161 Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M. Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien 11   tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e dello Stato si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto di Dio, che pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè  162   163 stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col D e legibus e col D e officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della V e c chiezza. Esaminando nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy (il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il dialogo delle Leggi.  Ma il por mente a questa unità informatrice delle dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo delle scuole particolari si risolvesse inun criteriointrinsecodiragione.Quistaildivario es senziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici. L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine senz'armonia e senz'accordo. La   verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali, apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva il Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in  164   165 latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta De optimo genere oratorum ) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato.Quindi,prosegue ilKuehner,è necessario al critico di Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti.  Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi   che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e P o libio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli c o m p o s e i v a r j s i s t e m i, s i v e d e c h e, s e b b e n e i n p i ù l u o ghi attinse separatamente dagli Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium,suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philoso phorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant saluberrimam. » (Epilogus). 2. Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripate tico, m a fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura;non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura  166   da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia.Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo romano,ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del per fetto.La gente romana,sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero esteso a d u e t e r z i d e l m o n d o, e il v i v e r e a g i a t o, e l a n e c e s s i t à d i allontanare il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della filosofia, la Grecia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto dell'imitazione.Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgi lio,e che sappiamo esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era laservitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo, procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio  167   168 epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tusco lane (C. II),e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito Lucrezio Caro esponeva splendidamente nelpoema De rerumnaturalafilosofiad'Epicuro;ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli a v e v a f r a m a n o, il m e n o a c c o n c i o a c o m p i r l a. P e r c h è n o n si trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il giovane linguaggio latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis viri (D e fin., III,5), seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj chiamò æquabile et temperatum.  8   L'ingegno universale e comprensivo di Cicerone a p parisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto, tuttora giovanissimo,inRoma,dove facevano capo le faccende d'Italia e del mondo,tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio 1 Intorno allo stile filosofico di Cicerone scrisse con molta dottrina il prof. Michele Ferrucci, in un suo discorso De singolari merili di Cice g'one nella lingua ed cloquenza latina, edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri.  169 La severità della meditazione scientifica è in lui sempre solenne, m a variamente temperata dall'indole del sog getto;èsobriol'usodellemetafore;ilperiodo procede ora maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a se conda della materia,e talvolta (come negli Accademici) imita il linguaggio familiare, talaltra (come nelle Tusco lane) sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi queste distin guere in più classi (modernamente in più maniere) cor rispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrisse. Il D e republica e il D e legibus, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei negozj pubblici e del fôro, hanno più del carattere ora torio.Gli Accademici,ilDe finibus,ilDe natura deo rum,scritti nel 709 e 710 di Roma,poco prima e poco dopo la morte di Cesare, palesano uno studio delibe rato,continuo della severa forma speculativa; laddove nel De officiis, nel Cato Major e nel De amicitia t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari greci lo avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il dio dei filosofi, lo seguì non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trat tati, e nel metodo del dialogizzare, m a improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere antiche.   170 imparziale che fece delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane,in lui straordinario.Cre sciuto intempi funesti alla libertà,e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie appli cava dì e notte con ardore inestimabile ad ogni genera zione di studj. Più tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si recò in Grecia, dove udì le scuole migliori, peragrò tutta l'Asia, si trattenne a Rodi,e tornava inpatria ammaestrato da una larga no tizia d’uomini e di cose,e dalla famigliaritàcoipiùpre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj del l'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri.Ne la ragione intima dell'arte sua cirimane occulta,qualora si consideri nel De oratore, nel Bruto e nell'Orator il significato vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del D e oratore, e meglio in quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli vagheggiò la carità univer sale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole negli Offici e nelle Leggi.Giovane ancora,patrocinando lacausa di una donna Aretina, giustificò le pretensioni delle città italiane alla cittadinanza romana.Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina,salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come    oratore politico (così scrive di lui il Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma e fra iGreci.Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. R i cercò i modelli più famosi dell'eloquenza romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla letteratura latina, Firenze, F. Le Monnier, 1862.) Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche,e tornando ai fon damenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica. Seinluidopol'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e studio  171   con amore,quale un perfetto monumento di sapienza ci vile,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza,l'abuso dell'autorità ne'patrizj,le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede,era un vero attentato alle basi della società civile.Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della moralità l o d a n d o il t i r a n n i c i d i o, t e n t a n d o g i u s t i f i c a r e c o l t i t o l o d e l l a c i v i l t à il p r i m a t o o p p r e s s i v o d e i R o m a n i s u l l e a l t r e n a z i o n i, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste;e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto,l'ha in parte giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen,furono non ha guari saviamente temperati in un bel libro del signor William Forsyth, venuto alla luce in Londra il 1864, e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella di  172   173 Pompeo,bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega c o m e nei libri degli Officj, della Repubblica e delleLeggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato,nel possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. · Tale pure è l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi.  Corre adesso in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. M a tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue   dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688392822/in/photolist-2mRLqgk-2mKwwoA/

 

Grice e Battaglia – valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’  -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”  Grice: “When I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di studi.  Si laurea con una tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la cattedra nella medesima disciplina.  Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente approdo allo spiritualismo.  Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale".  Altre opere:“Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto” (La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti dal 1789 al 1795: testi, lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, 1989, .  A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi, 2002, .  Dal filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della Filosofia»,  XI (La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano 199830. G. Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti,  LXVI, 1977-78 (LXXII),  297–305 (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001,  55–66,  88-15-07604-2). F. Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1988. A. Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1990. A. Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona,  (185 ). A. Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte,  (290 ). A. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice Battaglia, in «Studi in onore di Augusto Sinagra»,  VMiscellanea, Aracne, Roma,,  101–121. A. Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Siviglia, enero-junio,  3 n. 1,  59–74. A. Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba,,  11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005,  173-194,  88-498-1264-7. Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana — 2 giugno 1953 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1959 Note  Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, 1987, anno XX, n. 13.  Università degli Studi di Bologna, fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici 1950-511951-52 (JPG), Bologna, Tipografia Compositori, 195419.  Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica a cura di GIOVANNI MARCHI FELICE BATTAGLIA L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES & C. Torino. PROPRIETÀ LETTERARIA ED ARTISTICA RISERVATA COPYRIGHT BY R. BEMPORAD & F.', 1925 1925. – Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. DG 848 137 C8B3З CAPITOLO I. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo unitario. – L'eru dizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. -- Esperienza filologica. - Italianismo di Vico: De antiquissima italorum sapientia. – Vico impersona la nuova tradizione: a lui si ricollega Vin cenzo Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. – Vincenzo Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione napoletana del '99.- La cultura rivo luzionaria e prerivoluzionaria. - Razionalismo, astrat tismo. – La classe colta di Napoli. – Riformismo go vernativo. Rottura tra Stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. « Le origini sacre della nuova Italia ». Gli storici della letteratura e della vita del popolo ita liano, che vogliano trattare del Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti, debbono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mi rabile la continuità della vita di questo popolo antico M519630 6 d'Italia: i secoli, che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza: è tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia, preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di Giambattista Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato: non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti si gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di schietto pensiero italico, di sapienza civile antica, di esperienza politica nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo nel secolo XVIII), guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni (1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ). A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 ) F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v. II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali » (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria » (2 ). Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia (3 ). Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. La terza, 1911, p. 22. (2 ) G. Vico, La scienza nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza ed., 1911, v. I, p. 187. (3 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza (2). Ma intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ (Paris, Hachette, 1909), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910 l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » (1 ). Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani, p. 13 ): «.... Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain.... ». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » (2 ). Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 286. (3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza 1913, L, p. 208: « Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA E GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. II ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special . l'insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D'Ayala ) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 11. 3 - F. BATTAGLIA, 34 posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3 ) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901 ), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 11. 3 E. BATTAGLIA. 34 posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, GIUSEPPE LOGOTETA e GIUSEPPE CESTARI, con note di ANGELO LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano, nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I, (2) Framm. I, p. p. 220. 220. 4 - F. BATTAGLIA. 50 cose e della loro importanza » (1 ). E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3 ). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. (2 ) Framm. I, p. 220. (3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2 ). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ». Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe (1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano, Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ». Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione », modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ». Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo. La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande, il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa. « La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58 nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata. Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s ' ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale. Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... » (1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto, e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 ) Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione. Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita (1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione, che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi: una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ). Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra, e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo » (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5 al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni, e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all ' intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l' esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ). Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 ) Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale, consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette: inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed. nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol significare fazione e 5 -.F. BATTAGLIA. 66 campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo: cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario, secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi. » (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1 ) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi, perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute: la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri. Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi, conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ). Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione » (2 ). Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità: non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p. 250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo, tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società ! Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente, dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici, d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale, concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI, p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri » (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema: egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 ) Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ). È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15 febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri. masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori affidamenti. CAPITOLO III. Il « Saggio storico sulla rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose, e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa: Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione; l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 6 F. BATTAGLIA. 82 ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità (1 ). Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli, Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ). Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi: « la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1). Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo: gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno, rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari, in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi? No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta, vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa » (1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ). Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano, nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani: la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza. La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea. Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre. Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione, che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de' governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti: egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione. Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- F. BATTAGLIA. 98 tando il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura » (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco. Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria. Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi 8 - F. BATTAGLIA. 114 stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione. Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa, secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua, nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo, pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228; ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446), ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto, sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg., ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere, e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè, confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio, come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, « li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano », venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119 mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de ' signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1 ). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ). Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ). Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità, illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi, poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva. La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ). Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI, op. cit., v. III, p. 279. CAPITOLO IV. Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. - Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi, democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126 teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario..., quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri: il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm. III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I, p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. 9 - F. BA'I TAGL A. 130 sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè « noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai » (3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M. ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso: spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione; sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione. Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso, occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco: ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo? Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi, onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ), tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato. Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie, dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato. Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione, che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe, in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa » scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi, gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè, dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo, dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano.. 10 - F. BATTAGLIA, 146 Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi. Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che, pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive « divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani, dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII, permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1 ) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale. Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile, diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s ' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155 dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno (2 ). Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni, aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi, che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? — E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato - consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ». L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ». S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio; l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale, inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore. L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose: le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale, d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero.... ». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano, per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse, per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6 aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp. 149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi, estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico, appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp: 22-23, p. 27, pp. 30-31, pp. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. « Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista, in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ), p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così. Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio « per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi, che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia, possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento s’è manifestato come un movi 12 - F. BATTAGLIA. 178 mento altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò, e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte: sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene » (1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire: questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 ) G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico, capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico, al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale, d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento, come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1 ). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr. Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili, edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ). Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805; Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale (maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6 febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «.... Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo. Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale? Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione. La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini 13 F. BATTAGLIA. 194 pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp. 297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità, ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria. È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa, che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121, 204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura. Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono; altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri, bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente, sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi, che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto. Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è, diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia » (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata: la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924, v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ). Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14 F. BATTAGLIA. 210 fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale: anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza; ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi, disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre. Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1 ). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio, da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni: sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1 ). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e, come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD, op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero, colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre », onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio 1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza » (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ». L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2 ) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital., 1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato. Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto, di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). « Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1 ). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico. La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. « Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51. Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico, laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ». 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 244. 15 F. BATTAGLIA, 226 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata (2 ): gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p. 493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92, col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv. An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica ». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2) Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc. CAPITOLO VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico. Deficienza artistica filosofica e storica del « Platone ». – Suo - valore ideeale nella formazione d'una nuova coscienza na zionale. - Antico primato italico preellenico. - Unità. - Educazione del popolo. Governo dei migliori. – Stato e religione. - Lotta di classe, - Cuoco e Gioberti. L'opera pubblica e pedagogica di Vincenzo Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del Giornale italiano, di cui noi abbiamo rile vato soltanto i più importanti, quelli che meglio servivano a documentare particolari punti da noi presi in esame, ma si continua nel Platone in Italia, nuova ed alta testi monianza di quello spirito che abbiam visto in opera ininterrottamente dai Frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Paul Hazard (1 ), che nel 1801 scriveva che avrebbe « amato di morir per la sua patria », con la sua Napoli, « poichè essa più non esiste », (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 243. 229 mentre egli vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri (1 ); ora consapevole sem pre di più di quanto nel Saggio storico ha pur detto, cioè che « l'amore di patria.... nasce dalla pubblica educa zione » (2 ), ora scrive una nuova opera il cui solo fine è sempre lo stesso da noi precedentemente dichiarato: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo sia lo scopo del Platone in Italia nessun dubbio: è Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone scrive l'autore, prossimo a pubblicare il terzo ed ultimo volume del suo romanzo, in una lettera al vicerè Eugenio è « diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto » (3 ). Il Platone perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulte riore valutazione artistica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che egli persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama in sè è tenuissima, tanto tenue che lo scrit tore quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla: un giovane greco, Cleobolo, fa un viag gio culturale nella Magna Grecia al principio del quinto secolo di Roma, con il suo grande maestro Platone, vi sita le più importanti città d'Italia, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Crotone, Locri, ecc., conosce di rettamente o indirettamente i più fieri popoli della pe (1 ) G. ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII (1894), v. XXIII, pp. 416-427. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari, v. II, p. 302. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, p. 91. (3) A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli ed., 1904, pp. 529-40. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari, v. II, pp. 334-338. 230 nisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, di sputa di filosofia, si innamora d'una bella ragazza, Mne silla, stringe con essa un bel nodo d'amore. La trama è questa, ma vien meno dinanzi a l'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il Platone in Italia è sotto questo riguardo un ro manzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel Voyage du jeune Ana charsis en Grèce, che nel secolo XVIII ebbe una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il De Sanctis, il viaggio è « un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto », che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. « Lo scopo non è più il viaggio; ma l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo ». I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo -epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il Platone anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. « Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto; è cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È diffi cile trovare una forma più libera, più pieghevole al vo stro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d'acci denti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal propor zione: insomma v’impone un limite, che non procede 231 dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente » (1 ). Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agli occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. « Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive » quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, « non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia (3 ). Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia fu rinvenuta in un antico manoscritto, auten tico, perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fonda menta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba fu Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima ac cennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immagi nazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma (1 ) F. DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI, op. cit., v. III, p. 282. 232 noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e dida scalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono: noi li vediamo e non li vediamo: so prattutto noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad an nunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro: non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agli italiani « che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici »; « che furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano » (1 ). Come il Vico nel De antiquissima italorum sapientia si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti ita liani; così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui ci viltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima ricevette luce, e non viceversa. E come « chi vo glia intendere il De antiquissima non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo il Vico supporrebbero talune voci la tine, per considerare unicamente in sè stessa questa dot (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 3. 233 trina che egli pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente italica, e che non è altro che una dot trina modernissima, quale poteva essere costruita da esso Vico nel 1710 » (1 ); così chi voglia comprendere il vero spirito del Platone deve prescindere dall'esil nucleo ro mantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità, poichè esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle pro prie personali esperienze, e non sulle esperienze di ven ticinque secoli avanti: all'anno di grazia 1806 vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera del Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile, mentre l'opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista dell'arte: da ciò un insormon tabile dualismo, onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti (2). E in questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evi dente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa eru dizione, troppi richiami di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? (3 ). (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, op. cit., v. III, p. 284. (3 ) In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. (Platone, v. II, p. 114 ). « Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzan dosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che 234 E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della na zionalità e con Archita disputa di filosofia moderna ! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pi tagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? un lavoro filosofico? uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, « a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si proponeva di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l' incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, lo scrittore è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi » (1 ); non filosofia, perchè, com' ho detto, egli non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è pa trimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale; non opera d'arte per ragioni sovra dette, poichè egli non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte « non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè egli non si dimentica abbastanza in questa visione con fortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno.... e rimarranno unite.... per sempre ! ». (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che (1 ) Per dare un esempio dell'arte del Platone, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI, op. cit., p. 158, apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. « Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo ». (Platone, v. II, p. 58 ). 236 eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della ri voluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimen tichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Egli parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo, Archita non parla ai suoi tarantini, Ponzio non parla ai suoi sanniti, ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie: da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del Platone in Italia, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del pi tagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà scien 237 tifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è forte mente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone la Magna Grecia è in decadenza: molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo; altre, che un dì do minarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi; stirpi, che ebbero un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza; ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'ap palesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini ci vili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. « Io credo, dunque » dice Ponzio a Cleobolo « ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricol tura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo: troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco » (1 ). Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai an tica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicen dano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni di popoli greci, poichè nel suo spirito è italica, erede della prima: Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiori tura senza pari e modificato organismi civili possenti. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 157. 238 « Sappi dunque » scrive Cleobolo al maestro, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto « che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. « Antichissima è l'origine di questo popolo; le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi.... « Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gli etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia; signoreggiavano tutte le isole che sono nel Medi terraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Gre cia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità » (1 ). Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che Stato unitario, onde esso « avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo avea ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città principale.... Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome etrusco. Ciascun popolo avea governo, leggi e magistrati diversi. Non vi era nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra » (2 ). Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organiz zazione: « la corruzione de' costumi produsse la corru zione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti » (3 ), e poi generò la corruzione della religione, la quale « corrotta accelera la morte delle città » (4 ). Perciò l'Etruria si sfasciò per legge naturale di cose. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 244. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, (3 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 249. (4 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 254. p. 247. 239 « Così cade, o Cleobolo » commenta il divino Platone « qualunque altro impero ove non è unità. Così cadrà la Grecia,, se non cesserà la disunione tra le varie città che la compongono, tra gli uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità; all'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili; nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gli esseri non è se non lo sforzo degli elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte » (1). Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così l'Italia, dive nuta deserto nella ruina d'Etruria, tosto si ripopola di genti, di nuove città, si riorganizza, si riabbellisce, e al contatto di nuovi popoli, specie i greci, di nuovo si ri presenta composta all'ammirazione universa. Ma questa nuova civiltà, che possiamo dire pitagorea, nella sua es senza è pur essa autoctona, se pure apparentemente elle nistica. Quando le colonie greche si sono stabilite in Italia, già le stirpi indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. « Noi disputiamo » osserva un italico a Cleobolo « per sapere se i greci abbian popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia; ed intanto è l'una e l'altra regione sono state forse po polate da un altro popolo, ch'è il padre comune de' greci e degl'italiani » (2). Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl' italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non i greci, che pure al V secolo, ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più ci vili, i maestri degli italiani in ogni campo dell'umana attività. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 257. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 220. 240 L'antico primato etrusco però ancor si conserva, tra sformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta soprattutto ne' paesi meridionali, ove l'influenza ellena sembra più manifesta. E su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, in siste calorosamente: è la sua tesi nucleare. La pittura era ' in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fra tello di Fidia, « dipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona », riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici (1 ). Furono gl'ita liani che primi « diedero opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro filosofia »: prima che Teodoro recasse ai greci la scienza degli italiani, in Grecia « le idee geometriche erano puerili, frivole, con traddittorie »; invece « gl'italiani, potenti per un istru mento di filosofia tanto efficace, han fatto delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astro nomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto ' più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità » (2 ). La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gli italici mantengono indiscussa la loro supe riorità: « la guerra presso i greci ancora è duello » (3), scienza rudimentale; mentre presso gli italiani è savio urto di masse e organica distribuzione di manipoli. Le stesse leggi, che regolano la convivenza dei popoli della penisola, sono originarie e nazionali, frutto della loro in tima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso im muni da contaminazioni eterogenee. Le romane dodici tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 252. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 5. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 119. 241. popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ate niese più antichi. « Vedete dunque » dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma « che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi di Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gli auspici, le assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io ! Queste dunque già esistevano in Roma; ed era superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo per pren derle da un popolo che non le avea » (1 ). « Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l ' imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele.... Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare.... » (2 ). Passando nel campo delle arti belle, tra gli elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani: « ben poche olimpiadi » dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo « contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si avea già meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena bal butiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 155. 156. 16 F. BATTAGLIA. 242 oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta » (1 ). I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gli italiani ne hanno più de' greci, e quelle greche co minciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico; ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonare allo scrittore varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione: i vari popoli hanno fra loro re lazioni saltuarie ed estrinseche, non si sentono fratelli animati da un'unica missione: guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di per petua incertezza. « Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto: là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà; in tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di co lonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali mate riali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta; ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora » (2 ). È l'unità che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle genti dovrà pur sorgere chi di esse farà una sola gente, un nome unico, Italia. « Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 204 e sg. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 258. 243 quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri; e mi par di rico noscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello » (1 ). È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. « Tutta l'Italia » dice Cleobolo « riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato finora, gli esempi di tutti gli estremi, di vizi e di virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione: tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo » (2 ). Il Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale, ma si concreterà in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà or ganizzazione e potenza. Egli dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora « concepì l'ardito disegno di rista bilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può du rare. Egli volea far dell'Italia una sola città; onde l’ener gia di ciascun cittadino avesse un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continua mente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione degli ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici; e l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de ' barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’in tromettono armati in un paese che non è loro patria, e (1 ) V., Cuoco, Platone, v. II, (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 20. p. 258. 244 chiamava poi barbari e pazzi quegli altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli soleva dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripeteva ai greci: Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amas sivo veracemente la patria, dovreste arrossire -» (1 ). Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pe dagogico insieme. « A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili: onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla; ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo, perchè.... un popolo ignorante è simile all'ata bulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che devono reggerlo, perchè un popolo con cen tomila piedi ha sempre bisogno di una mente per cam minare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire » (2 ). Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agli spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi povere, diversa però (1 ) V. Cuoco, Plaione, v. I, p. 74. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 74 e sg. 245 non nell'intima qualità, perchè l'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. « Un popolo » dicono alcuni « il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli ». Non è invero così. « Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie; riunite queste fami glie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa ! » Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. « Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini: la vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri » (1). È necessario perciò ai fini dello Stato che gl' indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. « Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la su bordinazione » (2 ). Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei di rigenti, ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. « Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giu dica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi; tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe » (3 ). Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 85 e sg. (2) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 87. (3) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 87 e sg. 246 invece, « è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È ne cessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti; e questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso » (1 ). Errano perciò i filosofi che credono opportuno divul gare la sapienza è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la na tura del dotto e del popolano: laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è « un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione » (2 ): e quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. « Se è vero che gli esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti » (3 ). I proverbi, che a noi possono sembrare inintelligibili, perchè igno riamo i veri costumi dei popoli per i quali furono imma ginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di quelli che ci si offrono nelle scuole di filosofia. « La virtù è saviezza: la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gli errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 85. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 23. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 82. 247 piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere; e, per convin cerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo.... l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili; e, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso » (1 ). Sono queste conclusioni che già erano implicite nel Saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. « Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini » (2 ). Leggi e costumi sono i principali oggetti di tutta la scienza politica: le prime debbono rispondere all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sanciscono, e la loro opera pedagogica manca. « La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelli genza è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che i costumi inclinan sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 78. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 139. 248 per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione: non di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Li curgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli » (1 ). La legge però resterà sempre un astratto, se gli uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî » dice (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 139 e sg., 249 il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione » (1). Le leggi, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa è.... la parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi » (2 ). Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e per (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 140. (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 142, 250 ciò divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti » (1 ). Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina » (2 ). Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono natural (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, (2 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 144. P. 84. 251 mente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 148, 252 reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni » (1 ). Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel Saggio storico non appare, e che nel Platone si rivela nella sua luminosa chiarezza. « Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 167. 253 guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei » (2 ). Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 167 e sg. (2) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 147. 254 capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città » (1 ). Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è in ogni Stato. « I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria » (2 ). Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissensione. « Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, (2 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 161. p. 168. 255 cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua » (1 ). Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge unica. « Il primo effetto della sapienza » dice il Cuoco « è.... quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi » (2 ); e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 162. (2) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 32. 256 romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? --- » (1 ). Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza di (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 186. 257 un Dio posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo, « Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza » (1 ). Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei (1 ) V. Cuoco, Platone, v. II, p. 190. 18 - F. BATTAGLIA. 258 commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spi rito pubblico italiano » (1 ). È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Pla tone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il Platone in Italia è la preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. 259 Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p. 409; N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili, alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola? Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita, era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà, della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo, perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore. « Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]: altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital., 1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro, cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn. ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA. 274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » (1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo: giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle, saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere, perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l' innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora, osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica; perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia, ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine: l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico. Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p. 172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924), v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita, ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ». Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12. (2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v. XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C. Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’ ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, ed. Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I, p. 27 ). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria, Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BOR GESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. (5 ) A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini. (1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente ». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche, Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgi. mento, Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris, Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 ) che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I, pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I, fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch. stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ), p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri), Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia, 1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G. GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21 e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p. 104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 ); B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza, 1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v. II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v. III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia dal 1789 al 1799, Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino, pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.; 294 e P. HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v. II, p. 259, p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G. B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo, 1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA, Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15 dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI (1904), s. 3a, v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904), p. 240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905), p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE, Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII, v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A. BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G. GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336), l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO, Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814, in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano, Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297 società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1 ); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I « Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani,  “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una nazione.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51787741952/in/dateposted-public/

 

Grice e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.  e inventò un orologio automatico.  Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo.  Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore Soliani, 1871153.  Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  89092338 495/98454  Identities-89092338 Biografie  Biografie:  di   biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore1694 1760 13 aprile 24 agosto Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788784183/in/dateposted-public/

 

Grice e Bausola – solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia».  Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al 1983.  Nel 1982 è chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998.  È stato anche direttore della Rivista di filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica.  Tra gli altri incarichi e funzioni è stato:  Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico, politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste di cultura.  Altre opere: “Saggi sulla filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey, Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano, Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia. Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione. Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia); “Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1985 Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note  Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di Ovada, 2005  Avvenire, 29 aprile 2000, su swif.uniba. 30.08. 22 febbraio 2007).  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Emilio Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, in URBS Silva et flumen, Anno XIII n.2 giugno 2000,  71-72. Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, 2005,  669-672. Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adriano Bausola  Emilio Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XIII n.2 giugno 2000,  71-72, su archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno XXIII n.3-4 settembre-dicembre,  180-191, su accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su filosofico.net. blogphilosophica.wordpress.com//08/31/4161/ Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1930 2000 22 dicembre 28 aprile Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia, 1937 – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788639491/in/dateposted-public/

 

Grice e Bazzanella – il luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication; he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure –.” Grice: “My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”  Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al consumo.  Espone a Udine "Size".  Il suo sviluppo della performance introduce nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle installazioni di Tony Oursler. Alla  Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone) che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia" nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende a scardinare l'impianto della logica aristotelica.  L'echologia è un termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione "usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della "sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y.  Questo passaggio è decisivo poiché segna il definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia, Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione, dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla, suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s ‘obble’). x Fid y.  La relazione diadica x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva. L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica” od ‘ontica’ e fondata sull’ente e  articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella, sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia” (disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione, e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon” (‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a, non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una relazioni senza referenza a le due relati.  La preposizione "in" (‘jack IN the box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione "di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna). Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il "con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià” del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno. Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto,  sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e, soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato" nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una "mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti (l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io" pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva, e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera  nello stalinismo. Il fascismo dai un presupposto  socialista diviene un totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note  A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut», n. 270, La Nuova Italia, Firenze 199565.  2 F. Bonami (a c. di), La dittatura dello spettatore, Catalogo generale della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2003.  3 R. Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2007.  D. Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia 2009.  M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.  R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2002.  R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.  Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli, Milano 1994; Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano 1995; Contaminazione. L'idea di struttura in Heidegger, Franco Angeli, Milano 1995; Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione, Mimesis, Milano 1996; Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano 1998; Idee per un'echologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano 1999; Echologia. Introduzione a una fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste 2000; Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste 2002; La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore,  Trattato di echologia, Mimesis, Milano 2004; La fabbrica, FPE Editore, Trieste 2005; Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano 2005). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste 2006. Etica del tardocapitalismo, Mimesis, Milano 2008. Logica e tempo, Abiblio, Trieste 2009 Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste 2009 Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo, Mimesis, Milano  Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore, Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios, Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste. Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788746073/in/dateposted-public/

 

Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even  consider Beccaria an Italian philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” --  One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However, the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.»  (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo, economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica milanese.  La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene, in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana.  Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale.  nacque a Milano (allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni.  Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.  Il padre lo cacciò anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un periodo.  Teresa morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in Francia.  Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria, tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti.  Tornato a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.   Antonio Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle), Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi non fu mai realizzata.)  Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre,  e temporaneamente anche con il figlio.  Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana.   Monumento a Cesare Beccaria, Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da intendersi in termini fenomenici (approccio sensista).  La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali.  Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.  «Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio»  (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII)  Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene: la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa:  non è un vero deterrente non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni.  Questa condizione è assai più potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).  Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.  La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con varie argomentazioni:  essa viola la presunzione di innocenza, dato che «un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena preventiva, sproporzionata e comunque violenta).  Il carcere preventivo Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena.»  Può essere necessaria, ma essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura (concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice».  Le prove dovranno essere quanto più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare».  Egli raccomanda inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbono essere».  Il carattere della sanzione  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Cesare Beccaria, incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni requisiti:  la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto:  del danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti irrazionali di vendetta.  La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale (premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio (cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei confessi dando loro l'impunità.  Per quanto riguarda l'istituto premiale nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle leggi», scrive infatti.  Pertanto il fine della sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta:  «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità, che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo.  I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»  Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni:  «Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale»  Influenza Anche Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene crescono coi supplizi".  L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre, influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale.  Il filosofo utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee.  Le idee del Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi.  Citazioni e riferimenti  Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Nel 1871 venne inaugurato un secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della pena” (Livorno, Marco Cortellini).  Giovanni Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi,  Genealogia Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con prosperità”;  Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano.    Galeazzo «I.C. causidico nel civile».   Francesco “cassiere generale del Banco Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»    Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco («rimaritata nel conte Isidoro del Careto»).   Francesco «Fece aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711 per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella Valtellina».  Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò  nel 1761 Teresa de Blasco Anna Barbò    Giulia Sposò nel 1782 Pietro Manzoni.   Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale    Margherita Teresa    Giulio Quarto marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò nel 1766 Giulio Cesare Isimbardi Tozzi.    Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco (1749-1856)Sposò  Rosa Conti (vedova Fè).   Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate   Carlo    Teresamonaca    Chiaramonaca    Nicola Francesco (1702-1765) -Laureato in legge, membro del collegio dei giurisperiti dal 1738, fu anche giudice a Milano e a Pavia.    Giuseppe   Marianna   Ignazio   Anna MariaSposò un Cattaneo «fisico»   Gerolamo«Canonico ordinario del Duomo»   AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al deismo  Il nome di «marchese di Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia politica, Paris, 20059. Philippe Audegean, Introduzione, in Lione, 20099. )  John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire, Waterside Press, 160,  978-1-904380-63-4.  Indicata come "Ortensia" in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane.  Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della Giustizia, Milano, 199553.  Pirrotta, art. cit  C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..  Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica 3/, 579-602., DOI:10.1448/80865.  l'11 dicembre.  Beccaria non riposa sul Lario  F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969  Sambugar, Salà, Letteratura modulare,  I  Dei delitti e delle pene, capitolo XII  Cesare Beccaria, la scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre  Dei delitti e delle pene, capitolo VI  Dei delitti e delle pene, Capitolo XLVII  Dei delitti e delle pene, Capitoli 38 e seguenti  Dei delitti e delle pene, capitolo 46, Delle grazie  Dei delitti e delle pene, capitolo 27  I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari, revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza,   «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del diritto».  Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library.  Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano, 1875,  52-53.  Nella genealogia settecentesca è indicato un Nicolò abbate.  Pietro Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, G. Barbarisi, Roma, 2003118.  Franco Arese, Il Collegio dei nobili Giureconsulti di Milano, in Archivio Storico Lombardo, 1977162.  Cesare Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, Milano, Società tipografica de' classici italiani, 1822. Cesare Beccaria, Scritti e lettere inediti, Milano, Hoepli, 1910. Cesare Beccaria, Opere, I, Firenze, Sansoni, 1958. Cesare Beccaria, Opere, II, Firenze, Sansoni, 1958. Introduzione a Beccaria, Enza Biagini, Roma-Bari,Laterza, 1992 Antoine-Marie Graziani, Fortune de Beccaria, Commentaire 2009/3 (Numéro 127).  Dei delitti e delle pene Diritti umani Ergastolo Tortura Pena capitale Del disordine e de' rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Cesare Beccaria Collabora a Wikiquote Citazionio su Cesare Beccaria Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Cesare Beccaria  Cesare Beccaria, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Cesare Beccaria, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Cesare Beccaria, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Cesare Beccaria, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Cesare Beccaria, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Cesare Beccaria, su Find a Grave.  Opere di Cesare Beccaria, su Liber Liber.  Opere di Cesare Beccaria / Cesare Beccaria (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Cesare Beccaria,. Audiolibri di Cesare Beccaria, su LibriVox.  Vita di C.Beccaria, su zam. V D M Coterie holbachiana V D M Illuministi italiani  Filosofia Letteratura  Letteratura Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloEconomisti italiani 1738 1794 15 marzo 28 novembre Milano MilanoFilosofi del dirittoIlluministiUtilitaristiLetterati italianiOppositori della pena di morteStudiosi di diritto penale del XVIII secoloCriminologi italianiStoria del dirittoNobili italiani del XVIII secoloStudenti dell'Università degli Studi di Pavia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie, che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti  1 e terruzione al senso, e distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43 suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta, accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito', 'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario, se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro', 'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia; saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e 'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant,  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale, pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed  effetto della ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara; quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate, la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese del   necessa  è necessaria l'espressione per eccitare, ossia perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale, in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute, ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spin  51 ľ 1 gertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso *effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che, condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*, vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito' o  'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o 'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia -- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale, l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite hanc animam, me que his exolvit e curis" --  quanta folla d'idee si risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette, 'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima idea per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto.  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o 'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si rigettano, nè per meno bella è  riputata, ma soltanto perchè è espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa (l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se 'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando l'idea è  superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria *espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto) ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola* espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del  necessa  è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo. Se vi è  idea semplicemente destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella calligrafia) è  l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è  un pessimo filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea ('è un pessimo filosofo?') a misura che è  più grande e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più debole è  l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione ('-- è  un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea -- non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato (espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro, soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by Google   3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi affacceudata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo,   $T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa- zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più breve dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate, ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-, rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Digitized by Google   Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by Google  33 altre taciute perchè se tutte fossero; espresse, ciascheduna espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle principali: per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al-,, tre analoghe semplicemente destate, la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole restando picciola la, insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’ immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve tempo problema che; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della politica anzi, di tutta la filosofia. lu secondo luogo, tra la molti-,  ,  34 tuaine dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano reciprocamente ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee;   35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose, destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l* efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,, mente su di un oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google   36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non si, abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione, sono ricer-, e ri- Digifeed by Google   cati da coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i quali odiano • di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero si, gettano nel minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse, la scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate che P espresse si, corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato debbono essere, Digitized by Google   38 molte, acciocché il numero compenti la debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude molte idee taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il conce- pimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria ra- gione debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che da molte idee non espresse deb- b’essere supplito. Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51713343222/in/photolist-2mSXjtg-2mSUzzj-2mRPpAW-2mPyn68-2mMYDGZ-2mMJpgU-2mLP9qE-2mKBYJ5-2mKGaqS-2mKDteh-2mKbpiZ-2mKfXD1-2mKfNvB-2mKiJqu-2mJR8Pr

 

Grice e Becchi – l’incubo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Grice: “Becchi is pretty controversial; a good reason why he is not invited to the New World for “Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing! -- Paolo Becchi  -- Paolo Aureliano Becchi (Genova),  filosofo. Laureato in filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre fino al  è stato professore presso l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica.  Nel  si avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del movimento” ma a gennaio del  lo abbandona criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle & Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la Lega di Matteo Salvini.  I suoi interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del  era noto al pubblico del piccolo schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva.  È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling & Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese” (Historica)  Note    Biografia sul sito Genova Archiviato il 19 marzo  in.  M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano,  Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi, formiche.net, 5 gennaio.  M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9 gennaio.  Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale, in "ParadoXa", anno XI, n. 2, aprile-giugno,  157-169.  Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, 7 giugno. 9 gennaio. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Paolo Becchi  Blog ufficiale, su paolobecchi.wordpress.com. Opere di Paolo Becchi,.  Registrazioni di Paolo Becchi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Filosofia Politica  Politica Filosofo del XXI secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani 1955 16 giugno GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova. Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica, dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788977104/in/dateposted-public/

 

 

Grice e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset of it!” --  Giuseppe Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24 ORE.  Altre opere: “Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte
 (Roma-Bari, Laterza); “Storia del pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari, Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau” (Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino,  Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe Bedeschi, su Goodreads.  Registrazioni di Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16 marzo  21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo, conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references ‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.: Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789277095/in/dateposted-public/

 

 

Belleo. search Bedoni. search Belloni, Camillo --

 

Grice e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the philosopher is the master of grammar – his explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious – since all modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” --  Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo.  Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa dell'epoca.  Pubblica a Roma con la collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i quali i gesuiti.  Successivamente pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”,  le “Disputationes in libros de coelo et de metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria: argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione assoluta di Cristo.  Note  F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676). Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976  La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni: atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza, Officina di Studi Medievali, 2006 p.172  Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam, affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex  uniuersalem o particularem qui sint termini mixti inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi qualis sit divisio propositionis modalis significandi  in compositam o diuitam. Quid fit terminus connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam  & disiunctiuam sit generis in species De prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod  sint species oppositionis, An suppositio competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione, & eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, & eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de essentia syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi, de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de Fallaciis extra dictionem.  Impiegatura del segnare.  Ex variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam, ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri", "buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante, segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum. Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in cognitionem venire.  Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur & ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691524503/in/photolist-2mKNzk6-2mKLX4i/

 

Grice e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo. Grice: You’ve got to love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco – which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a Irvine.  I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori)  è un saggio ripubblicato negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana.  In un mondo in cui domina la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità».  Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene.  L'Etica consiste nel negare la preminenza al nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e ruoli della nostra vita e della nostra professione.  L'Etica è come un "fuoco immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco", un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti.  Si pone poi il problema di come considerare l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla «banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore, l'Unità, ecc.   Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro, Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano. Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa” (Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta” (Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori Editore);  “La filosofia come strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il Saggiatore  Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti  La scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno” (Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo, tragedia in tre atti. Aragno  Case. Cairo  Il giorno in cui non tornarono i conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro, tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia. Aragno  Poesia dei miei coglioni. Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice  Amore per Milla. Di Felice. Interventi di Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno  in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia  premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com. Blog ufficiale, su sites.uci.edu.  Opere di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno Bencivenga,.  Profilo dal sito dell'UCI Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova.  Da un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale.  Questo dunque è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia: doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo Zorzato per i loro  commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto.  1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è in  gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21). Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le folle non provano  (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare anziché  spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza attraverso questi um ili, intimi passi.  2. Il punto di partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,  quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge  attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti, l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto che esplora è il suo  ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia, se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa, perseguita in  completa autonomia (in accordo con una delle possibili definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico: Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro, però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p. 195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile» (p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su  come il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza, sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente» socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così (implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso; violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo comportamento avventato implica  inequivocabilmente dei rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88; traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato, urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?  3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo  per quel che la scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta (p. 135). Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – [...] rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo (p. 147). Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso viene dalla teoria del caos.  A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo, nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –  senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado di conoscerle),  finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente che costituisce la  sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio che  è opportuno per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta,  che al momento è solo possibile.  4. Regole Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito non  s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli  più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che  avremo creato (e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite.  A riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato, afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata. Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade, nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire o sparire,  senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che  sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte, affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta [...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua  evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30). Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua  volta trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?  5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto, soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse «fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa da  centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà  con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri. Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»; voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo caotico e  coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo  alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma  qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la bimba  non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto: è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada. Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale, nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza, con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di un’automobile, dove incontrerà altre  resistenze che accetterà come regole di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione, che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere. Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco” stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè: quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi, analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p. 235).  Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si arrenderà.  6. Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo, prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto stesso di cui  volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra scimmia che con la  medesima casualità scopra come far cadere un cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p. 37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso cui  converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali. Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette, semplicemente,  alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più audace delle avventure s’incagli su un binario morto.  7. Illusioni Nel quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le «figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato, inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore  voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita:  Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito – metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione, ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra. «Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici. L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un coniglio –  è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte, che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli abissi dell’infinito su una  superficie piatta e fa sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di  attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana:  «Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro. L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti  più di una scrollata di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci) e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.  8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti? Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola. Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il  presunto oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che  ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana  importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua sopravvivenza e il suo benessere.  Depurato di ogni altro aspetto, qui il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici, numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità «ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e soprattutto «autorità competenti»  sentite come estranee e predatrici. Un ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere (regole): «Formalmente [...] [la] nozione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens, p. 43). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta [...]. [G]iurisdizione e ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco.  9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro:  La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp. 22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole («Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando la lampadina); il  tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività. Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra  dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo» (o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie» a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali, addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita (direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno gioco vuol dire meno umanità.  (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria  dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere  invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte.  10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing Meadows, qualche  anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni altra  indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso, per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna, però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione (Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’ il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il  loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a  raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà più  audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno  vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!».  11. Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la  zavorra – in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti, echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E, invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma, si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato: in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica; e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere? Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro, dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare, potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica. Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine «scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e (altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05 la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi, per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama «pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni). Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro, trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento: non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa; certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura, i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia, perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume, scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]», Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie. Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano? Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo, intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei, mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita. Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che, sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta: che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge, giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere, non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco» filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile. Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro, dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente, peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51788090701/in/dateposted-public/

 

Grice e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via cittadina.  Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag. i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!. Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill. Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi 3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte! di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii & irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit.  (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». Digjtized by Google   BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f, CXI.  da Capoa, ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua patria egli era Principe nel 1717. (r). Fu anche accademico Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti T. 3. p. 346. S. BENEDETTO, Arciv. di Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai, Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786132173/in/dateposted-public/

 

Benedetto (Crema). Flosofo. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eboli). Filosofo. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte.  Membro della Commissione Consultiva Arti Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali.  Insegna a Macerata, Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C, Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C, Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra, Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori, Milano; Spirali/Vel,  "Alfio Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti: arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano). La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio  repubblica biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/ cronaca /benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto%20ieri%20a%20 Roma, autore importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su errorigiudiziari.com  Carmine Benincasa. Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool Library.  https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786101238/in/dateposted-public/

 

Grice e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo. Grice: “A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as *I* do!” --  Grice: “You gotta love Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs, and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno scritto).” --. Cesare Benvenuti   Cesare Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città di Dio  Biografia Cesare Benvenuti nacque dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII.  Cesare Benvenuti era anche dotato di particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu colpito da apoplessia e quivi morì nel 1746.  Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice. Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.  Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui convertitieconfa. gratialculeo del Signore on    la Cornunità de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici. Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a' CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici. Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli Ecclesiastici della  Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo, Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1 Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que' tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note  Fonte: Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, Volume 2, 1859 p.37Filosofia Filosofo del XVII secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords: paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda, cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante, segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691252551/in/photolist-2mQPiYS-2mPC6Zb-2mLP9qE-2mKMbug-2mKbkhx

 

Grice e Benvenuto – il grido – filosofia italiana (Napoli). Filosofo. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers, ‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana.  Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige. Dal  insegna psicoanalisi all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di Psicoanalisi Moderna di Mosca.  Pensiero Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica, psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista (interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una Verità che si dipana nella storia umana).  Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo, irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si arresta.  In Dicerie e pettegolezzi (dove articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla “depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato diversamente.  In “Sono uno spettro, ma non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti, notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della “carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione come sorgente opaca e non-significante della soggettività.  Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli, Liguori);  "Traduzione / Tradizione" in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano, Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo); Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri); “Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore, Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido, Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno. Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis,  Leggere Freud. Dall'isteria alla fine dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan, su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante, segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised, stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico, convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale, procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia, popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei, positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico, confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784990942/in/dateposted-public/

 

 

 

Grice e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only different – and dialogued with Guattari --  While Berardi is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo". Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del 1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali e tecnologie comunicative.  Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil).  Negli anni ottanta rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di comunicazione.  Dal 1992 al 2004 collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Dal 2000 al 2009 cura con Matteo Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese Adbusters. Dal 2000 al 2009 ha animato la mailing-list Rekombinant con Matteo Pasquinelli.  Altre opere: “Contro il lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani); “Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano, Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"” (Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano, Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza” (Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna, Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna, A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk. Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel & Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi. Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi); “Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit. il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri); “Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata. Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna (serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo. Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo, edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita, ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte,  Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi,  Asma, C&P Adver Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare. Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”.  Note  Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.  Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto.  E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente: Franco Berardi, su mediamente.rai. 24 luglio  25 giugno ).  Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la Repubblica  Cominciamo a parlare del collasso europeo, alfabeta2 n.5, dicembre, pag. 5  rekombinant@liste.rekombinant.org, su rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile.  A/traverso | Casa Editrice Etichetta Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. 26 giugno  26 giugno ).  Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del '77 Radio Alice Telestreet Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Franco Berardi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Franco Berardi Franco Berardi, su Internet Movie Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul  Through Europe Interregno[collegamento interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco (scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org. podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu, Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto  27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd. Franco Berardi su Bookogs. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Politica  Politica Categorie: Saggisti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore1949 2 novembre BolognaMilitanti di Potere OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785716751/in/dateposted-public/

 

Grice e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo. Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico, nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese, dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo aristotelico e letterato.  Consacrato vescovo di Caserta. Poi a  Parma nel monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola.  In occasione del 5º centenario della sua nascita, il 30 novembre 2002, il Centro Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un convegno.  Lo scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo storico L'assedio della Mirandola.  Atre opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso. Note  Vedi Google Libri.  Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009.  978-88-222-5846-5  Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Bernardi  Paola Zambelli, «BERNARDI, Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore1502 1565 3 giugno Mirandola Bologna.  EVERSIONIS SINGVLARIS CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum quidem poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no. ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium, uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen &no. tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit diſtin, a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom. eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta, & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt. Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis, funt honeſta & iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta.  Bernardi (Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſco- / pi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certa- / minis Libri XL. / In quibvs cvm omnes inivriæ / ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, & côtentio- / num, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur: & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt difficilimi, obiter expli- / catos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene au- / toritate fpoliatur, atque libertas hu- / mana ſtabilitur. / -- Ad amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Index. --- Basilea, Per llen- / ricum Petri. [ W - 1 '] In folio, p. 694 n. e p. 18 n. n. al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera di questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il Caserta dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: ANTONII BERNAR- / DI Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm ex professo / Monomachia (quam Singulare certamen Latini, recentio- / res Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, & / mox. diuina authoritate labefactata penitùs euertitur: om- / nes quoq: iniuriarum ſpecies declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes traduntur. Deinde / uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ / quàm actiuæ, Loci / obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. / Ad amplißimum uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. / - Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Index. / - Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA 113 Bryling. | Anno 1562. / - (In fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ * -Fer] In folio p. 694 con iniziali con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione, della quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è stata stesa; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta manifesti e • palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a p. 264 ), che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto, quella di Venezia 1566 per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio. È vero peró, che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del Possevino, ma di suo fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù, ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del trattato sul duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia, duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690032769/in/photolist-2mTpbrq-2mTdSm7-2mT5MZr-2mR7Xaf-2mPAWP1-2mN8Hgb-2mPtp3t-2mPV6V9-2mKEVTx-2mKMsLp-2mKHdnD-2mKBEmt-2mKAytU-2mKBsEN-2mKT4G5-2mKRu2r-2mKH3ZR-2mKGVxb-2mKDXUP-2mPE3Bq-2mKAuZM-2mKbpiZ-2mHGgw3-BpXH8h-CbigZ4-CiAmxk-CiA1AX-BK5eka-o5ZbYS-ncSGW3-nun896-njgV2D-nfDJGD-nhx6De-nhGayt-muuRMW-mutzz6-mut2s2

 

Grice e Bernardo – la tradizione iniziatica italica -- filosofia italiana --  Luigi Speranza (Benne). Filosofo. Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme.  Fu iniziato alla massoneria nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.  La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi inquirenti. Nel  ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni del defunto Ettore Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a carico di Bisi viene archiviata per insussistenza.  Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn.  Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo. Aldo A. Mola.  Pubblicazioni di Giuliano Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del deserto dal 1945 a oggi, GOI.   Aldo A. Mola,  801 e ss.  Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo  Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università  Università Filosofo del XX secolo Filosofi italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale, l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785611086/in/dateposted-public/

 

Grice e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo. Grice: ‘I like Berneri; of course we need to know more about his philosophical background and education – he represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia.  Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni, vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo.  Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona.  Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare. Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana. Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale "Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso. In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni, si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma: vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici era nel governo di Largo Caballero.  Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le giornate di Maggio. Il 5 maggio Berneri fu prelevato insieme con l'amico anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro Nenni, Nuovo Avanti, Parigi).  Altre opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico” (Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze); “Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore, Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia);  “Nozioni di chimica antifascista”; “L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora:  Mussolini normalizzatore La donna e la garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 115-117)  Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008.  Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  XVII-XIX , Enciclopedia POMBA. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano. Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, 5 maggio 2007, Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  978-88-906018-9-7  Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Camillo Berneri Collabora a Wikiquote Citazionio su Camillo Berneri Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Camillo Berneri  Camillo Berneri, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Camillo Berneri, su Liber Liber.  Opere di Camillo Berneri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,. Camillo Berneri, su Goodreads.  Altri particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. 6 aprile 2006 31 agosto 2006). Carlo De MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo.com 26 luglio 2007). Socialismo LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario. Abolizione ed estinzione dello stato (1936) Anarchismo e federalismo di Camillo Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia  Anarchia Biografie  Biografie Politica  Politica Storia  Storia Filosofo del XX secoloScrittori italiani del XX secoloAnarchici italiani  Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51710211987/in/photolist-2mRXUKj-2mQyhRc-2mKLGeD-2mPHbXQ-2mMsmt6/

 

Grice e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” --  Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and extro-ducted to and fro’!”  Professore emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia.  Laureatosi in filosofia all'Padova nel 1957, è stato allievo di Marino Gentile.  Dal 1961 al 1964 è assistente presso l'Padova. Nel 1965 diventa professore di storia della filosofia antica all'Perugia e nel 1969 di storia della filosofia nella stessa Università.  Nel 1971 si trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano.  Dal 1983 al 1986 presiede la Società Filosofica Italiana.  Nel 1987 vince il premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per la filosofia, nel 2005 il premio Iannone per la filosofia antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, nel 2009 il premio "Athene Noctua" e nel  il premio giornalistico Lucio Colletti.  Nel  è nominato "doctor honoris causa" dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel  Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco.  Pensiero Interessato particolarmente alla filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il problema della contraddizione e della dialettica.  Berti si è poi inserito nella dibattuta questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera» della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità (comprendente scienza, storia, individuo e società).  Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica della filosofia presocratica” (scuola di Crotone,  la porta di Velia); “La filosofia del primo Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”; “Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola);  “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino); “Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza); “Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica, Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza, Roma-Bari);  Sumphilosophein. La vita nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici” (Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un "falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza: dialogo perduto contro i governanti ricchi.  Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E. Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana  È membro delle seguenti accademie e istituzioni scientifiche:  Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note  festivalfilosofia, su festivalfilosofia 15 novembre 2008).  Enciclopedia multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai. 10 settembre  27 settembre ).  Biografia Enrico Berti  [collegamento interrotto], su comune.ancona.  Aristotele  Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Enrico Berti,.  Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1935 3 novembre Valeggio sul MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide --  Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785770523/in/dateposted-public/

 

Grice e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified ‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’ has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo. Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer, professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel 1892.   Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino); “Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp. sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour, Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione, Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il positivismo e la metafisica” «Riv. cont.»,  Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale” (Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi, FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice, Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda, FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova” (Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di letture e conversazioni scientifiche di Genova»,  Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi, Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F. Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R. Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione, Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria, «Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani, T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia trascendente.Discorso, Genova 1876, FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, XII, 1881,  XXIII,  3-28, 231-249; XIII, 1882,  XXVI,  84-95. Estr.: Roma 1882. Tolomio,  249-266.  Note  Bertinaria, su dif.unige.  Piero Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste 1870-1960, FrancoAngeli,  304,  978-88-56-86938-5. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Francesco Bertinaria  Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore1816 1892 Genova. TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA (1 ) (Secondo la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a ) Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per la lettura delle nostre Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b); ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 ); ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi, designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti. a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE. (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. = COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico (per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per la cogni zione del bello e del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro, for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE. 64) Per gli elementi primordiali: a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma dell'Intelletto. = CONCETTO (Begriff ). 64) Mediate o transitive. a5) Forma dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA. 62) Nella parte sistematica della costituzione psicologica. a3) Nella diversità sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE. 64) Per la loro influenza reciproca; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. = AZIONE [Thaetigkeit ). 36 TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità. = PERFEZIONE ESTE TICA. 64) Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. Nota. —I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono: l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione, il complesso e la certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64) Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO (in generale). 63) Per il compimento dell'identità primitiva negli ele menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce il compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 37 a2) Nella parte elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere razionale, vale a dire un ente assoluto, indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato, dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia creatrici. a) Contenuto ossia costituzione eleuterica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. (I) 64) Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. = RELIGIONE RIVELATA. (VI) 65) Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA. (I) 65) Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA. (II) 64) Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio. 63) Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro, formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA ASSOLUTA. (IV) b) Forma o relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. = GENIALITÀ. 64) Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta. = MERITO. 62) Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE. 65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca; forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE. B ) Tecnia o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. 64) Compimento della Religione assoluta. = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE. 62) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO. 63) Per il compimento dell'identità primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana ). b) Nella forma o nella relazione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo, come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA. PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI  PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE. Commento. — In questa prima parte della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle condizioni 44 PARTE PRIMA dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore del proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi, sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia.  Presso le colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna; imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi olimpici, che quivi ebbero i natali. $ 65 PITAGORA da Samo, nato verso il 584, portossi a Crotone e dimorò per lo più nella Magna - Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesi PRIMO PERIODO -- PITAGORICI. 91 ma in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui si professavano i principii politici dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e funerali; ma non già comunione di beni. I fini principali della società erano prima la mo rale religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la musica. La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici nelle città di Crotone, Sibari, Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica. A molti di essi, come Timeo, Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono Filolao ed Archita, e dei primi scritti riman gono ancora frammenti. 92 FILOSOFIA GRECA S 66 Quantunque la filosofia pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci, ed i primi quattro PRIMO PERIODO — PITAGORICI. 93 pari e dispari formano trentasei; parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più: 4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo: 8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno 94 FILOSOFIA GRECA è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati, come principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle antitesi il primomembro significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri, perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è il principio del perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il buono, non è dunque primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade; perciò avviene in prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile; imperocchè l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato. Il limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la superficie da due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità. Dal limite e dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la grandezza dello spazio. PRIMO PERIODO -PITAGORICI. 95 Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo; questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani, esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero, come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'u 96 FILOSOFIA GRECA nità di tutte le cose. Ma nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca, adottavano dieci corpi mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea, la triade la superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano paragonando: Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il migliore di questi ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí), il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ), e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla deca è una PRIMO PERIODO PITAGORICI. 97 palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto. L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. S 67 Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo H 98 FILOSOFIA GRECA morte, a cui conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità, ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente matematica PRIMO PERIODO -PITAGORICI 99 della provvidenza divina. Onde l'applicazione di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i parti giani di essa nell'esercizio della virtù.  I lonii e Pitagorici tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la sede principale di questa scuola filosofica. S 69 SENOFANE da Colofone, sede della poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può divenire; come pure in generale nis 100 FILOSOFIA GRECA suna cosa può cominciare ad esistere; imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale forma col cielo e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali. Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato, nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza, considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo pensiero dell'essere assoluto. S 70 PARMENIDE da Elea fece verso l'anno 460 con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate. PRIMO PERIODO 101. ELEATI. Egli sviluppò il sistema di Senofane; tuttavia non prese le mosse dal concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del non -essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella che è riposta nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza, quello della ra gione ossia del vero, e quello dei sensi ossia del l'apparenza. Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda. Es sere, pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto l'essere è identico; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile, indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per legge di necessità: onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera apparenza. Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui le rappresentazioni delle cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il fuoco etereo, il freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante, positivo, reale, pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il secondo è denso, pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo. Questa dottrina della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della verità ed all'apparenza.: 102 FILOSOFIA GRECA $ 71 MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità. L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo. La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di vita. $.72 ZENONE d'Elea, discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggre PRIMO PERIODO - ELEATI. 103 zo. gato non può produrre grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme 104 FILOSOFIA GRECA rappresentative logico -matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo. Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione, ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460, naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica. Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i PRIMO PERIODO - ELEATI. 105 quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio, ma senza che riman gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee, l'odio le omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto, il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto, epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose, conseguenza dell’o dio. Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene 106 FILOSOFIA GRECA trano in altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio, verso l'anno 440, discepolo d’Empedocle, fu anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e buono. Egli si portò 112 FILOSOFIA GRECA in Atene in qualità d'ambasciatore, si attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno, raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non - esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente, nè l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio o deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno, perciò un non - essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito; però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente, produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti. L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere PRIMO PERIODO - ATOMISTI E SOFISTI. 113 stesso non potrebbe essere. 2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera, maGorgia ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile, essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a frontedella verità puramente razionale; Gorgia si prevalse degli elementi della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa, essendo contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come dellaforza prima della natura o della vita; imperocchè per essa solamente intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica, finchè Anassagora separò Dio dalla materia, però ad ambi attribuendo pari originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma 114 FILOSOFIA GRECA non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo, cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque egli non abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e religiosa. A ciò conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero soccombere al grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di risolvere il pro blema dell'unione della materia e dello spirito, dell'intuizione e del pensiero, e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la fi losofia greca, avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I Romani non ebbero mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca, particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. 177 ne fece soggetto di un poema didattico, cui diede l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più famigliare si resero la dottrina stoica, che accor dandosi all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di Nerone, autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia, verso lo stesso tempo, schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca fu più eclettico, Epit teto si attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò originalità filosofica. Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico, accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In generale poi le dottrine di Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords: l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688571982/in/photolist-2mKxrDy

 

Grice e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “I like Berto, but then, my first unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” --  Grice: “If Peirce (I lectured on him for years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as ‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van Amsterdam.  Nel 2007 ha vinto il Premio Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione.  Nel  l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori.  Nel  ha ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000 sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic".  Nel  ha ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro per il progetto "The Logic of Conceivability".  Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza); “Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”; “Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il Giornale di metafisica.  Comune RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno. 3 febbraio  19 luglio ).  Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. 23 aprile  20 luglio ).  Aberdeen  Amsterdam Archiviato il 12 febbraio  in.  Aberdeen Archiviato il 9 settembre  in.  PhilPapers.org  Stanford Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile  23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI secoloLogici italianiAccademici italiani Professore1973 10 luglio VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G, Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione, negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto, incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51786036434/in/dateposted-public/

 

Grice e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Camerino). Filosofo. Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma).  Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di Camerino e nel 1915 vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e altre).  Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di Macerata (1918-1922), Pavia (1920), Messina (1922-1925, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma (1925-1926), Firenze (1925-1927), Milano (1928-1947), Roma (1947-1960).  Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali artefici del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius romanum alla Pontificia Università Lateranense.  Nel corso della sua attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas.  Per il suo sostegno intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3]. Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione.  Produzione scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della interpretazione.  Fin dal 1939 fece parte delle commissioni ministeriali che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti del 1927, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile.  Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento: Emilio Betti: il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno al diritto: i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano, 24 giugno 2017. Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7, 1978, pp. 165-292. Ciocchetti, Mario (1998). Emilio Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015). Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario Biografico, su treccani.it. Controllo di autoritàVIAF (EN) 109887066 · ISNI (EN) 0000 0001 1082 3180 · SBN IT\ICCU\CFIV\070637 · LCCN (EN) n79113001 · GND (DE) 11885139X · BNF (FR) cb121001497 (data) · BNE (ES) XX1205233 (data) · BAV (EN) 495/99257 · WorldCat Identities (EN) lccn-n79113001 Biografie Portale Biografie Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel 1890Morti nel 1968Nati il 20 agostoMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori dell'Università degli Studi di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di storia della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung, auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception, action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation, processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico, diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785983424/in/dateposted-public/

 

Grice e Bianco – filosofia dello spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo. Grice: “I like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a ‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto il mondo.   Laureato in lettere, filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo, dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane.  Nel corso della sua carriera ricevette per tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri: nel 1953, nel 1975 e, infine, nel 1995. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy, nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti. Nel 2003 vinse il premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere, compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre, una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una laurea honoris causa in lettere.  Un saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro, direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno, Franco Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo libro Paese mio carissimo.  Bianco morì il 9 aprile  a 99 anni mentre stava lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. Il 29 ottobre  la città di Cervinara gli ha dedicato una piazza nella natia frazione dei Salomoni.  Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria, Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3 settembre, Sezione Napoli, Archivio storico.  Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel 2006 articolo de la Repubblica, 11 aprile, Sezione Napoli, Archivio storico.  Alfredo Marro, Un gigante del pensiero, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2006. Filomena Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi 2000.  Carlo Bianco, poeta della fede e del dolore biografia e  nel sito "carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloLetterati italiani 1911  25 luglio 9 aprile Cervinara Cervinara. Carlo Bianco. Keywords: la filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo, spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51784476367/in/dateposted-public/

 

Grice e Bobbio – il bisogno del bisogno del senso del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza(Torino). Filosofo. Grice: “My favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general – is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting – Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher, who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense, meaning meaning.  «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.»  (Norberto Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato «al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo [italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu «sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi, anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e Rosa Caviglia.  Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza» che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione intellettuale.  Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale Fascista.  La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu: "vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e Vittorio Foa".  Allievo di Gioele Solari e Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di 110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento, dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934 pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15 maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali. Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe Capograssi.  È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche.  Nel '42, un giovane Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno, aderì al Partito d'Azione clandestino.  Nei primi mesi del 1943 respinse l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel cimitero della città.  Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Il 6 dicembre del 1943 fu arrestato a Padova per attività clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le esigenze della ragione illuministica.  Dopo la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società Europea di Cultura.  Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio, scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il federalismo come unione di stati diversi era da considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione nazionale.  Il federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come "teorica della libertà" con una pluralità di centri di partecipazione che potessero esprimersi in forme di moderna democrazia diretta.  Nel 1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del diritto dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961).  Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di filosofia politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento di Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito e non solo una professione».  La politica, del resto, divenne via via un tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla scienza politica in Italia.  Nei venticinque anni accademici all'ombra della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke, lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy. Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960.  Significativa la collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per la creazione della facoltà di sociologia di Trento.   Guido Calogero e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza Fontana.  Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni».[25]  A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo.  L'8 maggio 1981, alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una "politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991.  Delle venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25 febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva "legale", in questo senso, "giusta".  Bobbio però riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata, come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal 1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi divenuto dei Democratici di Sinistra.[27]   Norberto Bobbio e Natalia Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici.  A riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto, della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.  Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel 2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003, ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno politico e il contributo alla riflessione storica e culturale".  Dopo avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il 9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.[32][33] Il pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di Vienna.  Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi: Scienza del diritto e analisi del linguaggio del 1950[34] e Essere e dover essere nella scienza giuridica del 1967[35].  Dedica studi specifici a Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità politica.  Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra; auspica una gestione laica della politica e un approccio filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la giustizia.  Nel saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi dovevano estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare nel panorama politico.  Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo 'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo la quale «la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico».  Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].  Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura.  Per tutta la vita scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»  (Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.) Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti per un riesame critico del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri «il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive, nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del diritto.  Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46] Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Azteca — Torino,  Intitolazioni A Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo Dora Siena, 100 A.  Gli è stato inoltre intitolato un istituto di istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto "I.I.S Norberto Bobbio".  A lui è intitolata la biblioteca civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere: “Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma, Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia”  (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino, Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi); “Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze, Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino, Einaudi,  “Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli); “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli); “Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A. Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M. Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino” (Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo” (Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio "Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su giovanipace.sermig.org. 3 dicembre  (archiviato dall'url originale l'8 dicembre ).  Premi e riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org  Hegel-Preis der Landeshauptstadt StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de  Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo.  Scrive Bobbio: «[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute, Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio (SB)centrogobetti, su centrogobetti,   N. Bobbio18.  Cesare Maffi, Massimo Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º settembre 11.  Nello Ajello, Una vita per la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore, RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani,  86, Torino, Treccani,. 28 aprile.  A puro titolo d'esempio si veda Diego Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi,  Francesco Gentile, Società italiana di filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,  "Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto,  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino   Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore.  Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo  Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi, Torino  Ricordo di Norberto bobio, in Rivista di Filosofia,  Bologna, Società Editrice Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze,  N. Bobbio, decima tavola fuori testo.  "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza Fontana"  Guido Fassò, La democrazia in Grecia, Giuffrè Editore, Milano   «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a Bobbio)  Senato della Repubblica, su senato.  N. Bobbio, ventesima tavola fuori testo.  Centenario Norberto Bobbio, su centenariobobbio 5 aprile 2009).  Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com.  I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa Repubblica  Ha lasciato scritto Norberto Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione 'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto: vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di Bobbio.)  Né ateo né agnostico ma lontano dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004.  Norberto Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 2, giugno 1950,  342-367. 5 luglio.  Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967,  235-262. 5 luglio.  «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra e sinistra, Donzelli, Roma 1994)  N. BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’ come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato ‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico, Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’. (N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia della filosofia,  IX, POMBA per Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista, provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti' che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal titolo molto significativo Democrazia e dittatura».  Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 2009618)  Sul pensiero di Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No, non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina successiva Archiviato N. Bobbio203.  N. BobbioXVII.  N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.  Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida Repaci  Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080. 19 febbraio  26 aprile ).  Sito della Presidenza della Repubblica, quirinale  Comune di Rivalta Bormida | La Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio.   Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori Riuniti,  Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in, Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore, Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998,  Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia, Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia 2004 Gustavo Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi 2005 Valentina Pazé, L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano, Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano 2007 Paola Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di amicizia nel '900, Aragno, Torino 2009 Enrico Peyretti, Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo Grasso editore, Padova,  235–254 Pier Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel Alonso, Politica, historia y derecho en Norberto Bobbio [Fontamara ed.],. Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma, Tommaso Greco, Norberto Bobbio e la storia della filosofia del diritto, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia del diritto, Norberto Bobbio; Franco Pierandrei, Introduzione alla costituzione, Roma, Laterza, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a Grave.  Opere di Norberto Bobbio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione),. Norberto Bobbio, su Goodreads.  Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione), su senato, Senato della Repubblica.  Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti" di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords: il bisogno del bisogno del senso del senso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685954349/in/photolist-2mTBDZh-2mTsNRZ-2mSXjtg-2mT5MZr-2mSVv1C-2mSSQnN-2mS25MY-2mRFcpq-2mRsvph-2mRgKq7-2mRfyWo-2mQwYd8-2mQjVch-2mQjnue-2mQ81kz-2mPQGvz-2mPUHFB-2mPyn68-2mPvJmk-2mPoj9X-2mPqEPu-2mN9XHg-2mMZzKx-2mLQdrQ-2mKFrQ6-2mKHfUW-2mLznXk-2mPnLLb-2mLGv16-2mKwv6q-2mPHbXQ-2mPLygi-2mKbok1-2mKhn9c-2mKfNvB-2mKbfaU-2mKbkhx-2mJR8Pr-2mJPC2N-2mKj2vX-2mKgCuj

 

Grice e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo. Grice: “Boccadiferro is a good one; he is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call ‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna, not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be seen!” --  Ludovico Boccadiferro   Bologna: la tomba di Boccadiferro nella basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea,  Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527 quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte, avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna.  Scrisse diverse opere, in buona parte edite postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices, nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Fonte Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Antonio Rotondò, «BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république des lettres, 1984, pp. 107-18.  Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico Boccadiferro  Ludovico Boccadiferro, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ludovico Boccadiferro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,.  Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore1482 1545 3 maggio Bologna BolognaUmanisti italiani. Eex decem illis capitibus, quæ præmittenda eſſe alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus neceſſaria huic tra & ationi,prætermittentes, hæc potiſsimú attingemus, tenda ſunt an te expolitio quodnam fit philoſophi propoſitum in his libris Topicorum, quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inſcriptio, qui ordo, & quæ operis diuiſio: quibus abſo- rum lutis,ad textus expofitionem accedemus. Propolitum igitur in his libris eſt, quod fit phi diale& icam methodum tradere.quare,ut, quid hoc propofitum nobis polli pofitum in li ceatur, intelligamus, cognoſcendum eftquid fit diale & ica. & quoniam tunc bris Topico rem unamquanque optime cognofcimus, fi ipfam à ſui fimilibus fciamus rum. diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe dialectica, & rhetorica. DIALECTICAM Stoici definiunt ſcientiam bene dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere, ac rei conſentanea.cum autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad philoſophiam ſolum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus cia. philoſophus, ex eorum ſententia, diale&icus eſt. PLATO uero, ut Alexanderrefert, diale&icam eſſe exiſtimauit diuiſiuam me quid iterú fit thodum: cuius opus eft, & ex uno plura facere, & plura in unum compone- Placonis fena ex re. hanc enim in Phædro dialecticã appellat, ubi eā ſummis laudibus extollit. tentia, Vervm alia forte eſt Platonis ſententia: uult enim ipſe, ut patet in dialogo alia, & uera, de iufto, diale&icam eſſe facultatem, qux conatur ordinecerto,circa unum Platonis fen: quodque, quid ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de dia lectica, quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipſis applicantur; diale&ticam Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphyſicum appellauit, qui rationem capit cu iuſlibet eſſentiæ, & non ſolum regulas, & præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, & interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere commendauit. ARISTOTELES autem diale & icam poſuit ſyllogiſticã methodum ex proba- Ariſtotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies, uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt, quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos & figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari demonſtrationem. quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui diale &tici appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere, diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta decla rat. eſt peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris. at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis agit, horum autem differen tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um,uo luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas non eſt bona, hic eſt demonſt ra tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne bonum bonos efficit poſsidentes, fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas non eſt bona: hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat, eſtquidem probabile, non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt appetibile, ſed uoluptas eſt appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro- cedit: fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur babilibus,& dialectica ex probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe uidetur, quòd, te propolita cum diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id quod uerbum Sráneye agat. sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat ) oportet, utdiale & ica de rebus omnibus differat, cum res omnes interrogando, & reſpondendo tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit, impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur diale&icus conuertitur, quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid peripateticis diale&tica fit. lofopho ap- Quæ cum ita fint, re& e di& um eſt à philoſopho, diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avti- toricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale &tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur, ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, & mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis ſcientia, & artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica. pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale &tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus, exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet, non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale & ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim E x P O ŞI T'IQ LI B. I'I 2 tur. enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere, quod libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut enim,fiad honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem, iuſtitiæ defenfionem, ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur, maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica, quòd definitum genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis, ſed ex communibus probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, & reſpondendo de re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime differit: rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa oracione uritur, quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ, dialecticam uero eidem in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia diale&ica circa séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur. eft autem Siois quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum, perſonarum concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus horum, ut fi quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus, an nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret, quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare, ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram egregie ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de rhetorica conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi tradunt, neque tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem uel hinc patere poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum, atque eo amplius loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem dialectica confert, quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita quepartem diſputare ex probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis inucntio parte falſa, ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod Ariftotelis reſtimonio confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale & icos fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens folet often quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non. Confert de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia defendenda: nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem. EXPOSITIO. LIB. I. 1 Iteriorum. tiarum prima pria principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, & fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret, Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo. dialecticæ contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma ſeparet, aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica ad deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ ſit huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula. inſcribuntur autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi, infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus definit,com munis quædam reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile ſit; poteft inueniri, atq; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica appellati. Iam illuduidendum eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui fit ordo facultatis. primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi debeant libros priorú, et primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur, quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac cognitu faciliora, dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius fententiam ſequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili - Lebeidlibros gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam, u. Priorum, nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata, prius etiam tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus, fint conne& en tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut aliquid concludamus, non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus, ſed etiam recto, & artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per quos fuſa materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit, inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi - fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in. communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia & eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do &trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur, Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui – nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum, & deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-. modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris. &quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, & uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do & rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum ) Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum tria complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis finis, deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant. fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas: ptäte rea ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur, nilicon tingat formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet fiquis in his etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet modus 1 1 торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas cognofcit, nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros cognoſcere ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis. notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam aliquam tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale &ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, & diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit, quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus, & phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam ſparſa, & difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in artem. primus omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc inſtituit, fimul & perfecit. A quapoterimus etc, cum diale & icainterrogando, & reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit philoſophus, quidnam ipſa conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in denti.confert enim interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti, quonia inftruit ipſum, ne abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear, De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale & icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um limitatum,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione diſputat, ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica problemata, ne blemata. que enim diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut pæna,utquòd ignis fic callidus, neque de his, quæ propinquam habent demonſtrationem, led de his quæ dubitationem aliquam habent. Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem cum eo, quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet, utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus; præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint ſyllogiſmorum differentiæ, ut manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus, quo dialectica methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam, cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um, quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit dialecticus niam fubie & um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem eft præcognitum, non poteſt eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca methodus, cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus. ſed li folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum,nó tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit, & quid ſignificet. ſed poteſt poſtea quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio. paſsiones, &proprietates.non igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum. Eft itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem, quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis (cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam, aliud quid neceſſario accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in quibus quid ſeparec nihil ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad ſyllogizandum ſumuntur, etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab alio, fi cum alio quis ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab audiente non expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis, comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum & negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat & af tur, quàm affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur. hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito, quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co &tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata. enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum, quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum, hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum, & ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur, ut uel dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1 obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis, liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel nox eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt, etſi in uerbis fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit ſignificatum, nihil omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt, ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario, ſed ſecundario. primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem ſignificat diei præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt:quemadmodum & nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam, ſecundario uero diei priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif · ferentia, quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione & fyllogiſmi illi ſunt, qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed dies eſt, non er merentur di- go non eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex neceſſitate accidit. declarat hac uoce philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo inter ter concluſionem, & præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim quòd præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur. notandum autem eſt,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria, quæ eſt in neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio ue fioné necella ro ex neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod non minus riá, & de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in contingenti. ſeparauit autem hoc dentem,& de dicens philoſophus, ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua, quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut unumquodque ſumptorum, ideo conclu conclufio in lio in ea non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem, ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad concluſionem non necef particulă hâc faria, ut fi dicamus, omne iuſtum eſt honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile, ergo omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter poſita raret orationes, in quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num, ut, quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam, ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de morte diſſolutum non ſentit: quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo nihil ad nos pertinet. quarto, ut ſepararet eas orationes, in quibus non ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi dicamus, linea a eſt æqualis lineæb, &linea c eſt æqualis eidem lineæb, ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe. hæc enim concluſionon ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid differae Demonſtratio igitureſt, quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio, & demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati ſa ars, & diſciplina, quæ demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin. ferentias definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma. dicit autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, & ueris, uel. hoc eft qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua prima,& uera ſuæ cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi definitionem aliquam cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera, quod ipſe paulo poſt oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum, quæ nonex aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc enim quoniam funt principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia non amplius eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem ex aliis ipfis alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant, alioqui o- fidem habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa principia ſcientiarum cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt nobiſcum innata, & quæ à præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur communes animi conceptio nes, dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia uero ſunt, quæ non poſſunt quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita, ſed admonitione quadam, & declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur petitiones, uel poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed non dicunt aliquid efle, uel non efle, & appellantur definitiones, quæ omnia apud mathematicos manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali- obie &tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis affentimur lumen, ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea principia cognoſcimus per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt cauſamaterialis principiorum, ergo principia habent cauſam.di- pterquam il cendum eſt, quòd prima principia habent quidem cauſam, quæ affentimur ip nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam poffintdemonſtrari. ad ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis quidem cognofcuntur priucipia, non fam. tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ ſint prima, & uera: addit uel ex his, quæ per aliqua quare philo prima, & uera, &c. niſi enim hoc eſſet additum, primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes, quæ ex principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex quibus fit demonſtratio, prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer concluſione. ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis, non folum in in- ba, uel ex his, ſerendo, ſed etiam in eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale& icus ſyl- uera luz co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam ex pofteriori procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex primis procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, & pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м A R I S T.. tam eſe expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt. plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco Alexan pro babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ in communi notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur: fed quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota ſunt, ideo ea quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia, ſcilicet & uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex nihilo nihil fiat. plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem: & fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus, quòd non ſint mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit; celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē, quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa- dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod & M. Tullius eidem at pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes aliter ſentiant de Ariſtotelis opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel pauciadmodum, uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ uel tus, quoniam ſicut illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles eſſe uidentur. notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo fenferint-, quòd probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile, neque omnino eft illi probabi- uerum, neque omnino falſum, ſed differunt iudicio.dicitur enim uerum ex les fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re conſentit. probabile autem dicitur ex audie tium opinione: fi enim ita audientes opinentur, probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia, ut quòd extra cælum nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba bilia, ut quòd Deus omnia pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa, & non probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio. notandum etiam eft, pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod proba turuulgo,non probatur à fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id, quod fere fie babile ex M. ri ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id, quod in opinione pofitú eft, ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter ceſſeruntignoſci,conuenit: his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt, haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor partesdiuiditur, in lignum, quod uel negocium præcedit, uel comi probabile. tatur,uel conſequitur. credibile iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel commune, uel approbatum: & comparabile, cuius partes tres ſunt, imago, collatio, exemplum, quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum, & qui procedit ex apparenter probabilibus, ſed re&am ſeruar litigiofus. connexionem: & quiconnexionem prauam habet, uel fit ex uere probabi libus. ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum, quemadmodum homo mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap parentibus probabilibus, dici poteſt ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit fyllogiſmi natura non aliter, quam homo deſinit elle, quod eſt, li anima priuetur, ne. E X POSITIO LIB L IB. 1. 6. priuetur, quoniam non poterat hæc definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia, & quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet promptam habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur, quæ loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex ore exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam. ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is, atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam, archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias quaſdam.quòd autem huiuſmodiſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant, patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta, quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, & ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale& icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus dixerit, quænam Gnt E XPOSITIO L 1 B. I, 1 tiuus. ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem, & exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti licet. nonenim ad hoc inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif ferentias propofitionum, & quæ penes earum connexionem, uel quoniam prætermiſit enthymema, quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus, uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus, qui gıſmus tenta procedit ex probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti. eft enim ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt: fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta tiuum, ac pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur: & quæ neceſſario tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au qua in re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur. appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac quòdnon in in omnibus, quæ ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon omnibus re- ftratiuam ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum de probabili renda demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo mathematica non eſt in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi demonſtratio. dubitatio Q- QVAER VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum, qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in materia peccat, foluunt, quòd giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo contentioſo: ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium. Sequitur, ut inquiramus, quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de eaigitur ultimo loco agen Iteriorum.dumest. prætere a cum probabilia viam nobi saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri, qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe-   consequi debeant, ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere gentem rationem differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am, unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur, iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa, ideo hoci p sum nunc o qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t o probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, & occasio epicherema- secundumA eo  tis, cum inprimo ea omnia tradiderit, quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis, par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia, intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum, rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco & est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus, si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi exponamus, videamus priuseiuspro } H   roncm. quando que ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere, aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus, aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M. Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit; an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos, in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere, cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint & indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit; easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin una quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi, quoniam ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est & ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod. Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords: luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785435563/in/dateposted-public/

 

Grice e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “Boccanegra is a good one; we often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall that Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one! Boccanegra prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes, what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla Locke! And co-experience in my conversational model!” --  Alberto Boccanegra   (n. Venezia),  filosofo.  Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce rossa.  Formazione Durante gli anni della leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di Aristotele. Nel 1948 ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto. Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di Fiesole il 10 ottobre 1948 con il nome religioso di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in occasione della pubblicazione delle sue opere.  Il 14 ottobre 1949 entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie filosofiche e teologiche dove nel 1953 discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De dynamismo entis) e nel 1954 ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San Marco di Firenze il 25 luglio 1953 non abbandonò più il convento di San Domenico di Fiesole.  Attività filosofica, teologica e critica Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero su vari numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore della Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più edizioni a partire dal 1959.  Neotomista, è considerato da alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.  Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane ed internazionali.  Fu confessore ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti, riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò alla preghiera costante, sia di giorno che di notte.  Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti umani (I-II, qq. 1-21), Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio e i suoi rapporti con l'antropologia, 1969 Osservazioni sul fondamento della moralità, 1975 Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, 1966 Circa la relazione di G. Bontadini, 1973 La persona umana centro della metafisica tomistica, 1969 Note  Nome di battesimo.  Angelo Belloni, Biografia di Alberto Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S. Caterina da Siena, luglio   Relatore Amato Masnovo.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su “Sapienza”, numero 3-4, XXII (1969),  410-513  Alberto Boccanegra, “La Somma teologica”,  VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani (I-II, qq.1-21)” (Prima edizione 1959, seconda 1984) Giuseppe Del Re, The cosmic dance: science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton Foundation Press, 2000,  1890151254.62  Giuseppe Barzaghi, Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3, Studio Domenicano, 1997,  887094270870.  Giovanni Cavalcoli, Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato il 30 dicembre 2009 in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III quadrimestre 2008.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su "Sapienza", nn. 3-4, XXII, 1969,  410-513 Alberto Boccanegra, Il rinnovamento metodologico nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de philosophie", Edizioni 87-90, 1969 L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas, "Revue thomiste", recensione, Volume 62, Saint-Maximin (France), École de théologie pour les missions176. "Revista nacional de cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto Nacional de Cultura y Bellas Artes, 196653.311595467  Identities-311595467 Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi italiani 1920  19 ottobreMorti l'11 luglio Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto Boccanegra. Boccanegra. Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about collective thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my tutee we were being solidary with each other, and we own each sentence – collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum the principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca Bocchi  «La nostra età non ha soltanto vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli altri punti di vista, per creare nuovi mondi»  «Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni, per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie umana»  «Il nostro continente è sempre stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.»  Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n. Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia, esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità, contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale.  Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1981. Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, 1984. La sfida della complessità (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Seuil, Paris, 1991. L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1993,  88-07-10295-1. (tr. inglese The Narrative Universe, NJ, Hampton Press; tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr. portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, 1993. Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 1994. Le radici prime dell'Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2001. Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, 2002. Educazione e globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, 2004,  88-7078-865-2. Una e molteplice. Ripensare l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, 2009. Le città di Berlino (con Laura Peters), Bologna, Bononia University Press, 2009. Le vie della formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini), Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma, Studium,,  978-88-382-4323-3. Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,. Note  Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, 199312,  88-07-10295-1  Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p.XXII.  Gianluca Bocchi, L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma, Studium, 26.  978-88-382-4323-3.  Sito ufficiale, su gianlucabocchi. 10 aprile  (archiviato dall'url originale l'8 settembre ). CE.R.CO, su cercounibg. 2 giugno  14 maggio ). Filosofia Filosofo Professore1954 19 dicembre Milano. Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: solidarii, Francesco Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51785686384/in/dateposted-public/

 

Grice e Bodei – geometria delle passioni – filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cagliari). Grice: “Bodei is a good one; of course he is sardo -- my favourite of his tracts is one on ‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational pragmatics is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian concept of ‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of ‘la dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the ‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!” --  Essential Italian philosopher. Remo Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa, perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale Superiore.  Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in molte università europee, americane e australiane.  Dal 1981 al 1983 fu nel comitato redazionale della rivista Laboratorio politico.  Dal 1995 collaborava con Massimo Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare filosofia e contemplazione nella forma del ritiro comunitario.  Dal 2006 fu docente di ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche corso.  Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello IEDIstituto Europeo di Design.  Dal 13 novembre  Remo Bodei fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche.  Remo Bodei è morto il 7 novembre, a 81 anni. Era marito della storica Gabriella Giglioni.  I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.  Pensiero Si interessò a fondo della filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle passioni estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori 'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare, Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno saremo noi stessi").  Nel 1992 vinse il Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione Saggistica.  Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Michel Foucault.  Molti suoi lavori hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore, i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici, domestici e ideali. Già in Scomposizioni (1987), affrontò alcuni temi della genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di problemi. La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili proseguì in Geometria delle passioni (1991) e in Destini personali (2002) che hanno avuto rilevante successo di pubblico.  Alla divulgazione dell'amore per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco, 2005).  Negli ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie della memoria.  Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009)»  «Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire»  (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, 1997188) «Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita»  (Remo Bodei, Limite, Il Mulino, 66) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, 1975. Riedizione ampliata con il titolo: La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato, 1977 Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979 (Seconda edizione ampliata, 1983). Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, 1987. Riedizione ampliata, Bologna, Il Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid, Visor, 1990. Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, 1991 (Terza edizione ampliata, 2005). Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 1991 (Settima edizione ampliata, 2003). Le prix de la liberté, Paris, Éditions du Cerf, 1995. Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995. Seconda edizione riveduta e ampliata Bologna, Il Mulino,. La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, 1997. Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, 1997. La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro, 1997. Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, 1998. Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza, 2000. I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, 2001. Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, 2001. Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002. Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane,  X, N. 3, 2002. Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, 2005. Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, 2008. Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2009. Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino,. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone), Torino, Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano, Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna, Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. — 1º giugno 2001. Di iniziativa del Presidente della Repubblica. Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica. Note  È morto il filosofo Remo Bodei, aveva 81 anni, su fanpage, 7 novembre.  Repubblica 18/08/  Albo d'oro, su premionazionaleletterariopisa.onweb. 7 novembre.  «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Remo Bodei Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Remo Bodei  Remo Bodei, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.   Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.  Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì  Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938  3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685630143/in/photolist-2mTwHiJ-2mSug6h-2mQtVUe-2mQjVch-2mPYYve-2mPmWDG-2mKhnJa-2mKhn9c-2mKbcpy/

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