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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 4

 

Grice ed Appio: il primo filosofo inglese, il primo filosofo romano. Murford.  Wikipedia Ricerca Appio Claudio Cieco politico e letterato romano Lingua Segui Modifica Appio Claudio Cieco Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana Appio Claudio Cieco in Senato.jpg Appio Claudio Cieco accompagnato dai senatori nella Curia, simbolo del potere di Roma nell'epoca repubblicana Nome originale            Appius Claudius Caecus Gens                                     Claudia Consolato                                           307 a.C., 296 a.C. Appio Claudio Cieco (in latino: Appius Claudius Caecus; 350 a.C. – 271 a.C.) è stato un politico e letterato romano, nato di nobili origini in quanto membro dell'antica gens Claudia. Secondo la leggenda, la sua cecità, da cui gli derivò il cognomen"Caecus", "Cieco",[1] fu dovuta all'ira degli dèi per la sua idea di unificare il pantheon greco romano con quello celtico e quello germanico.[2]  Fu un personaggio particolarmente significativo, caratterizzato da una marcata sensibilità verso la società greca, che lo portò ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un profondo arricchimento per l'Urbe.[3] Fu il primo intellettuale latino, dedito all'attività letteraria e interessato alla filosofia, nella tradizione romana arcaica considerate attività infruttuose ed indegne di un civis.  Biografia Modifica  Placca commemorativa ad Appio Claudio Cieco (Museo della Civiltà, Roma) Percorse un brillante cursus honorum, in quanto rivestì quasi tutte le più importanti cariche pubbliche e militari. Fu censore nel 312 a.C., quando ridistribuì i nullatenenti, originariamente presenti nelle 4 tribùcittadine, tra tutte le tribù allora esistenti.[4]  Fu console nel 307[5] e nel 296 a.C., sempre con Lucio Volumnio Flamma Violente come collega.[6] Mentre a Voluminio era toccata la campagna nel Sannio, ad Appio, toccò quella in Etruria, dove i popoli Etruschi si erano nuovamente sollevati, in seguito all'arrivo di un grosso esercito Sannita.[6] Dopo aver fronteggiato gli eserciti nemici in piccole scaramucce di poco conto, all'esercito romano in Etruria arrivò l'aiuto di quello condotto da Volumnio, arrivato dal Sannio, dove si era inizialmente recato. Nonostante l'inimicizia tra i due consoli, l'esercito romano riunito ebbe la meglio su quello Etrusco-Sannita.[7]  Nel 295 a.C., con poteri proconsolari, insieme all'altro proconsole Lucio Volumnio Flamma Violente, sconfisse quanto restava dell'esercito Sannita, scampato alla battaglia del Sentino, in uno scontro in campo aperto, nei pressi di Caiatia.[8]  Fu inoltre dittatore nel 292 e nel 285 a.C. Ebbe un ruolo rilevante nelle guerre contro Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti, che sconfisse in battaglia nel 296 a.C.  A lui si deve la costruzione del primo acquedotto, l'Aqua Appia, della via Appia, che da lui prese nome e che rappresenta una chiara traccia dell'interesse di Appio Claudio per un'espansione romana verso la Magna Grecia,[9] e del tempio di Bellona. Pur essendo un patrizio appartenente all'alta aristocrazia romana, aprì in qualità di censore il senato ai cittadini di bassa estrazione sociale e ai figli di liberti. Combattendo le istanze più conservatrici della società romana, decise anche di ripartire i cittadini tra le classi previste dall'ordinamento centuriato tenendo in considerazione i beni mobili oltre che le proprietà terriere. Permise, inoltre, agli abitanti humiles di Roma di iscriversi alle tribù rustiche, che erano precedentemente controllate dai membri dell'aristocrazia terriera.  Di lui si ricorda la grande abilità oratoria: fu una sua orazione del 280 a.C., in senato, a dissuadere i Romani dall'accettare le proposte di pace di Pirro. Secondo la testimonianza di Cicerone, questa orazione fu il primo testo letterario latino ad essere trascritto e conservato.[10]  Per sua iniziativa nel 304 a.C. fu pubblicato a cura del suo segretario Gneo Flavio il civile ius, il testo delle formule di procedura civile (legis actiones), chiamato Ius Flavianum e il calendario in cui erano distinti i dies fasti e dies nefasti.  Sarebbe stato punito con la cecità e l'estinzione della famiglia, per avere ceduto allo stato romano il diritto di officiare al culto di Ercole[11] tradizionalmente attribuito ai membri della Gens Potitia.[12]  Letteratura Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                              Lo stesso argomento in dettaglio: Età preletteraria latina. A suo nome ci è giunta una raccolta di Sententiae, massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante particolarmente apprezzate dal filosofo greco Panezio, nel II secolo a.C. Secondo un'informazione fornita da Cicerone,[13] Appio Claudio avrebbe risentito dell'influenza della dottrina pitagorica, mentre risulta oggi più probabile che le sue massime siano da collegarsi ai versi sentenziosi della contemporanea commedia nuova greca. Nell'opera, di cui ci sono giunti esclusivamente tre frammenti, Appio Claudio sviluppava argomenti vari di carattere sapienziale; particolarmente importante risulta la risoluzione che egli propose per alcuni problemi dell'ortografia latina, quali l'applicazione del rotacismo, ovvero la trasformazione della "s" intervocalica in "r", e l'abolizione dell'uso della "z" per indicare la "s" sonora. Risulta probabile che l'intera opera fosse scritta in versi saturni, come due dei tre frammenti di cui disponiamo:  (LA)  «aequi animi compotem esse ne quid fraudis stuprique ferocia pariat.»  (IT)  «essere padrone di un animo equilibrato, affinché la dismisura non provochi danno e disonore.»  (Frammento 1 Morel; trad. di G. Pontiggia.) (LA)  «Amicum cum vides obliviscere miserias; inimicus si es commentus, nec libens aeque.»  (IT)  «Quando vedi un amico, dimentichi gli affanni: ma se pensi che ti sia nemico, non li dimentichi così facilmente.»  (Frammento 2 Morel; trad. di G. Pontiggia.) Il terzo frammento ci è giunto per tradizione indiretta tramite lo Pseudo Sallustio,[14] e risulta dunque alterato rispetto alla sua forma originale:  (LA)  «fabrum esse suae quemque fortunae.»  (IT)  «Ciascuno è artefice del proprio destino.»  (Frammento 3 Morel; trad. di G. Pontiggia.) Un'altra opera attribuita all'autore è il De usurpationibus, risalente al IV secolo a.C. Su questo punto, però, si registra nella letteratura romanistica un generale scetticismo.[15]  Note Modifica ^ Il cognomen era uno dei tria nomina che componevano i nomi di persona nella Roma antica: il praenomen, cioè quello che oggi chiamiamo primo nome ("Appio"); il nomen, o gentilizio, che identificava la famiglia (gens) di appartenenza ("Claudio"); e infine il cognomen, che non era obbligatorio, ma veniva attribuito alle persone in seguito ad atti significativi compiuti vita, nel qual caso venivano detti cognomina ex virtute: per esempio, Gneo Marcio venne detto Coriolano per le sue gesta nella guerra contro Corioli; ovvero, Publio Cornelio Scipione fu detto Africanus perché sconfisse i cartaginesi in Africa. I cognomina potevano essere attribuiti in base a determinate caratteristiche di una persona, e Appio Claudio ottenne il proprio, appunto, dalla sua cecità. ^ Romano Impero: APPIO CLAUDIO CIECO. ^ Clemente, p. 43. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 46. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 42. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 15. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 18-20. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 31. ^ Clemente, p. 44. ^ Marco Conti, Letteratura Latina (1a) - Dalle Origini All'Età di Silla, Sansoni per la scuola, p. 2. ^ Compendio delle antichità romane ossia leggi, costumi, usanze, e cerimonie dei romani. Compilato per l'istruzione della gioventù. Traduzione dal francese, G. Miglio, 1817 - 224 pagine, pg 81-82 ^ Tito Livio, I, 7. ^ Tusculanae disputationes, IV, 2, 4. ^ Epistula ad Caesarem, I, 1, 2: in carminibus Appius ait fabrum esse suae quemque fortunae, nei carmina Appio dice che ciascuno è artefice del proprio destino. ^ Masiello, Corso di Storia del Diritto Romano, p. 114. Bibliografia Modifica G. Clemente, Basi sociali e assetti istituzionali nell'età della conquista in AAVV, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani. Repubblica imperiale. L'età della conquista, Einaudi, 2008. A. Garzetti, Appio Claudio Cieco nella storia politica del suo tempo, in Athenaeum, 1947, pp. 174 sgg. Michel Humm, Appius Claudius Caecus: la République accomplie, Paris, BEFRA, 2005. G. Pontiggia, M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, 1996. Voci correlate Modifica Aqua Appia Via Appia Appio Claudio (Roma) Marcius Vates Altri progetti Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Appio Claudio Cieco Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Appio Claudio Cieco Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Appio Claudio Cieco Collegamenti esterni Modifica Clàudio Cièco, Appio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Gaetano De Sanctis., CLAUDIO Cieco, Appio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Claudio Cieco, Appio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Clàudio Cièco, Àppio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Appio Claudio Cieco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Appio Claudio Cieco, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Appio Claudio Cieco, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Appio Claudio Cieco, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autorità                 VIAF ( EN ) 51580452 · BAV 495/51625 ·CERL cnp00405967 · LCCN( EN ) nr95020971 · GND ( DE ) 11942598X ·BNE ( ES ) XX1261781 (data) · BNF( FR ) cb15059315x (data) · WorldCat Identities ( EN ) viaf-51580452   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Lingua latina Ultima modifica 8 giorni fa di Er Cicero PAGINE CORRELATE Quinto Fabio Massimo Rulliano politico romano  Terza guerra sannitica conflitto tra Roma e i Sanniti (298 a.C.- 290 a.C.)  Lucio Volumnio Flamma Violente politico e militare romano  Wikipedia Il contenuto

 

Grice ed Aquino – teoria dell’intenzione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roccasecca). Filosofo. Grice: “Srawson used to joke and call me St. Thomas, as I rushed to tutor on ‘De interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at Bologna! Can’t the tutee not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e accademico italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa.  Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!». San Tommaso d'Aquino San Tommaso d'Aquino e gli angeliSan Tommaso sorretto dagli angeli, del Guercino   Sacerdote e Dottore della Chiesa    Nascita1225 Morte7 marzo 1274 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione18 luglio 1323 da Papa Giovanni XXII Santuario principaleChiesa dei Giacobini Tolosa Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo (forma straordinaria) AttributiAbito domenicano, libro, penna e calamaio, modellino di chiesa, sole raggiato sul petto, colomba. Patrono diTeologi, accademici, librai, scolari, studenti, fabbricanti di matite; regione Campania; comune di Aquino, Grottaminarda, Monte San Giovanni Campano e Priverno; diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro; Falerna; San Mango d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale di Saint-Rombouts, Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque, forse, nel 1225 nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel Regno di Sicilia (Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a Belcastro; a sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da Cropani, storico calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera Della Calabria illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori Osservanti, nella sua opera Croniche ed antichità di Calabria.  Il castello paterno di Roccasecca rimane comunque ancora oggi il luogo più accreditato della sua nascita, da Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora Galluccio, nobildonna teanese appartenente al ramo Rossi della famiglia napoletana dei Caracciolo. La sua data di nascita non è certa, ma è calcolata in maniera approssimativa a partire da quella della sua morte. Bernardo Gui, ad esempio, afferma che Tommaso è morto quando aveva compiuto i suoi quarantanove anni e iniziato il suo cinquantesimo anno. Oppure, in un testo un po' anteriore, Tolomeo da Lucca fa eco ad un'incertezza: «Egli è morto all'età di 50 anni, ma alcuni dicono 48». Tuttavia, oggi, sembra che ci sia accordo nel fissare la sua data di nascita tra il 1224 e il 1226.  Da Montecassino a Napoli Secondo le usanze del tempo Tommaso, essendo il figlio più piccolo, era destinato alla vita ecclesiastica e proprio per questo a soli cinque anni fu inviato dal padre Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di Montecassino, di cui era abate Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per ricevere l'educazione religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In ossequio alla regola benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once d'oro al monastero cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile famiglia e in tenera età.In quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di decadenza e costituiva una preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il trattato di San Germano, concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore Federico II il 23 luglio 1230, inaugurava un periodo di relativa pace ed è proprio allora che si può collocare l'ingresso di Tommaso nel monastero. In quel luogo Tommaso ricevette i primi rudimenti delle lettere e fu iniziato alla vita religiosa benedettina.  Ma a partire dal 1236 la calma di cui godeva il monastero fu nuovamente turbata e Landolfo, consigliato dal nuovo abate, Stefano di Corbario, volle mettere al riparo il figlio dai disordini e inviò Tommaso, oramai adolescente, a Napoli, perché potesse seguire degli studi più approfonditi. Così nell'autunno del 1239, a quattordici o quindici anni, Tommaso si iscrisse al nuovo Studium generale, l'Università degli studi fondata nel 1224 da Federico II per formare la classe dirigente del suo Impero.  Fu proprio a Napoli, dove era stato fondato un convento, che Tommaso conobbe i Domenicani, ordine in cui entrò a far parte e in cui fece la sua vestizione nell'aprile del 1244.  Ma l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori comprometteva definitivamente i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro incarico di abate di Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi figli, che in quel periodo stavano guerreggiando nella regione di Acquapendente, perché intercettassero il loro fratello e glielo conducessero. Essi, accompagnati da un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane religioso, lo fecero salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di Monte San Giovanni Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero per due anni. Qui tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma inutilmente. Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né rinchiuso in qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato, in cui Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino  Dipinto del Velazquez I Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine, Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno), maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del sapere.  Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia.  L'incarico di insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni quasi letterali di Alberto.  Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto lasciato vacante a causa della partenza di Alberto.  A Parigi Tommaso trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke, eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio, Proclo). Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto Aristotele dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di Guglielmo, anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un prezioso apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle opere di Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e discussione del testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel febbraio 1265 il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo pontificio. Nello stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani di insegnare allo studium conventuale del convento romano della Basilica di Santa Sabina, fondato alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un esperimento per i domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una scuola intermedia tra lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di allora la Provincia romana non offriva una formazione specializzata di alcun tipo, solo semplici scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia per i frati residenti. Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la scuola più avanzata per la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso cominciò a scrivere la Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su varie questioni economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe l'opportunità di lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel secondo periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti.  A questa multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora.  Gli ultimi anni e la morte  Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in latino.  La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè, noti al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello dei Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola, Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto con quanto ho visto».  «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole: Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.»  (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio 1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza, dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito. Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore nella Basilica concattedrale di Aquino.  Il pensiero di Tommaso  San Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata "a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica, immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non localizzata in un punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e gli altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni parte del corpo, e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda, sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione dedicata appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso:  «Ciò che si accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere contrario alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione o una fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede non procedono rettamente dai primi principii per sé noti.»  (Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto con le seguenti proprietà:[senza fonte]  massimo grado possibile di ogni qualità (che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e sommo bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale a sé stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non muore, vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale): non ha limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno Dio può creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non può creare un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno, poteva esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte di lui e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri enti, la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa, vale a dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione. Gli enti creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui somigliano, sono come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica dell'essere per essenza, poiché l'essere è semplice, senza parti e indivisibile. Questo essere (inteso da S.Tommaso come "Ipsum esse subsistens") ha molte proprietà in comune con l'essere della filosofia greca, così come lo definì Parmenide: uno e unico, semplice e indivisibile, infinito ed eterno, onnisciente. La differenza sostanziale però consiste nel fatto che crea gli enti, è più grande della somma di essi, e può esistere senza. Anche nell'ultima forma del pensiero greco, quello di Plotino, troviamo che l'emanazione dall'essere agli enti è un fatto eterno, ma anche necessario e reversibile, non una libera scelta dell'assoluto, che avrebbe potuto non manifestarsi. Il concetto di creazione ("produzione dal nulla") è peraltro estraneo alla filosofia greca ed è proprio del pensiero giudaico-cristiano.  Se la trascendenza nega il panteismo, la personalità di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio degli Illuministi): trascendenza ed essere per sé non significano lontananza inarrivabile. Gli uomini non nascono, ma hanno la possibilità di diventare parte integrante di Dio e, già in questa esistenza terrena, di identificare la propria vita con la vita del creatore.  In modo identico, si può dire che l'essere per san Tommaso non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto ciò che esiste, ma è l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni altra perfezione (essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni potenza, limite e imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza, allora è atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione metafisica sul concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il pensiero aristotelico.  Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio San Tommaso distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al suo Creatore: an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo sia"), quid sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è possibile soltanto in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo, nel quale la mente umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per analogia e differenza, identifica tutte le qualità dell'ente che non possono essere proprie di Dio Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu chiamato via negationis (o anche ' via remotionis) ordinata al fine di descrivere il quomodo non sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è effetto della grazia divina ed è possibile soltanto perché il Creatore decide liberamente di rivelarSi all'uomo, conducendolo per mano da una serie di negazioni delle qualità dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad un'affermazione intelligibile e positiva di Lui.  L'autore delle Cinque Vie, infine, escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di Dio potesse rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che rimane un mistero accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite esterno per il dominio possibile della ragione. La conoscenza teologica può essere soltanto indiretta, relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo sulla Sua creazione. Molti pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi razionali per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta, sulla scia neoplatonica di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè dal concetto stesso di Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel Proslogion, cap.2.3), sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile, che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto dagli effetti, il cui risultato è ammettere necessariamente che esista il punto d'arrivo della dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in questo caso, ed in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le premesse esprimono proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è mortale; ogni ateniese è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e mortale è necessaria causa della mortalità di ogni ateniese)»  Sulla base di questo sfondo di pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio, Tutte e cinque, con alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento inteso come trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine dell'esistenza degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali, contingenti nel suo vocabolario, che quindi possono essere e non essere; gradualità degli esseri nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità, nobiltà ed essere stesso; finalità nei processi degli esseri non intelligenti);  2) analisi metafisica di quel dato iniziale esperenziale alla luce del principio metafisico di causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto ciò che si muove è mosso da un altro"; "È impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa"; "Ora, è impossibile che tutte di tal natura siano state sempre, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva"; "Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo o di assoluto"; "Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente");  3) impossibilità di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non quantitativo, perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il dato di fatto di partenza esistente ("Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie..."; "Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà ci sia qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. D'altra parte [in questo genere di esseri] non si può procedere all'infinito..."; questo passaggio manca, per la sua evidenza agli occhi dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta via, si passa direttamente alla conclusione;  4) conclusione deduttiva strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che identifica il 'conosciuto' sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano Dio", o espressioni simili ("Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio"; "Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio"; "Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore, come dice lo stesso Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio"; "Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest'essere chiamiamo Dio".  I cinque percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò che si muove esige un movente primo perché, come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare all'infinito nella ricerca di un primo motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso coordinato nel tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la durata indefinita nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto causa; necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè "dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di "contingenza", ben diverso dall'uso più comune, legato ad una terminologia avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio. Tommaso, in questa argomentazione della Summa Theologiae distingue attentamente il necessario dipendente da altro (anima umana e angeli) e necessario assoluto (Dio). L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in sé insufficiente metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima dipendenti da altro, quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis gradibus perfectionis (le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in senso trascendentale, come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato un 'banale' esempio fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado massimo di perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex rerum gubernatione (cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così). Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato della ragion pratica, ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un punto di vista teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in realtà in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso, ma le prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La critica kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova cosmologica e 3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle conclusioni sia S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova ontologica, per quanto riguarda la prova cosmologica e quella fisico- teologica, Kant critica queste due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie tomistiche), in quanto sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso della ragione (nel suo uso teoretico-speculativo), i cui concetti razionali, cioè le idee, sono vuote. Solo l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a ciò: per questo motivo l'idea di Dio è assolutamente non verificabile tramite la ragione, superando i limiti dell'esperienza possibile. Processo conoscitivo. Tommaso, affermava che la conoscenza dell'essere umano, in quanto dotato di un corpo creato da Dio, muove sempre dall'universo immanente, sensibile e corporeo nella direzione dell'universo trascendente, intellegibile (invisibile) e incorporeo. In tale aspetto, si differenziò da sant'Agostino, che pensava che questa avvenisse tramite l'illuminazione divina.[senza fonte]  Agostino sostenne che la sorgente del sapere e dell'essere è la stessa, Dio Creatore dell'universo, e che quindi i due piani dell'essere e del sapere non possono cadere in contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare Agostino[senza fonte], San Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter essere capace di conoscere il creato mediante la sua mente e i suoi sensi, poiché l'uomo non soltanto è una creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente è l'unico creato a immagine e somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino di Dio Padre e di Gesù, Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani dell'essere e del sapere sono tra loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie dimostrarono che dall'essere della natura corporea è possibile giungere a conoscere e dimostrare la possibilità, la realtà e la necessità dell'esistenza e dell'unicità di Dio.  Prima ancora di questo, mediante ogni conoscenza (anche scientifica[senza fonte]) del creato, Tommaso riuscì a raggiungere il dono e il raro privilegio della visione del Corpo del Cristo risorto e del dialogo personale con Lui, il giorno della ricorrenza di San Nicola, poco tempo prima di completare la Summa theologica e di morire. Ciò non significa che Tommaso disconoscesse il pensiero di sant'Agostino, che è invece citato a più riprese nella Summa Theologica', e che fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298, dopo la morte dell'Aquinate.  La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem.  La conoscenza è, quindi, un processo di adeguamento dell'anima o dell'intelletto e della cosa, secondo una formula che dà ragione del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas: Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa. Adeguamento della cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della cosa.»  (Tommaso d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che l'uomo può stabilire a partire dalla ragione il rapporto creaturale di dipendenza dell'universo da Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale dipendenza dell'essere creato, anche quello sostanziale, dall'Essere divino[26]. Ciò che la sola ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o se è stato creato nel tempo ovvero se ha un cominciamento. La verità della seconda alternativa (la creazione con un inizio temporale) può essere conosciuta, secondo Tommaso, solamente per fede a partire dalla rivelazione divina. Dio, creando l'uomo, fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica simile a quella di atto e potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza (che è propriamente definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza. Soltanto in Dio, atto puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra Dio (necessario) e la creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le creature sono simili a Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né equivoca. Secondo Tommaso tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio: "bonum" è uno dei tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di caratteri applicabili a ogni ente e perciò trascendenti le categorie di Aristotele. Gli altri due sono "unum" e "verum".  Nelle opere di Tommaso l'universo (o cosmo) ha una struttura rigorosamente gerarchica[senza fonte]: posto al vertice da Dio che viene posto come al di là della fisicità, governa da solo il mondo al di sopra di tutte le cose e gli enti; al di sotto di Dio troviamo gli angeli (forme pure e immateriali), ai quali Tommaso attribuisce la definizione di intelligenze motrici dei cieli anch'esse ordinate gerarchicamente tra di loro; poi un gradino più in basso troviamo l'uomo, posto al confine tra il mondo delle sostanze spirituali e il regno della corporeità, in ogni uomo infatti si ha l'unione del corpo (elemento materiale) con l'anima intellettiva (ovvero la forma, che secondo Tommaso costituisce l'ultimo grado delle intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente che fa parte sia del mondo fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che la conoscenza umana cominci con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di intelligenza degli angeli, non è in grado di apprendere direttamente gli intelligibili, ma può apprendere solamente attribuendo alle cose una forma e quindi solamente grazie all'esperienza sensibile.  Un'altra facoltà necessaria che caratterizza l'uomo è la sua tendenza a realizzare pienamente la propria natura ovvero compiere ciò per cui è stato creato[senza fonte]. Ciascun uomo infatti corrisponde all'idea divina su cui è modellato, di cui l'uomo è consapevole e razionale, conscio delle proprie finalità, alle quali si dirige volontariamente avvalendosi dell'uso dell'intelletto: l'uomo prende le proprie decisioni sulla base di un ragionamento pratico, attraverso il quale tra due beni sceglie sempre quello più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare ciò segue la Legge naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge naturale, che è un riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della Legge positiva, cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono storicamente in un dato tempo ed in un dato luogo.  Al di sotto dell'uomo troviamo le piante e le varie molteplicità degli elementi.  Concezione della donna  Sacra conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo) Tommaso riprende e cita, nella prima parte della Summa theologiae, alle questioni 92 e 99, l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione 2,3) per cui la donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate afferma che "rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole" (I, 92, 1).  «Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso maschile, e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono umidi, come dice il filosofo.»  Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l'ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l'autore universale della natura. Quindi, nel creare la natura, egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina 2. Ci sono due specie di sudditanza. La prima, servile, è quella per cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il proprio interesse: e tale dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene. E tale sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato, poiché senza il governo dei più saggi sarebbe mancato il bene dell'ordine nella società umana. E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all'uomo: poiché l'uomo ha per natura un più vigoroso discernimento razionale.»  (Somma teologica, I, 92, 1, ad 1) «la diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura umana»  (Somma teologica, I, 99, 2, ad 1.) Importanza ed eredità Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo.  Tommaso disputa con Averroè  Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi  Trionfo di san Tommaso, di Benozzo Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più eminenti della filosofia Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva raggiunto il suo apice. Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del tempo: la questione del rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in contrapposizione ad Averroè), le questioni sull'autorità della religione e della teologia, che subordina ogni campo della conoscenza.  Tali punti fermi del suo pensiero furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i quali Reginaldo da Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano francese Giovanni Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta dissoluzione della Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del Tomismo, col conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel successivo sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle possibilità metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare quest'ultima «cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega».[30]  Oggigiorno il pensiero di Tommaso d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non cattolici (studiosi protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non cristiani, grazie al suo metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti e contributi di ogni genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia agli autori pagani, dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma tenendo sempre il suo centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni cultura, dottrina o autore antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato culmina nella Summa Theologiae (cioè "Il complesso di teologia"), in cui tratta in maniera sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi questioni teologiche.  Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un circolo ermeneutico (dal greco ermeneuo, cioè "interpreto") in cui credo ut intelligam et intelligo ut credam (ossia "credo per comprendere e comprendo per credere"). Tommaso porta la fede su un piano superiore alla ragione, affermando che dove la ragione e la filosofia non possono proseguire inizia il campo della fede e il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque, fede e ragione sono certamente in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in filosofia che in teologia. Mentre però la filosofia parte da dati dell'esperienza sensibile o razionale, la teologia inizia il circolo con i dati della fede, su cui ragiona per credere con maggiore consapevolezza ai misteri rivelati. La ragione, ammettendo di non poterli dimostrare, riconosce che essi, pur essendo al di sopra di sé, non sono mai assurdi o contro la ragione stessa: fede e ragione, sono entrambe dono di Dio e non possono contraddirsi. Questa posizione esalta ovviamente la ricerca umana: ogni verità che io posso scoprire non minaccerà mai la Rivelazione anzi, rafforzerà la mia conoscenza complessiva dell'opera di Dio e della Parola di Cristo. Si vede qui un esempio tipico della fiducia che nel Medioevo si riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste certezze andranno in crisi, coinvolgendo l'intero impianto culturale del periodo precedente.  La teologia, in ambito puramente speculativo, rispetto alla tradizione classica, era considerata una forma inferiore di sapere, poiché usava in prestito gli strumenti della filosofia, ma Tommaso fa notare, citando Aristotele, che anche la filosofia non può dimostrare tutto, perché sarebbe un processo all'infinito. Egli distingue due tipi di scienze: quelle che esaminano i propri principi e quelle che ricevono i principi da altre scienze. L'ideale, per uno spirito concreto come Tommaso, sarebbe superare la fede e raggiungere la conoscenza ma, sui misteri fondamentali della Rivelazione, questo non è possibile nella vita terrena del corpo. Avverrà nella vita eterna dello spirito.  La filosofia è dunque ancilla theologiae e regina scientiarum, prima fra i saperi delle scienze. Il primato del sapere teologico non è nel metodo, ma nei contenuti divini che affronta, per i quali è sacrificabile anche la necessità filosofica.  Il punto di discrimine fra filosofia e teologia è la dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri fondamentali della Fede (Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare solamente il primo, l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo Dio è necessariamente Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da una premessa falsa non possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è più semplicemente qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino. Il maggior servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile nemmeno dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di verità e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella parte storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal "profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno.  Il primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre, tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII secolo. La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre rappresentazioni, era il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che attraversavano a piedi le paludi di Francia per ascoltare le lectiones dell'Aquinate nella prestigiosa Università della Sorbonne di Parigi, incontrandosi da tutta Europa.  Gli storici della filosofia richiamano l'attenzione anche sulla prevalenza dell'intelletto rispetto ad una prevalenza della volontà nella vita intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita da San Tommaso e dalla sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura e della scuola francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere Dio", mentre per Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare Dio". Quindi per Tommaso la categoria più alta è "il vero", mentre per Bonaventura è "il bene". Per ambedue però, "il vero" è anche "il bene", e "il bene" è anche "il vero".  Il pensiero di Tommaso ebbe influenza anche su autori non cristiani, a cominciare dal famoso pensatore ebreo Hillel da Verona.  A partire dal secondo Novecento poi il suo pensiero viene ripreso nel dibattito etico da autori cattolici e non, quali Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e Jacques Maritain.  Culto Fu canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La sua memoria viene celebrata dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa, nella Forma straordinaria, lo ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda l'8 marzo.  San Tommaso d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici, dei librai e degli studenti. È patrono della città e della diocesi privernate e della Città e della diocesi aquinate.  L'11 aprile 1567 papa Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa con la bolla Mirabilis Deus.  Il 29 giugno 1923, nel VI centenario della canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò l'enciclica Studiorum Ducem.  L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone XIII ricorda san Tommaso come il più illustre esponente della Scolastica. Gli statuti dei Benedettini, degli Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia di Gesù dispongono l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle dottrine di Tommaso, del quale l'enciclica afferma:  «Per la verità, sopra tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale, come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti”. Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri, infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi studiate con tutte le forze di ampliarla”. Successivamente innocenzo XII, nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV, nel Collegio Dionisiano presso Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.»  (Enciclica Aeterni Patris[31]) Opere di San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum Summa contra Gentiles Summa Theologiae  Questioni disputate Quaestiones disputatae de Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De anima Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De malo Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII  Commenti biblici Expositio super Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla super Psalmos  Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri Ethicorum Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super Metaphysicam Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De generatione et corruptione  Super libros de generatione et corruptione Altri commenti Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus Super Librum Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis  Scritti polemici Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis vitae Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra Avveroistas De aeternitate mundi  Trattati De ente et essentia De principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis  Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36 articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum abbatem casinensem  Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007 Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1 Corinzi, Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini, Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito, Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995 Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2 volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1, Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed. ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza, Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol. 1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La Verità, Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù, Bologna, 2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna,  La potenza divina, Bologna, La potenza divina, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita, Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di Filosofia: I principi della natura, De principiis naturae ad fratrem Silvestrum, sola trad. it., e antologia ragionata e commentata di altri brani filosofici di antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e pedagogia. Inni eucaristici A Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti gli inni eucaristici per la solennità del Corpus Domini, usati per secoli in occasione dell'adorazione eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella liturgia solenne dal Concilio Vaticano II:  Adoro te devote Pange lingua, che contiene al termine il Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum supernum prodiens Note  Napoli A.N. Rossi, Delle dissertazioni di Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie alla citta di Napoli appartenenti, Pasquale Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e sua diocesi del signor D. Pasquale Cayro, patrizio anagnino, Vincenzo Orsino, 1808,348.  Ferante della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di Napoli imparentate colla casa della Marra. Composti dal signor Ferrante della Marra duca della Guardia, dati in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre Torrell, O. P., Amico della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Fino a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla veridicità del soggiorno di Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente successivo a quello in cui la sua famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio delle fonti, Walz-Novarina concludono che il viaggio di Tommaso in compagnia di Giovanni Teutonico «... senza essere certo, può considerarsi probabile... », ma erano più riservati circa la questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi come Denifle e De Groot si associano a questa opinione, ma altri come Mandonnet, Chenu e Glorieux, osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe avuto alcun senso se Tommaso non avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo perché lo studium generale di Colonia non era funzionante prima del 1248, data della sua apertura dovuta a fra Alberto al momento del suo ritorno in questa città.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Marcello Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano, Rizzoli, Astrid Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia dell'Ordine Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso a San Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino  Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,   «Non è vero che alcuni traduttori lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14').  Premio letterario internazionale San Tommaso d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere. Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392  Quaestio 76 della Parte I della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi  Massimo Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni,  S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei commenti aristotelici  Cf. Summa Theologiae, Iª q. 2 a. 3  Cf. Summa Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.  Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae, Iª q. 16 aa. 1-2.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza,  Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa theologiae, pars I quaestio 46  La Somma Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano, «Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea, di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo 1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O., 108).  Martin Lutero, Servo arbitrio, WA 51, 126.  Encilica Aeterni Patris, su vatican.va. (o la traduzione similare qui riportata.  Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di), I classici della teologia, Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni  Nella Sala del Tesoro di San Domenico Maggiore è conservato un arazzo raffigurante il Carro del Sole, parte delle Storie ed alle Virtù di san Tommaso d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza Maria d’Aquino Pico Bibliografia Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione et corruptione, Jacques Myt, Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan, Compendium of theology Oxford University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée, Le Ragioni del Tomismo dopo il centenario dell'enciclica "Aeterni Patris", Ares, Milano, Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e Principio di non contraddizione, Milani, Padova, 1973 Giuseppe Barzaghi, La Somma Teologica di San Tommaso d'Aquino, in Compendio. Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2009 Inos Biffi, La teologia e un teologo. San Tommaso d'Aquino, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL), [ Krzysztof Charamsa, Dispensa introduttiva “Trinità di San Tommaso”, Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Facoltà di Teologia, 2006. Marie-Dominique Chenu, Introduzione allo studio di S. Tommaso d'Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Gilbert Keith Chesterton, Tommaso d'Aquino, Guida Editori, Napoli, Piero Coda, Contemplare e condividere la luce di Dio: la missione della Teo-logia in Tommaso d'Aquino, Città Nuova, Roma, 2014 Marco D'Avenia, La Conoscenza per Connaturalità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992 Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Ares, Milano, Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d'Aquino, S.E.I., Torino, 1939 Umberto Galeazzi, L'etica Filosofica in Tommaso D'Aquino: Dalla Summa Theologiae Alla Contra Gentiles per Una Riscoperta Dei Fondamenti Della Morale Città Nuova, Roma, 1989. 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Voci correlate Corpus Domini Dio, essere e ragione in Tommaso d'Aquino Ebraismo e Cristianità Opere Adoro Te Devote Quaestio disputata de malo Summa Theologiae Personalità Al-Ghazali Domingo Báñez Hillel ben Samuel da Verona San Bernardo di Chiaravalle San Bonaventura da Bagnoregio Teologia e filosofia Comunione dei santi Tomismo Filosofia medioevale Analogia entis Trascendenza Nunc stans Essenza Timeo hominem unius libri Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Tommaso d'Aquino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso d'Aquino Collegamenti esterni Tommaso d'Aquino, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.Tommaso d'Aquino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Tommaso d'Aquino, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Find a Grave.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Open Library, Internet Archive.Opere di Tommaso d'Aquino, su Progetto Gutenberg.Audiolibri di Tommaso d'Aquino, su LibriVox.Bibliografia di Tommaso d'Aquino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.Thomas Aquinas, su Goodreads.(FR) Bibliografia su Tommaso d'Aquino, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Tommaso d'Aquino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Tommaso d'Aquino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.Spartiti o libretti di Tommaso d'Aquino, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.BiografiaTommaso d'Aquino dall'Internet Encyclopedia of Philosophy, su iep.utm.edu. Naddeo, Pasquale, Modernità, attualità, italianità di S. Tommaso D'Aquino, Salerno: Stab. Tip. F.lli Di Giacomo di Giov., La figura di Tommaso I conte di Acerra, braccio destro di Federico II, su web.archive.org (archiviato il 26 dicembre 2018). Opere (LA) Opera omnia di san Tommaso d'Aquino, su corpusthomisticum.org. URL consultato il 23 ottobre 2006 (archiviato dall'url originale l'11 ottobre 2013).Aquinas in Inglese, su dhspriory.org. Opera omnia di san Tommaso d'Aquino, su documentacatholicaomnia.eu. Opere di Tommaso d'Aquino, su intratext.com. testo con concordanze e lista di frequenza Traduzione italiana del trattato De Ente et Essentia, su ariannascuola.eu. Traduzione italiana del De Ente et essentia in formato epub, su ledizioni. Traduzione parziale della Lettera alla Duchessa di Brabante, sui rapporti con gli Ebrei (PDF), su digilander.libero. Diego Fusaro, Il pensiero e le opere di Tommaso in breve, su filosofico.net. 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V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras and three different groups of thinkers will be distinguished: those who supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in 1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers; and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures. Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219 propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order, disagreement about some of his views developed within the first decades after his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his cause. Early English Dominican defenders of his general views included William Hothum d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095, Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?, John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism. Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus from the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses of Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G. universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg, Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá, and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus. Theravada Buddhism Thomism 916   916 The nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII, Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became director of the Collegio Romano Gregorian  in 1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort on the part of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy and theology of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original writings in order to prepare students of philosophy and theology to deal with problems raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established to publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort continues today. Important centers of Thomistic studies developed, such as the Higher Institute of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the Dominican School of Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of Mediaeval Studies in Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and  Jesuits acknowledged a deep indebtedness to Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a concentration of effort in the United States at universities such as The Catholic  of America, St. Louis, Notre Dame, Fordham, Marquette, and Boston, to mention but a few, and by the Dominicans at River Forest. A great weakness of many of the nineteenthand twentieth-century Latin manuals produced during this effort was a lack of historical sensitivity and expertise, which resulted in an unreal and highly abstract presentation of an “Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness was largely offset by the development of solid historical research both in the thought of Aquinas and in medieval philosophy and theology in general, championed by scholars such as H. Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F. Van Steenberghen, E. Gilson and many of his students at Toronto, and by a host of more recent and contemporary scholars. Much of this historical work continues today both within and without Catholic scholarly circles. At the same time, remarkable diversity in interpreting Aquinas’s thought has emerged on the part of many twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of Cajetan and John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more historically grounded approaches developed in quite different ways by Gilson and F. Van Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in Aquinas in the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the emphasis on existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by still other interpreters; the movement known as Transcendental Thomism, originally inspired byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and the long controversy about the appropriateness of describing Thomas’s philosophy and that of other medievals as a Christian philosophy. An increasing number of non-Catholic thinkers are currently directing considerable attention to Aquinas, and the varying backgrounds they bring to his texts will undoubtedly result in still other interesting interpretations and applications of his thought to contemporary concerns.  : --a strange genitive for “Aquino,” the little village where the saint was born. while Grice, being C. of E., would avoid Aquinas like the rats, he was aware of Aquinas’s clever ‘intention-based semantics’ in his commentary of Aristotle’s De Interpretatione. Saint Thomas 122574,  philosopher-theologian, the most influential thinker of the medieval period. He produced a powerful philosophical synthesis that combined Aristotelian and Neoplatonic elements within a Christian context in an original and ingenious way. Life and works. Thomas was born at Aquino castle in Roccasecca, Italy, and took early schooling at the Benedictine Abbey of Monte Cassino. He then studied liberal arts and philosophy at the  of Naples 123944 and joined the Dominican order. While going to Paris for further studies as a Dominican, he was detained by his family for about a year. Upon being released, he studied with the Dominicans at Paris, perhaps privately, until 1248, when he journeyed to a priori argument Aquinas, Saint Thomas 36   36 Cologne to work under Albertus Magnus. Thomas’s own report reportatio of Albertus’s lectures on the Divine Names of Dionysius and his notes on Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from this period. In 1252 Thomas returned to Paris to lecture there as a bachelor in theology. His resulting commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from this period, as do two philosophical treatises, On Being and Essence De ente et essentia and On the Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he began lecturing as master of theology at Paris. From this period 125659 date a series of scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate, Quodlibetal Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the Gentiles Summa contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy from 1259 to 1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among other works, the completion of the SCG; a commentary on the Divine Names; disputations On the Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa of Theology Summa theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed teaching in Paris as regent master and wrote extensively until returning to Italy in 1272. From this second Parisian regency date the disputations On the Soul De anima and On Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI and XII; On the Unity of the Intellect against the Averroists De unitate intellectus contra Averroistas; most if not all of his commentaries on Aristotle; a commentary on the Book of Causes Liber de causis; and On the Eternity of the World De aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy where he lectured on theology at Naples and continued to write until December 6, 1273, when his scholarly work ceased. He died three months later en route to the Second Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a theologian. The greater part of his writings are theological, but there are many strictly philosophical works within his corpus, such as On Being and Essence, On the Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the commentaries on Aristotle and on the Book of Causes. Also important are large sections of strictly philosophical writing incorporated into theological works such as the SCG, ST, and various disputations. Aquinas clearly distinguishes between strictly philosophical investigation and theological investigation. If philosophy is based on the light of natural reason, theology sacra doctrina presupposes faith in divine revelation. While the natural light of reason is insufficient to discover things that can be made known to human beings only through revelation, e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is impossible for those things revealed to us by God through faith to be opposed to those we can discover by using human reason. For then one or the other would have to be false; and since both come to us from God, God himself would be the author of falsity, something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is appropriate for the theologian to use philosophical reasoning in theologizing. Aquinas also distinguishes between the orders to be followed by the theologian and by the philosopher. In theology one reasons from belief in God and his revelation to the implications of this for created reality. In philosophy one begins with an investigation of created reality insofar as this can be understood by human reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine reality viewed as the cause of created reality and the end or goal of one’s philosophical inquiry SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows in his theological Summae SCG and ST is not the same as that which he prescribes for the philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics. Also underlying much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference between theoretical or speculative philosophy including natural philosophy, mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as being. The subject of this science is not God, but being, viewed without restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of intellectual operation, a negative judgment, technically named by him “separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 37   37 ing. Only as a result of this judgment is one justified in studying being as being. Following Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in various ways and with different meanings. Yet these different usages are not unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our predication of being  substance. Other things are named being only because they are in some way ordered to and dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3; SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s student of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first writings, On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is realized in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences angels of the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing the view that created separate substances are composed of matter and form, Aquinas counters that they are not entirely free from composition. They are composed of a form or essence and an act of existing esse. He immediately develops a complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without knowing whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence and act of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of existing are identical. At best there can be only one such being, he continues, by eliminating multiplication of such an entity either through the addition of some difference or through the reception of its form in different instances of matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since that which exists through something else must be traced back to that which exists of itself, there must be some thing that causes the existence of everything else and that is identical with its act of existing. Otherwise one would regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here dismisses as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that God’s existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that God’s existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing effect to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The first way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our world of sense experience are moved. But whatever is moved is moved by something else. To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be reduced from potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from potency to act; for it would then have to be in potency if it is to be moved and in act at the same time and in the same respect. This does not mean that a mover must formally possess the act it is to communicate to something else if it is to move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the power to communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by something else. One cannot regress to infinity with moved movers, for then there would be no first mover and, consequently, no other mover; for second movers do not move unless they are moved by a first mover. One must, therefore, conclude to the existence of a first mover which is moved by nothing else, and this “everyone understands to be God.” The second way takes as its point of departure an ordering of efficient causes as indicated to us by our investigation of sensible things. By this Thomas means that we perceive in the world of sensible things that certain efficient causes cannot exercise their causal activity unless they are also caused by something else. But nothing can be the efficient cause of itself, since it would then have to be prior to itself. One cannot regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered efficient causes, the first is the cause of the intermediary, and the intermediary is the cause of the last whether the intermediary is one or many. Hence if there were no first efficient cause, there would be no intermediary and no last cause. Thomas concludes from this that one must acknowledge the existence of a first efficient cause, “which everyone names God.” The third way consists of two major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 38   38 textual variants have complicated the proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the fact that certain things are subject to generation and corruption to show that they are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things can be of this kind revised text, for that which has the possibility of not existing at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of not existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even now there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist through something else that exists. Therefore not all beings are capable of existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else, Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity. Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the first part to the effect that what has the possibility of not existing at some point does not exist has been subject to considerable dispute among commentators. Moreover, even if one grants this and supposes that every individual being is a “possible” and therefore has not existed at some point in the past, it does not easily follow from this that the totality of existing things will also have been nonexistent at some point in the past. Given this, some interpreters prefer to substitute for the third way the more satisfactory versions found in SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based on the varying degrees of perfection we discover among the beings we experience. Some are more or less good, more or less true, more or less noble, etc., than others. But the more and less are said of different things insofar as they approach in varying degrees something that is such to a maximum degree. Therefore there is something that is truest and best and noblest and hence that is also being to the maximum degree. To support this Thomas comments that those things that are true to the maximum degree also enjoy being to the maximum degree; in other words he appeals to the convertibility between being and truth of being. In the second part of this argument Thomas argues that what is supremely such in a given genus is the cause of all other things in that genus. Therefore there is something that is the cause of being, goodness, etc., for all other beings, and this we call God. Much discussion has centered on Thomas’s claim that the more and less are said of different things insofar as they approach something that is such to the maximum degree. Some find this insufficient to justify the conclusion that a maximum must exist, and would here insert an appeal to efficient causality and his theory of participation. If certan entities share or participate in such a perfection only to a limited degree, they must receive that perfection from something else. While more satisfactory from a philosophical perspective, such an insertion seems to change the argument of the fourth way significantly. The fifth way is based on the way things in the universe are governed. Thomas observes that certain things that lack the ability to know, i.e., natural bodies, act for an end. This follows from the fact that they always or at least usually act in the same way to attain that which is best. For Thomas this indicates that they reach their ends by “intention” and not merely from chance. And this in turn implies that they are directed to their ends by some knowing and intelligent being. Hence some intelligent being exists that orders natural things to their ends. This argument rests on final causality and should not be confused with any based on order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this life we can know what God is should here be recalled. If we can know that God exists and what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30. Even when we apply the names of pure perfections to God, we first discover such perfections in limited fashion in creatures. What the names of such perfections are intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every such name carries with it some deficiency in the way in which it signifies. When a name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g., ‘God is goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does not subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’, ‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 39   39 exactly the same meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its uncaused and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal to its uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in him in a way different from the way we discover it in creatures. This dissimilarity is so great that we can never have quidditative knowledge of God in this life know what God is. But the similarity is sufficient for us to conclude that what we understand by a perfection such as goodness in creatures is present in God in unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification of the kind of analogy to be used in predicating divine names underwent some development, in mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I c.34, and ST I qu. 13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to another,” rather than as the analogy of “many to one.” In none of these works does he propose using the analogy of “proportionality” that he had previously defended in On Truth qu. 2, a. 11. Theological virtues. While Aquinas is convinced that human reason can arrive at knowledge that God exists and at meaningful predication of the divine names, he does not think the majority of human beings will actually succeed in such an effort SCG I, c. 4; ST IIIIae, qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was fitting for God to reveal such truths to mankind along with others that purely philosophical inquiry could never discover even in principle. Acceptance of the truth of divine revelation presupposes the gift of the theological virtue of faith in the believer. Faith is an infused virtue by reason of which we accept on God’s authority what he has revealed to us. To believe is an act of the intellect that assents to divine truth as a result of a command on the part of the human will, a will that itself is moved by God through grace ST II IIae, qu. 2, a. 9. For Thomas the theological virtues, having God the ultimate end as their object, are prior to all other virtues whether natural or infused. Because the ultimate end must be present in the intellect before it is present to the will, and because the ultimate end is present in the will by reason of hope and charity the other two theological virtues, in this respect faith is prior to hope and charity. Hope is the theological virtue through which we trust that with divine assistance we will attain the infinite good  eternal enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17, aa. 12. In the order of generation, hope is prior to charity; but in the order of perfection charity is prior both to hope and faith. While neither faith nor hope will remain in those who reach the eternal vision of God in the life to come, charity will endure in the blessed. It is a virtue or habitual form that is infused into the soul by God and that inclines us to love him for his own sake. If charity is more excellent than faith or hope ST II IIae, qu. 23, a. 6, through charity the acts of all other virtues are ordered to God, their ultimate end qu. 23, a. 8.  Aquino -- Aquinismo“If followers of William are called Occamists, followers of a Saint should surely call themselves “Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to palaeo-Thomism --, a philosophical-theological movement in the nineteenth and twentieth centuries manifesting a revival of interest in Aquinas. It was stimulated by Pope Leo XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a renewed emphasis on the teaching of Thomistic principles to meet the intellectual and social challenges of modernity. The movement reached its peak in the 0s, though its influence continues to be seen in organizations such as the  Catholic Philosophical Association. Among its major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal, Pierre Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality, semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner, Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over critical, postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who emphasize both the real distinction between essence and existence and the role of the sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’ applies to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon the inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory of the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.  Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis obscuritatibus involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines, expositionem adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse perfectioribus exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non recusem. Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum, ex quo si profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus in III de anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur indivisibilium intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit essentiam uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet componentis et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet ratiocinandi, secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum. Harum autem operationum prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse compositio et divisio, nisi simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad tertiam: quia videlicet oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus assentiat, procedatur ad certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There is a twofold operation of the intellect, as the Philosopher says in III De anima [6: 430a 26]. One is the understanding of simple objects, that is, the operation by which the intellect apprebends just the essence of a thing alone; the other is the operation of composing and dividing. There is also a third operation, that of reasoning, by which reason proceeds from what is known to the investigation of things that are unknown. The first of these operations is ordered to the second, for there cannot be composition and division unless things have already been apprehended simply. The second, in turn, is ordered to the third, for clearly we must proceed from some known truth to which the intellect assents in order to have certitude about something not yet known. Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur rationalis scientia, necesse est quod eius consideratio versetur circa ea quae pertinent ad tres praedictas operationes rationis. De his igitur quae pertinent ad primam operationem intellectus, idest de his quae simplici intellectu concipiuntur, determinat Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero, quae pertinent ad secundam operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et negativa, determinat philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae pertinent ad tertiam operationem determinat in libro priorum et in consequentibus, in quibus agitur de syllogismo simpliciter et de diversis syllogismorum et argumentationum speciebus, quibus ratio de uno procedit ad aliud. Et ideo secundum praedictum ordinem trium operationum, liber praedicamentorum ordinatur ad librum perihermeneias, qui ordinatur ad librum priorum et sequentes. 2. Since logic is called rational science it must direct its consideration to the things that belong to the three operations of reason we have mentioned. Accordingly, Aristotle treats those belonging to the first operation of the intellect, i.e., those conceived by simple understanding, in the book Praedicamentorum; those belonging to the second operation, i.e., affirmative and negative enunciation, in the book Perihermeneias; those belonging to the third operation in the book Priorum and the books following it in which he treats the syllogism absolutely, the different kinds of syllogism, and the species of argumentation by which reason proceeds from one thing to another. And since the three operations of reason are ordered to each other so are the books: the Praedicamenta to the Perihermeneias and the Perihermeneias to the Priora and the books following it. Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber iste, qui prae manibus habetur, perihermeneias, quasi de interpretatione. Dicitur autem interpretatio, secundum Boethium, vox significativa, quae per se aliquid significat, sive sit complexa sive incomplexa. Unde coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non dicuntur interpretationes, quia non per se aliquid significant. Similiter etiam voces signi-ficantes naturaliter, non ex proposito aut cum imaginatione aliquid significandi, sicut sunt voces brutorum animalium, interpretationes dici non possunt. Qui enim interpretatur aliquid exponere intendit. Et ideo sola nomina et verba et orationes dicuntur interpretationes, de quibus in hoc libro determinatur. Sed tamen nomen et verbum magis interpretationis principia esse videntur, quam interpretationes. Ille enim interpretari videtur, qui exponit aliquid esse verum vel falsum. Et ideo sola oratio enunciativa, in qua verum vel falsum invenitur, interpretatio vocatur. Caeterae vero orationes, ut optativa et imperativa, magis ordinantur ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum id quod in intellectu habetur. Intitulatur ergo liber iste de interpretatione, ac si dicetur de enunciativa oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non autem hic agitur de nomine et verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis. Est enim proprium uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et passiones. Patet igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et quae sit necessitas istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The one we are now examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation. Interpretation, according to Boethius, is "significant vocal sound —whether complex or incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions, then, and prepositions and other words of this kind are not called interpretations since they do not signify anything by themselves. Nor can sounds signifying naturally but not from purpose or in connection with a mental image of signifying something—such as the sounds of brute animals—be called interpretations, for one who in terprets intends to explain something. Therefore only names and verbs and speech are called interpretations and these Aristotle treats in this book. The name and verb, however, seem to be principles of interpretation rather than interpretations, for one who interprets seems to explain something as either true or false. Therefore, only enunciative speech in which truth or falsity is found is called interpretation. Other kinds of speech, such as optatives and imperatives, are ordered rather to expressing volition than to interpreting what is in the intellect. This book, then, is entitled On Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in which truth or falsity is found. The name and verb are treated only insofar as they are parts of the enunciation; for it is proper to a science to treat the parts of its subject as well as its properties. It is clear, then, to which part of philosophy this book belongs, what its necessity is, and what its place is among the books on logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an introduction in which he points out one by one the things that are to be treated. For, since every science begins with a treatment of the principles, and the principles of composite things are their parts, one who intends to treat enunciation must begin with its parts, Therefore Aristotle begins by saying: First we must determine, i.e., define, what a name is and what a verb is. In the Greek text it is First we must posit, which signifies the same thing, for demonstrations presuppose definitions, from which they conclude, and hence definitions are rightly called "positions.” This is the reason he only points out here the definitions of the things to be treated; for from definitions other things are known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis. Et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum. It might be asked why it is necessary to treat simple things again, i.e., the name and the verb, for they were treated in the book Praedicamentorum. In answer to this we should say that simple words can be considered in three ways: first, as they signify simple intellection absolutely, which is the consideration proper to the book Praedicamentorum; secondly, according to their function as parts of the enunciation, which is the way they are considered in this book. Hence, they are treated here under the formality of the name and the verb, and under this formality they signify something with time or without time and other things of the kind that belong to the formality of words as they are components of an enunciation. Finally, simple words may be considered as they are components of a syllogistic ordering. They are treated then under the formality of terms and this Aristotle does in the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones. It might be asked why he treats only the name and verb and omits the other parts of speech. The reason could be that Aristotle intends to establish rules about the simple enunciation and for this it is sufficient to consider only the parts of the enunciation that are necessary for simple speech. A simple enunciation can be formed from just a name and a verb, but it cannot be formed from other parts of speech without these. Therefore, it is sufficient to treat these two.On the other hand, the reason could be that names and verbs are the principal parts of speech. Pronouns, which do not name a nature but determine a person-and therefore are put in place of names-are comprehended under names. The participle-althougb it has similarities with the name-signifies with time and is therefore comprehended under the verb. The others are things that unite the parts of speech. They signify relations of one part to another rather than as parts of speech; as nails and other parts of this kind are not parts of a ship, but connect the parts of a ship. 4 His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur. After he has proposed these parts [the name and the verb] as principles, Aristotle states what he principally intends to establish:... then what negation is and affirmation. These, too, are parts of the enunciation, not integral parts however, as are the name and the verb—otherwise every enunciation would have to be formed from an affirmation and negation—but subjective parts, i.e., species. This is supposed here but will be proved later. 5 Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since enunciation is divided into categorical and hypothetical, it might be asked why he does not list these as well as affirmation and negation. In reply to this we could say that Aristotle has not added these because the hypothetical enunciation is composed of many categorical propositions and hence categorical and hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative sciences unless it is confirmed by the absolute truth of the simple enunciation. This is the reason Aristotle does not treat either hypothetical enunciations or syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of negation and affirmation; and speech, which is the genus of enunciation.  6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he does not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural and therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident in II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium [ch. 8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the genus of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things are presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however, Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation, which consists of composition, for the same reason: division is closer to the parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he puts negation first because in those things that can be and not be, non-being, which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies. Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed before the other, for they are species equally dividing a genus and are therefore simultaneous according to nature.  II. 1. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces signi-ficativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de sign-ificatione vocum. Et deinde de vocibus signi-ficativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit. Pprimo, determinat qualis sit sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis vocum. Secundo, ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura vel *ex impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura – signo ex arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. After his introduction the Philosopher begins to investigate the things he has proposed. Since the things he promised to speak of are either complex or incomplex significant vocal sounds, he prefaces this with a treatment of the signification of vocal sounds; then he takes up the significant vocal sounds he proposed in the introduction where he says, A name, then, is a vocal sound significant by convention, without time, etc. In regard to the signification of vocal sounds he first determines what kind of signification vocal sound has and then shows the difference between the signification of complex and incomplex vocal sounds where he says, As sometimes there is thought in the soul, etc. With respect to the first point, he presents the order of the signification of vocal sounds and then shows what kind of signification vocal sound has, i.e., whether it is from nature or by imposition. This he does where he says, And just as letters are not the same for all men, etc. 2 Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Aristoteles proponit enim scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione alicuius agentis. Et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus [teoria causale della percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum *notitiam* [nota, notitia – notizia – notatura --]  in se haberet. Sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale [chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod conceptiones unius hominis *innotescerent* [co-gnoscere] [informare, notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit per vocem. Et ideo necesse fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox signi-ficativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of vocal sounds he proposes three things, from one of which a fourth is understood. He proposes writing, vocal sounds, and passions of the soul; things is understood from the latter, for passion is from the impression of something acting, and hence passions of the soul have their origin from things. Now if man were by nature a solitary animal the passions of the soul by which he was conformed to things so as to have knowledge of them would be sufficient for him; but since he is by nature a political and social animal it was necessary that his conceptions be made known to others. This he does through vocal sound. Therefore there had to be significant vocal sounds in order that men might live together. Whence those who speak different languages find it difficult to live together in social unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is of the here and now, such significant vocal sounds as the other animals use to manifest their conceptions to each other would be sufficient for him to live with others. But man also has the advantage of intellectual cognition, which abstracts from the here and now, and as a consequence, is concerned with things distant in place and future in time as well as things present according to time and place. Hence the use of writing was necessary so that he might manifest his conceptions to those who are distant according to place and to those who will come in future time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, signi-ficatio vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata] ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius. Signi-ficatio autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non filosofi. Et ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed a vocibus. Quarum primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae. Ergo oportet vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to obtaining knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is immediate to the conceptions of the intellect, is its principal consideration. The signification of written signs, being more remote, belongs to the consideration of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore begins his explanation of the order of signification from vocal sounds, not written signs. First he explains the signification of vocal sounds: Therefore those that are in vocal sound are signs of passions in the soul. He says "therefore” as if concluding from premises, because he has already said that we must establish what a name is, and a verb and the other things he mentioned; but these are significant vocal sounds; therefore, signification of vocal sounds must be explained. 4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus. Alio modo, in prolatione vocis. Tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc. Ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae, et earum quaedam sunt signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum signi-ficant *ex institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and not "vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he has just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now these have being in three ways: in the conception of the intellect, in the utterance of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean when he says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and the other things we are going to define, insofar as they are in vocal sound, are signs. On the other hand, he may be speaking in this way because not all vocal sounds are significant, and of those that are, some are significant naturally and hence are different in nature from the name and the verb and the other things to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things of which he intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,” i.e., that are contained under vocal sound as parts under a whole. There could be still another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something natural. The name and verb, on the other hand, signify by human institution, that is, the signification is added to the natural thing as a form to matter, as the form of a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs and the other things he is going to define he says, "Those that are in vocal sound,” in the same way he would say of a bed, "that which is in wood.” 5. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis* affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione* humana. Et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam humanam [homo] in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam *ideam* [hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu. Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et eis mediantibus [MEDIATA -- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non che CREDE che piove.  When he speaks of passions in the soul we are apt to think of the affections of the sensitive appetite, such as anger, joy, and the other passions that are customarily and commonly called passions of the soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b 21]. It is true that some of the vocal sounds man makes signify passions of this kind naturally, such as the groans of the sick and the sounds of other animals, as is said in I Politicae [2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is speaking of vocal sounds that are significant by human institution. Therefore "passions in the soul” must be understood here as conceptions of the intellect, and names, verbs, and speech, signify these conceptions of the intellect immediately according to the teaching of Aristotle. They cannot immediately signify things, as is clear from the mode of signifying, for the name "man” signifies human nature in abstraction from singulars; hence it is impossible that it immediately signify a singular man. The Platonists for this reason held that it signified the separated idea of man. But because in Aristotle’s teaching man in the abstract does not really subsist, but is only in the mind, it was necessary for Aristotle to say that vocal sounds signify the conceptions of the intellect immediately and things by means of them. 6. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones. Ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae *operations* [judicate/volere – accetare]. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma – etym. – fendere, offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine corporali [del corpo] passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de anima vocat passivum [non activum] intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis] quoddam *pati* est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta *ex amore* vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit. Tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere – ex-primere] vel passionis. Since Aristotle did not customarily speak of conceptions of the intellect as passions, Andronicus took the position that this book was not Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he calls all of the operations of the soul "passions” of the soul. Whence even the conception of the intellect can be called a passion and this either because we do not understand without a phantasm, which requires corporeal passion (for which reason the Philosopher calls the imaginative power the passive intellect) [De Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name "passion” to every reception, the understanding of the possible intellect is also a kind of undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29]. Aristotle uses the name "passion,” rather than "understanding,” however, for two reasons: first, because man wills to signify an interior conception to another through vocal sound as a result of some passion of the soul, such as love or hate; secondly, because the signification of vocal sound is referred to the conception of the intellect inasmuch as the conception arises from things by way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus. Ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur. Quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod *nomina* [Fido -- denotatum] et verba [-- is shaggy -- attributum], quae sunt in voce, sunt *signa* eorum quae sunt *in* *anima*, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. When he says, and those that are written are signs of those in vocal sound, he treats of the signification of writing. According to Alexander he introduces this to make the preceding clause evident by means of a similitude; and the meaning is: those that are in vocal sound are signs of the passions of the soul in the way in which letters are of vocal sound; then he goes On to manifest this point where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same—by introducing this as a sign of the preceding. For when he says in effect, just as there are diverse vocal sounds among diverse peoples so there are diverse letters, he is signifying that letters signify vocal. sounds. And according to this exposition Aristotle said those that are written are signs... and not, letters are signs of those that are in vocal sound, because they are called letters in both speech and writing, alt bough they are more properly called letters in writing; in speech they are called elements of vocal sound. Aristotle, however, does not say, just as those that are written, but continues with his account. Therefore it is better to say as Porphyry does, that Aristotle adds this to complete the order of signification. For after he says that names and verbs in vocal sound are signs of those [names and verbs – ‘Fido is shaggy’ denotative – attributive – the S is P -- in the soul, he adds—in continuity with this—that names and verbs that are written are signs of the names and verbs that are in vocal sound. 8. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum signi-ficantium et signi-ficatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio significandi est ex impositione* [positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per artem* [per arte ma non ‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum naturae, signum artis, signum naturalis – signum artis – segno artato -- --. [non per naturam]. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae naturaliter signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi, sunt *eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the foresaid things differ as signified and signifying inasmuch as they are either according to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign to show that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that signify naturally are the same among all men; but the signification of letters and vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all men. There has never been any question about this in regard to letters, for their character of signifying is from imposition and their very formation is through art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a question as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by comparison with letters: these are not the same among all men, and so neither are vocal sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not signify naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify naturally, such as groans of the sick and others of this kind, are the same among all men.  9. Secundo, ibi. Quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad ex-primendum [exprimere] in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones autem animae dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*, sicut et in multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio institutionis] belli [notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Secondly, when he says, but the passions of the soul, of which vocal sounds are the first signs, are the same for all, he shows that passions of the soul exist naturally, just as things exist naturally, for they are the same among all men. For, he says, but the passions of the soul, i.e., just as the passions of the soul are the same for all men; of which first, i.e., of which passions, being first, these, namely, vocal sounds, are tokens [cf. teach] --,” i.e., signs” (for passions of the soul are compared to vocal sounds as first to second since vocal sounds are produced *only* to express interior passions of the soul), so also the things... are the same, i.e., are the same among all, of which, i.e., of which things, passions of the soul are likenesses. Notice he says here that letters are signs, i.e., signs of vocal sounds, and similarly vocal sounds are signs of passions of the soul, but that passions of the soul are likenesses of things. This is because a thing is not known by the soul unless there is some likeness of the thing existing either in the sense or in the intellect. Now letters are signs of vocal sounds and vocal sounds of passions in such a way that we do not attend to any idea of likeness in regard to them but *only one [idea] of institution, as is the case in regard to many other signs, for example, the trumpet as a sign of war. But in the passions of the soul we have to take into account the idea of a likeness to the things represented, since passions of the soul designate things naturally, not by institution. 10 Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem. Quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est [homo] [viz. animale razionale], quodcunque aliud aliquid, quam [hominem] apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo *signanter* dicit. Quorum primorum hae *notae* sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo signi-ficatas. There are some who object to Aristotle’s position that passions of the soul, which vocal sounds signify, are the same for all men. Their argument against it is as follows. Different men have different opinions about things. Therefore, passions of the soul do not seem to be the same among all men. Boethius in reply to this objection says that here Aristotle is using ‘passions of the soul’ to denote conceptions of the intellect, and since the intellect is never deceived, conceptions of the intellect must be the same among all men. For if someone is at variance with what is true, in this instance he does not understand. However, since what is false can also be in the intellect, not as it *knows* what a thing is, i.e., the essence of a thing, but as it composes and divides, as is said in III De anima [6: 430a 26]. Aristotle’s statement should be referred to the simple conceptions of the intellect — that are signified by the incomplex vocal sounds — which are the same among all men. For if someone truly understands what man [homo[ is [viz. animale razionale], whatever else than man he apprehends he does not understand *as* man. Simple conceptions of the intellect, which vocal sounds first signify, are of this kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae [IV, 4: 1006b 4] that the notion which the name signifies is the definition.” And this is the reason Aristotle expressly says, ‘of which first [passions] these are signs [notae]’, I.e., so that this will be referred to the first conceptions [conceptiones] first signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem signi-ficandam eam refert. Et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere *identitatem* conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conception. Quia voces sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem. The equivocal name is given as another objection to this position, for in the case of an equivocal name the same vocal sound does *not* signify the same passion among all men. Porphyry answers this by pointing out that a man who utters a vocal sound *intends* it to signify one conception of the intellect. If the person to whom he is speaking understands something else by it, the one who is speaking, by explaining himself, will make the one to whom he is speaking refer his understanding to the same thing. However it is better to say that it is not Aristotle’s intention to maintain an identity of the conception of the soul in relation to a vocal sound such that there is one conception in relation to one vocal sound, for vocal sounds are different among different peoples. Rather, he intends to maintain an identity of the conceptions of the soul in relation to things, which things he also says are the same. 12 Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint *animae passiones*, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Thirdly when he says, This has been discussed, however, in our study of the soul, etc., he excuses himself from a further consideration of these things, for the nature of the passions of the soul and the way in which they are likenesses of things does not pertain to logic but to philosophy of nature and has already been treated in the book De anima [III, 4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit ordinem signi-ficationis vocum, hic agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam. Secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae vocibus, quae *ad eas exprimendas* [exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa signi-ficationes vocum. Ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. After the Philosopher has treated the order of the signification of vocal sounds, he goes on to discuss a diversity in the signification of vocal sounds, i.e., some of them signify the true or the false, others do not. He first states the difference and then manifests it where he says, for in composition and division there is truth and falsity. Now because in the order of nature conceptions of the intellect precede vocal sounds, which are uttered to express them, he assigns the difference in respect to the significations of vocal sounds from a likeness to the difference in intellection. Thus the manifestation is from a likeness and at the same time from the cause which the effects imitate. 2. Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima. In quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae [notae, signa, vestigial] formantur ad exprimendas – exprimere -- conceptiones – conceptus -- intellectus, ideo ad hoc quod *signum* [signans – segno -- segnante] conformetur [conformatur] signato [segnato], necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso. The operation of the intellect is twofold, as was said in the beginning, and as is explained in III De anima [6: 430a 26]. Now truth and falsity is found in one of these operations but not in the other. This is what Aristotle says at the beginning of this portion of the text, i.e., that in the soul sometimes there is thought without truth and falsity, but sometimes of necessity it has one or the other of these. And since significant vocal sounds are formed to express these conceptions of the intellect, it is necessary that some significant vocal sounds signify without truth and falsity, others with truth and falsity—in order that the sign be conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Then when he says, for in composition and division there is truth and falsity, he manifests what he has just said: first with respect to what he has said about thought; secondly, with respect to what he has said about the likeness of vocal sounds to thought, where he says Names and verbs, then are like understanding without composition or division, etc. To show that sometimes there is thought without truth or falsity and sometimes it is accompanied by one of these, he says first that truth and falsity concern composition and division. To understand this we must note again that one of the two operations of the intellect is the understanding of what is indivisible. This the intellect does when it understands the quiddity or essence of a thing absolutely, for instance, what man is or what white is or what something else of this kind is. The other operation is the one in which it composes and divides simple concepts of this kind. He says that in this second operation of the intellect, i.e., composing and dividing, truth and falsity is found; the conclusion being that it is not found in the first, as he also says in III De anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem. There seems to be a difficulty about this point, for division is made by resolution to what is indivisible, or simple, and therefore it seems that just as truth and falsity is not in simple things, so neither is it in division. To answer this it should be pointed out that the conceptions of the intellect are likenesses of things and therefore the things that are in the intellect can be considered and named in two ways: according to themselves, and according to the nature of the things of which they are the likenesses. For just as a statue—say of Hercules—in itself is called and is bronze but as it is a likeness of Hercules is named man, so if we consider the things that are in the intellect in themselves, there is always composition where there is truth and falsity, for they are never found in the intellect except as it compares one simple concept with another. But if the composition is referred to reality, it is sometimes called composition, sometimes division: composition when the intellect compares one concept to another as though apprehending a conjunction or identity of the things of which they are conceptions; division, when it so compares one concept with another that it apprehends the things to be diverse. In vocal sound, therefore, affirmation is called composition inasmuch as it signifies a conjunction on the part of the thing and negation is called division inasmuch as it signifies the separation of things. 5 Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componit vel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. There is still another objection in relation to this point. It seems that truth is not in composition and division alone, for a thing is also said to be true or false. For instance, gold is said to be true gold or false gold. Furthermore, being and true are said to be convertible. It seems, therefore, that the simple conception of the intellect, which is a likeness of the thing, also has truth and falsity. Again, the Philosopher says in his book De anima [II, 6: 418a 15], that the sensation of proper sensibles is always true. But the sense does not compose or divide. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. Moreover, in the divine intellect there is no composition, as is proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But the first and highest truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these difficulties the following considerations are necessary. Truth is found in something in two ways: as it is in that which is true, and as it is in the one speaking or knowing truth. Truth as it is in that which is true is found in both simple things and composite things, but truth in the one speaking or knowing truth is found only according to composition and division. This will become clear in what follows. 7 Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says in VI Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything that is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are related to thought as signs, but things are related to thought as that of which thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the way natural things are related to the human speculative intellect. Whence thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be only in what they seemed to be. According to this view it would follow that contradictories could be at once true, since the opinions of different men can be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8 Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae [9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul. Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending what a thing is apart from composition and division is always true, as is said in III De anima [3: 427b 12; 428a 11; 6: 43a 26]. It should be noted, however, that although the sensation of the proper object is true the sense does not perceive the sensation to be true, for it cannot know its relationship of conformity with the thing but only apprehends the thing. The intellect, on the other hand, can know its relationship of conformity and therefore only the intellect can know truth. This is the reason the Philosopher says in VI Metaphysicae [4: 1027b 26] that truth is only in the mind, that is to say, in one knowing truth. To know this relationship of conformity is to judge that a thing is such or is not, which is to compose and divide; therefore, the intellect does not know truth except by composing and dividing through its judgment. If the judgment is in accordance with things it will be true, i.e., when the intellect judges a thing to be what it is or not to be what it is not. The judgment will be false when it is not in accordance with the thing, i.e., when it judges that what is, is not, or that what is not, is. It is evident from this that truth and falsity as it is in the one knowing and speaking is had only in composition and division. This is what the Philosopher is speaking of here. And since vocal sounds are signs of thought, that vocal sound will be true which signifies true thought, false which signifies false thought, although vocal sound insofar as it is a real thing is said to be true in the same way other things are. Thus the vocal sound "Man is an ass” is truly vocal sound and truly a sign, but because it is a sign of something false it is said to be false. 10 Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter. It should be noted that the Philosopher is speaking of truth here as it relates to the human intellect, which judges of the conformity of things and thought by composing and dividing. However, the judgment of the divine intellect concerning this is without composition and division, for just as our intellect understands material things immaterially, so the divine intellect knows composition and division simply.” Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum. Secundo, probat per signum. Ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. When he says, Names and verbs, then, are like thought without composition or division, he manifests what he has said about the likeness of vocal sounds to thought. Next he proves it by a sign when he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false, etc. Here he concludes from what has been said that since there is truth and falsity in the intellect only when there is composition or division, it follows that names and verbs, taken separately, are like thought which is without composition and division; as when we say "man” or "white,” and nothing else is added. For these are neither true nor false at this point, but when "to be” or "not to be” is added they be come true or false. Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est *implicita* -- im-plicata – implicatura – implicitura -- compositio, licet non explicita – ex-plicata – explicatura – explicitura --.  Although one might think so, the case of someone giving a,, single name as a true response to a question is not an instance that can be raised against this position; for example, suppose someone asks, "What swims in the sea?” and the answer is "Fish”; this is not opposed to the position Aristotle is taking here, for the verb that was posited in the question is understood. And just as the name said by itself does not signify truth or falsity, so neither does the verb said by itself. The verbs of the first and second person and the intransitive verb” are not instances opposed to this position either, for in these a particular and determined nominative is understood. Consequently there is implicit composition, though not explicit.  13. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”, quod componitur ex “hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos” -- nam “tragos” est ‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce – Calogero – antifascism – liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un icocerco? Una chimera, ma anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Then he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false unless "to be or "not to be” is added either absolutely or according to time. Here he introduces as a sign the composite name "goatstag,” from "goat” and "stag.” In Greek the word is "tragelaphos,” from "tragos” meaning goat and "elaphos” meaning stag. Now names of this kind signify something, namely, certain simple concepts (although the things they signify are composite), and therefore are not true or false unless "to be” or "not to be” is added, by which a judgment of the intellect is expressed. The "to be” or "not to be” can be added either according to present time, which is to be or not to be in act and for this reason is to be simply; or according to past or future time, which is to be relatively, not simply; as when we say that something has been or will be. Notice that Aristotle expressly uses as an example here a name signifying something that does not exist in reality, in which fictiveness is immediately evident, and which cannot be true or false without composition and division.  IV.  1. Postquam [Aristoteles] philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox signi-ficativa et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine, quod signi-ficat rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat tempus et cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. [“Having determined the order of the signification of vocal sounds, the Philosopher begins here to establish the definitions of the significant vocal sounds. His principal intention is to establish what an enunciation is—which is the subject of this book—but since in any science the principles of the subject must be known first, he begins with the principles of the enunciation and then establishes what an enunciation is where he says, All speech is not enunciative, etc.” With respect to the principles of the enunciation he first determines the nature of the quasi material principles, i.e., its integral parts, and secondly the formal principle, i.e., speech, which is the genus of the enunciation, where he says, Speech is significant vocal sound, etc.” Apropos of the quasi material principles of the enunciation he first establishes that a name signifies the substance of a thing and then that the verb signifies action or passion proceeding from a thing, where he says The verb is that which signifies with time, etc.” In relation to this first point, he first defines the name, and then explains the definition where he says, for in the name "Campbell” the part "bell,” as such, signifies nothing, etc., and finally excludes certain things—those that do not have the definition of the name perfectly—where he says, "Non-man,” however, is not a name, etc.”] 2. Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. [“It should be noted in relation to defining the name, that a definition is said to be a limit because it includes a thing totally, i.e., such that nothing of the thing is outside of the definition, that is, there is nothing of the thing to which the definition does not belong; nor is any other thing under the definition, that is, the definition belongs to no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut “biltris”, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de signi-ficatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox signi-ficativa. Aristotle posits five parts in the definition of the name. Vocal sound is given first, as the genus. This distinguishes the name from all sounds that are not vocal; for vocal sound is sound produced from the mouth of an animal and involves a certain kind of mental image, as is said in II De anima [8: 420b 30-34]. The second part is the first difference, i.e., significant, which differentiates the name from any non-significant vocal sound, whether lettered and articulated, such as "biltris,” or non-lettered and non-articulated, as a hissing for no reason. Now since he has already determined the signification of vocal sounds, he concludes from what has been established that a name is a significant vocal sound.  4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*, quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  But vocal sound is a natural thing, whereas a name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name, rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia* sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that while it is true that artificial things are in the genus of substance on the part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case) as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e., in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose. Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore, that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as signifying artificial forms in the abstract”]. 6. Tertio, Aristotele ponit secundam differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt nomen a vocibus signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum* [gemitus infirmi] et voces brutorum animalium. 7. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. The fourth part is the third difference, i.e., without time, which differentiates the name from the verb. This, however, seems to be false, for the name "day” or "year” signifies time. But there are three things that can be considered with respect to time; first, time itself, as it is a certain kind of thing or reality, and then it can be signified by a name just like any other thing; secondly, that which is measured by time, insofar as it is measured by time. Motion, which consists of action and passion, is what is measured first and principally by time, and therefore the verb, which signifies action and passion, signifies with time. Substance considered in itself, which a name or a pronoun signify, is not as such measured by time, but only insofar as it is subjected to motion, and this the participle signifies. The verb and the participle, therefore, signify with time, but not the name and pronoun. The third thing that can be considered is the very relationship of time as it measures. This is signified by adverbs of time such as "tomorrow,” "yesterday,” and others of this kind. 8 Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. The fifth part is the fourth difference, no part of which is significant separately, that is, separated from the whole name; but it is related to the signification of the name according as it is in the whole. The reason for this is that signification is a quasi-form of the name. But no separated part has the form of the whole; just as the hand separated from the man does not have the human form. This difference distinguishes the name from speech, some parts of which signify separately, as for example in "just man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine tempore, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero nonquemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae. When he says, for in the name "Campbell” the part "bell” as such signifies nothing, etc., he explains the definition. First he explains the last part of the definition; secondly, the third part, by convention. The first two parts were explained in what preceded, and the fourth part, without time, will be explained later in the section on the verb. And first he explains the last part by means of a composite name; then he shows what the difference is between simple and composite names where he says, However the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc. First, then, he shows that a part separated from a name signifies nothing. To do this he uses a composite name because the point is more striking there. For in the name "Campbell” the part "bell” per se signifies nothing, although it does signify something in the phrase "camp bell.” The reason for this is that one name is imposed to signify one simple conception; but that from which a name is imposed to signify is different from that which a name signifies. For example, the name "pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis. To bring out the point St. Thomas is making herean equivalent English word of Latin derivation, i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from pedis and grus [crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept of a certain thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is imposed to signify a simple concept—does not signify a part of the composite conception from which the name is imposed to signify. Speech, on the other hand, does signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a part of the composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When he says, However, the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple names are not the same as composite names in this respect because in simple names a part is in no way significant, either according to truth or according to appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum nomen est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat *naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est signum. Et hoc *signi-ficat* cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris *signi-FICARI* non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter* *signi-FICANT*. Nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter. --- 12. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse opinions about this. Some men said that names in no way signify naturally and that it makes no difference which things are signified by which names. Others said that names signify naturally in every way, as if names were natural likenesses of things. Still others said names do not signify naturally, i.e., insofar as their signification is not from nature, as Aristotle maintains here, but that names do signify naturally in the sense that their signification corresponds to the natures of things, as Plato held. The fact that one thing is signified by many names is not in opposition to Aristotle’s position here, for there can be many likenesses of one thing; and similarly, from diverse properties many diverse names can be imposed on one thing. When Aristotle says, but none of them is a name, he does not mean that the sounds of animals are not named, for we do have names for them; "roaring,” for example, is said of the sound made by a lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is that no such sound is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,” however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that "non-man” is not a name because every name signifies some determinate nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say "non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate person, because it is imposed from the negation of man, which negation is predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be said indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it would require at least an existing subject, but since it is imposed from a negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not speech since a part of such a word does not signify something separately, just as a part of a composite name does not signify separately; and they are not negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and all such expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of names from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be a name principally, for the imposition of the name to signify something was made through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the name because they fall away from the nominative as a kind of source of their declension. On the other hand, the nominative, because it does not fall away, is said to be erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with which the grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the interior conception of the mind; and they said they were also called erect because nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands erect, as when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n. 15Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.” Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection could be made against Aristotle’s position in this portion of his text. If the infinite name and the cases of the name are not names, then the definition of the name (which belongs to these) is not consistently presented. There are two ways of answering this objection. We could say, as Ammonius does, that Aristotle defines the name broadly, and afterward limits the signification of the name by subtracting these from it. Or, we could say that the definition Aristotle has given does not belong to these absolutely, since the infinite name signifies nothing determinate, and the cases of the name do not signify according to the first intent of the one instituting the name, as has been said. V. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. After determining the nature of the name the Philosopher now determines the nature of the verb. First he defines the verb; secondly, he excludes certain forms of verbs from the definition, where he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc.; finally, he shows in what the verb and name agree where he says, Verbs in themselves, said alone, are names, etc. First, then, he defines the verb and immediately begins to explain the definition where he says, I mean by "signifies with time,” etc. 2 Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. In order to be brief, Aristotle does not give what is common to the name and the verb in the definition of the verb, but leaves this for the reader to understand from the definition of the name. He posits three elements in the definition of the verb. The first of these distinguishes the verb from the name, for the verb signifies with time, the name without time, as was stated in its definition. The second element, no part of which signifies separately, distinguishes the verb from speech. 3 Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari. This second element was also given in the definition of the name and therefore it seems that this second element along with vocal sound significant by convention, should have been omitted. Ammonius says in reply to this that Aristotle posited this in the definition of the name to distinguish it from speech which is composed of names, as in "Man is an animal”; but speech may also be composed of verbs, as in "To walk is to move”; therefore, this also bad to be repeated in the definition of the verb to distinguish it from speech. We might also say that since the verb introduces the composition which brings about speech signifying truth or falsity, the verb seems to be more like speech (being a certain formal part of it) than the name which is a material and subjective part of it; therefore this had to be repeated. 4 Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the name, but also from the participle, which also signifies with time. He makes this distinction when he says, and it is a sign of something said of something else, i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and the predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the infinitive mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to be moving.” Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when they are used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage articles are added to them as in the case of names.) The reason for this is that it is proper to the name to signify something as existing per se, but proper to the verb to signify action or passion. Now there are three ways of signifying action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in the abstract and is thus signified by a name such as "action,” "passion,” "walking,” "running,” and so on. It can also be signified in the mode of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in it as in a subject; in this way action or passion is signified by the verbs of the different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way in which action or passion can be signified—the very process or inherence of action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say, "‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb "matures” is not taken formally according as its signification is referred to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs and all parts of speech are taken with the force of names.  7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that "maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’ With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something said of something else. He does not explain the second part, no part of which signifies separately, because an explanation of it has already been made in connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb signifying action, signifies with time, because to be measured by time is proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already mentioned that to signify with time is to signify something measured in time. Hence it is one thing to signify time principally, as a thing, which is appropriate to the name; however, it is another thing to signify with time, which is not proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a sign of something that belongs to something, i.e., of something present in a subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a sign of something said of another, and this not only because the verb always signifies that which is predicated but also because there must be a verb in every predication, for the verb introduces the composition by which the predicate is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter. The last phrase of this portion of the text presents a difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” For it seems that something is said of a subject when it is predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject, when it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is white.” But if verbs signify action or passion (which are accidents), it follows that they always signify what is in a subject. It is useless, therefore, to say "belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In answer to this Boethius says that both pertain to the same thing, for an accident is predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle, however, uses a disjunction, which seems to indicate that he means something different by each. Therefore it could be said in reply to this that when Aristotle says the verb is always a sign of those things that are predicated of another” it is not to be understood as though the things signified by verbs are predicated. For predication seems to pertain more properly to composition; therefore, the verbs themselves are what are predicated, rather than signify predicates.” The verb, then, is always a sign that something is being predicated because all predication is made through the verb by reason of the composition introduced, whether what is being predicated is predicated essentially or accidentally. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: et hoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis. When he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc., he excludes certain forms of verbs from the definition of the verb. And first he excludes the infinite verb, then the verbs of past and future time. "Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking be called verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode of action or passion. But these words remove action or passion rather than signify a determinate action or passion. Now while they cannot properly be called verbs, all the parts of the definition of the verb apply to them. First of all the verb signifies time, because it signifies to act or to be acted upon; and since these are in time so are their privations; whence rest, too, is measured by time, as is said in VI Physicorum [3:234a 24–234b 9; & 8: 238a 23–239b 41]. Again, the infinite verb is always posited on the part of the predicate just as the verb is; the reason is that negation is reduced to the genus of affirmation. Hence, just as the verb, which signifies action or passion, signifies something as existing in another, so the foresaid words signify the remotion of action or passion. 11 Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum. Now someone might object that if the definition of the verb applies to the above words, then they are verbs. In answer to this it should be pointed out that the definition which has been given of the verb is the definition of it taken commonly. Insofar as these words fall short of the perfect notion of the verb, they are not called verbs. Before Aristotle’s time a name bad not been imposed for a word that differs from verbs as these do. He calls them infinite verbs because such words agree in some things with verbs and yet fall short of the determinate notion of the verb. The reason for the name, he says, is that an infinite verb can be said indifferently of what is or what is not; for the adjoined negation is taken, not with the force of privation, but with the force of simple negation since privation supposes a determinate subject. Infinite verbs do differ from negative verbs, however, for infinite verbs are taken with the force of one word, negative verbs with the force of two. 12 Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid. When he says, Likewise, "has matured” and "will mature” are not verbs, but modes of verbs, etc., he excludes verbs of past and future time from the definition. For just as infinite verbs are not verbs absolutely, so "will mature,” which is of future time, and "has matured,” of past time, are not verbs. They are cases of the verb and differ from the verb—which signifies with present time—by signifying time before and after the present. Aristotle expressly says "present time” and not just "present” because he does not mean here the indivisible present which is the instant; for in the instant there is neither movement, nor action, nor passion. Present time is to be taken as the time that measures action which has begun and has not yet been terminated in act. Accordingly, verbs that signify with past or future time are not verbs in the proper sense of the term, for the verb is that which signifies to act or to be acted upon and therefore strictly speaking signifies to act or to be acted upon in act, which is to act or to be acted upon simply, whereas to act or to be acted upon in past or future time is relative. 13 Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. It is with reason that verbs of past or future time are called cases of the verb signifying with present time, for past or future are said with respect to the present, the past being that which was present, the future, that which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although the inflection of the verb is varied by mode, time, number, and person, the variations that are made in number and person do not constitute cases of the verb, the reason being that such variation is on the part of the subject, not on the part of the action. But variation in mode and time refers to the action itself and hence both of these constitute cases of the verb. For verbs of the imperative or optative modes are called cases as well as verbs of past or future time. Verbs of the indicative mode in present time, however, are not called cases, whatever their person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. He points out the conformity between verbs and names where he says, Verbs in themselves, said alone, are names. He proposes this first and then manifests it. He says then, first, that verbs said by themselves are names. Some have taken this to mean the verbs that are taken with the force of names, either verbs of the infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of another mode, as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be what Aristotle means, for it does not correspond to what he says next. Therefore "name” must be taken in another way here, i.e., as it commonly signifies any word whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to act or to be acted upon is also a certain thing, verbs themselves as they name, i.e., as they signify to act or to be acted upon, are comprehended under names taken commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing under a determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as existing per se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says, and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify something; then by showing that, like names, they do not signify truth or falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to produce something understood in the mind of the one who hears it. To show, then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example, if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above, and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the intellect with respect to the first operation, which is the simple conception of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was undetermined before the name or the verb was being uttered and its utterance terminated, is set at rest. Neither the name nor the verb said by itself, however, determines the intellect in respect to the second operation, which is the operation of the intellect composing and dividing; nor do the verb or the name said alone set the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18 Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately adds, but they do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do not yet signify something by way of composition and division, or by way of truth or falsity. This is the second thing he intends to prove, and he proves it by the verbs that especially seem to signify truth or falsity, namely the verb to be and the infinite verb to non-be, neither of which, said by itself, signifies real truth or falsity; much less so any other verbs. This could also be understood in a more general way, i.e., that here he is speaking of all verbs; for he says that the verb does not signify whether a thing is or is not; he manifests this further, therefore, by saying that no verb is significative of a thing’s being or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although every finite verb implies being, for "to run” is "to be running,” and every infinite verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be non-running,” nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing is not. 19 Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It should be noted that the Greek text has the word "being” in place of "is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens] itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the following way: Aristotle says being itself is nothing because "being” [ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used by itself signifies nothing unless something is added to determine its signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for another. Thirdly, such an explanation does not have much application here. Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens] itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or "wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived apart from the things composing it. This explanation does not seem to be consistent with the text either, for if "being” itself does not signify a thing, but only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is neither a name nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained in another way. He says "being itself is nothing” means that it does not signify truth or falsity. And the reason for this is given when Aristotle says, it signifies with a composition. The "signifies with,” according to Ammonius, does not mean what it does when it is said that the verb signifies with time; "signifies with,” means here signifies with something, i.e., joined to another it signifies composition, which cannot be understood without the extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being” here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we should note that he has just said that the verb does not signify that a thing exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens] signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would "to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb "is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the composing things. The reason for this is that an understanding of the composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies with composition; for it does not signify composition principally but consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly, whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,” either absolutely or relatively; absolutely, according to present time, relatively, according to other times; and for this reason the verb "is” signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is, which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus. First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc.  2 Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound. This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the definition of speech because the signification of speech differs from that of the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought, whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which some of the parts are significant separately; for a part of a name taken separately does not signify anything per se, except in the case of a name composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of the parts are significant, and not, a part of which is significant separately; this is to exclude negations and the other words used to unite categorical words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Aspasius objects to this definition because it does not seem to belong to all parts of speech. There is a kind of speech he says, in which some of the parts signify as an affirmation; for instance, "If the sun shines over the earth, it is day,” and so in many other examples. Porphyry says in reply to this objection that in whatever genus there is something prior and posterior, it is the prior thing that has to be defined. For example, when we give the definition of a species—say, of man—the definition is understood of that which is in act, not of that which is in potency. Since, then, in the genus of speech, simple speech is prior, Aristotle defines it first. Or, we can answer the objection in the way Alexander and Ammonious do. They say that speech is defined here commonly. Hence what is common to simple and composite speech ought to be stated in the definition. Now to have parts signifying something as an affirmation belongs only to composite speech, but to have parts signifying something in the mode of a word and not in the mode of an affirmation is common to simple and composite speech. Therefore this had to be posited in the definition of speech. We should not conclude, however, that it is of the nature of speech that its part not be an affirmation, but rather that it is of the nature of speech that its parts be something that signify in the manner of words and not in the manner of an affirmation. Porphyry’s solution reduces to the same thing as far as meaning is concerned, although it is a little different verbally. Aristotle frequently uses "to say” for "to affirm,” and hence to prevent "word” from being taken as "affirmation” when he says that a part of speech signifies as a word, he immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to Porphyry’s view—"word” is not taken here in the sense in which it is the same as "affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought that this definition could only apply to perfect speech because there only seem to be parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house to which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole, some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a house and organic members to an animal; others, however, are referred to it through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to the house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the mediate organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech, therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech are significant, he means that some of the parts signify something in the way the name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet does not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to be or not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in act, but only in potency; for it is possible to add something that will make it an affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify anything. This could be referred to what has just been said and the meaning would be that the name will be an affirmation or negation if something is added to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he says next is not compatible with this meaning and therefore these words should be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters. Hence, what is being said here is that a part of speech is significant separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,” for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying part. Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite names, which are imposed to signify a simple thing from some composite understanding, the parts appear to signify something, although according to truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e., composite names, the syllables may be words contributing to the composition of a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and according as they are words; but as parts of this kind of name they do not signify something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove their point they used the following argument. The instruments of a natural power must themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is necessary; but the interpretive power is natural to man; therefore, its instruments are natural. Now the instrument of the interpretive power is speech since it is through speech that expression is given to the conception of the mind; for we mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore, speech is something natural, signifying, not from human institution, but naturally. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is said to be that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is significant, but not as an instrument of a power, that is, of a natural power; for the natural instruments of the interpretive power are the throat and lungs, by which vocal sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters and articulate sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects of the interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the motive power uses natural instruments such as arms and hands to make an artificial work, so the interpretative power uses the throat and other natural instruments to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things, but certain artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that speech signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will and reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as instruments, although they do not signify naturally. VII. 1. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidemrelinquantur. Having defined the principles of the enunciation, the Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This is divided into two parts. In the first he examines the enunciation absolutely; in the second the diversity of enunciations resulting from an addition to the simple enunciation. The latter is treated in the second book, where he says, Since an affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first part, on the enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first he defines enunciation; in the second he divides it where he says, First affirmation, then negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the third he treats of the opposition of its parts to each other, where he says, Since it is possible to enunciate that what belongs to a subject does not belong to it, etc. In the portion of the text treated in this lesson, which is concerned with the definition of enunciation, he first states the definition, then shows that this definition differentiates the enunciation from other species of speech, where he says, Truth and falsity is not present in all speech however, etc., and finally indicates that only the enunciation is to be treated in this book where he says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. 2 Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The point has just been made that speech, although it is not an instrument of a power operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative speech by the signification of the true and false: Yet not all speech is enunciative; but only speech in which there is truth or falsity. Note with what remarkable brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation: speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae [1027b 17–1028a 5]), and in the thing as in a cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b 9])—for it is from the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not being so, that speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum. Next he shows that this definition differentiates the enunciation from other speech, when he says, Truth or falsity is not present in all speech however, etc. In the case of imperfect or incomplete speech it is clear that it does not signify the true or false, since it does not make complete sense to the mind of the hearer and therefore does not completely express a judgment of reason in which the true or false consists. Having made this point, however, it must be noted that there are five species of perfect speech that are complete in meaning: enunciative, deprecative, imperative, interrogative, and vocative. (Apropos of the latter it should be noted that a name alone in the vocative case is not vocative speech, for some of the parts must signify something separately, as was said above. So, although the mind of the hearer is provoked or aroused to attention by a name in the vocative case, there is not vocative speech, unless many words are joined together, as in "O good Peter!”) Of these species of speech the enunciative is the only one in which there is truth or falsity, for it alone signifies the conception of the intellect absolutely and it is in this that there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. But the intellect, or reason, does not just conceive the truth of a thing. It also belongs to its office to direct and order others in accordance with what it conceives. Therefore, besides enunciative speech, which signifies the concept of the mind, there had to be other kinds of speech to signify the order of reason by which others are directed. Now, one man is directed by the reason of another in regard to three things: first, to attend with his mind, and vocative speech relates to this; second, to respond with his voice, and interrogative speech relates to this; third, to execute a work, and in relation to this, imperative speech is used with regard to inferiors, deprecative with regard to superiors. Optative speech is reduced to the latter, for a man does not have the power to move a superior except by the expression of his desire. These four species of speech do not signify the conception of the intellect in which there is truth or falsity, but a certain order following upon this. Consequently truth or falsity is not found in any of them, but only in enunciative speech, which signifies what the mind conceives from things. It follows that all the modes of speech in which the true or false is found are contained under the enunciation, which some call indicative or suppositive. The dubitative, it should be noted, is reduced to the interrogative, as the optative is to the deprecative. 6 Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Then Aristotle says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. Here he points out that only enunciative speech is to be treated; the other four species must be omitted as far as the present intention is concerned, because their investigation belongs rather to the sciences of rhetoric or poetics. Enunciative speech belongs to the present consideration and for the following reason: this book is ordered directly to demonstrative science, in which the mind of man is led by an act of reasoning to assent to truth from those things that are proper to the thing; to this end the demonstrator uses only enunciative speech, which signifies things according as truth about them is in the mind. The rhetorician and the poet, on the other hand, induce assent to what they intend not only through what is proper to the thing but also through the dispositions of the hearer. Hence, rhetoricians and poets for the most part strive to move their auditors by arousing certain passions in them, as the Philosopher says in his Rhetorica [I, 2: 1356a 2, 1356a 14; III, 1: 1403b 12]. This kind of speech, therefore, which is concerned with the ordination of the hearer toward something, belongs to the consideration of rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the consideration of the grammarian as regards a suitable construction of the vocal sounds. VIII. 1. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the enunciation the Philosopher now divides it. First he gives the division, and then manifests it where he says, Every enunciative speech however, must contain a verb, etc. 2 Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam. It should be noted that Aristotle in his concise way gives two divisions of the enunciation. The first is the division into one simply and one by conjunction. This parallels things outside of the soul where there is also something one simply, for instance the indivisible or the continuum, and something one either by aggregation or composition or order. In fact, since being and one are convertible, every enunciation must in some way be one, just as every thing is. 3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione. The other is a subdivision of the enunciation: the division of it as it is one into affirmative and negative. The affirmative enunciation is prior to the negative for three reasons, which are related to three things already stated. It was said that vocal sound is a sign of thought and thought a sign of the thing. Accordingly, with respect to vocal sound, affirmative enunciation is prior to negative because it is simpler, for the negative enunciation adds a negative particle to the affirmative. With respect to thought, the affirmative enunciation, which signifies composition by the intellect, is prior to the negative, which signifies division, for division is posterior by nature to composition since division is only of composite things—just as corruption is only of generated things. With respect to the thing, the affirmative enunciation, which signifies to be is prior to the negative, which signifies not to be, as the having of something is naturally prior to the privation of it. 4 Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. What he says, then, is this: Affirmation, i.e., affirmative enunciation, is one and the first enunciative speech. And in opposition to first he adds, then negation, i.e., negative speech, for it is posterior to affirmative, as we have said. In Opposition to one, i.e., one simply, he adds, certain others are one, not simply, but one by conjunction. 5 Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium. From what Aristotle says here Alexander argues that the division of enunciation into affirmation and negation is Dot a division of a genus into species, but a division of a multiple name into its meanings; for a genus is not predicated according to the prior and posterior, but is predicated univocally of its species; this is the reason Aristotle would not grant that being is a common genus of all things, for it is predicated first of substance, and then of the nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. However, in the division of that which is common, one of the dividing members can be prior to another in two ways: according to the proper notions” or natures of the dividing members, or according to the participation of that common notion that is divided in them. The first of these does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness, according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident, which is being through another and in another. Applying this distinction to the matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way, i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc., he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before he explains the first division, i.e., into one simply and one by conjunction, he states certain things that are necessary for the evidence of the explanation, and then explains the division where he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name, without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech, and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or "has been” or something of the kind, is not added to the notion of man, i.e., to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. But, one might ask, why mention the verb and not the name, for the enunciation consists of a name and a verb? This can be answered in three ways. First of all because enunciative speech is not attained without a verb or a mode of the verb, but it is without a name, for instance, when infinitive forms of the verb are used in place of names, as in "To run is to be moving.” A second and better reason for speaking only of the verb is that the verb is a sign of what is predicated of another. Now the predicate is the principal part of the enunciation because it is the formal part and completes it. This is the reason the Greeks called the enunciation a categorical, i.e., predicative, proposition. It should also be noted that denomination is made from the form which gives species to the thing. He speaks of the verb, then, but not the name, because it is the more principal and formal part of the enunciation. A sign of this is that the categorical enunciation is said to be affirmative or negative solely by reason of the verb being affirmed or denied, and the conditional enunciation is said to be affirmative or negative by reason of the conjunction by which it is denominated being affirmed or denied. A third and even better reason is that Aristotle did not intend to show that the name or verb is not sufficient for a complete enunciation, for he explained this earlier. Rather, he is excluding a misunderstanding that might arise from his saying that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction. Some might think this means that the kind that is one simply, lacks all composition. But he excludes this by saying that there must be a verb in every enunciation; for the verb implies composition and composition cannot be understood apart from the things composed, as he said earlier.” The name, on the other hand, does not imply composition and therefore did not have to be mentioned. 10 Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. The other, point necessary for the evidence of the first division is made where he says, but then the question arises as to why the definition "terrestrial biped animal” is something one, etc. He indicates by this that "terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is one and not many. The reason it is one is the same as in the case of all definitions but, he says, to assign the reason belongs to another subject of inquiry. It belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII and VIII Metaphysicae [VII, 12: 1037b 7; VIII, 6: 1045a 6] which is this: the difference does not accrue to the genus accidentally but per se and is determinative of it in the way in which form determines matter; for the genus is taken from matter, the difference from form. Whence, just as one thing—not many—comes to be from form and matter, so one thing comes to be from the genus and difference. 11 Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. The reason for the unity of this definition might be supposed by some to be only that of juxtaposition of the parts, i.e., that "terrestrial biped animal” is said to be one only because the parts are side by side without conjunction or pause. But he excludes such a notion of its unity. Now it is true that non-interruption of locution is necessary for the unity of a definition, for if a conjunction were put between the parts the second part would not determine the first immediately and the many in locution would consequently signify many in act. The pause used by rhetoricians in place of a conjunction would do the same thing. Whence it is a requirement for the unity of a definition that its parts be uttered without conjunction and interpolation, the reason being that in the natural thing, whose definition it is, nothing mediates between matter and form. However, non-interruption of locution is not the only thing that is needed for unity of the definition, for there can be continuity of utterance in regard to things that are not one simply, but are accidentally, as in white musical man.” Aristotle has therefore manifested very subtly that absolute unity of the enunciation is not impeded either by the composition which the verb implies or by the multitude of names from which a definition is established. And the reason is the same in both cases, i.e., the predicate is related to the subject as form to matter, as is the difference to a genus; but from form and matter a thing that is one simply comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis. He begins to explain the division when he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. First he makes the common thing that is divided evident, i.e., the enunciation as it is one; secondly, he makes the parts of the division evident according to their own proper notions, where he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc. After he has made the division of the common thing evident, i.e., enunciation, he then concludes that the name and the verb are excluded from each member of the division where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc. Now plurality is opposed to unity. Therefore he is going to manifest the unity of the enunciation through the modes of plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. He begins his explanation by saying that enunciation is either one absolutely, i.e., it signifies one thing said of one thing, or one relatively, i.e., it is one by conjunction. In opposition to these are the enunciations that are many, either because they signify not one but many things, which is opposed to the first mode of unity or because they are uttered without a connecting particle, which is opposed to the second mode of unity. 14 Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Boethius interprets this passage in the following way. "Unity” and "plurality” of speech refers to what is signified, whereas "simple” and "composite” is related to the vocal sounds. Accordingly, an enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing is signified by the composition of name and verb, as in "Man is white.” Sometimes it is one and composite. In this case it signifies one thing, but is composed either from many terms, as in "A mortal rational animal is running,” or from many enunciations, as in conditionals that signify one thing and not many. On the other hand, sometimes there is plurality along with simplicity, namely, when a name signifying many things is used, as in "The dog barks,” in which case the enunciation is many because it signifies many things [i.e., it signifies equivocally], but it is simple as far as vocal sound is concerned. But sometimes there is plurality and composition, namely, when many things are posited on the part of the subject or predicate from which one thing does not result, whether a conjunction intervenes or not, as in "The musical white man is arguing.” This is also the case if there are many enunciations joined together, with or without connecting particles as in "Socrates runs, Plato discusses. According to this exposition the meaning of the passage in question is this: an enunciation is one when it signifies one thing said of one thing, and this is the case whether the enunciation is one simply or is one by conjunction; an enunciation is many when it signifies not one but many things, and this not only when a conjunction is inserted between either the names or verbs or between the enunciations themselves, but even if there are many things that are not conjoined. In the latter case they signify many things either because an equivocal name is used or because many names signifying many things from which one thing does not result are used without conjunctions, as in "The white grammatical logical man is running.” 15 Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. However, this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. First of all the disjunction he inserts seems to indicate that he is distinguishing between speech signifying one thing and speech which is one by conjunction. In the second place, he has just said that terrestrial biped animal is something one and not many. Moreover, what is one by conjunction is not one, and not many, but one from many. Hence it seems better to say that since he has already said that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction be is showing here what one enunciation is. Having said, then, that many names joined together are something one as in the example "terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation is to be judged as one, not from the unity of the name but from the unity of what is signified, even if there are many names signifying the one thing; and if an enunciation which signifies many things is one, it will not be one simply, but one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial biped animal is risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the first exposition would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are said to be many which signify many things. Many things may be signified in some one common thing however; when I say, for example, "An animal is a sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal, but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and not one. It would be better to say, however, that the and not one is added because of definition, which signifies many things that are one. The mode of plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is sometimes many because it signifies many things, and yet is not one by conjunction; a case in point would be an enunciation in which a name signifying many things is used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he excludes the name and the verb from the unity of speech. His reason for making this point is that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it signifies one thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one thing in the same way the name or verb signify one thing. To prevent such a misunderstanding he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a locution which is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem that Aristotle himself imposed the name "phasis” [word] to signify such parts of the enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by pointing out that we do not say that a person is enunciating when be signifies something in vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To manifest this he suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use it to reply to questions; for example if someone asks "Who is it who discusses,” we answer "The teacher.” At other times we use the enunciation, not in reply to a question, but of our own accord, as when we say "Peter is running.” What Aristotle is saying, then, is that the person who signifies something one by a name or a verb is not enunciating in the way in which either the person who replies to a question or who utters an enunciation of his own accord is enunciating. He introduces this point because the simple name or verb, when used in reply to a question seems to signify truth or falsity and truth or falsity is what is proper to the enunciation. Truth and falsity is not proper, however, to the name or verb unless it is understood as joined to another part proposed in a question; if someone should ask, for example, "Who reads in the schools,” we would answer, "The teacher,” understanding also, "reads there.” If, then, something expressed by a name or verb is not an enunciation, it is evident that the enunciation does not signify one thing in the same way as the name or verb signify one thing. Aristotle draws this by way of a conclusion from, Every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum. Then when he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc., he manifests the division of enunciation by the natures of the parts. He has said that the enunciation is one when it signifies one thing or is one by conjunction. The basis of this division is the nature of one, which is such that it can be divided into simple and composite. Hence, Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided, which are said to be one either because the enunciation signifies one thing simply or because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind, i.e., the enunciation that signifies one thing. And to exclude the understanding of this as signifying one thing in the same way as the name or the verb signifies one thing he adds, something affirmed of something, i.e., by way of composition, or something denied of something, i.e., by way of division. The other kind—the enunciation that is said to be one by conjunction—is composite, i.e., speech composed of these simple enunciations. In other words, he is saying that the unity of the enunciation is divided into simple and composite, just as one is divided into simple and composite. 19 Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti. He manifests the second division of the enunciation where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, i.e., the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division that belongs primarily to the simple enunciation and consequently to the composite enunciation; therefore, in order to suggest the basis of the division he says that a simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs to a subject, which pertains to affirmation, or does not belong to a subject, which pertains to negation. And to make it clear that this is not to be understood only of present time he adds, according to the divisions of time, i.e., this holds for other times as well as the present. 20 Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Alexander thought that Aristotle was defining the enunciation here and because he seems to put affirmation and negation in the "definition” he took this to mean that enunciation is not the genus of affirmation and negation, for the species is never posited in the definition of the genus. Now what is not predicated univocally of many (namely, because it does not signify something one that is common to many) cannot be made known except through the many that are signified. "One” is not said equivocally of the simple and composite, but primarily and consequently, and hence Aristotle always used both "simple” and "composite” in the preceding reasoning to make the unity of the enunciation known. Now, here he seems to use affirmation and negation to make the enunciation known; therefore, Alexander took this to mean that enunciation is not said of affirmation and negation univocally as a genus of its species. 21 Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his customary brevity is using both the definition and its division at once. Therefore when he says that something belongs or does not belong to a subject he is not referring to the definition of enunciation but to its division. However, since the differences dividing a genus do not fall in its definition and since vocal sound signifying is not a sufficient definition of the enunciation, Porphyry thought it would be better to say that the whole expression, vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, is the definition of the enunciation. According to his exposition this is not affirmation and negation that is posited in the definition, but capacity for affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of, which is to be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then immediately following this he defines affirmation and negation in terms of themselves when he says, Affirmation is the enunciation of something about something; negation the enunciation of something separated from something. But just as the species should not be stated in the definition of the genus, so neither should the properties of the species. Now to signify to be is the property of the affirmation, and to signify not to be the property of the negation. Therefore Ammonius thought it would be better to say that the enunciation was not defined here, but only divided. For the definition was posited above when it was said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity—in which definition no mention is made of either affirmation or negation. It should be noticed, however, that Aristotle proceeds very skillfully here, for he divides the genus, not into species, but into specific differences. He does not say that the enunciation is an affirmation or negation, but vocal sound signifying that something belongs to a subject, which is the specific difference of affirmation, or does not belong to a subject, which is the specific difference of negation. Then when he adds, Affirmation is the enunciation of something about something which signifies to be, and negation is the enunciation of something separated from something, which signifies not to be, he establishes the definition of the species by joining the differences to the genus. IX. 1. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains the opposition of affirmation and negation absolutely. 2 Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. In relation to the first point, that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, the Philosopher assumes a twofold diversity of enunciation. The first arises from the very form or mode of enunciating. According to this diversity, enunciation is either affirmative—in which it is enunciated that something is — or negative — in which it is signified that something is not. The second is the diversity that arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought and of the enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated that something is or is not, if there is agreement with reality, there is true speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation can therefore be varied in four ways according to a combination of these two divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way, it is enunciated that something is what in reality it is not. This is characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false before the true, and among these he states the negative before the affirmative. He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative, and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true affirmative—which is opposed to the false negative he gave first—and that what is, namely, in reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is opposed to the false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is not. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In saying what is and what is not, Aristotle is not referring only to the existence or nonexistence of a subject. What he is saying is that the reality signified by the predicate is in or is not in the reality signified by the subject. For what is signified in saying, "The raven is white,” is that what is not, is, although the raven itself is an existing thing. 5 Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. These four differences of enunciations are found in propositions in which there is a verb of present time and also in enunciations in which there are verbs of past or future time. He said earlier that every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb. Here he makes this point in relation to the four differences of enunciations: similarly it is possible to enunciate these, i.e., that the enunciation be varied in diverse ways in regard to those times outside of the present, i.e., with respect to the past or future, which are in a certain way extrinsic in respect to the present, since the present is between the past and the future. 6 Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Since there are these four differences of enunciation in past and future time as well as in present time, it is possible to deny everything that is affirmed and to affirm everything that is denied. This is evident from the premises, for it is only possible to affirm either that which is in reality according to past, present, or future time, or that which is not; and it is possible to deny all of this. It is clear, then, that everything that is affirmed can be denied or vice versa. Now, since affirmation and negation are per se opposed, i.e., in an opposition of contradiction, it follows that any affirmation would have a negation opposed to it, and conversely. The contrary of this could happen only if an affirmation could affirm something that the negation could not deny. 7 Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. When he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains what absolute opposition of affirmation and negation is. He does this first through the name; secondly, through the definition where he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. "Contradiction,” he says, is the name imposed for the kind of opposition in which a negation is opposed to an affirmation and conversely. By saying We will call this "contradiction,” we are given to understand—as Ammonius points out—that he has himself imposed the name "contradiction” for the opposition of affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Then he defines contradiction when he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. Since contradiction is the opposition of affirmation and negation, as he has said, whatever is required for the opposition of affirmation and negation is required for contradiction. Now, opposites must be about the same thing and since the enunciation is made up of a subject and predicate the first requirement for contradiction is affirmation and negation of the same predicate, for if we say "Plato runs” and "Plato does not discuss,” there is no contradiction. The second is that the affirmation and negation be of the same subject, for if we say "Socrates runs” and "Plato does not run,” there is no contradiction. The third requirement is identity of subject and predicate not only according to name but according to the thing and the name at once; for clearly, if the same name is not used there is not one and the same enunciation; similarly there must be identity of the thing, for as was said above, the enunciation is one when it signifies one thing said of one thing.”’ This is why he adds, not equivocally however, for identity of name with diversity of the thing—which is equivocation—is not sufficient for contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. There are also certain other things that must be observed with respect to contradiction in order that all diversity be destroyed except the diversity of affirmation and negation, for if the negation does not deny in every way the same thing that the affirmation affirms there will not be opposition. Inquiry can be made about this diversity in respect to four things: first, are there diverse parts of the subject, for if we say "An Ethiopian is white as to teeth” and "An Ethiopian is not white as to foot,” there is no contradiction; secondly, is there a diverse mode on the part of the predicate, for there is no contradiction if we say "Socrates runs slowly” and "Socrates is not moving swiftly,” or "An egg is an animal in potency” and "An egg is not an animal in act”; thirdly, is there diversity on the part of measure, for instance, of place or time, for there is no contradiction if we say "It is raining in Gaul” and "It is not raining in Italy,” or "It rained yesterday” and "It did not rain today”; fourthly, is there diversity from a relationship to something extrinsic, as when we say "Ten men are many in respect to a house, but not in respect to a court house.” Aristotle designates all of these when he adds, nor in any of the other ways that we have distinguished, i.e., that it is usual to determine in disputations against the specious difficulties of the sophists, i.e., against the fallacious and quarrelsome objections of the sophists, which he mentions more fully in I Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. The Philosopher has just said that contradiction is the opposition of the affirmation and negation of the same thing of the same subject. Following upon this he distinguishes the diverse oppositions of affirmation and negation, the purpose being to know what true contradiction is. He first states a division of enunciation which is necessary in order to assign the difference of these oppositions; then he begins to manifest the different oppositions where he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. The division he gives is taken from the difference of the subject and therefore he divides the subject of enunciations first; then he concludes with the division of enunciation, where he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular, etc. 2 Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Now the subject of an enunciation is a name or something taken in place of a name. A name is a vocal sound significant by convention of simple thought, which, in turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle distinguishes the subject of enunciation by a division of things; and he says that of things, some are universals, others singulars. He then explains the members of this division in two ways. First he defines them. Then he manifests them by example when he says, "man” is universal, "Plato” singular. 3 Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. There is a difficulty about this division, for the Philosopher proves in VII Metaphysicae [14: 1039a 23] that the universal is not something existing outside of the thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that second substances are only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the division of things into universals and singulars does not seem to be consistent, since according to him there are no things that are universal; on the contrary, all things are singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. The things divided here, however, are things as signified by names—which names are subjects of enunciations. Now, Aristotle has already said that names signify things only through the mediation of the intellect; therefore, this division must be taken as a division of things as apprehended by the intellect. Now in fact, whatever is joined together in things can be distinguished by the intellect when one of them does not belong to the notion of the other. In any singular thing, we can consider what is proper to the thing insofar as it is this thing, for instance, what is proper to Socrates or to Plato insofar as he is this man. We can also consider that in which it agrees with certain other things, as, that Socrates is an animal, or man, or rational, or risible, or white. Accordingly, when a thing is denominated from what belongs only to this thing insofar as it is this thing, the name is said to signify a singular. When a thing is denominated from what is common to it and to many others, the name is said to signify a universal since it signifies a nature or some disposition which is common to many. Immediately after giving this division of things, then—not of things absolutely as they are outside of the soul, but as they are referred to the intellect—Aristotle defines the universal and the singular through the act of the intellective soul, as that which is such as to be predicated of many or of only one, and not according to anything that pertains to the thing, that is, as if he were affirming such a universal outside of the soul, an opinion relating to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. There is a further point we should consider in relation to this portion of the text. The intellect apprehends the thing—understood according to the thing’s essence or definition. This is the reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10] that the proper object of the intellect is what the thing essentially is. Now, sometimes the proper nature of some understood form is not repugnant to being in many but is impeded by something else, either by something occurring accidentally (for instance if all men but one were to die) or because of the condition of matter; the sun, for instance, is only one, not because it is repugnant to the notion of the sun to be in many according to the condition of its form, but because there is no other matter capable of receiving such a form. This is the reason Aristotle did not say that the universal is that which is predicated of many, but that which is of such a nature as to be predicated of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Now, since every form which is so constituted as to be received in matter is communicable to many matters, there are two ways in which what is signified by a name may not be of such a nature as to be predicated of many: in one way, because a name signifies a form as terminated in this matter, as in the case of the name "Socrates” or "Plato,” which signifies human nature as it is in this matter; in another way, because a name signifies a form which is not constituted to be received in matter and consequently must remain per se one and singular. Whiteness, for example, would be only one if it were a form not a existing in matter, and consequently singular. This is the reason the Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if there were separated species of things, as Plato held, they would be individuals. 7 Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to be predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s words. Notice that he divides things into universal and particular, not names. It should be understood from this that what is said to be universal not only has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on another man it will signify human nature in other matter and thus another signification of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it, he infers the division of the enunciation. Since something is always enunciated of some thing, and of things some are universals and some singulars, it follows that sometimes it will be enunciated that something belongs or does not belong to something universal, sometimes to something singular. The construction of the sentence was interrupted by the explanation of universal and singular but now we can see the meaning: Since some of the things we are concerned with are universal and others singular... we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it. 9 Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est.                  9. In relation to the point being made here we have to consider the four ways in which something is enunciated of the universal. On the one band, the universal can be considered as though separated from singulars, whether subsisting per se as Plato held or according to the being it has in the intellect as Aristotle held; considered thus, something can be attributed to it in two ways. Sometimes we attribute something to it which pertains only to the operation of the intellect; for example when we say, "Man,” whether the universal or the species, "is predicable” of many. For the intellect forms intentions of this kind, attributing them to the nature understood according as it compares the nature to the things outside of the mind. But sometimes we attribute something to the universal thus considered (i.e., as it is apprehended by the intellect as one) which does not belong to the act of the intellect but to the being that the nature apprehended has in things outside of the soul; for example, when we say "Man is the noblest of creatures.” For this truly belongs to human nature as it is in singulars, since any single man is more noble than all irrational creatures; yet all singular men are not one man outside of the mind, but only in the apprehension of the intellect; and the predicate is attributed to it in this way, i.e., as to one thing. On the other hand, we attribute something to the universal as in singulars in another way, and this is twofold: sometimes it is in view of the universal nature itself; for instance, when we attribute something to it that belongs to its essence, or follows upon the essential principles, as in "Man is an animal,” or "Man is risible.” Sometimes it is in view of the singular in which the universal is found; for instance, when we attribute something to the universal that pertains to the action of the individual, as in "Man walks. Moreover, something is attributed to the singular in three ways: in one way, as it is subject to the intellect, as when we say "Socrates is a singular,” or "predicable of only one”; in another way, by reason of the common nature, as when we say "Socrates is an animal”; in the third way, by reason of itself, as when we say "Socrates is walking.” The negations are varied in the same number of ways, since everything that can be affirmed can also be denied, as was said above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the third division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an analogous division into those things of which one is predicated primarily and consequently, for one is divided according to the prior and posterior into simple and composite. The second was the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the essence. The third division is based upon the difference of the subject as predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes the diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of opposition and since these depend upon a diversity in the subject we must first consider the latter diversity. Now the universal can be considered either in abstraction from singulars or as it is in singulars, and by reason of this something is attributed in diverse modes to the universal, as we have already said. To designate diverse modes of attribution certain words have been conceived which may be called determinations or signs and which designate that something is predicated in this or that mode. But first we should note that since it is not commonly apprehended by all men that universals subsist outside of singulars there is no word in common speech to designate the mode of predicating in which something is said of a universal thus in abstraction from singulars. Plato, who held that universals subsist outside of singulars, did, however, invent certain determinations to designate the way in which something is attributed to the universal as it is outside of singulars. With respect to the species man he called the separated universal subsisting outside of singulars "man per se”’or "man itself,” and he designated other such universals in like manner. The universal as it is in singulars, however, does fall within the common apprehension of men and accordingly certain words have been conceived to signify the mode of attributing something to the universal taken in this way. 13 Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem. As was said above, sometimes something is attributed to the universal in view of the universal nature itself; for this reason it is said to be predicated of the universal universally, i.e., that it belongs to the universal according to the whole multitude in which it is found. The word "every” has been devised to designate this in affirmative predications. It designates that the predicate is attributed to the universal subject with respect to the whole of what is contained under the subject. In negative predications the word "no” has been devised to signify that the predicate is removed from the universal subject according to the whole of what is contained under it. Hence, saying nullus in Latin is like saying non ullus [not any] and in Greek??de?? [none] is like??de e?? [not one], for not a single one is understood under the universal subject from which the predicate is not removed. Sometimes something is either attributed to or removed from the universal in view of the particular. To designate this in affirmative enunciations, the word "some,” or "a certain one,” has been devised. We designate by this that the predicate is attributed to the universal subject by reason of the particular. "Some,” or "a certain one,” however, does not signify the form of any singular determinately, rather, it designates the singular under a certain indetermination. The singular so designated is therefore called the vague individual. In negative enunciations there is no designated word, but "not all” can be used. just as "no,” then, removes universally, for it signifies the same thing as if we were to say "not any,” (i.e., "not some”) so also "not all” removes particularly inasmuch as it excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 14Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae. There are, therefore, three kinds of affirmations in which something is predicated of a universal: in one, something is predicated of the universal universally, as in "Every man is an animal”; in another, something is predicated of the universal particularly, as in "Some man is white.” The third is the affirmation in which something is predicated of the universal without a determination of universality or particularity. Enunciations of this kind are customarily called indefinite. There are the same number of opposed negations. 15 De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. In the case of the singular, although something is predicated of it in a different respect, as was said above, nevertheless the whole is referred to its singularity because the universal nature is individuated in the singular; therefore it makes no difference as far as the nature of singularity is concerned whether something is predicated of the singular by reason of the universal nature, as in "Socrates is a man,” or belongs to it by reason of its singularity. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. If we add the singular to the three already mentioned there will be four modes of enunciation pertaining to quantity: universal singular, indefinite, and particular. 17 Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Aristotle assigns the diverse oppositions of enunciations according to these differences. The first opposition is based on the difference of universals and indefinites; the second bn the difference of universals and particulars, the latter being treated where he says, Affirmation is opposed to negation in the way I call contradictory, etc. With respect to the first opposition, the one between universals and indefinites, the opposition of universal propositions to each other is treated first, and then the opposition of indefinite enunciations where he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc. Finally he precludes a possible question where he says, In the predicate, however, the universal universally predicated is not true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. He says first, then, that if someone enunciates universally of a universal subject, i.e., according to the content of its universality, that it is, i.e., affirmatively, or is not, i.e., negatively, these enunciations will be contrary; as when we say, "Every man is white,” "No man is white.” And the reason is that the things that are most distant from each other are said to be contraries. For a thing is not said to be black only because it is not white but because over and beyond not being white—which signifies the remotion of white commonly—it is, in addition, black, the extreme in distance from white. What is affirmed by the enunciation "Every man is white” then, is removed by the negation "Not every man is white”; the negation, therefore, removes the mode in which the predicate is said of the subject which the word "every” designates. But over and beyond this remotion, the enunciation "No man is white” which is most distant from "Every man is white,” adds total remotion, and this belongs to the notion of contrariety. He therefore appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of opposition there is between affirmation and negation in indefinite enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally, the enunciations are not contrary but the things that are signified may be contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to this that what he said just before this was "when... of universals but not universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man, which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of it universally because the word "every” is not added, which does not itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the predicate is said universally of the subject. Therefore when "every” is added to the universal subject it always signifies that something is said of it universally. This whole exposition relates to his saying, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, they are not contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true, as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following Porphyry, relate this to the contrariety of the predicate. For sometimes the predicate may be denied of the subject because of the presence of the contrary in it, as when we say, "Man is not white” because he is black; thus it could be the contrary that is signified by "is not white.” This is not always the case, however, for we remove something from a subject even when it is not a contrary that is present in it but some mean between contraries, as in saying, "So-and-so is not white” because he is pale; or when there is a privation of act or habit or potency, as in saying, "So-and-so is non-seeing” because he lacks the power of sight or has an impediment so that he cannot see, or even because something is not of such a nature as to see, as in saying, "A stone does not see.” It is therefore possible for the things signified to be contraries, but the enunciations themselves not to be; for as is said near the end of this book, opinions that are about contraries are not contrary,”’ for example, an opinion that something is good and an opinion that something is evil. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. This does not seem to relate to what Aristotle has proposed either, for he is not treating here of contrariety of things or opinions, but of contrariety of enunciations. For this reason it seems better here to follow the exposition of Alexander. According to his exposition, in indefinite enunciations it is not determined whether the predicate is attributed to the subject universally (which would constitute contrariety of enunciations), or particularly (which would not constitute contrariety of enunciations). Accordingly, enunciations of this kind are not contrary in mode of expression. However, sometimes they have contrariety by reason of what is signified, i.e., when something is attributed to a universal in virtue of the universal nature although the universal sign is not added, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” for in virtue of what is signified these enunciations have the same force as "Every man is an animal” and "No man is an animal.” Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali. When he says, But as regards the predicate the universal universally predicated is not true, etc., he precludes a certain difficulty. He has already stated that there is a diversity in the opposition of enunciations because of the universal being taken either universally or not universally on the part of the subject. Someone might think, as a consequence, that a similar diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that the universal could be predicated both universally and not universally. To exclude this he says that in the case in which a universal is predicated it is not true that the universal is predicated universally. There are two reasons for this. The first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to the predicate in relation to its status in the enunciation; for, as has been said, the predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the subject is a material part of it. Now when a universal is asserted universally the universal itself is taken according to the relationship it has to the singulars contained under it, and when it is asserted particularly the universal is taken according to the relationship it has to some one of what is contained under it. Thus both pertain to the material determination of the universal. This is why it is not appropriate to add either the universal or particular sign to the predicate, but rather to the subject; for it is more appropriate to say, "No man is an ass” than "Every man is no ass”; andlikewise, to say, "Some man is white” than, "Man is some white.” However, sometimes philosophers put the particular sign next to the predicate to indicate that the predicate is in more than the subject, and this especially when they have a genus in mind and are investigating the differences which complete the species. There is an instance of this in II De anima [1:412a 22] where Aristotle says that the soul is a certain act.”’ The other reason is related to the truth of enunciations. This has a special place in affirmations, which would be false if the predicate were predicated universally. Hence to manifest what he has stated, he adds, for there is no affirmation in which, i.e., truly, a universal predicate will be predicated universally, i.e., in which a universal predicate is used to predicate universally, for example, "Every man is every animal.” If this could be done, the predicate "animal” according to the singulars contained under it would have to be predicated of the singulars contained under "man”; but such predication could not be true, whether the predicate is in more than the subject or is convertible with the subject; for then any one man would have to be all animals or all risible beings, which is repugnant to the notion of the singular, which is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 24Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. The truth of the enunciation "Every man is susceptible of every discipline” is not an instance that can be used as an objection to this position, for it is not "discipline” that is predicated of man but "susceptible of discipline.” It would be repugnant to truth if it were said that "Every man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the negative universal sign or the particular affirmative sign are more appropriately posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth if they are posited on the part of the predicate, for such enunciations may be true in some matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example, is true, and so is "Every man is some animal.” But the enunciation "Every man is every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There are other enunciations of this kind that are always false, such as, "Some man is every animal” (which is false for the same reason as "Every man is every animal” is false). And if there are any others like these, they are always false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in rejecting the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher meant it to be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Now that he has determined the opposition of enunciations by comparing universal enunciations with indefinite enunciations, Aristotle determines the opposition of enunciations by comparing universals to particulars. It should be noted that there is a twofold opposition in these enunciations, one of universal to particular, and he touches upon this first; the other is the opposition of universal to universal, and this he takes up next, where he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa. The particular affirmative and particular negative do not have opposition properly speaking, because opposition is concerned with the same subject. But the subject of a particular enunciation is the universal taken particularly, not for a determinate singular but indeterminately for any singular. For this reason, when something is affirmed or denied of the universal particularly taken, the mode of enunciating is not such that the affirmation and negation are of the same thing; hence what is required for the opposition of affirmation and negation is lacking. 3 Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae. First he says that the enunciation that signifies the universal, i.e., universally, is opposed contradictorily to the one that does not signify universally but particularly, if one of them is affirmative and the other negative (whether the universal is affirmative and the particular negative or conversely), as in "Every man is white,” "Not every man is white.” For, the "not every” is used in place of the particular negative sign; consequently, "Not every man is white” is equivalent to "Some man is not white.” In a parallel way "no,” which signifies the same thing as "not any” or "not some,” is the universal negative sign; consequently, the two enunciations, "Some man is white,” which is the particular affirmative, and "No man is white,” which is the universal negative, are contradictories. 4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. The reason for this is that contradiction consists in the mere removal of the affirmation by a negation. Now the universal affirmative is removed by merely the negation of the particular and nothing else is required of necessity; but the particular affirmative can only be removed by the universal negative because, as has already been said, the particular negative is not properly opposed to the particular affirmative. Consequently, the particular negative is opposed contradictorily to the universal affirmative and the universal negative to the particular affirmative. 5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria. When he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc., he touches on the opposition of universal enunciations. The universal affirmative and universal negative, he says, are contraries, as in "Every man is just... No man is just”; for the universal negative not only removes the universal affirmative but also designates an extreme of distance between them inasmuch as it denies the whole that the affirmation posits; and this belongs to the notion of contrariety. The particular affirmative and particular negative, for this reason, are related as a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. He shows how the opposed affirmation and negation are related to truth and falsity when he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. He shows this first in regard to contraries; secondly, in regard to contradictories, where he says, Whenever there are contradictions with respect to universal signifying universally, etc.; thirdly, in regard to those that seem contradictory but are not, where he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc. First, he says that because the universal affirmative and universal negative are contraries, it is impossible for them to be simultaneously true, for contraries mutually remove each other. However, the particular enunciations that are contradictorily opposed to the universal contraries, can be verified at the same time in the same thing, for example, "Not every man is white” (which is opposed contradictorily to "Every man is white”) and "Some man is white” (which is opposed contradictorily to "No man is white”). A parallel to this is found in the contrariety of things, for white and black can never be in the same thing at the same time; but the remotion of white and black can be in the same thing at the same time, for a thing may be neither white nor black, as is evident in something yellow. In a similar way, contrary enunciations cannot be at once true, but their contradictories, by which they are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever there are contradictions with respect to universals signifying universally, one must be true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are related in contradictories. As was said above, in contradictories the negation does no more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when one of them is universal, the other particular; in another way when each is singular. In the case of the singular, the negation is necessarily referred to the same thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot extend to more than removing the affirmation. Accordingly, the singular affirmative is always contradictory to the singular negative, the identity of subject and predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether we take the contradiction of universals universally (i.e., one of the universals being taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of them must always be true and the other false. It is not possible for them to be at once true or at once false because to be true is nothing other than to say of what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say of what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he proposes how they are related; then he proves it where he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty where he says, At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to the first point we should note that affirmation and negation in indefinite propositions seem to be opposed contradictorily because there is one subject in both of them and it is not determined by a particular sign. Hence, the affirmation and negation seem to be about the same thing. To exclude this, the Philosopher says that in the case of affirmative and negative enunciations of universals not taken universally, one need not always be true and the other false, but they can be at once true. For it is true to say both that "Man is white” and that "Man is not white,” and that "Man is honorable” and "Man is not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius reports, some men, maintaining that the indefinite negative is always to be taken for the universal negative, have taken a position contradictory to Aristotle’s. They argued their position in the following way. The indefinite, since it is indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter considered in itself is regarded as what is less worthy. Now the universal affirmative is more worthy than the particular affirmative and therefore they said that the indefinite affirmative was to be taken for the particular affirmative. But, they said, the universal negative, which destroys the whole, is less worthy than the particular negative, which destroys the part (just as universal corruption is worse than particular corruption); therefore, they said that the indefinite negative was to be taken for the universal negative. They went on to say in support of their position that philosophers, and even Aristotle himself, used indefinite negatives as universals. Thus, in the book Physicorum [III, 1: 200b 32] Aristotle says that there is not movement apart from the thing; and in the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not more than five senses. However, these reasons are not cogent. What they say about matter—that considered in itself it is taken for what is less worthy—is true according to the opinion of Plato, who did not distinguish privation from matter; however, it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae [9: 192a 3 & 192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind pertaining to defect, are said of matter only accidentally. Therefore the indefinite need not stand always for the more ignoble. Even supposing it is necessary that the indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be taken for the universal negative; for just as the universal affirmative is more powerful than the particular in the genus of affirmation, as containing the particular affirmative, so also the universal negative is more powerful in the genus of negations. Now in each genus one must consider what is more powerful in that genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the position that the particular negative is more powerful than all other modes, the reasoning still would not follow, for the indefinite affirmative is not taken for the particular affirmative because it is less worthy, but because something can be affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of the part contained under it; whence it suffices for the truth of the particular affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite negative, because in like manner, something can be denied of a universal either by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use indefinite negatives for universals in the case of things that are per se removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen in two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e., dishonorable) is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed in body) is opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative enunciation, "Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing, is the same as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by a shameful man existing. Therefore these two enunciations are at once true, "Man is worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man is not worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two enunciations, " Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once true; and by the same reasoning these two, "Man is beautiful” and "Man is not beautiful.” The other opposition is according to the complete and incomplete, as to be in movement is opposed to to have been moved, and becoming to to have become. Whence the non-being of that which is coming to be in permanent things, whose being is complete, follows upon the becoming but this is not so in successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man is white” is true by the fact that a white man exists; by the same reasoning, because a man is becoming white, the enunciation "Man is becoming white” is true, upon which follows, "Man is not white.” Therefore, the two enunciations, "Man is white” and "Man is not white” are at once true. 11 Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Then when he says, At first sight this might seem paradoxical, etc., he excludes what might present a difficulty in relation to what has been said. At first sight, he says, what has been stated seems to be inconsistent; for "Man is not white” seems to signify the same thing as "No man is white.” But he rejects this when he says that they neither signify the same thing, nor are they at once true necessarily, as is evident from what has been said. XII. 1. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Having distinguished the diverse modes of opposition in enunciations, the Philosopher now proposes to show that there is one negation opposed to one affirmation. First he shows that there is one negation opposed to one affirmation; then he manifests what one affirmation and negation are, where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. With respect to what he intends to do he first proposes the point; then he manifests it where he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc. Finally, he gives a summary of what has been said, where he says, We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc.  2 Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis. He says, then, that it is evident that there is only one negation of one affirmation. It is necessary to make this point here because he has posited many kinds of opposition and it might appear that two negations are opposed to one affirmation. Thus it might seem that the negative enunciations, "No man is white” and "Some man is not white” are both opposed to the affirmative enunciation, "Every man is white.” But if one carefully examines what has been said it will be evident that the only negative opposed to "Every man is white” is "Some man is not white,” which merely removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man is white.” It is true that the negation of the universal affirmative is included in the understanding of the universal negative inasmuch as the universal negative includes the particular negative, but the universal negative adds something over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal of universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc., he manifests what he has said: first, from reason; secondly, by example. The reasoning is taken from what has already been said, namely, that negation is opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing of the same subject. Here he says that the negation must deny the same predicate the affirmation affirms, and of the same subject, whether that subject he something singular or something universal, either taken universally or not taken universally. But this can only be done in one way, i.e., when the negation denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there is only one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says, For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different. For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.” Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation, "Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be understood of the negation when it is referred to the same thing the affirmation contained, and this is possible in two ways: in one way, when something is affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se to be predicated of the same thing), and this very thing the negation denies; secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories; and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above. He also says here that it has been shown that not every contradiction is true or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly contradictory one is always true and the other false. The reason why this may not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely, because some are not contradictories but contraries, and these can be false at the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing, but because the enunciation in which something is predicated of a universal, either universally or not universally, contains under it many things, he is going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other examples which are evident. At the end he states a condition that is required for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars according as each is divided from the other, but according as they are united in one common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point; secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says, For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.; finally, he infers a corollary from what has been said, where he says, Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal” signifies both,.not as they are many and different from each other but as they are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would be more accurate—as excluding the many parts from which something one is formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice. However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he means where he says, For example, if someone were to impose the name "cloak,” etc. That is, if someone were to impose the name "cloak” to signify man and horse and then said, "Cloak is white,” there would not be one affirmation, nor would there be one negation. He proves this where he says, For this is no different from saying, etc. His argument is as follows. If "cloak” signifies man and horse there is no difference between saying "Cloak is white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But "Man is white, and, horse is white” signify many and are many enunciations. Therefore, the enunciation, "Cloak is white,” signifies many things. This is the case if "cloak” signifies man and horse as diverse things; but if it signifies man and horse as one thing, it signifies nothing, for there is not any thing composed of man and horse. When Aristotle says that there is no difference between saying "Cloak is white” and, "Man is white, and, horse is white,” it is not to be understood with respect to truth and falsity. For the copulative enunciation "Man is white and horse is white” cannot be true unless each part is true; but the enunciation "Cloak is white,” under the condition given, can be true even when one is false; otherwise it would not be necessary to distinguish multiple propositions to solve sophistic arguments. Rather, it is to be understood with respect to unity and multiplicity, for just as in "Man is white and horse is white” there is not some one thing to which the predicate is attributed, so also in "Cloak is white.” 10 Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. When he says, Consequently, it is not necessary in such enunciations, etc., he concludes from what has been said that in affirmations and negations that use an equivocal subject, one need not always be true and the other false since the negation may deny something other than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now that he, has treated opposition of enunciations and has shown the way in which opposed enunciations divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a question that might arise, namely, whether what has been said is found to be so in all enunciations or not. And first he proposes a dissimilarity in enunciations with regard to dividing truth and falsity, then proves it where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In relation to the dissimilarity which he intends to prove we should recall that the Philosopher has given three divisions of the enunciation. The first was in relation to the unity of enunciation, and according to this it is divided into one simply and one by conjunction; the second was in relation to quality, and according to this it is divided into affirmative and negative; the third was in relation to quantity, and according to this it is either universal, particular, indefinite, or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation, a division according to time. Some enunciations are about the present, some about the past, some about the future. This division could be seen in what Aristotle has already said, namely, that every enunciation must have a verb or a mode of a verb, the verb being that which signifies the present time, the modes with past or future time. In addition, a fifth division of the enunciation can be made, a division in regard to matter. It is taken from the relationship of the predicate to the subject. If the predicate is per se in the subject, it will be said to be an enunciation in necessary or natural matter. Examples of this are "Man is an animal” and "Man is risible.” If the predicate is per se repugnant to the subject, as excluding the notion of it, it is said to be an enunciation in impossible or remote matter; for example, the enunciation "Man is an ass.” If the predicate is related to the subject in a way midway between these two, being neither per se repugnant to the subject nor per se in it, the enunciation is said to be in possible or contingent matter. 4 His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a conclusion from what has been established: In enunciations about that which is, i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in enunciations about the past, the affirmation or the negation must be determinately true or false. However, this differs according to the different quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally predicated of universal subjects, one must always be true, either the affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For as was said above, the negation of a universal enunciation in which something is predicated universally, is not the universal negative, but the particular negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation of the universal affirmative, but the particular negative. According to the foregoing, then, one of these must always be true and the other false in any matter whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are also opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it was just stated has to do with propositions about the past or the present. Enunciations about the future that are of universals taken either universally or not universally are also related in the same way in regard to oppositions. In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and negative enunciations are determinately false. In impossible matter the contrary is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are false and particular enunciations true. This is the case in enunciations about the future as well as those of the past and present. In indefinite enunciations, both are at once true in future enunciations as well as in those of the present or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. In singular future enunciations, however, there is a difference. In past and present singular enunciations, one of the opposites must be determinately true and the other false in any matter whatsoever, but in singulars that are about the future, it is not necessary that one be determinately true and the other false. This holds with respect to contingent matter; with respect to necessary and impossible matter the rule is the same as in enunciations about the present and the past. Aristotle has not mentioned contingent matter until now because those things that take place contingently pertain exclusively to singulars, whereas those that per se belong or are repugnant are attributed to singulars according to the notions of their universals. Aristotle is therefore wholly concerned here with this question: whether in singular enunciations about the future in contingent matter it is necessary that one of the opposites be determinately true and the other determinately false. 7 Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero nequequoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a difference between these opposites and the others where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. First he proves it by showing that the opposite position leads to what is unlikely; secondly, he shows that what follows from this position is impossible, where he says, These absurd consequences and others like them, etc. In his proof he first shows that in enunciations about future singulars, truth cannot always be determinately attributed to one of the opposites, and then he shows that both cannot lack truth, where he says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. He gives two arguments with respect to the first point. In the first of these he states a certain consequence, namely, that if every affirmation or negation is determinately true or false, in future singulars as in the others, it follows that all things must determinately be or not be. He proves this consequence where he says, wherefore, if one person says, etc.,or as it is in the Greek, for if one person says something will be, etc.”’ Let us suppose, he argues, that there are two men, one of whom says something will take place in the future, for instance, that Socrates will run, and the other says this same thing will not take place. If the foregoing position is supposed—that in singular future enunciations one of them will be true, either the affirmative or the negative it would follow that only one of them is saying what is true, because in singular future propositions both cannot be at once true, that is, both the affirmative and the negative. This occurs only in indefinite propositions. Moreover, from the fact that one of them must be speaking the truth, it follows that it must determinately be or not be. Then he proves this from the fact that these two follow upon each other convertibly, namely, truth is that which is said and which is so in reality. And this is what he manifests when he says that, if it is true to say that a thing is white, it necessarily follows that it is so in reality; and if it is true to deny it, it necessarily follows that it is not so. And conversely, for if it is so in reality, or is not, it necessarily follows that it is true to affirm or deny it. The same convertibility is also evident in what is false, for if someone lies, saying what is false, it necessarily follows that in reality it is not as he affirms or denies it to be; and conversely, if it is not in reality as he affirms or denies it to be, it follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows. If it is necessary that every affirmation or negation about future singulars is true or false, it is necessary that everyone who affirms or denies, determinately says what is true or false. From this it follows that it is necessary that everything be or not be. Therefore, if every affirmation or negation is determinately true, it is necessary that everything determinately be or not be. From this he concludes further that all things are of necessity. This would exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte. The three kinds of contingent things are these: some, the ones that happen by chance or fortune, happen infrequently; others are in determinate to either of two alternatives because they are not inclined more to one part than to another, and these proceed from choice; still others occur for the most part, for example, men becoming gray in old age, which is caused by nature. If, however, everything took place of necessity, there would be none of these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing is with respect to the very permanence of those things that are contingently permanent; or takes place with respect to those that are caused contingently; by chance with respect to those that take place for the least part, or infrequently; or is indeterminate to either of two alternatives with respect to those that are related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing, and are determined to neither of these, which he signifies when he adds, or will be, or will not be. For of that which is more determined to one part we can truly and determinately say that it will be or will not be, as for example, the physician truly says of the convalescent, "He will be restored to health,” although perchance by some accident his cure may be impeded. The Philosopher makes this same point when he says in II De generatione [11: 337b 7], "A man about to walk might not walk.” For it can be truly said of someone who has the determined intention to walk that he will walk, although by some accident his walking might be impeded. But in the case of that which is indeterminate to either of two, it cannot determinately be said of it either that it will be or that it will not be, for it is proper to it not to be determined more to one than to another. Then he manifests how it follows from the foregoing hypothesis that nothing is indeterminate to either of two when he adds that if every affirmation or negation is determinately true, then either the one who affirms or the one who denies must be speaking the truth. That which is indeterminate to either of two is therefore destroyed, for if there is something indeterminate to either of two, it would be related alike to taking place or not taking place, and no more to one than to the other. It should be, noted that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is for the most part. There are two reasons for this. In the first place, this kind of contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence, for there is no difference between that which is for the most part and that which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like manner in present and in future enunciations, it follows that whatever is true of the present was also true of the future, in the way in which it is true of the present. But it is now determinately true to say of some singular that it is white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be white, it follows that it was always true to say of anything that has taken place that it will be. And if it is always true to say of the present that it is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or, that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be; for this is included in the signification of the true, that that which is said, is. If therefore that which is said concerning the present or the future is posited to be true, it is not possible that this not be in the present or future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all things that are future must necessarily take place. From this it follows further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that takes place by chance, for what happens by chance does not take place of necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first proposition is false, i.e., that of everything of which it is true that it is, it was determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that something is said to be what it is, something is true in the manner in which it has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way, something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty. Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then when he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he gives two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation and negation divide the true and the false. This is evident from the definition of true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what in fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what in fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be true, and conversely. But if the position is taken that neither is true, the affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true; likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore, the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows. If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is true to say that something is large and white, it follows that it is both. And this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow, then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has shown—by leading the opposite position to what is unlikely—that in singular future enunciations truth or falsity is not determinately in one of the opposites, as it is in other enunciations. Now he is going to show that the unlikely things to which it has led are impossibilities. First he shows that the things that followed are impossibilities; then he concludes what the truth is, where he says, Now that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. With respect to the impossibilities that follow he first states the unlikely things that follow from the opposite position, then shows that these follow from the aforesaid position, where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc. Finally he shows that these are impossibilities where he says, But these things appear to be impossible, etc. He says, then, concluding from the preceding reasoning, that these unlikely things follow—if the position is taken that of opposed enunciations one of the two must be determinately true and the other false in the same way in singular as in universal enunciations—namely, that in things that come about nothing is indeterminate to either of two, but all things are and take place of necessity. From this he infers two other unlikely things that follow. First, it will not be necessary to deliberate about anything; whereas he proved in III Ethicorum [3: 1112a 19] that counsel is not concerned with things that take place necessarily but only with contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly, all human actions that are for the sake of some end (for example, a business transaction to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will take place whether we take pains to bring it about or not—if all things come about of necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for they seem to deliberate and to transact business with the intention that if they do this there will be such a result, but if they do something else, there will be another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc., he proves that the said unlikely things follow from the said position. First he shows that the unlikely things follow from the positing of a certain possibility; then he shows that the same unlikely things follow even if that possibility is not posited, where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. He says, then, that it is not impossible that a thousand years before, when men neither knew nor ordained any of the things that are taking place now, a man said, "This will be,” for example, that such a state would be overthrown, and another man said, "This will not be.” But if every affirmation or negation is determinately true, one of them must have spoken the truth. Therefore one of them had to take place of necessity; and this same reasoning holds for all other things. Therefore everything takes place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he shows that the same thing follows if this possibility is not posited where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. It makes no difference in relation to the existence or outcome of things whether a person denies that this is going to take place when it is affirmed, or not; for as was previously said, the event will either take place or not whether the affirmation and denial have been made or not. That something is or is not does not result from a change in the course of things to correspond to our affirmation or denial, for the truth of our enunciation is not the cause of the existence of things, but rather the converse. Nor does it make any difference to the outcome of what is now being done whether it was affirmed or denied a thousand years before, or at any other time before. Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such that one of the opposites had to have been truly said and if upon the necessity of something being truly said it follows that this must be or take place, it will follow that everything that takes place is such that it takes place of necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover, the relationship of what is said. now to what will be is the same as the relationship of what was said previously to what is in the present or the past. Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily happening, and they will necessarily happen, for of what is accomplished now, as existing in the present or in the past, it was always true to say that it would be. 5 Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant. When he says, But these things appear to be impossible, etc., he shows that what has been said is impossible. He shows this first by reason, secondly by sensible examples, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. First he argues that the position taken is impossible in relation to human affairs, for clearly man seems to be the principle of the future things that he does insofar as he is the master of his own actions and has the power to act or not to act. Indeed, to reject this principle would be to do away with the whole order of human association and all the principles of moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn from evil by persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection of this principle would make these useless and thus nullify the whole of civil science. Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is the principle of future things. However, he is not the principle of future things unless he deliberates about a thing and then does it. In those things that men do without deliberation they do not have dominion over their acts, i.e., they do not judge freely about things to be done, but are moved to act by a kind of natural instinct such as is evident in the case of brute animals. Hence, the conclusion that it is not necessary for us to take pains about something or to deliberate is impossible; likewise what it followed from is impossible, i.e., that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 6Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is also the case in other things where he says, and that universally in the things not always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore, in things that have the possibility of being and not being, there is also the possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples perceptible to the senses, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible to cut it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of the agent or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and that it not be cut in the same way he has already proved that two opposed indefinite enunciations are at once true, i.e., by the assumption of contraries. just as it is possible that the garment be cut, so it is possible that it wear out, i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out it is not cut. Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it not be cut. From this he concludes universally in regard to other future things which are not always in act, but are in potency, that not all are or take place of necessity; some are indeterminate to either of two, and therefore are not related any more to affirmation than to negation; there are others in which one possibility happens for the most part, although it is possible, but for the least part, that the other part be true, and not the part which happens for the most part. 8 Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With regard to this question about the possible and the necessary, there have been different opinions, as Boethius says in his Commentary, and these will have to be considered. Some who distinguished them according to result—for example, Diodorus—said that the impossible is that which never will be, the necessary, that which always will be, and the possible, that which sometimes will be, sometimes not. The Stoics distinguished them according to exterior restraints. They said the necessary was that which could not be prevented from being true, the impossible, that which is always prevented from being true, and the possible, that which can be prevented or not be prevented. However, the distinctions in both of those cases seem to be inadequate. The first distinctions are a posteriori, for something is not necessary because it always will be, but rather, it always will be because it is necessary; this holds for the possible as well as the impossible. The second designation is taken from what is external and accidental, for something is not necessary because it does not have an impediment, but it does not have an impediment because it is necessary. Others distinguished these better by basing their distinction on the nature of things. They said that the necessary is that which in its nature is determined only to being, the impossible, that which is determined only to nonbeing, and the possible, that which is not altogether determined to either, whether related more to one than to another or related equally to both. The latter is known as that which is indeterminate to either of two. Boethius attributes these distinctions to Philo. However, this is clearly the opinion of Aristotle here, for he gives as the reason for the possibility and contingency in the things we do the fact that we deliberate, and in other things the fact that matter is in potency to either it of two opposites. 9 Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. But this reasoning does not seem to be adequate either. While it is true that in corruptible bodies matter is in potency to being and nonbeing, and in celestial bodies there is potency to diverse location; nevertheless nothing happens contingently in celestial bodies, but only of necessity. Consequently, we have to say that the potentiality of matter to either of two, if we are speaking generally, does not suffice as a reason for contingency unless we add on the part of the active potency that it is not wholly determined to one; for if it is so determined to one that it cannot be impeded, it follows that it necessarily reduces into act the passive potency in the same mode. 10 Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Considering this, some maintained that the very potency which is in natural things receives necessity from some cause determined to one. This cause they called fate. The Stoics, for example, held that fate was to be found in a series or interconnection of causes on the assumption that everything that happens has a cause; but when a cause has been posited the effect is posited of necessity, and if one per se cause does not suffice, many causes concurring for this take on the nature of one sufficient cause; so, they concluded, everything happens of necessity. 11 Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Aristotle refutes this reasoning in VI Metaphysicae [2: 1026a 33] by destroying each of the assumed propositions. He says there that not everything that takes place has a cause, but only what is per se has a cause. What is accidental does not have a cause, for it is not properly being but is more like nonbeing, as Plato also held. Whence, to be musical has a cause and likewise to be white, but to be musical white does not have a cause; and the same is the case with all others of this kind. It is also false that when a cause has been posited—even a sufficient one—the effect must be posited, for not every cause (even if it is sufficient) is such that its effect cannot be impeded. For example, fire is a sufficient cause of the combustion of wood, but if water is poured on it the combustion is impeded. 12 Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. However, if both of the aforesaid propositions were true, it would follow infallibly that everything happens necessarily. For if every effect has a cause, then it would be possible to reduce an effect (which is going to take place in five days or whatever time) to some prior cause, and so on until it reaches a cause which is now in the present or already has been in the past. Moreover, if when the cause is posited it is necessary that the effect be posited, the necessity would reach through an order of causes all the way to the ultimate effect. For instance, if someone eats salty food, he will be thirsty; if he is thirsty, he will go outside to drink; if he goes outside to drink, he will be killed by robbers. Therefore, once he has eaten salty food, it is necessary that he be killed. To exclude this position, Aristotle shows that both of these propositions are false. 13 Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. However, some persons object to this on the grounds that everything accidental is reduced to something per se and therefore an effect that is accidental must be reduced to a per se cause. Those who argue in this way fail to take into account that the accidental is reduced to the per se inasmuch as it is accidental to that which is per se; for example, musical is accidental to Socrates, and every accident to some subject existing per se. Similarly, everything accidental in some effect is considered in relation to some per se effect, which effect, in relation to that which is per se, has a per se cause, but in relation to what is in it accidentally does not have a per se cause but an accidental one. The reason for this is that the effect must be proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b 25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being, according to them, nothing else but the power of the position of the constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things accomplished in this world, since many things come about from intellect and will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a 18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing. The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence, the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of the heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will, for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through reason and will. This is also the case in other corporeal effects of corruptible things, in which many things happen accidentally. What is accidental cannot be reduced to a per se cause in a natural power because the power of nature is directed to some one thing; but what is accidental is not one; whence it was said above that the enunciation "Socrates is a white musical being” is not one because it does not signify one thing. This is the reason the Philosopher says in the book De somno et vigilia [object] Close that many things of which the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in storm clouds and tempests—do not take place because they are accidentally impeded. And although this impediment considered as such is reduced to some celestial cause, the concurrence of these, since it is accidental, cannot be reduced to a cause acting naturally. 15 Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. However, what is accidental can be taken as one by the intellect. For example, "the white is musical,” which as such is not one, the intellect takes as one, i.e., insofar as it forms one enunciation by composing. And in accordance with this it is possible to reduce what in itself happens accidentally and fortuitously to a preordaining intellect For example, the meeting of two servants at a certain place may be accidental and fortuitous with respect to them, since neither knew the other would be there, but be per se intended by their master who sent each of them to encounter the other in a certain place. 16 Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Accordingly, some have maintained that everything whatever that is effected in this world—even the things that seem fortuitous and casual—is reduced to the order of divine providence on which they said fate depends. Other foolish men have denied this, judging of the Divine Intellect in the mode of our intellect which does not know singulars. But the position of the latter is false, for His divine thinking and willing is His very being. Hence, just as His being by its power comprehends all that is in any way (i.e., inasmuch as it is through participation of Him) so also His thinking and what He thinks comprehend all knowing and everything knowable, and His willing and what He wills comprehend all desiring and every desirable good; in other words, whatever is knowable falls under His knowledge and whatever is good falls under His will, just as whatever is falls under His active power, which He comprehends perfectly, since He acts by His intellect. 17 Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant. It may be objected, however, that if Divine Providence is the per se cause of everything that happens in this world, at least of good things, it would look as though everything takes place of necessity: first on the part of His knowledge, for His knowledge cannot be fallible, and so it would seem that what He knows happens necessarily; secondly, on the part of the will, for the will of God cannot be inefficacious; it would seem, therefore, that everything He wills happens of necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These objections arise from judging of the cognition of the divine intellect and the operation of the divine will in the way in which these are in us, when in fact they are very dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it should be noted that in knowing things that take place according to the order of time, the cognitive power that is contained in any way under the order of time is related to them in another way than the cognitive power that is totally outside of the order of time. The order of place provides a suitable example of this. According to the Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and after in movement, and consequently in time, corresponds to before and after in magnitude. Therefore, if there arc many men passing along some road, any one of those in the ranks has knowledge of those preceding and following as preceding and following, which pertains to the order of place. Hence any one of them sees those who are next to him and some of those who precede him; but he cannot see those who follow behind him. If, however, there were someone outside of the whole order of those passing along the road, for instance, stationed in some high tower where he could see the whole road, he would at once see all those who were on the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e., in relation to his view) but all at the same time and how one precedes another. Now, our cognition falls under the order of time, either per se or accidentally; whence the soul in composing and dividing necessarily includes time, as is said in III De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject to our cognition under the aspect of present, past, and future. Hence the soul knows present things as existing in act and perceptible by sense in some way; past things it knows as remembered; future things are not known in themselves because they do not yet exist, but can be known in their causes—with certitude if they are totally determined in their causes so that they will take place of necessity; by conjecture if they are not so determined that they cannot be impeded, as in the case of those things that are for the most part; in no way if in their causes they are wholly in potency, i.e., not more determined to one than to another, as in the case of those that are indeterminate to either of two. The reason for this is that a thing is not knowable according as it is in potency, but only according as it is in act, as the Philosopher shows in IX Metaphysicae [9: 1051a 22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. God, however, is wholly outside the order of time, stationed as it were at the summit of eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the whole course of time is subjected in one simple intuition. For this reason, He sees in one glance everything that is effected in the evolution of time, and each thing as it is in itself, and it is not future to Him in relation to His view as it is in the order of its causes alone (although He also sees the very order of the causes), but each of the things that are in whatever time is seen wholly eternally as the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but in itself. 21 Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now from the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting which concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of man most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting, since each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows that God knows all things that take place in time most certainly and infallibly, and yet the things that happen in time neither are nor take place of necessity, but contingently. 22 Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise a difference to be noted on the part of the divine Will, for the divine will must be understood as existing outside of the order of beings, as a cause producing the whole of being and all its differences. Now the possible and the necessary are differences of being, an(] therefore necessity and contingency in things and the distinction of each according to the nature of their proximate causes originate from the divine will itself, for He disposes necessary causes for the effects that He wills to be necessary, and He ordains causes acting contingently (i.e., able to fail) for the effects that He wills to be contingent. And according to the condition of these causes, effects are called either necessary or contingent, although all depend on the divine will as on a first cause, which transcends the order of necessity and contingency. This, however, cannot be said of the human will, nor of any other cause, for every other cause already falls under the order of necessity or contingency; hence, either the cause itself must be able to fail or, if not, its effect is not contingent, but necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing; yet not all its effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire to show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued in such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher posits here, based on our deliberation. Since the good is the object of the will, they argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that which seems good to it; as also it is not possible to divert reason so that it does not assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which follows upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of which we are the principle through deliberation and choice, will take place of necessity. 24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and with respect to the true that must be noted. There are some truths that are known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect assents to of necessity. There are others, however, which are not known per se, but through other truths. The condition of these is twofold. Some follow necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the principles are true. This is the case with all the conclusions of demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind after it has perceived their order to the principles, but not before. There are others that do not follow necessarily from the principles, and these can be false even though the principles be true. This is the case with things about which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily, although it may be inclined by some motive more to one side than another. Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily adheres to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind of natural necessity. There are other good things that are desirable for the sake of the end. These are related to the end as conclusions are to principles. The Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then, there were some good things without the existence of which one could not be happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things, nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates the root of the contingency of things effected by us on the part of deliberation—which is concerned with those things that are for the end and yet are not determined. In those things in which the means are determined there is no need for deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14]. These things have been stated to save the roots of contingency that Aristotle posits here, although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1 Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has shown the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes what the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the position, he proceeded from enunciations to things, and has already rejected the unlikely consequences in respect to things. Now, in the converse order, he first shows the way in which there is truth about things; secondly, the way in which there is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc. With respect to truth about things be first shows the way in which there is truth and necessity about things absolutely considered; secondly, the way in which there is truth and necessity about things through a comparing of their opposites, where he says, And this is also the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take place of necessity), then the case with respect to things must be this: everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time. For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that everything that is must be when it is, and everything that is not must not be when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition. Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is must be, and that everything that is not must not be. For "every being, when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and "necessarily not to be when it is not” are also different. By this Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is had about things through the comparing of their opposites where he says, This is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same, he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be; therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains next what the things are in which contradictories can happen. They are those that neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that are about contingent things, one part of the contradiction must be true or false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5 Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one, false, etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from what has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and negation of opposites that one is determinately true and the other false, for truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are already in the present and those that are not but which could be or not be. The position in regard to each has been explained. In those that are, it is necessary that one of them be determinately true and the other false; in things that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. 1. In the first book, the Philosopher has dealt with the enunciation considered simply. Now he is going to treat of the enunciation as it is diversified by the addition of something to it. There are three things that can be considered in the enunciation: first, the words that are predicated or subjected, which he has already distinguished into names and verbs; secondly, the composition, according to which there is truth or falsity in the affirmative or negative enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another. This book is divided into three parts which are related to these three things in the enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when something is added to the words posited as the subject or predicate; in the second, what happens when something is added to determine the truth or falsity of the composition. He begins this where he says, Having determined these things, we must consider in what way negations and affirmations of the possible and not possible, etc. In the third part he solves a question that arises about the oppositions of enunciations in which something is added to the simple enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when "is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such enunciations and then gives their distinction and order where he says, Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds for a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the grounds for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where he says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at the conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of a name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all, he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it follows that that about which something is said pertains to the name; but the name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he says that since affirmation signifies something about something it follows that that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation, is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed, he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation, i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e., that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things are united, as in something one according to reason. For something is said to be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to reason, as is evident in IV Metaphysicae [21: 1003b 6], so also a negation is one according to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces this point so that no one will say that an affirmation in which an infinite name is the subject does not signify one thing about one subject on the grounds that an infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. When he says, every affirmation will be made up of a name and a verb or an infinite name and a verb, he concludes that the mode of affirmation is twofold. One consists of a name and a verb, the other of an infinite name and a verb. This follows from what has been said, namely, that that about which an affirmation signifies something is either a name or unnamed. The same difference can be taken on the part of negation, for of whatever something can be affirmed it can be denied, as was said in the first book. 5 Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which, when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation), removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the difference of finite and infinite there is the difference of nominative and oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the nominative is not included in an oblique name. The verb of present time, however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which the cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence, ‘if we say, "This will be,” it is the same as if we were to say, "This is future”; and "This has been” the same as "This is past.” A name, then, and a case of the verb do constitute an enunciation. Therefore Aristotle adds that "is,” or "will be,” or "was,” or any other verb of this kind that we use are of the number of the foresaid verbs without which an enunciation cannot be made, since they all signify with time and past and future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he says, Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from the premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite name is posited only on the part of the subject. Among these there is a threefold difference to be noted: the first, according to affirmation and negation; the second, according to finite and infinite subject; the third, according as the subject is posited universally or not universally. Now the finite name is prior in notion to the infinite name just as affirmation is prior to negation. Accordingly, he posits "Man is” as the first affirmation and "Man is not” as the first negation. Then he posits the second affirmation, "Non-man is,” and the second negation, "Non-man is not.” Finally he posits the enunciations in which the subject is universally posited. These are four, as are those in which the subject is not universally posited. The reason he does not give examples of the enunciation with a singular subject, such as "Socrates is” and "Socrates is not,” is that no sign is added to singular names, and hence not every difference can be found in them. Nor does he give examples of the enunciation in which the subject is taken particularly, for such a subject in a certain way has the same force as a universal subject not universally taken. He does not posit any difference on the part of the verb according to its cases because, as he himself says, affirmations and negations in regard to extrinsic times, i.e., past and future time which surround the prcsent, are similar to these, as has already been said. II. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera.                                     1. After distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name is posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or "walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken universally where he says, The same is the case when the affirmation is of a name taken universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite name is the subject, where he says, and there are two other pairs, if something is added to non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations [in which the subject is a finite name not taken universally] he proposes a diversity of oppositions and then concludes as to their number and states their relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not because it is a third predicate, but because it is a third word posited in the enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The enunciation is thus divided into two parts and not three. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 3Secundo, considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Secondly, we must consider what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation, in the mode in which we have explained, there are two oppositions. In the enunciations already treated, in which the name is posited only on the part of the subject, there was one opposition in relation to any subject. For example, if the subject was a finite name not taken universally there was only one opposition, "Man is,” "Man is not.” But when "is” is predicated in addition there are two oppositions with regard to the same subject corresponding to the difference of the predicate name, which can be finite or infinite. There is the opposition of "Man is just,” "Man is not just,” and the opposition, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is effected by applying the negative particle to the verb "is,” which is a sign of a predication. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this that in an enunciation such as"Man is just,” etc., he explains what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation. When we say "Man is just,” the verb "is” is added to the predicate as a third name or verb in the affirmation. Now "is,” like any other word, may be called a name, and thus it is a third name, i.e., word. But because, according to common usage, a word signifying time is called a verb rather than a name Aristotle adds here, or verb, as if to say that with respect to the fact that it is a third thing, it does not matter whether it is called a name or a verb. 5 Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. He goes on to say, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Here he concludes to the number of the enunciations, first giving the number, and then their relationship where he says, two of which will correspond in their sequence, in respect of affirmation and negation, with the privations but two will not. Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. He says first, then, that since there are two oppositions when "is” is predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition is between two enunciations, it follows that there are four enunciations in which "is” is predicated as a third element when the subject is finite and is not taken universally. When he says, two of which will correspond in their sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are related to affirmation and negation according to consequence (or according to correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up the various explanations of this passage there is a general point in relation to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and "Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations, "Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has been explained by some in the following way. Two of the enunciations he has given, those with an infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate according to consequence or analogy, as are privations, i.e., as those with a privative predicate. For the two with an infinite predicate are related according to consequence to those with a finite predicate but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation to affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the infinite predicate, corresponds according to consequence to the negative of the finite predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative with a privative predicate also corresponds according to consequence to the negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These enunciations can therefore be placed in a table in the following way: Man is just Man is not non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man is unjust This makes it clear that two, those with the infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate in the way privations are, i.e., as those that have a privative predicate. It is also evident that there are two others that do not have a similar consequence, i.e., those with an infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not just.” This is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by referring it to enunciations with an infinite subject. This, however, is clearly contrary to the words of Aristotle, for after giving the four enunciations, two with a finite predicate and two with an infinite predicate, he adds two of which... but two will not, as though he were subdividing them, which can only mean that both pairs are comprised in what he is saying. He does not include among these the ones with an infinite subject but will mention them later. It is clear, then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. Since this exposition is not consonant with Aristotle’s words, others, Ammonius says, have explained this in another way. According to them, two of the four propositions, those of the infinite predicate, are related to affirmation and negation, i.e., to the species itself of affirmation and negation, as privations, that is, as privative affirmations and negations. For the affirmation, "Man is non-just,” is not an affirmation simply, but relatively, as though according to privation; as a dead man is not a man simply, but according to privation. The same thing applies to the negative enunciation with an infinite predicate. However, the two enunciations having finite predicates are not related to the species of affirmation and negation according to privation, but simply, for the enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just” is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted that, as Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to that of which the whole of what is signified in the enunciation can be truly predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way "is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite affirmative which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly be said of any man who does not have the habit of justice; but "is not a just man” can be said not only of a man not having the habit of justice, but also of what is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is not a just man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple negative, then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider than man, since it is verified of more. For a similar reason the simple negative is wider than the privative affirmative, for "is an unjust man” cannot be said of what is not man. But the infinite affirmative is wider than the private affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a boy or of any man not yet having a habit of virtue or vice, but "is an unjust man” cannot. And the simple affirmative is narrower than the infinite negative, for "is not a non-just man” can be said not only of a just man, but also of what is not man at all. Similarly, the privative negative is wider than the infinite negative. For "is not an unjust man” can be said not only of a man having the habit of justice and of what is not man at all—of which "is not a non-just man” can be said—but over and beyond this can be said about all men who neither have the habit of justice nor the habit of injustice. 10 His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations, i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related to infinites according to consequence as privatives are related to them, because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite, will be related according to consequence in regard to affirmation and negation, i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under these circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of enunciations in which the verb "is” is predicated as added to some finite or infinite name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,” or "non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book. Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. (Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes. Then he says, The following diagram will make this clear. Here he manifests what he has said by a diagrammatic description; for, as he says, what has been stated can be understood from the following diagram. Take a four-sided figure and in one corner write the enunciation "Man is just.” Opposite it write its negation "Man is not just,” and under these the two infinite enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man is just Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from this table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined to "just” and "non-just.” It is according to this that the four enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes that these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that he has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a variant reading of a previous portion of this text, namely, I mean that "is” will be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram "is” is added to "man” and "non-man. This cannot be understood to mean that "man” and "non-man” are taken on the part of the subject; for Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite subject and hence "man” and "non-man” must be taken on the part of the predicate. This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the Philosopher has been explicating enunciations in which "just” and "non-just” are posited on the part of the predicate. Others think it can be sustained and that Aristotle has intentionally varied the names to show that it makes no difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor enunciationes: et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de praedicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non omnis homo est iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia quaelibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name universally taken is the subject there are also two oppositions and four eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary. Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its negation, "Not every man is just”-and two with an infinite predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do universal but the particular negative as was stated in the first book. Cajetanus lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quae supra posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ea particularis negativa de praedicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de praedicato privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de praedicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ista universalis affirmativa de praedicato privativo, hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut infinitae se habeant ad finitas, sicut privativae se habent ad ipsas finitas; finitae autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativae se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt figurae, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istae universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite negative, and under this the privative negative. On the other side put the finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but of universals. On one side put the universal affirmative of the finite predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to complete the parallel put the particular negative of the privative predicate under this. On the other side, first put the particular negative of the infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite predicate,” and under this the universal affirmative of the privative predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this disposition of enunciations, the consequence always follows in the second diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations, therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quae verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quae sunt diametraliter oppositae, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals to be true in the case of universals. First we will explain these words according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then according to the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one corner and the infinite affirmative or the privative in the other; and the finite negative in one corner and the, infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares vocatae, eo quod angulares, idest diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales. Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul verae, quando scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio. Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius, explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e., one between the affirmative and negative finites, and the other between the affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of universals in another way, taking one between the finite universal affirmative and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is just? contradictories? Not every man is just contraries subcontraries Every man is non-just? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true, therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false. 7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not be two but three oppositions: first, between finites; second, between infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between the finite affirmation and its negation and the other between the infinite affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition; hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant to reduce all the oppositions to two.  9 Deinde cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam vero sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem sunt quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliae autem sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non proprie substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel infinitate praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man” as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is added as a third element and the subject is an infinite name. First, he proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more opposites than these where he says, There will be no more opposites than these; thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With respect to the first point, it should be noted that there are three species of absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have, besides the verb, something either finite or infinite added to a finite subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have, besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate. added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name. Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to composition with the predicate, which "is,” the third element added, introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits another opposition between those with an infinite subject and an infinite predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positae; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istae duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quae est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et praedicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut subiecti infiniti et praedicati finiti. Quarum nullam praetermissam esse superior docet figura. Then he says, There will be no more opposites than these. Here he points out that there are no more oppositions of enunciations than the ones be has already given. We should note, then, that simple [or absolute] enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three orders: those with the second element added, those with the third element added to a finite subject, and those with the third element added to an infinite subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality, particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the first order, eight in the second, and four in the third, but through them be intended the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed according to each order so that the primary negation is placed opposite an affirmation in order to make the relation of opposition more evident. Thus, the universal negative should not be ordered as opposite to the universal affirmative, but the particular negative, which is its negation. Conversely, the particular negative should not be ordered as opposite to the particular affirmative, but the universal negative, which is its negation. For a clearer look at their number all those of similar quantity should be co-ordered in a straight line and in the three distinct orders given above. The following diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in the above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc., he shows the relationship of those we have put in the third order to those in the second order. The former, he says, are distinct from the latter because they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are separate from the latter because the former use an infinite name in place of a name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente, sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae, sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.; thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining element and those in which it is posited as a third element. In those with "is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders, because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective verb into its proper participle and "is,” which may always be done because a substantive verb is contained in every adjective verb. For example, "Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.” Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb "eminciations of the second adjoining element according to vocal sound, but of the third adjoining element according to power.” He designates them in this manner because they can be resolved into enunciations with a third adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which "is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since the present treatment is not of significations but of the number of enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations are to be diversified according to the mode in which enunciations with "is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,” "Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc., respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must add the negation to man, etc. First he states the solution of the question, then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that to be capable of being made infinite a name has to signify something universal or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something universal or singular, but that something is taken universally or particularly. Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize (although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation), but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter; sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale, scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico, homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every” and similar words do not signify a universal but that a universal is taken universally. His argument is the following: That by which enunciations having or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ in that the universal is taken universally. But that by which enunciations having and not having the "every” differ is signified by the "every.” Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident, though not explicitly given in the text: that in which the having of some term differs from the not having of it, other things being equal, is the signification of that term. The major is made evident by examples. The enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However, they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject universally, but in the other not universally. For when I say, "Man matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however, I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text. For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows, therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam, dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute; isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute, sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say "every” and "no” signify universally, but that the universal is taken universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for the first is that the distributive sign does not signify the mode of universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says "every” signifies that a universal is taken universally, by the "that” he conveys the application in actual exercise of the universality denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through its cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the application of the cause. The reason for the second is to imply the difference between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the "white” denominates man in himself apart from any regard to something to be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,” the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e., they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit: ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera, quae in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also the other things, which are to be observed in them, are to be considered the same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae, negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia, scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras. Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista, nullum animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His vero oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers certain questions about them. He takes up six points related to the number of difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this: namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé, therefore, he says that in the first book it was said that the negative enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just” is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true, i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true, i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativae infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes sint aequipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the fact that the finite particular affirmative and the infinite particular negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just” equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duae se habent secundum consequentiam, duae vero minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam praedicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra praedicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo primae. Universalis autem negativa quaecumque concluditur et in secundo primae, et primo et secundo secundae. However, a question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a mutual consequence between them absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure, while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat praeponere et postponere negationem. Oritur autem haec dubitatio, quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera praeponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quae est contraria suae contradictoriae esse veram. Possunt enim duae contrariae esse simul falsae. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quae similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativae interrogatae non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quae similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quaesitae; vera autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativae sequitur veram esse eius, scilicet universalis quaesitae negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non; affirmativa similis interrogatae quam quis ex hac responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Haec autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque est, quia haec particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatae quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi eidem universali interrogatae. Non est autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says, And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc., he presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of the copula, and this makes a great deal of difference with respect to affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction: in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular] it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of the contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he says that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation, i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example, if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation "Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative (which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question "Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e., then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the case of universals that if one is false the other is true. The cause of the diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the varying position of the negation does not vary the quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore there is not the same truth in enunciations denying a universal when in one the negation is a part of the predicate and in the other a part of the verb. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illae vero secundum infinitaetc., solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dictum est quod aequipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in singularibus praeponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel praedicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens: illae vero, scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic: illae vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quae removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non iustus et non currit, quae opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit), illae, inquam, dictiones infinitae videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod comparatae nominibus et verbis contra quae iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quae aliquid ponit, quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and from having just said that in singular enunciations it makes no difference whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this question by an interpretation which proves that neither infinite names nor verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed, e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e., corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,” "non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,” "just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi because the infinite name does not fall short of the notion of the name in every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out that it is always necessary for the negation to be true or false since a negation is an enunciation of something separated from something. The infinite name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.” Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say "non-man” than to say "man” if something else is not added; rather, it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on composition, and the finite word which posits something is closer to composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hae autem extra illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Haec enim universalis affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus; neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est contrarie opposita supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name "non-man”]. This is to be understood not just with respect to the enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just” does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative, signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis affirmativa de subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de subiecto infinito, praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti, aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent, as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio. Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown that the transposition of the negation varies the signification of the enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation as the transposed negation does? First he states the solution, saying that transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white” signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiae claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero contraponantur duae negativae, similes illis quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius autem secundae affirmationis, quae est, est homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet, est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quae dicit, est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae fuit prima affirmatio. Ergo quaecunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediae, sequitur quod sint duae unius, idest quod unius negationis sint duae affirmationes, et quod unius affirmationis sint duae negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illae affirmationes sint propter nominum transpositionem diversae. Then he proves the solution from the number of contradictory negations when he says, For if this is not the case there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make a figure in which both of the affirmations posited above, with the names transposed are located on one side. Put the two negatives similar to them in respect to terms and position on the opposite side. Then leaving a little space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first affirmation and the first two negations and between the second affirmation and all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus, caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est contradictoria suae comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through these two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be taken will either be the true negation of such an affirmation or some extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the contradictory of it, having equal truth with the one having its name transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely. And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately: Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae, Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first. This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was undoubtedly aware that he had already stated in the first book which affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is therefore evident that since negations of affirmations with transposed names are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo. Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio. Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid: "Man is a rational animal and (taking "is” as the second element), therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things, i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when a term placed before is placed after, and conversely, and a formal transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation (as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the subject, or the verb which is the third element added becomes the second. Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to the present objection is clear, for in both examples there is not only a transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from an enunciation with a third element to one with a second element in the other. The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum; secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains what happens to an enunciation when something is added to the subject or predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he determines their consequences, where he says, Some things predicated separately are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many things are brought together under one name in such a way that what is signified by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne quis crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura, ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc., intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse, necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from thinking these are true parts of the definition of the name he interposes perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example "Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens: enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit. Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum, idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo, impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo, non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt. Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo, accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandae sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more. Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many something one is constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions and by also adding adversatively, but if there is something one formed from these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is something one formed from these.” Close as if to say, "when however it holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the judgment with respect to such a name and those many things is the same, the many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking are called many from which one thing is constituted, and they are to be pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example, "A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such, as Aristotle says in VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation, "Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized, and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted where he says, whereas from "white” and "man” and "walking” there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctae actualitates, subiiciuntur vel praedicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel praedicantur. Et notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno praedicatur, vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio praeterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est, tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter quidem erit una, significative autem non una, sed multae fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici affirmationi positae. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of the division by which it has been divided into one and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiae; deinde probat antecedens dictae consequentiae; ibi: dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quae sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative formatae erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum, in quantum enunciat praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quaerendo proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem. Quaedam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et haec vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et haec est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticae dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quae est propositio, vel contradicentis, quae est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc., he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer. Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response. Therefore, to prove that there is not one response or one question or one enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a dialectical question in two ways. We may consent to the question, either affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question "Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond, "No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation. Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec praetereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque praeposuerit dialecticae interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem praeferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiae huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti praeposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he says, and a proposition is a part of one contradiction. In relation to this it should be noted that if a dialectical response could be many, it would not follow that a response to a multiple enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical response can only be one enunciation then it follows that a response to a plural enunciation is not a dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of a contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one contradicts only one. But if an enunciation is a part of only one contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is only one negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one response. It should not be overlooked that when he designates a proposition or one part of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it is only of the proposition that he adds that it is one, because the very wording shows the unity of the other. For when you hear one part of a contradiction, you immediately understand one affirmation or negation. He puts the "therefore” with the antecedent, either implying that this is taken from another place and he will explain in particular afterward, or having changed the structure, he places the sign of the consequent, which should be between the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there would not be a single question. For if the response cannot be one, the question will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo quaestio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel negari (ut cum quaeritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus responderi, est, propter caeleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut si quaeratur, canis est substantia? Quia potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer, because someone might think that although one response cannot be given to a plural interrogation when the question concerns something that cannot be affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog), nevertheless one response could be given when that which falls tinder the interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks, "Is a dog a substance?” a single response can be given because it can truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer, to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativae vel negativae. Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quaestio quid est, est interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis quaerat, quid est animal? Talis non quaerit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quaestio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quaestio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quae non solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quaestio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quaestio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a quaestionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is given first where he says, Similarly it is clear that the question "What is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the proof of what was assumed, namely, that the question "What is it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical interrogation must offer to the one responding the option of whichever part of the contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer such liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is forced to assign a definition, and a definition is not only determined to one but is also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being nor non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde haec diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec, scilicet praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the consequences of this. He treats this in relation to two questions which he solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to say predicates of something singly, etc. With respect to the other question, first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc. The first question is this: Why is it that from some things predicated divisively of a subject an enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly, and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from "Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from "Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined, that there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is made but from others this is riot so. What is the difference between these; whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied to the question. Of these examples, the first contains predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed, "lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter praedicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes praedicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis; quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is supposed of any of them indifferently that because both are said separately both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white; therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly, "Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident. Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white man it will be true and consistent to say that he is white, and according to this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking, musical, white, walking. And since these can be enunciated many times separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end. Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the difference of man in act and in understanding, is included in the notion of man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis; secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quaecumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem; secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura divisim praedicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim praedicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte praedicatum. Unde continuando se ad praecedentia ait: eorum igitur quae praedicantur, et de quibus praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt unum, idest non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he solves the problem as related to the instances posited in his proof where he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply. In relation to the first answer, he states the true position first and then applies it to the instances where he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or because they are predicated of each other accidentally. Now when the many predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally (by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing, or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista praedicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e., it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say, "Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that "white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa praedicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here that although he has enumerated two accidental members, he explains both members by this single example so as to imply that the distinction is not one of different accidental predicates, but of the same predicates compared in different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall under the first member, but compared with each other, under the second. Hence he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would then mean that the "accidentally” determines a conjunction between predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely, "biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference). Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of something else; "accidentally” then means "through another.” This is the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are joined because of something else, and not on their own account, do not admit of conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other, and denotes the things united on their own account as potency and act. Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own account, some on account of another. Those that are per se united infer conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primae divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda praedicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit aequivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quae est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas: unde terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi ratio et cetera. When he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but per se. This also explains the other member of the first division which has not yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence neither do "lute player” and "good” infer "good lute player” simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there is a difference between musical and white, and goodness and the art of luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first. Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely, man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a nature that they denominate only a third subject, and not each other, and hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical, therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute player by means of one notion and of the perfection of man by means of another. For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness, which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply, stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and "musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is the same as there. Nec praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quaestionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae consequentiae, sed tantum primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundae consequentiae elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctae praedicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur ex eis praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that the first two consequences are good, the third not. His intention was to inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to this that in these few words he has also implied the nature of the second consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only indicates what has already been explained but also its cause, and from this the nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and "musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined predication one part must be subjected to the other as potency to act such that in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other (for the force of the conjoined predication requires this, as we have said above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,” however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first, because neither informs the other (which is required for accidental unity of things among themselves, although not in a third thing); secondly, because, considered apart from the unity of a subject, which is outside of their notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of the second consequence is implied by these words. That is, man and white are related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs, denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quae impedit. Talia enim quae non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quae sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition between the position just stated and the fact that white forms an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example, "white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only have unity from this but also on their own account (because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quaecumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola enim haec per accidens praedicantur de eodem, ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta praedicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quae impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in proposing the question he has claimed it as good and also because there is no instance opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits their unity to be only from union in a third thing (for only these are predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet quando praedicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet quando praedicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio quaestionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando divisae sunt simul verae de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates include one another in such a way that one is included in the formal signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood that this applies when the divided predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quaestionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quaestio: an ex enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria superiori. Ibi enim quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quaeritur an ex coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit: verum autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus, sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question. The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided predicates; the present one asks whether divided predicates follow from conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand, it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,” "There fore Socrates is white.” However, this is not always the case, i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player, therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.” This is significant, for by it he means to imply that his intention is to investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi: quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri praedicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad quae sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus, non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct, etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e., when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites. Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then, that when something that is an opposite is contained in the adjacent term, which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true, namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Caesar is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the "dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead, because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e., there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would signify. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur, quomodo possit vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo praedicantur. Hoc enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia aequivalet copulativae), aut neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie praedicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed here: how can it ever be true to make such a statement as "Caesar is a dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are predicated at the same time of something (for this is a first principle). But "man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed contradictorily. But from an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred (because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them as one stands under the determination of another. Taken in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between them and it is impossible that they be found in the same thing at the same time. In the second way, however, "man” and "dead” are not opposed, since "man,” changed by the destructive element introduced by "dead,” no longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction follows if you regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two questions is evident. In a case such as this two contradictories are not enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be contradictory. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest aliquid oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quae habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quae habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quae consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about something else that Aristotle says, namely, something opposed is present... from which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a father or a son. But, again, since every distinction is made by some opposition, as is said in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that although contradiction follows between all opposites or distinct things formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but in respect to what is denominated they do not necessarily infer a contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined opposites prevent a divided inference (since those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided inference, but those having a contradiction both formally and according to the thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in " the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum praedicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istae duae partes colligatae, est et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true, etc., he explains that the parts cannot universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I have said that when there is inherent opposition it is not true but false to infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then he adds an example to show that division does not always follow from non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto praedicatur de Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur de Homero, et non praedicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,- sufficit unam instantiam suae oppositae universali affirmativae afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animae. Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus partes coniunctae non sunt oppositae in tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Caesar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is” here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes "Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative. To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia, homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said: Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are taken in place of the names.... He says this because it may be the case that the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions of the names in place of the names. For example, in the case of "dead man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato coniuncto quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt secundum se, modo exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur, idest, quod utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In order to make this second condition clear, it should be noted that "per se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it means the same as not through something else. It should also be noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the parts among themselves and between the whole and the subject, but even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject, not on account of another but on account of itself and the subject, then a divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas quibus haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae; et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in it on account of another, their separation produces nothing that could impede the truth of the divided predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one part is a determination of the other in such a way that only through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same: "to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on account of another.” The "accidentally” is used with the same signification in solving this and the preceding question. In both he understands "accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician” are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter praedicatum et non propter se et cetera. This exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined predicate does not regard the subject on account of itself but on account of another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it will follow that there will never be a good consequence from the third determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant, "is” regards the subject on account of the predicate and not on account of itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod, optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant, and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept. This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said above that "is” as the second determinant implies one thing and "is” as the third determinant another. The former implies the act of being simply, the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the third, one term is varied and consequently an inference is not made of the divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the third, it is never licit for the second to be inferred from the third as divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such an inference is illicit under the limits of inferences which induce division from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum, ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid. But the objection is raised against this that in the case of "Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying "It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy is committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the act of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows, "It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”; but "colored” regards the subject through the medium of quantity; therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to this and to similar objections is that "colored” is not so present in a subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance, determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.” Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is called "colored” secondarily, although color is received through the medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam propositionem, quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use: "That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi: consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the question he intends to consider and then begins his consideration where he says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the way in which affirmations and negations of the possible and not possible are related. He gives the reason when he adds, for the question has many special difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations that are called modal, we must first see that there are such things as modal enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo; quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of composition that exists between the two things. To signify these two ways of speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates that something belongs or does not belong to something. These are called absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case, possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking, is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in "That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.” For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is. The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently, Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all, although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes; altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur, eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus: qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said, the other between what is said and the mode, it must be understood that it is the former composition that is modified, i.e., the composition between the parts of what is said, not the composition between what is said and the mode. This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,” the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be white.” The second part is called the mode because it is the addition of a restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4 indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the first part, although it has all the properties of an enunciation—subject, predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum "That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates, namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore, does not say that something is present in or not present in a subject, but rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it compose according to what is signified, since it is not a composition of the composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba, est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although there are many parts of that composition. The many concurring for the composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.” The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit; variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit: habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts. Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by affirmation and negation when he says, the possible and not possible, contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds, for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit: primo, movendo quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are those opposed to each other by being related in a certain way according to "to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth, where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse, et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is this. If of combined things, contradictions are those related according to "to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are those opposed to each other which are disposed according to "to be” and "not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the other denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa, sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is, "Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,” is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation, "Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest, ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea, quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white” is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not "Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything, for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations, that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood, i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore, contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it, i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which "to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said in place of "to be” will effect the same thing with respect to the opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of "to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects the function of the copula). For example, the negation of the enunciation "Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined, i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be” and "not to be.” He said this in reference to the difference between complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and "non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit, possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing; therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion. The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being divided also has the possibility of not being divided, and that which has the possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds "in this way” when he assumes here that that which is possible is not always in act. For it is not true to say of every possible that it is not always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not, "possible not to be” because they are true at once of the same thing. In relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives, for this will be shown to be false later on. If you consider the matter carefully you will see that it was enough for his intention to give as an instance one modal contained under the modals of the possible in order to show that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and, whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode, where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e., either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or "not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at once, the latter, that contradiction of modals is not made according to negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum, as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e., that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb, and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit: primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.; quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is "not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt. Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word that joins the predicate with the subject; but in modals the determining additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of those things that are predicated of another). The things subjected to the determining additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum, quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, praedicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum praedicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum praedicatum modalis continent. Thus the response to the argument for the opposite position, which he gave first, is evident. That argument concluded that the negation should be added to the verb as it is in absolute enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for instance, "to be white” of a subject—the mode holds the same place here that the verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,” hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that absolute enunciation is true which signifies that something is as it is. Therefore, negation is added here to the mode just as it is added there to the verb, since the power of each is the same with respect to the truth and falsity of an enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,” i.e., predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by the mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he says, "is possible” and "is contingent” are determining additions. For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in singulis modis quae cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primae affirmativae de possibili (quae scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quae est possibile non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse verae. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quae non potest simul esse vera est, non possibile esse: hae enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse: hae namque simul nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: similiter eius quae est, necessarium esse, negatio non est ea, quae dicit necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est ea, quae dicit, non necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quae dicit, impossibile esse, negatio non est ea quae dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativae, quae est, impossibile non esse, negatio est ea quae dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not, "not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e., "possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of "possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.” But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of "possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be” follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,” which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these, as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of "necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping the same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse; meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem praeposita, idem facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter quatuor praedictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be” must be posited in the modals as subjects, and the one making this an affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals, possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum. For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and "not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously there are others that also determine the composition of the enunciation, for example, "true” and "not true,” "false” and "not false”; nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was shown, they do not properly modify. X. 1. Postquam determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae negationes, ut etiam dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duae scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem modi sint quatuor, efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiae ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents according to the opinion of others, we must first note that since any mode makes two affirmations and there are two negations opposed to these, there will be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and two negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an order of consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non esse, sequuntur negativae declinatae de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the ancients. They disposed them in four orders placing together in each order those that were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when he says, Logical consequents follow according to the order in the table below, which is the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to avoid confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode, the simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode and negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so, too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the contingent is converted with the possible); the simple negative of the impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the first order of modal consequents. In the second order they said that the declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and "contingent not to be.” In the third order, according to them, the declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,” follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,” and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur autem ex subscriptione appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab antiquis positae et ordinatae. (Figura). To make this ordering more evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione concludens et approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut contradictoriae de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse; haec autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced, then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely, i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of "impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be” follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse, et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt contradictoriae supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and second they erred, not with respect to all things, but only with respect to enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 7Secundo cum dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae. Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae duae de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and "not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order. The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon each other convertibly in the third order and these two in the first order are their contradictories; therefore, those of the first order, i.e., "possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of the third order are contradictories. He says, For the negation of "necessary not to be” (which is in the third order) is not "not necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that these two which the ancients posited in the first and third orders, are subalterns and therefore are at once true, whereas they should be contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de possibili illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de necessario: non inter se contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quae sit contradictoria illi negativae quae ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hae siquidem non sunt contradictoriae. Non enim est negatio eius, quae est, necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriae huius, scilicet, non necesse esse, quae est, necesse est esse. Sed quia sequenti litterae magis consona est introductio nostra, quae etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariae, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating necessity after he has explained in what way those predicating impossibility are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do not follow those of the possible in the same way as those of the impossible follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but rather the contraries of the necessary follow upon them. It is not the contraries among themselves that follow, but contraries in this way: the negation of the necessary is said to follow upon the affirmation of the possible; but what follows on the negation of this possible is not the affirmation of the necessary contradictory to that negative of the necessary following upon the possible, but the contrary of such an affirmation of the necessary. That this is the case is evident in the first and third orders. The sources are negation and affirmation of the possible, and the extremes are "not necessary to be” and "necessary not to be.” But these are not contradictories, for the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” for it is possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,” which contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the first exposition should be accepted and this portion of the text taken as a reproof of the ancients, because the contraries seem to be explained in a forced way by others, whereas our introduction is more in accord with what follows in the next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat id quod praemiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili sequuntur illae de impossibili et illae de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, aequivalet necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error made by the ancients in both the first and second orders, for in the first order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way the simple negative of the necessary, and in the second order their declined negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode — it follows that the impossible and necessary are not related in the same way to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible, and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in the first and in the second orders. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis verae inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By taking this meaning, then, these words are made clear through the cause. Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriae de necessario male situatae sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario. Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed, namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus: the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon "necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore, from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of "necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the necessary or denied, the reason being that of anything there is a true affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be” does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e., "not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be” follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be” in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this: "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum [13: 32a 28 and 32b 15], it is said that the not necessary follows upon the possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in particular; here of the possible commonly. 13 Deinde cum dicit: at vero neque necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quae enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim, scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quae dicit, possibile esse; et consequenter haec ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be” nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be” follows upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be true), these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the same time in potency. He explains the first point thus: when I say "possible to be” it is at once possible to be and not to be. With respect to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or "necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to "to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains, therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to be,” and consequently will have to be placed in the first order. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary does not follow upon the possible, since he has also said that the not necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore, the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quae est inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum affirmationem et negationem unius inferioris, quae est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quae est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall the relationship between the possible and the necessary, namely, that the possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one inferior is the same (which is the proportion of some subject to the affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid, but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible. However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore, the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence, because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in praecedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be” and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because the possible as common determines neither part of the contradiction to itself and consequently admits of either happening, although it does not affirm a potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. 17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet, possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,” etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor: but the contradictories of those following upon each other convertibly in the third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”) are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e., "possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,” i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not possible to be,” which is the source of the third order is followed by this impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary, namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is "not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as contradictories of the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 18 Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum praedictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele positae et ordinatae. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario. Praepostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quae locanda erat in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae primi ordinis contradictoriae sunt; et similiter singulae quarti ordinis singulis, quae in secundo sunt, contradictoriae sunt. Quod antiqui non observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely, so contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients inverted the position of these, placing the necessary that should have been placed in the first order in the second order, and the one that should have been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such a way that the contradictories of those following upon each other convertibly, always follow each other, for each one in the first order is the contradictory of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. XI. 1. Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quaestione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet, non possibile esse et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first raises the question and then settles it where he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites, etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the determination of the present question, where he says Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First, then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the negation is true of anything. And if someone should say "not possible to be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false. But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is "possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says, On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon "necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum [13: 32a 31], for the same thing is possible to be and not to be), from first to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quae aequivoce dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed. First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that is, not everything possible according to first or second act admits of opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et electione operatur; sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quae non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus adhibere remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia activa irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario operatur: praesente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in this connection that active potency, since it is the principle by which we act on something else, is divided into rational and irrational potency, as is said in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is that an irrational active potency necessarily operates when a subject is present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g., when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quae possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text. Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the possible which he will speak of later, in which there is not a potency to opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly, he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e., rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins with "therefore” so as to imply that this follows from what has been said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium faciendi, et potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quaedam opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality, i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of contraries, as is said in II De caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally, whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have explained. There are others, however, of such a condition that even though they are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously” modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of opposites, not completely, but according to its part, namely, according to active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the differences between active and passive irrational potencies, since enough had already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle gives the reason for this. It was not only to make it known that not every potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not all that are called potencies according to the same species are capable of opposites. For all irrational potencies are included under one species of irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the difference between passive and active irrational potencies, since this was necessary in order to show that not all potencies of the same species are capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said” could designate each difference, the one between rational and irrational potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The meaning is, then, that we have said this to show that not every potentiality which is said according to the same notion of physical power—namely, because it can be in something as rational and irrational—not even every potentiality which is contained under the same species, as active and passive under the species irrational, is capable of opposites. XII. 1. Intendit declarare quomodo illae quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias, quae non ea ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has appellat aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae activae, et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiae sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel passivae. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero merito aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem activam vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint activae vel passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In V and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides potency into those that are called potencies for the same reason, and those that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are included all active and passive, rational and irrational potencies, for whatever are said to be possible through the active or passive potency they have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the originative force of something active or passive. Mathematical and logical potencies are included under the second member of this division. That by which a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency. Logical potency also comprises that which is called "potency” because it is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies related to opposites are active or passive, the ones that are called potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the potencies he speaks of when he says But some are called potentialities equivocally, and therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates aequivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two. Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which is possible to be because it is already in act. Something is said to be possible in the second way, not because it actually is, but because it is about to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered division of the possible he makes the division of potency posited above evident a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are called possible because they are, since this was sufficient for his purpose. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet, oportet quod mPombaur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is called physical potency, is only in things that are movable; but the former is in movable and immovable things. The possible that is named from the potency which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of that which is said to be possible in this way. For if that which can act now and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to operation. On the other hand, that which is called possible because it is, requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible which is called logical, is more common than the one we customarily call physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said to be possible because it is already in act is already determined, since it is supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So, he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical, which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds "simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde respondet quaestioni formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quae peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the question formally. He states that the affirmative part of the question must be held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part; but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is divided into logical and physical and under the logical is comprehended the necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says, Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e., possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e., necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man, therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ, praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or "not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e., the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place, whereas in the former table they were placed last. When he says "may well be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order. First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident, then, from what has been said in treating the necessary, that that which necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc. Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way, namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae, non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae, intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys. dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary substances—not those we have called "first” in the present work because they principally and especially sustain—but those that are first because they are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which, according to what they have of act, are prior in nature to themselves according to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to the order of time. According to what they have of potency they are prior in time to themselves according to what they have of act. For example, according to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection, and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed. Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These, as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is not expected, and consequently they can only be in potency. These, however, must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est. Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has been said so that once the order of the universe has been seen it should appear that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second place in conformity with the second grade of the universe. The possible has been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of these is similar to the order in the second part of the universe, where act is prior to potency according to nature, though not according to time. We have reserved the last place for the impossible because it signifies what never will be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other, are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum, and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining addition) and contains in itself distributive force according to the parts of time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a limited way; the possible and contingent distribute according to some time commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular, and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’ run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal, i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum, ‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity, just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has distributive force. This is distinguished into universal and particular. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem praedicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni, sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not according to the quantity of its subjective parts, but according to the quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the division or lack of division of its subject (since the subject is a name which signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the proper subject is distributed throughout all time, either simply, as in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited way, as in "That man is running today,” or "while he is running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14 Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliae universales affirmativae, ut illae de necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliae universales negativae, ut illae de impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliae particulares affirmativae, ut illae de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliae particulares negativae, ut illae de non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, haec quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, praesens tractatus fit ab Aristotele; idcirco aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae sunt negationis vario situ, quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut scilicet, negatio praeposita modo faciat aequipollere suae contradictoriae; negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo, suae aequipollere contrariae facit; praeposita vero et postposita suae subalternae, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of "every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said, and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by the different location of the negation, as is the case with absolute enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see all the mutual consequents, according to one of the three rules for making enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not Cajetan’s but is a full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos, quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quaestionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quaestionem secundo, declarat quod haec quaestio dependet ab una alia quaestione praetractanda; ibi: nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quaestionem; ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quaestioni primo motae; ibi: quare si in opinione et cetera. Quaestio quam movere intendit est: utrum affirmativae enunciationi contraria sit negatio eiusdem praedicati, an affirmatio de praedicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio quae dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativae, nullus homo est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Et similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he has treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an addition made to its composition (which is the division of the text made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another question about oppositions of enunciations. This question concerns the oppositions that result from something added to the simple enunciation. First he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon another, which must be treated first, where he says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.; finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to "Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit subiectum commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo praedicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It follows from this that they cannot be at once true or false, just as two contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of contraries posits matter common to itself and to the other which is at the extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man, not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than the distance between the total number of things having something and none of the total number of things having that thing. It follows that contrary enunciations cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once. They can, however, be false at the same time, just as it is possible that contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for this is that the significations of two enunciations are positive, and accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can be opposed is contrarily. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate, praesuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animae componentis et dividentis, quarum singulae sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animae adaequatae nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae conceptiones inadaequatae, si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur. Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsae significationes adaequatae contrarie opponuntur inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae, idest falsae, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul verae, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiae] part I, question 17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since they can be at once false. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles in hac quaestione loquitur de contrarietate enunciationum quae se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine quaestionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativae universali verae dividit, in contrariam modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quaestio intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae verae contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut affirmativa falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an debeat esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident, too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly divides what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once that this division would be false unless it comprised the contrary formally. Since he takes contrariety in this way the question must be understood with respect to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question and one that has to be treated and has not been thus far. The question, therefore, is this: whether the formal contrary of the true affirmative is the false negative of the same predicate or the false affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed out that this question arises from the fact that something is added to the simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis. Et duo facit: quia primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia quaestione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem praedicati, an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut significata signa adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales enunciationes, omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae affirmativae de eodem subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin in order to settle this question. First he shows that the question depends on another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e., privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example, the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”), then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet ergo mota quaestio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsae contraria est: utrum negationi falsae an certe ei affirmationi falsae, quae contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The first question, then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason, and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second question, which must be treated first so that once the cause is known the effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una, secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae falsae inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet; verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum falsarum, scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria affirmativae verae, quaerimus universaliter sive illae duae falsae indivisibiliter se sequantur, sive non.                     7. Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary. This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it is a part of the question, and then the meaning is: which of these false opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these is the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is effected? This can be read in a third way by dividing the first clause, "and if it is one” from the second clause, "is either one the contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the difference between mediate and immediate contraries is that in the former the contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid: "A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red. In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariae non sunt simul verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul verae quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde subdit quod ista quae ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod contrariae, idest, sed potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod contrariae adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When he says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons, where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries because they are about contraries. Having supposed the majors of these arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good, that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction, because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the conclusion: however, opinions are not contraries because they are about contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely. Thus the first argument is clear. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 9Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quaecunque secundum veritatem et falsitatem oppositae opiniones sunt contrariae, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquae sunt falsae. Inter quas haec est diversitas quod, prima negat idem praedicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariae, tunc uni, scilicet verae opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitae imaginari opiniones falsae de una re similes ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non insunt illi, et negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus. Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae, quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque quaecunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones significant. Et causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse opinantur quod non est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quaecunque opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem contrariae sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to the good; the third denies what belongs to the good, but something other than the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies something other than the true opinion affirms, something, however, which does belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above. Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are contraries. Thus the second argument is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 1Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiae contrarietas, nec veri falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quae opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quaestioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quaesitum respondet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae; et consequenter illae, quae sunt oppositae secundum affirmationem contrariorum praedicatorum de eodem, non sunt contrariae, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle investigation in which he has shown that contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to determine what kind of opposition of true and false it is that constitutes contrariety of opinions, for this will answer the question directly. He maintains that only opposition of opinions according to affirmation and negation of the same thing of the same thing, etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the response to the question, he intends to prove the following conclusion: opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing are contraries; and consequently, opinions opposed according to affirmation of contrary predicates of the same subject are not contraries, for if these were contraries, the true affirmative would have two contraries, which is impossible, since one is contrary to one other. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 2Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariae; opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones quae primo ordine naturae sunt termini fallaciae, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariae: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively with what was said previously, Aristotle implies that not just any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in which there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this proof of the minor: those things from which generations are and from which fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it is between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is correct in maintaining that the terms between which there is generation first and between which there is fallacy first are the same, because with respect to both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet, opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that which is good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major, then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries, and not those opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it. But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that is per se such is more such than anything that is such by reason of something else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae, scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to the opinions already given in proposing the question so as to show his intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good, and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle returns to the opinions already posited, and infers the first two true opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e., added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that which is per se true is more true, then that which is per se false is more false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and "A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely, the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary. Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for contraries are those that differ most with respect to the same thing, for nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e contra. Illa vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the false opinion of negation will be contrary to the true affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 8Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet contrariae opiniones sunt quae opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositae sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomae, quod nullae duae opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque verae est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius verae, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria verae affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold that opposition according to affirmation and negation constitutes contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact that he has said that those opinions in which there is fallacy first are contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are, which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute; tertio, secundum ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repraesentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi, Socrates est caecus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum caecitas est privatio visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive privative sive contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae igitur verae contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the second operation, can be taken in three ways: (1) according to what they are absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, (3) according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit the first since it does not belong to the present consideration. If they are taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them. The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents, is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to "Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the things represented through opinions are in the opinions, have no opposition except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is that whatever belongs to something according to the being which it has in another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is, and not according to what its own nature would require. Now, between real beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode, if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are - judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore, these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to these. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut termini generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed contradictorily as terms of generation according to the things represented, but they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions are opposed according to affirmation and negation if we consider the things represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted, however, by those of you who are more penetrating and advanced in your thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order of representation there is a certain similitude to generation and corruption so long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently, fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera, sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second question, I say that there is an equivocation of the term "per se false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum [4: 73a; 34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false according to the same modes. An example of this would be "Man is not an animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and not on account of another it is verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite means that on its own account and not on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion "Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not immediately follow from the former, but mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi verae. Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit. Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi scilicet quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Caeterae enim oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following. Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced to say that one is more contrary than another, which implies that both have opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e., the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se, the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e., through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of one distance and since between opinions pertaining to each other true affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion. This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum, quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never, i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent formally and concludes directly from the position of the antecedent to the position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be judged to be contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat idem tertia ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae duae de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque combinationis sunt verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni quoniam est bonum. Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quae est eius contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium, scilicet, quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul verae. Nunquam autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae aliquando simul sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni contraria est illa opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt verae. Chimaera enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni verae quae, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quae est dicens quod est bonum, quae est contradictoria illius. Deinde subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni materia censendae sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is good, that it is good and of that which is not good, that it is not good, are parallel. This begins the third argument to prove the same thing. The two opinions of that which is good, that it is good, and that it is not good, are related in the same way as the two opinions of that which is not good, that it is not good and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The first opinion of each combination is true, the second false. Hence with respect to the first true opinions of each combination he proposes this major: Again, the opinions of that which is good, that it is good, and of that which is not good, that it is not good, are parallel. With respect to the second false judgment of each combination he adds: so also are the opinions of that which is good, that it is not good, and of that which is not good, that it is good. This is the major. But the contrary of the true opinion of that which is not good, namely, the true opinion "That which is not good is not good,” is not, "That which is not good is evil,” nor "That which is not good is not evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not good is good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion of that which is good, namely, the true opinion "That which is good is good,” will also be its contradictory, "That which is good is not good,” and not the affirmation of the contrary "That which is good is evil.” Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would be the contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not good? The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion. That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good, and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time, which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions are contraries in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet de eis in hac re iudicium (indefinitae enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non opponuntur, quia simul verae sunt); ideo ad eas, quae universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam quaestionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quae opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quae bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativae, dicens: nam eius quae est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil horum quae bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike, for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to the good. 17. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc., revertitur ad respondendum quaestioni primo motae, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quaestioni; secundo, declarat quoddam dictum in praecedenti solutione; ibi: manifestum est autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quaestioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum est; et affirmationes et negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi, idest, enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quaestionem, qua quaerebatur, an enunciationi affirmativae contraria sit sua negativa, an affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae quae est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He first replies to the question, then manifests a point in the solution of a preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear. The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation, etc. In order to state this division by way of example he relates one enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again, relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations to the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositae in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primae omnes reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primae et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primae contrariatur ratione universalis negationis, quae ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur primae eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to speak of the contrariety there is between the negation of some universal affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak of that same universal negative in relation to the negation contradictory to the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some way, there is a great difference between the contrariety of each to the first. The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation "Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of the universal negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et negationem quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio ipsarum negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non affirmatio contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter affirmationem contrarii et negationem in hoc quod verae affirmationi contrariantur, et non intendens dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quaesitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi verae, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quae circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones verae circa diversa contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repraesentata earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et consequenter omnes verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this that contraries are opposites about the same thing; consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is contrary to another. – [ XI. 6. The third part is the second difference, i.e., by convention, namely, according to human institution deriving from the will of man. This differentiates names from vocal sounds signifying naturally, such as the groans of the sick and the vocal sounds of brute animals] [?][11 Then Aristotle says, ‘by convention’ is added because nothing is *by nature* a name, etc. Here Aristotle explains the third part of the definition. The reason it is said that the name signifies by convention [ad placitum ex institutione], he says, is that no name exists naturally. For it is a name because it signifies; it does not signify naturally however, but by institution [ex institutione]. This Aristotle adds when he says, but it is a name when it is *made* a sign, i.e., when it is imposed to signify. For that which signifies naturally is not made a sign, but is a sign naturally. he explains this when he says: for unlettered sounds, such as those of the brutes designate, etc., i.e., since they cannot be signified by letters. He says sounds rather than vocal sounds because some animals—those without lungs—do not have vocal sounds. Such animals signify proper passions by some kind of non-vocal sound which signifies naturally. But none of these sounds of the brutes is a name. We are given to understand from this that a name does not signify naturally.] Aquino. Keywords: Peri hermeneias, de interpretation, Austin/Grice, “De interpretation” nota, notare, notante, notato, denotato – denotare -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Aquino: grammatici speculative, per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Grice, “Intentionality in Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino on the taxonomy of intentions.” https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685535573/in/photolist-2mT23wq-2mTCgej-2mSMKfP-2mSQAsN-2mSnTuE-2mS3yF6-2mRV5s7-2mRFSx9-2mRrJCw-2mRh74B-2mQJrAD-2mPYm4t-2mPQGvz-2mPRKiW-2mPMBQM-2mPAuFE-2mPsU62-2mPtnaL-2mPmNVF-2mNaHiH-2mN36eA-2mN2zUd-2mMJokF-2mMNyYv-2mLP4Rj-2mLQc9e-2mLLy7L-2mLLy6U-2mLMaMX-2mLGwVU-2mPu6xB-2mPV6V9-2mKBHiL-2mKG3Hd-2mKT4G5-2mKFc73-2mKwv6q-2mKwnLL-2mKNzk6-2mKBEmt-2mKMAyJ-2mKAsyK-2mKEJsY-2mPvmTf-2mKbfaU-2mKbbNP-2mJLMNt-2mEy4wH-E4u3XA-2mKgT2F

 

Grice ed Arangio – colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Grice: “We have Flores, we have Ruiz, we have Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I like Vladimiro Arangio – my favourite is by far his philosoophising on Socrates’s ‘Sofista’ – he distinguishes between what he calls ‘Socratic dialogue’ (mine) and ‘dialogo sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo, grecista e accademico italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico Alessandro Tassoni di Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma Gentile.  Nacque a Napoli nel 1887 da Gaetano, professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia. Frequentò a Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910 e si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in letteratura greca con Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e senatore del Regno d'Italia.  Vladimiro appartenne a una illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo Arangio-Ruiz fu uno dei maggiori studiosi di diritto romano, ordinario all'Napoli e alla Sapienza di Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia, Vladimiro preferì dedicarsi agli studi filosofici e fu professore alla Scuola normale superiore di Pisa e alla facoltà di Magistero di Firenze.  Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale d'artiglieria nella Prima guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò per la seconda volta, in filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi Conoscenza e moralità pubblicata nel 1922.  In gioventù aveva sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e filosofo Carlo Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del primo Novecento, del quale pubblicherà gli scritti.  Si propose una funzione critica ricostruttiva  dell'idealismo storicistico e dell'attualismo di Giovanni Gentile da cui trasse ispirazione per sviluppare il suo "moralismo assoluto". Contrariamente alla dottrina gentiliana che dichiarava l'attualismo coincidente con la "vita dello Stato", Arangio Ruiz credeva che invece fosse identificabile con il comportamento morale individuale poiché la politica non è che un aspetto particolare della legge morale per sua natura universale.  Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”; “Umanità dell'arte.”  Il Liceo "Tassoni" tra storia e innovazione.  Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in.  Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940]20  Carlo Michelstaedter Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vladimiro Arangio-Ruiz  Vladimiro Arangio-Ruiz, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo del XX secoloGrecisti italianiAccademici italiani Professore. Vladimiro Arangio-Ruiz. Arangio. Keywords: colloqui. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrangio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790746021/in/dateposted-public/

 

Grice ed Arcais – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervignano del Freiuli). Filosofo. Grice: “As Mikos says about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de Grys’ – same with Italians and ‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one ancestor. – d’Arcais has been described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the unfortune of being tutored by an atheist! Asa  good stoicp philosopher, he endured it!’ Direttore della rivista MicroMega. È stato collaboratore de la Repubblica, il Fatto Quotidiano, El País, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Gazeta Wyborcza.  Ha sempre unito l’attività di studioso, il lavoro editoriale e l’impegno civile. Educazione intensamente cattolica. Abbandona la fede nella primavera del 1961. Maturità scientifica. Maturità classica. Si iscrive al partito comunista (e federazione giovanile) entrando all’università. Nel 1964 è segretario del Circolo universitario comunista e nell’estate frequenta la scuola centrale di partito “Marabini” a Bologna. Si laurea con una tesi su “Marx interprete di Adamo Smith” e ne sarà a lungo uno degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno degli animatori del movimento studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista “Soviet”. Nel 1976/7 la rivista “Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del convegno internazionale di tre giorni che apre la “Biennale del dissenso” della presidenza Ripa di Meana.  Viene chiamato a fondare e dirigere il “Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi Bettino Craxi (alleato delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima iniziativa, il convegno internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”, relatori Cornelius Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con Craxi nel gennaio del 1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con Giolitti e Lombardi, torna al governo con la Dc.  Nel 1986 fonda insieme a Giorgio Ruffolo la rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel 1992, per contrasti su “Mani pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per partecipare alla fondazione del Pds, che dovrebbe aprirsi alla società civile sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona un anno dopo, viste le promesse non mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista di una controversia pubblica col cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma. Nel 2002 organizza insieme a Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la grande manifestazione dei “girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a Roma. Paolo Flores d'Arcais è "radicalmente ateo".  Inizia presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI per la sua prolungata e grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia militanza nella FGCI e nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico di Lucio Colletti, dopo esser stato uno dei protagonisti del "Sessantotto" romano, approda a posizioni di riformismo radicale e verso la fine degli anni settanta ha una breve ma vivida intesa con Bettino Craxi e Claudio Martelli, dai quali, tuttavia, si distacca ben presto.  Nel 1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto entrando nella Direzione del movimento, da cui però fuoriesce due anni dopo poiché favorevole alla guerra del Golfo a differenza della linea maggioritaria del partito. Tra i promotori della breve stagione dei girotondi, tenta di proporre una lista di suoi candidati alle primarie dell'Ulivo per le elezioni politiche del 2006 ma come lui stesso deve ammettere "realizza un fallimento pieno e perfetto" raccogliendo appena 130 adesioni alla sua idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che nelle elezioni politiche del 2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in funzione anti-berlusconiana. Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica prospettando il "Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di Pietro ed Andrea Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma, il 12 marzo dello stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre. Per le elezioni politiche del  ha dichiarato di votare la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Successivamente non nasconde le sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il quale dichiara di votare. Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega si dice deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi Di Maio di avere tradito le promesse agli elettori.  Altre opere: “Il maggio rosso di Parigi. Cronologia e documenti delle lotte studentesche e operaie in Francia, a cura di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese illustrato, con Giampiero Mughini, Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza. Nei dintorni del marxismo e oltre (Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Politica e menzogna, Milano, SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito libertario e riformista, Genova, Marietti); “Esistenza e libertà. A partire da Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero e la foresta. Il partito democratico della sinistra nel sistema politico italiano, con Umberto Curi, Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti, 1991.  88-211-6898-0. Etica senza fede, Torino, Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino, Bollati Boringhieri); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti, liberale del futuro, in Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo libertario. Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite” (Torino, Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul serio. Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti); “Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi,  Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano, ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica, testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009.  978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano, Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie. Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi, Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore); “Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note  cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede"Marsilio editore, 2008  Dal sito di MicroMega  Articolo de El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno  in.  Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle  La Repubblica del 19 novembre   Flores d'Arcais: “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su micromega-online. 24 aprile.  MicroMega (periodico). reccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Paolo Flores d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Paolo Flores d'Arcais, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito ufficiale di MicroMega. Undici riflessioni sui movimenti articolo pubblicato sul numero 2 del 2002 di MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei. Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais, d’arcais, piamontese.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791090779/in/dateposted-public/

 

Grice ed Archibugi – PAX ROMANA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he did compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for ‘pax romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” --  DanieleArchibugi (Roma), filosofo. Nell'ambito della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea di una democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del cambiamento tecnologico.  Dopo una non assidua frequentazione del Liceo Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex, dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss, Cambridge, London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche tenuto corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di Kyoto e la SWEFE University di Chengdu.  Nel 2006 è stato nominato Professore Onorario presso l'Università del Sussex e nel  Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur l'Innovation.  Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Roma, è Professore di Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra, Birkbeck College.  Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui servizi pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio Comunale.  La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La necessità deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso gli stati sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese al di fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le medesime istanze.  Giustizia globale Fautore della responsabilità individuale dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha anche attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione di una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali d'opinione.   Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali nella scienza e nella tecnologia..  Come Presidente di un Gruppo di Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo, qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria.  Economia della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici, Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.  Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849).   Note  D. Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè. Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D. Archibugi, I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile. Si veda anche Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche nell’addio. Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere, 10 novembre.  Membres d'honneur du Réseaux de Recherche sur l'Innovation  Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali  Birkbeck College, Department of Management  Tom Cassauwers, Interview with Daniele Archibugi, E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre.  Campaign for the Establishment of a United Nations Parliamentary Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10 ottobre 2009 22 agosto 2009).  D. Archibugi, The G20 is a luxury we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March 2008.  D. Archibugi, A League of Democracies or a Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio  in., Harvard International Review, Ottobre 2008.  Intervista su Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org..  Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi, Roma,.  Daniele Archibugi, La giustizia penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio.  Daniele Archibugi and Jonathan Michie, The Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of Economics",  19, no. 1, 1995,  121-140,  Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World: International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25 luglio  in., European Research Area, 2008,  D. Archibugi e A. Filippetti, Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London,.  D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz, Investment in innovation for European recovery: a public policy priority, Science & Public Policy, November.  Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio.  Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi», L'Espresso, 14 Aprile.  Daniele Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy. Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge,. Nell'ambito degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?” (Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ).  978-88-8080-356-0  (IT, EN) Sito ufficiale, su danielearchibugi.org.  Opere di Daniele Archibugi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito CNR-IRPPS, Commessa Globalizzazione. Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico. University of London, Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University of London, Birkbeck College, Intervista su "The Global Commonwealth of Citizens" Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione tecnologica, (video). Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte seconda; Parte terza. Dibattito presso la London School of Economics "È possibile una democrazia globale?" (video in inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento interrotto] Intervista a LA7 su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica",. Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica" 25 febbraio 2009. Intervista a TG2 Punto IT su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno 2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18 giugno. Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and Innovation, Londra, Birkbeck College, 3 agosto. Lo Stato dell`ArteQuale futuro per l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele Archibugi e Alessandro Politi, 14 luglio. Quante storie Rai3I grandi crimini contro l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, 9 novembre. Crime and Global Justice, Book Launch alla London School of Economics and Political Science, 28 Febbraio, podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin, Richard Falk e Mary Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal Justice?, Conferenza alla City University of New York, 9 Aprile. Daniele Archibugi, "Cosmopolitan democracy as a method of addressing controversies", IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM", Roma, Novembre,. Daniele Archibugi, "What is the difference between invention and innovation?", Birkbeck College University of London, 28 Ottobre. Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre  Filosofi della politica, Filosofi italiani del XXI secolo. Daniele Archibugi. Keywords: PAX ROMANA, due citadini del mondo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789749142/in/dateposted-public/

 

Grice ed Arcidiacono – sintropia, entropia, ed informazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acireale). Filosofo. Grice: “I like Arcidiacono, and Floridi should pay more attention to him; after all he what Austin called an ‘Oxonian myopist’! I love him!”  “It took me a while to digest Aricidiacono’s non-intentional use of ‘inform,’ but I suppose he rather follows Shannon than Plato!” “Arcidiacono pays due attention to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an Italian, he gives proper due to Plionio – ‘il vecchio,’ as Arcidiacono comically calls him – Strawson: “As if Pliny the Younger were not now part of ‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me Salvatore anyday – his brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice: “And another good thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a hashtag in ‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a filosofo, committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to ‘sintropia’ by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato e, per una sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello Giuseppe, divise con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a Catania. Insegna a Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e biologico, collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e molecolare. Da supporto teorico speculativo nel campo della chimica e della fisica teorica. Elabora una formulazione mediate della teoria sintropica nonché della Teoria degli universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio, tempo, universe”.  Altre opere: Visione unitaria dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del fuoco, Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e il suo mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione. Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo, Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma 1993.  88-86044-16-X. Note  Ignazio Licata, Teoria degli Universi e Sintropia Archiviato il 17 settembre  in.  vedi pag 103 di L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-1965  Scapini, 2005.  Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova 1989XVI.  88-299-0616-6  Vannini, 2005.  L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-1965, pag 103  Salvatore Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.  Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98, Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société Pierre Teilhard de Chardin, 1981.  Antonella Vannini, From mechanical to life causation,, Syntropy 2005, n. 1, pag. 80-105.  1825-7968 (WC ACNP) Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei viventiSpunti di riflessione, in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di biologia evoluzionistica Firenze, 18-21 febbraio 2004, Firenze, University press, 2006,  88-8453-369-4.  Luigi Fantappié Giuseppe Arcidiacono Sintropia  Biografia sul sito del suo editore, su direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940  Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords: sintropia, entropia, ed informazione; sintropia, antropia, entropia. arcidiacono — l’implicatura del principio antropico — biologia filosofica — filosofia della vita — fissisismo — naturalismo — finalismo — vivere — vivente — ominazione — animazione — definizione del vivente como movente autonomo — il fine —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791005369/in/dateposted-public/

 

Grice ed Arco – GRAVITAS – filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo. Grice: “I should like Arco; but he is a priest and I’m C. of E.; on top, I love to say that philosophy ought to be FUN, provided it’s MY FUN – not Arco’s – so I find Arco’s ‘dictionary of philosophical ‘umorismo,’ or filosofia ‘umoristica’ frivolous, and unworthy of Roman gravitas!” Nato nella frazione Fontanelle entra fra i Salesiani di Don Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma. Consegue a Napoli la laurea in filosofia. Per la sua preparazione filosofica, nonché per la profondità della sua filosofiai, è considerato tra i maggiori filosofi italiani. Per lungo tempo è stato professore di filosofia presso gli Istituti Salesiani di Don Bosco.  Ricoverato all'ospedale “San Leonardo” di Castellammare di Stabia, per un blocco renale, e ritornato a Pacognano di Vico Equense dopo aver superato la crisi, è morto novantaquattrenne. Uomo di anima sensibile e di infinita fede ha trascorso molto della sua vita scrivendo, interessandosi di agiografia. È stato protagonista televisivo sulla prima rete nazionale con il programma: Tempo dello Spirito.  Intensa e vasta la sua opera letteraria.  Altre opere: “Bartolo Longo e la sua intimità con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia; Gesù sotterra un chicco di grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza. Dizionarietto di saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La parola agli atti processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio sacerdote salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente entra in casa vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma c'è poi questo Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore filiale; Il Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente eterna dell'amore”; “Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità; La Gioia a Portata di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo; Dolcezza e speranza nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La Leva del Mondo: la preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio La Pira Profeta e testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci Francesca Alcantarina; Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo; Papa Giovanni Beato; Così ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa Giovanni; S.Alfonso amico del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti chiama per nome; La Leva del Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace Universale del beato Bartolo Longo; Il Salesiano è fatto così; Messaggio di Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee madri (Elledici Torino); Un esploratore della felicità: biografia del Servo di Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della Sofferenza. Citazionio su Adolfo L'Arco  La comunità di Pacognano ricorda don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza, Il Giornale di Napoli, sito "Positano news", Identities-85063233 Biografie  Biografie:  di   Biografie Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico Equense. Adolfo L’Arco. Arco. Keywords: gravitas, hagiography; if he has religious faith, he is not a philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arco” – The Swimming-Pool Library https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791207845/in/dateposted-public/

 

Grice ed Ardigò – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteldidone). Filosofo. Grice: “I love Ardigo – but I have a few qualms – his “Opere filosofiche’ is improperly indexed! The man wrote zillions! My attention was first caught by  minor editorial note: “’La morale dei positivisti’ was reprinted a few years later after its first edition as divided into two parts, “la morale’ proper and ‘Sociologia’ – Since I have used philosophical biology and philosophical psychology, Ardigo is indeed into ‘philosophical sociology’ – As he notes, ‘sociology’ is today’s philosophese for Aristotelian politics – politica – re publica romana – And being a positivist, Ardigo provides some good background – which will later be ‘refuted’ by the neo-idealists that opposed this sort of philosophy – to the idea of two organisms (two pirots) interacting --. While I speak of conversational egoism as balanced by conversational tu-ism; Ardigo, less of an altruist, and who laughs at the ‘ridiculous’ sensist conception of ‘simpatia’ – speaks of two principles: the principle of egoism, or prepotence, found amoung brutal animals – and the principle of what he calls ANTI-EGOSIM, found in the civil Italian gentleman – the word ‘civile’ is crucial, as in Castiglione, ‘discorso,’ or ‘conversazione’ civile.  If Wilson found it offensive when Chomsky spoke of two ideal communicadtors, this is no problem for the positivist – As Ardigo notes, an Italian will not behave conversationally in the same way when conversing with some he regards as below his station  -- that’s why he (and later I adopted the same guideline) uses ‘Romolo’ and ‘Remo’ (rather than Jack and Jill, since there is a gender issue here) as  communicators. As he puts it, ‘the fact that Romolo eventually kills his ‘fratello’ is hardly relevant from a positivist point of view – surely we don’t require ANTI-EGOSIM to hold indefeafeasibly, I would disagree with Ardigo’s dismissal of Remo’s murder – ‘l’assassinio di Remo’ – I discussed this with Hardie – in English, and, after a ten-minute pause, all I got from him was, ‘what do you mean by ‘of’?’” -- Essential Italian philosopher. Grice: “It’s amazing Ardigo found psychology a science, and a positive one, too!” – Altre opere: “La psicologia come scienza positive”; “Scritti vari”; “Venti canti di H. Heine tradotti 100 percent.svg  di Heinrich Heine (1922), traduzione dal tedesco (1908) Testi su Roberto Ardigò. Per le onoranze a Roberto Ardigò 100 percent.svg  di Mario Rapisardi (1915) Note  Gemeinsame Normdatei  data.bnf.fr  Comité des travaux historiques et scientifiques  Brockhaus Enzyklopädie  Dizionario Biografico degli Italiani Categorie:  Casteldidone Mantova 1828 1920 28 gennaio 15 settembreAutoriAutori del XIX secoloAutori del XX secoloAutori italiani del XIX secoloAutori italiani del XX secoloReligiosiFilosofiPedagogistiReligiosi del XIX secoloReligiosi del XX secoloFilosofi del XIX secoloFilosofi del XX secoloPedagogisti del XIX secoloPedagogisti del XX secoloAutori italianiReligiosi italianiFilosofi italianiPedagogisti italianiAutori citati in opere pubblicateAutori presenti sul Dizionario Biografico degli Italiani Refs.: Grice, “Ardigò and a positivisitic morality,”  Luigi Speranza, "Grice ed Ardigò," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. ARE. Ricerca Roberto Ardigò psicologo, filosofo e pedagogista italiano (1828-1920) Lingua Segui Modifica «L'inconoscibile di oggi è il conosciuto di domani.»  (Roberto Ardigò[1]) Roberto Felice Ardigò (Casteldidone, 28 gennaio1828 – Mantova, 15 settembre 1920) è stato uno psicologo, filosofo e pedagogista italiano.   Roberto Felice Ardigò Biografia Modifica Roberto Felice[2] Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona, il 28 gennaio 1828, da Ferdinando Ardigò e Angela Tabaglio. A causa delle difficoltà economiche della famiglia, un tempo agiata, si dovette spostare a Mantova, dove il padre trovò lavoro presso i cognati. La madre era profondamente religiosa, mentre il padre sostanzialmente indifferente in materia. Egli ne avrà sempre profondo rispetto e un forte legame, come anche con la sorella.[3]  Studi teologici Modifica Studiò a Mantova, per poi iscriversi nel 1845 al liceo del Seminario vescovile. Nel 1848 ottiene un posto gratuito nel seminario di Milano, ma in seguito ai moti risorgimentali é costretto a rientrare a Mantova. Il suo successivo tentativo di arruolarsi nell'esercito di Guglielmo Pepe è frustrato da una febbre malarica che lo colpisce alla vigilia della battaglia di Goito. Proseguì poi gli studi teologici. Dopo la morte dei genitori, fu accolto a casa sua da Mons. Luigi Martini, rettore del Seminario mantovano. In quegli anni il Seminario era investito dalla congiura patriottica che porterà al supplizio dei Martiri di Belfiore, dei quali ben tre erano sacerdoti, tra cui il leader della congiura Don Enrico Tazzoli, insegnante presso lo stesso Seminario.   Ardigò fu infine ordinato sacerdote il 22 giugno 1851.[3]  L'insegnamento positivista, la sospensione e la scomunica Modifica Nel 1870 pubblicò La psicologia come scienza positiva e nel 1876 tentò di istituire presso il Liceo di Mantova, dove insegnava[4], un Gabinetto per le ricerche psicologiche.[3] Nel metodo di insegnamento, poi, privilegiava il personale e diretto coinvolgimento degli allievi, sollecitandoli al libero dialogo, con una attenta analisi di brani critici e dei filosofi, cosa non troppo gradita alle gerarchie ecclesiastiche e al Ministero dell'Istruzione.  Già preda di una crisi religiosa molto forte, che lo portò infine a divenire ateo[5], tutta questa polemica lo condusse appunto a smettere l'abito ecclesiastico nel 1871, a 41 anni, dopo aver aderito ormai completamente alle posizioni positiviste ed evoluzioniste, che andavano nettamente in contrasto ai dettami della Chiesa cattolica del tempo, e aver attaccato apertamente il dogma dell'infallibilità papale.[3]  Alla fine, Ardigò venne anche scomunicato, ultimo atto della polemica contro la Chiesa di cui aveva fatto parte.[6][7]  Professore universitario Modifica  Casteldidone, lapide sulla casa natale In totale insegnò storia della filosofia all'Università di Padova per 28 anni dal 1881. Considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana[8] per aver promosso una concezione scientifica della psicologia, concepì una complessa teoria della percezione e del pensiero che non ebbe completa dimostrazione sperimentale. Nel 1882 Ardigò svolse uno dei suoi maggiori esperimenti in campo psicologico sperimentale, sulle condizioni dell'adattamento visivo su prismi ottici.[3] Diverse furono le materie che insegnò nei lunghi anni d'insegnamento universitario fino alla data del 1º giugno 1909 quando fu collocato a riposo. Fu, altresì, preside della facoltà di filosofia e lettere dal 1899 al 1902.[3]  Il 31 maggio 1908 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.[9]  Il 16 ottobre 1913 fu nominato senatore del Regnoma fu impossibilitato a raggiungere Roma per il giuramento.[3]  Durante la sua vita elogiò Giuseppe Mazzini[10] e Giuseppe Garibaldi[11], criticò la massoneria[12] (in quanto la riteneva non necessaria in uno stato ormai libero) ed espresse idee fortemente repubblicane.[13]  Ultimi anni e suicidio Modifica Negli ultimi anni di vita, isolato dall'ambiente intellettuale, ma non dai suoi discepoli più stretti, soffrì di gravi problemi fisici e depressivi (acuiti dalla morte della sorella Olimpia, che viveva a casa sua, nel 1907), che lo condussero a un primo tentativo di suicidio a Padova nel 1918 (dopo aver appreso della disfatta di Caporetto e della morte di molti giovani italiani), fallito perché la ferita non era grave[3], ma che si sarebbe ripetuto il 27 agosto 1920[14], questa volta riuscendo nel suo intento: Ardigò morì infatti suicida all'età di 92 anni nella sua ultima sistemazione a Mantova a casa Nievo, abitazione che era stata di Ippolito Nievo. Si autoinflisse una ferita colpendosi con un rasoio (o una roncola) arrugginito alla gola.[15] Le testimonianze dell'epoca riferiscono che venne trovato seduto alla scrivania, con la barba bianca del tutto sporca di sangue (barba che gli fu tagliata dai soccorritori ed è tuttora conservata come cimelio nella sala blindata della Biblioteca di Mantova[15]); soccorso dai medici, perse comunque conoscenza dopo aver ribadito le sue intenzioni, e morì due settimane dopo, il 15 settembre.[3][15]  Ricezione dell'opera di Ardigò Modifica Il tragico atto finale della sua vita venne usato dai suoi detrattori - clericali o neoidealisti - per screditare il positivismo in declino o visto come un gesto di demenza senile, e non come un atto di un uomo ormai stanco a livello psicofisico, che aveva dato tutto e vissuto la sua lunga vita secondo coscienza, quale in effetti era. D'altra parte, seppur il sistema di Ardigò non era anti-idealistico, furono gli idealisti ad attaccarlo filosoficamente, seguiti dai marxisti di inizio secolo, come Antonio Gramsci, talvolta paragonandolo agli esiti più deleteri del positivismo, come l'antropologia criminale di Cesare Lombroso (risultata poi non scientifica), determinando l'oblio parziale delle sue opere, tra i maggiori libri filosofici tra il periodo illuminista (con l'esclusione delle opere filosofiche di Giacomo Leopardi) e il neoidealismo di Croce e Gentile. Con lo sviluppo del positivismo logico e la riscoperta del positivismo, si è avuta una lenta rivalutazione di Ardigò, il maggiore esponente italiano del movimento, assieme a Maria Montessori e, come lei, tra i fondatori della pedagogia e della psicologia moderna[3][16][17], oltre che uno dei maggiori pensatori laici della cultura italiana tra XIX e XX secolo.[18]  Commemorazioni Modifica Sulla sua casa venne apposta una lapide, quando ancora egli era in vita:  «(Mantova) (in una pergamena). Indagatore sapiente dei fenomeni del pensiero e del sentimento. Assertore impavido della naturale formazione e dell'unità molteplice della vita. La Società magistrale Mantovana, col plauso degl'insegnanti elementari d'Italia, della Società filosofica dei professori di Morale e di Pedagogia, festeggiando l'ottantesimo compleanno del Maestro sublime, augura con fervidi voti che la nuova generazione cresca degna di lui nel culto della scienza, nell'apostolato della verità.»  (Epigrafe di Mario Rapisardi) La città di Monza gli ha dedicato una scuola media inferiore e una strada. Anche Milano gli ha dedicato una strada in zona Forlanini, così come Roma che gli ha dedicato una piazza tra il quartiere dell'EUR e la Via Laurentina.  I libri della sua biblioteca personale sono conservati presso la Biblioteca universitaria di Padova.[3]  PensieroModifica  Mantova, lapide commemorativa Il suo pensiero mosse dalla conoscenza dei classici teologici e filosofici, come Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino (poi abbandonati), all'adesione al razionalismo e al positivismo di Auguste Comte ed Herbert Spencer (con cui ebbe una corrispondenza epistolare, ma di cui non condivide né il darwinismo sociale, né il ruolo marginale da questi attribuito alla filosofia), passando attraverso il naturalismo del Rinascimento, come quello panteistico di Giordano Bruno.[19] D'altra parte, del sapere magico-ermetico della filosofia cinquecentesca della natura, da Bruno stesso a Bernardino Telesio, non vi è alcun residuo nella filosofia positiva di Ardigò, che prova disinteresse e disprezzo per la rinascita romantico-idealista della filosofia, a cui, dopo la "conversione laica", contrappone la vera filosofia scientifica.[19]  Caratteri della «filosofia positiva» di Ardigò Modifica L'originalità della sua filosofia si distanzia tanto dall'enciclopedismo naturalistico quanto dal tradizionale spirito di sistema, aprioristico, deduttivistico, dogmatico.[19] La filosofia trova la sua specificità nel fondamento del fatto (fisico o psichico) e nell'argomentazione induttiva, contro le deduzioni a priori, metafisiche, che non hanno fondamento nell'esperienza come la deduzione logico-matematica.[20]   Auguste Comte Una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica, rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili, accetta le ipotesi da verificare. Contro l'astratto razionalismo metafisico della filosofia, è andato emergendo, secondo Ardigò, dapprima il naturalismo rinascimentale, che ha trovato seguito nell'empirismo, nell'illuminismo e nel sensismo, fino al darwinismo e al positivismo.[20]  Una filosofia positiva non può nutrire certezze definitive (se vuol essere portatrice di tesi riformulabili come le teorie scientifiche) e non può essere un sistema unitario e dogmatico.[20] Ardigò propone una filosofia che, perduto l'ambito delle scienze naturali positive, si specifica in autonomia come scienza dei fatti psichici (psicologia) e dei fatti sociali (sociologia).[20]  Psicologia, pedagogia e sociologia positive Modifica I suoi contributi nell'ambito delle scienze sono importanti per l'impostazione generale. Interessanti sono le sue idee sull'evoluzione intesa come passaggio dall'indistinto al distinto, ma anche condizionata dal caso e caratterizzata dal ritmo. Non tutto dunque è lineare e meccanico. Ardigò fu uno dei primi psicologi moderni, anche se non nel senso di terapeuta, ruolo che sarà ricoperto dagli psicoanalisti e dagli psichiatri, ma nel senso di formatore pedagogico e professionale, oltre che di teorico e studioso della psiche, come Henri Bergson.[21]  Ardigò insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia intesa come scienza dell'educazione.[21]  L'Io, l'Indistinto e la nascita della coscienza Seguendo comunque l'assioma comtiano che "non ci può essere scienza se non di fatti" (anche se Comte riconduce la psicologia alla filosofia e alla medicina, oltre che alla sociologia), egli conia inoltre il termine di "confluenza mentale".[22]  Teorie pedagogiche Modifica Ardigò dice:   «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.»  Per Ardigò dunque non tutte le abitudini sono educative. Dal punto di vista didattico privilegiò l'intuizione, il metodo oggettivo, la lezione delle cose, il passaggio dal noto all'ignoto, insegnando poche cose alla volta, ritornando più volte sulle cose spiegate e facendo continue applicazioni di teorie e casi nuovi. Egli rivalutò la funzione del gioco, il quale permette al bambino l'occasione di vedere e toccare gli oggetti, riconoscerne le proprietà e le somiglianze, favorendo lo sviluppo fisico, il quale va d'accordo con quello mentale. Proprio in riferimento al gioco, Ardigò criticò le idee di Fröbel.[23]  Il problema di Ardigò fu quello di coniugare la formazione di giuste abitudini con la libertà e l'autonomia propugnata dai Giardini d'infanzia di Fröbel.[23]   Charles Darwin Natura ed evoluzionismo Modifica Il sistema ardigoiano si configura come un “naturalismo” evoluzionistico (da lui chiamato però realismo positivo) che cresce sulla consapevolezza delle scienze e della tecnica, e si regge sotto una solida epistemologia, mentre si rivolge anche alla morale, sottraendola al riduzionismo naturalistico e meccanicistico, riservando alla psicologia la funzione di sovrintendere al tutto.[24] Se tutto ciò che esiste è un fatto naturale, dal cosmo al cervello umano, dai vegetali ai minerali, non esiste e non può esistere un Ente trascendente metafisico e non è pensabile alcun progetto finalistico che permetta una comprensione teleologica della Natura; ad essa ci si può avvicinare solo con spirito scientifico.[24]L'ignoto di Ardigò non trascende l'esperienza, non ne è causa prima e soprannaturale, per cui il suo immanentismo non finisce mai nello spiritualismo a-scientifico e irrazionalistico (accusa spesso rivolta da Benedetto Croce ai positivisti).[24] Un motivo di originalità è offerto dal tentativo di attenuare il determinismo e meccanicismo evoluzionistico e positivistico tramite la dottrina della casualità. La realtà è per lui continuo passaggio dall'Indistinto al distinto, e i distinti sono la coscienza umana e il mondo esterno, frutto entrambi dalle sensazioni e da quell'Indistinto dalla quale procedono per «autosintesi ed eterosintesi».[24]  Riflessione morale Modifica Egli punta a far rinascere un'etica laica, naturalistica, non prescrittiva, che pone l'uomo davanti alle scelte, dandogli strumenti conoscitivi per una scelta razionale.[25] Rimane estraneo però alla questione sociale e alle istanze socialiste (nonostante la collaborazione con Turati), e, ancor prima, anarchiche, ampiamente diffuse in Italia, come isolato è anche rispetto alla politica.[26]  Le idealità sociali o massime morali si distinguono in[27]:  naturali, perché frutto solamente dell'evoluzione della specie e della psiche individuale sociali vere e proprie, cioè etico-giuridiche perché determinate dalla convivenza; esse devono la propria oggettività alla loro «genesi (...) individuata nello sviluppo “materiale” dell'uomo (biologico, fisico, ecc.) e (...) si esprimono storicamente in istituzioni (come la famiglia, lo Stato) le quali disciplinano e orientano le azioni umane».[27] Va detto che la riflessione ‘di periodo’ ardigoiana sulla moralità e sulle idealità sociali “nell’idea della giustizia” mostra l’intento di fondare in Italia la sociologia come scienza sulla cauta possibilità di concepire nella società la morale senza la religione (Roberto Ardigò, La morale dei positivisti, Milano, Natale Battezzati, 1879, XXI, p. 290 e sg.). Il progetto di Roberto Ardigò si concretizza maggiormente nelle pretese di fondare un sapere laico in grado di confrontarsi con le sfere dell’etica e della filosofia speculativa, senza che quest’ultima possa vantare ex ante una alleanza “forte” di filosofia e religione e senza avere avuto un confronto con i temi messi in campo dalla scienza e dai suoi più immediati avanzamenti, così e come mostrano proprio i primi passi dell’idea di formare un sapere sociologico autonomizzato dalle sfere dell’eticità (Guglielmo Rinzivillo, Ardigò e la prima sociologia in Italia, su “Scienzasocietà” n.50, A. IX maggio-agosto 1991, pp. 25 –31). In questo senso l’impresa di Ardigò di confrontarsi direttamente con il sapere speculativo risulta essere l’unica nel suo genere al cospetto del positivismo di fine secolo XIX (Guglielmo Rinzivillo, La scienza e l’oggetto. Autocritica del sapere strategico, Milano, Franco Angeli, 2010, ristampa 2012, II, ISBN 9788856824872 ). Ma il tentativo di formare una scuola si infrange nella ripresa sia europea dello spiritualismo che più nostrana dell’idealismo e nella contestazione delle dottrine filosofiche di seguaci come Giovanni Marchesini e Giuseppe Tarozzi (Mariantonella Portale, Giovanni Marchesini e la “Rivista di Filosofia e Scienze Affini”. La crisi del positivismo italiano, Milano, Franco Angeli, 2010, ISBN 8856825643) Altre opere: “Discorso sulla difesa dalla inondazione”; “Pomponazzi”; “La psicologia come scienza positive” – cf. Grice psicologia filosofica --; “La formazione naturale nel fatto del sistema solare”; “La morale dei positivisti”; “Sociologia”; “Il fatto psicologico della percezione”; “Il vero”; “La scienza della educazione”; “La ragione”; “L'unità della coscienza”; “La nuova filosofia dei valori”; “Canti di Heine(1922), traduzione dal tedesco Raccolta delle opere, “Filosofia” (Padova, Draghi). Citato in: Alberto Bonetti, Massimo Mazzoni, L'Università degli studi di Firenze nel centenario della nascita di Giuseppe Occhialini (1907-1993), Firenze University Press, 2007, pag. 90, nota ^ Ardigò, Roberto ^ a b c d e f g h i j k Marco Paolo Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive. Guido Cimino e Renato Foschi, Percorsi di storia della psicologia italiana, Kappa, 2015, p. 26, ISBN 8865142162. ^ Antonio Dal Covolo, Roberto Ardigò. Dal sacerdozio all'ateismo ^ Ardigò su Chi era costui? ^ Ardigò e il sistema positivistico, dal sito della Congregazione per il Clero del Vaticano ^ Luccio Riccardo, Breve storia della psicologia italiana. Psicologia Contemporanea, Roberto ARDIGO', su www.accademiadellescienze.it. URL consultato il 16 luglio 2020. ^ Numero unico, Mazzini, giugno 1905, Milano). ^ Discorso commemorativo pronunciato sul Monumento dei Martiri il 5 giugno 1882 in piazza Sordello. Dal giornale Il Mincio, 11 giugno 1882. ^ Egregio Sig. Genovesi. Rispondo subito alla di Lei lettera, che convengo interamente con Lei che dice giustamente che La Massoneria in uno stato libero è un non senso: e che a combattere l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che coll'esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia nella giustizia pubblica del proprio paese, nell'idea che la massoneria sia poi in fine una associazione di interesse pei soci a danno di quelli che non vi appartengono. E fortuna per me che alle scomuniche sono avvezzo, e nulla temo perché nulla spero. ^ Lettera del 20 febbraio 1879 in Lettere edite ed inedite, a cura di W. Büttemeyer, 1° vol., 1990, p. 191. ^ Ardigò, Roberto - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Alessandro Savorelli, Treccani ^ a b c Roberto Ardigò 1828-1920 (PDF ), su lnx.societapalazzoducalemantova.it. URL consultato il 17 novembre 2014 (archiviato dall' url originale  il 29 novembre 2014). ^ La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Lampi di stampa, 2000, p. 159 ^ Wilhelm Büttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1969 ^ Veniero Accreman, La morale della storia, Guaraldi, Giovanni Landucci, Roberto Ardigò e la "seconda rivoluzione scientifica", ed Franco Angeli, RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, 1991 ^ a b c d Marco Paolo Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 24-25 ^ a b A. Groppali e G. 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Francesco Bonatelli, Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Padova, Poligrafo. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Roberto Ardigò, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Alessandro Bortone, ARDIGÒ, Roberto, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,Opere di Roberto Ardigò, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN ) Opere di Roberto Ardigò, su Open Library, Internet Archive  consultabili nell'Archivio di Storia della Psicologia, su archiviodistoria.psicologia1.uniroma1.it. URL consultato il 16 dicembre 2011 (archiviato dall' url originale  l'11 luglio 2012). Alessandro Savorelli, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Altre opere: Pietro Pomponazzi. La psicologia come scienza positiva. La formazione naturale del sistema solare. L’inconoscibile di H. Spencer e il Positivismo. La religione di T. Mamiani. Lo studio della Storia della filosofia.  La Morale dei Positivisti. Relatività della Logica umana. La coscienza vecchia e le idee nuove. Empirismo e scienza.  Sociologia. Il compito della filosofia e la sua perennità. II fatto psicologico della Percezione. Il Vero. La Ragione. La scienza sperimentale del pensiero. Il mio insegnamento della filosofia nel R. Liceo di Mantova.  L’Unità della coscienza. L’Inconoscibile di H. Spencer e il Noumeno di E. Kant. Il meccanismo dell’intelligenza e l’ispirazione geniale. L’indistinto e il distinto nella formazione naturale. Note eticosociologiche — Articoli pedagogici. Il Pensiero e la Cosa. L’idealismo della vecchia speculazione e il Realismo della filosofia positiva. La formazione naturale e la dinamica della psiche. Saggio di una ricostruzione scientifica della psicologia. La perennità del Positivismo. Monismo metafisico e monismo scientifico.  La filosofia nel campo del sapere. Atto riflesso e atto volontario. I tre momenti critici nella storia della Gnostica della filosofia moderna. Il sogno della veglia. Tesi metafisica, ipotesi scientifica e fatto accertato. Il quadruplice problema della Gnostica. Guardando il rosso di una rosa. La nuova filosofia dei valori. Una pretesa pregiudiziale contro il Positivismo. L’Inconscio — A. Comte, H. Spencer e un positivista italiano. Infinito e indefinito.  Fisico e psichico contrapposti. Repetita juvant. I presupposti Massimi Problemi. Il Positivismo nelle scienze esatte e nelle sperimentali. L’individuo. Estema, idea, logismo. Le forme ascendenti della realtà come cosa e come azione e i diritti veri dello spirito. Lo spirito aspetto specifico culminante della Energia in funzione nell’organismo animale. La meteora mentale. Filosofia e positivismo. La ragione scientifica del dovere. La filosofia vagabonda. L’intelligenza. Altre opere: SCRITTI VARI  RACCOLTI E ORDINATI DA GIOVANNI MARCHESINI  Le Monnier scuola - nuovo FIRENZE  FELICE LE MONNIER. Prefazione; opere filosofiche; Polemiche; La confessione; Sulla storia della confessione esposta nel n. 181 della Favilla dal sig. Eugenio Pettoello. Il prete professore Ardigò e la confessione. Calunnie. Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del sig. Luigi De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla. Dichiarazione ai lettori. Lettera dell'illustre De Sanctis. Articolo comunicato. La psicologia positiva e i problemi della filosofia. Dialogo. Il filosofo e un ignorante. Il liberalismo di R. Ardigò. Contro la massoneria. R. Ardigò e A. Fouillée. Discorsi. Garibaldi. Discorso di commemorazione. Per il 70° anniversario. Le Ancelle della carità al Civico Spedale. I programmi e l’ordine dell’insegnamento. Il cultore vero della scienza. La gerarchia dei godimenti. La libertà del sentimento religioso. L’unità internazionale. La filosofia col nuovo regolamento universitario. La scuola classica e la filosofia. Divisi dalle religioni, la scienza ci riunirà. Il dolore morale nella società. La polarizzazione del lavoro mentale. La breccia di Porta Pia. Il significato morale del XX Settembre. Le immagini rovesciate. Il metodo del lavoro intellettuale di R. Ardigò. La formazione inconscia delle convinzioni. La condizione fisica della coscienza. Lettere 100%.svg  Lettera 1 100%.svg  Lettera. Giudizi e pensieri. Giudizi. Pensieri. Versi. Uno scherzo in un'ora allegra. Intecta fronde quies. Venti canti di H. Heine. Schöne Wiege meiner Leiden. Warte, warte, wilder Schiffsmann. Berg und Burgen schaun herunter. Der Traurige. Zwei Brüder. Die Grenadiere. Auf Flügeln des Gesanges. Liebste, sollst mir heute sagen. Mein süsses Lieb, wenn du im Grab. Ich weiss nicht was soll es bedeuten. Mein Herz, mein Herz ist traurig wie der Mond sich leuchtend dränget auf dem Hardenberge. Der Hirtenknabe. Nachts in der Kajüte. SOCIOLOGIA. Dedica. Avvertenza. Il potere civile; La reazione dell' individuo e   quella della società; il Diritto intemazionale; Machiavellismo politico; l’ideale della società umana; le giustizie sociali; L'Idealità sociale impulsiva del  volere individuale è una giustizia; L'Idealità sociale è una giustizia potenziale; diritto positivo e diritto naturale; triplice ufficio del potere; giustizia e diritto nella convenienza; la giustizia; la Giustizia legale (seconda forma dell' ufficio del Potere) è  una gradazione evolutiva superiore di un indistinto inferiore da cui emerge; dall'indistinto della prepotenza  (principio egoistico) nasce il  distinto della giustizia (principio anti-egoistico) che è la  risultante dinamica di quella; la formazione della giustizia  nel senso proprio va colla  formazione del potere onde  è l’espressione; la giustizia è la forza specifica   dell' organismo sociale; la gradazione della giustizia; dovere giuridico e dovere  morale; obbligatorietà e trascendenza  imperativa del dovere nella  coscienza morale; atteggiamento vario della giustizia e coefficienti relative; funzione della giustizia morale; l'autorità; criterio positivo del diritto e  del dovere; i diritti dell'uomo sopra le altre cose della natura; i diritti dell'uomo sopra se  stesso; suicidio; il diritto d’autorità; l’autorità nel diritto naturale; la dottrina positiva dell'autorità e del diritto è liberale; Gl’attti benefici nell' etica tradizionale; gl’atti benefici nel positivismo; falsa apparenza di paralogismo; la virtù, il merito, il premio; l’ordine morale; il bene sociale; il fatto del diritto (diversità,  specie, coordinazione) e il suo  ideale; il diritto è in virtù di se stesso; il diritto è la facoltà del bene  sociale; l'esercizio del diritto è la funzione del bene  sociale; il diritto costa una contribuzione; le unità minime, le unità medie e l’unità massima nel corpo  sociale; la selezione interorganica nella  evoluzione formatrice dello  Stato Come risulti spiegata la prima  forma dell' ufficio del Potere,  e anche la terza: e stabilito  r assunto del libro  Conclusione. SOCIOLOGIA Atxyj^ 8vo|ia oòx dEv ^Seaav, el xaOxa fJ “Non ci sarebbe l’idea della giustizia se non fossero i supplizi.” -- Eraclito di Efeso presso Clem. Strom. IV, j.. ALL’ILLUSTRE PROFESSORE ENRICO FERRI IL QUALE PRIMEGGIANDO FRA I MAESTRI DELLA SCIENZA NUOVA DEL DIRITTO PENALE SI COMPIACE DI RICORDARE CHE ALL’INDIRIZZO POSITIVO DELLA SUA MENTE FECONDISSIMA NON FURONO ESTRANEE LE LEZIONI DEL SUO ANTICO MAESTRO L'AUTORE DEDICA QUESTO SAGGIO IN SEGNO DI FRATERNO AFFETTO. AVVERTENZA. Questa sociologia costitue una parte della morale dei Positivisti. Fu in ogni parte o ritoccata o rifatta. Non vi si trattano tutte le questioni introdotte e discusse generalmente nei saggi di sociologia; ma solo la fondamentale: quella cioè della formazione naturale del fatto speciale caratteristico dell' organismo sociale, ossia della giustizia. E, relativamente a questo fatto, non dà una riproduzione pitc meno manipolata delle idee messe in voga dai filosofi più celebrati di questa materia. Qualunque ne sia il valore, chi scrive presenta qui il frutto della sua riflessione solitaria; e non recente, ma di vecchia data, e già matura fin da quando lo esponeva ai filosofi di Mantova, pei quali divenne germe e stimolo ad elaborazioni ed applicazionidi merito nel campo della filosofia. Restringendosi poi la trattazione, come qui è divisato, al fatto della giustizia, con ciò la sociologia tiene a mantenersi nel campo, che le spetta in proprio, e pel quale riesce una disciplina a sé e distinta da tute le altre. È un errore capitale quello comunissimo di fare della sociologia un ammasso di tutte le dottrine riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente della società umana, A tale stregua la cosmologia dovrebbe constare di tutte le dottrine riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente dell’universo visibile. A questo modo si dà ragione a quelli che persistono a *negare* alla sociologia filosofica la qualità di disciplina autonoma. Una sub-disciplina filosofica è un tutto a sé, che si pone e si distingue da quello di tutte le altre, come la specialità del fatto che essa considera. E, nel caso nostro, la sociologia filosofica, o la psicologia filosofica dell’intersoggetivita, si pone e si distingue, come la specialità del fatto della giustizia, nel quale è la ragione diretta dell'organismo sociale; a quel modo che nel fatto della gravitazione è la ragione diretta della mutua dipendenza delle masse astrali, considerata dalla cosmologia filosofica. Così, essendoci il fatto Fisico si dà la Fisica; essendoci il fatto chimico si dà la chimica; essendoci il fatto psichico, si dà la psicologia filosofica, e via discorrendo per ogni sub-disciplina. Si restring la presente trattazione allo studio della formazione naturale della giustizia, e limitandosi a considerare il fatto di essa in generale, e non estendendosi a considerarlo in particolare nelle molte e diverse forme svariate, che si munifesiano, funzionando la giustizia nelle differenti comàiìmzioni secondarie pnllulanti ed armonizza nèi nella totalità malto complessa dell’organismo sociale. Ed è solo in qneslo senso, die fuesta trattazione non aòòraccia tutto r amèito della So- etologia j. co7icernendo solo la sua farle introduttiva e fondamentaie. Esaurita la prima edizione di questo quarto Volume delie Opere filosofiche, e anche la seconda, nella quale tra stata introd^itta qualche piccola correzione ed aggiunta, colia presente terza questa Sociologia comparisce nella sua edizione quinta. Questa trattazione deWdi Sociologia suppone e completa quella della morale dei positivisti. La suppone, in quanto nella morale medesima è presentata l’analisi della attitudine etico-civile umana, ed è esposta la teoria positiva della responsabilità sotto tutti i suoi aspetti e rapporti. La completa, in quanto studia la formaziofie della attitudine etico-civile suddetta. Specialmente sotto V di-- spetto e il rapporto della sua obbligatorietà si interna che esterna.  Ma questa della sociologia è poi, come tale, una trattazione distinta da quella della morale. La morale ha per oggetto suo speciale e proprio la attitudine etica e quindi la virtu individuale. La sociologia ha per suo oggetto la costituzione della società civile e quindi la gitistizia che ne è la funzione caratteristica. Il punto di partenza del nostro ragionamento è la questione proposta dalla morale dei posttivisti. Il concetto della responsabilità (de- finito precedentemente come l'astratto delle sanzioni, onde la società reagisce, rintuzzandola, contro l’azione propriamente umana individuale) fosse manchevole, non estendendosi quanto la moralità, e quindi fosse da ripudiarsi. E ciò per la considerazione che sembrerebbe così la responsabilità riferirsi solamente agli atti intesi nel concetto stretto del giusto, cioè ai pochi atti esterni, aventi importanza per l’ordine sociale, commessi in misura e in circostanze determinate,  discorso basta notare il fatto, la cui spiegazione si lascia alla fisiologia. Come l’apparato nervoso delF organismo biologico vi si forma a poco a poco per naturale svolgimento e trasformazione di una parte degli elementi prima omogenei della sostanza viva, cosi l'apparato del P<:7/^r^ nell’organismo dello stato vi si forma a poco a poco per  naturale selezione ed adattamento dì alcuni fra gli individui del *consorzio* umano informe primitivo. Del pari, come la funzione speciale dell' apparato  nervoso si è in esso determinata per Io svolgimento e la trasformazione della attività vitale generica della sostanza  animale, cosi la specialità della reazione del potere non  è altro che una distinzione, operatasi a poco a poco e di  mano in mano che andava formandosi, della reazione istintiva comune degli individui eslegi del *consorzio* umano primitivo. E, come l’attività nuova speciale sovrapposta e dominante dell' apparato nervoso dell'animale superiore  sviluppato non vi sopprime l’attività iniziale semplice e comune del materiale biologico, la quale vi persiste allato e al disotto dell' attività nervosa, che la regola, così la reazione del potere, svoltasi naturalmente collo svolgersi dell' organismo sociale, non vi sopprime la reazione  istintiva detta sopra, la quale quindi persiste nello Stato  civile allato e al disotto della reazione del Potere, che  la regola.  E cosi nello Stato vengono a riscontrarsi contempo-   è assai opportuno studiare ulteriormente, e sotto /r^r df~  versi aspeliì, l'analogia notata fra T organismo dell' ani-  male superiore e quello della Società civile. Nel corpo di un animale, anche di organizzazione superiore (e quindi massimamente in quello dell' uomo), ogni parte viva ha in sé la ragione della propria attivita puramente vegetativa, che ha luogo quindi indipendentemente dal concorso diretto della funzionalità nervosa centrale. Ma questa funzionalità nervosa centrale può intervenire ad impedire tanto o quanto la detta attività puramente vegetativa della parte subordinata, A far ciò l’uomo, nel caso che la parte si ammali e quindi la sua attività vegetativa si renda anormale, si sforza (valendosi dell' apparecchio nervoso sovrastante alle parti) di limitare l’anormalità e di contrastame gli  effetti perniciosi sulle altre. Mettiamo, sostituendo la medicina al cibo, o tralasciando di mangiare e di adoperare se possibile la parte malata, o operando su di essa,  o staccandola in caso estremo dal resto del corpo. Quindi, l’intervento della funzionalità centrale qui sarebbe puramente negativa; cioè solo di impedire tanto  o quanto l’attività vegetativa; la quale, nella parte, sorge  in virtù della propria natura dì questa, e non potrebbe esservi creata ed infusa dalla medesima funzionalità centrale. Un fatto analogo si osserva nel corpo della società civile. In questo corpo sì riscontrano due generi di reazione sociale, quello della convenienza, proprio di ciascun individuo e nascente direttamente dall’urto degli individui fra di loro, indipendentemente dalla sovrapposizione ad essi del potere al  quale sono subordinati; e quello della giusto, proprio  di questo potere. La reazione di convenienza tra individuo e individuo tende con forza ad assumere, e spesso assume effettivamente forme irregolari nocive e atte a turbare in misura  più o meno grande il buon assetto della società. Ed è qui che intervitìne la reazione del giusto per parte del potere sovrapposto. Ma con effetto solo di impedire  e limitare, per quanto possibile, la irregolarità della  rea zione della convenienza. Si che questa, funzionando pure  per forza e legge propria, non ecceda però la forma e  la misura compatibile coll’andamento migliore del corpo sociale. Le parti singole dell'animale sono coordinate insieme mediante una funzione, che sì aggiunge alle particolari di esse e loro sovrasta, dominandole e subordinandole nel sistema complessivo deir individuo. Questa  funzione centralizzatrice ha una efficienza negativa, na ne ha anche una positive, ed è  quella di produrre il concerto delle parti nell’attività  dell’individuo totale. Coè, la vìta propriamente detta, elevantesi sulla semplice vegetazione di ciascuna parte,  adattata e resa ubbidiente alle esigenze della vita medesima, e quindi, per cosi dire, ingentilitane. Cosi anche nella societa. Nella quale la funzione assodante del potere si sovrappone a quelle degli due *associate*, ed è puramente negativa o di limitazione per rispetto a queste, ma è positiva per rispetto a se stessa, in quanto cioè si pone e produce un  effetto speciale suo proprio, che si risolve soprattutto  in quello della moralizzazione dell' uomo nello Stato  civile.  Annunciamo qui solo il fatto, la cui spiegazione det-  tagliata risulterà dal corso della trattazione. L' individuo eslege è pronto ad impiegare a proprio  vantaggio, come T istinto naturale lo sospinge, tutta la  forza materiale onde dispone; e ad elidere e a togliere  di mezzo il più debole. Il che impedirebbe la formazione  della società e il concerto civile delle sue parti. Perchè tale concerto sia possibile è necessario che sopravvenga neir umano consorzio una forza superiore, la  quale, in nome e colla mira dell'interesse di tutti, rin-  tuzzi e contenga la forza esuberante e trasmodante dei  singoli più forti o irregolarmente operanti, e renda cosi  attuabile lo sviluppo e l’esercizio pieno e non impedito, e tranquillo, e benefico delle attitudini di ogni elemento, onde è costituito il corpo sociale. L' istinto della reazione individuale, per sé, rappre-  senterebbe il princìpio egoistico antisociale. Invece il Po-  ^ tere subordinante rappresenta T Idealità sociale ossia il  principio morale antiegoistico. L' individuo nella Società diventa morale in quanto,  ridotto dalla coazione della Giustizia a riconoscere il  principio antiegoistico rappresentato dal Potere associante,  vi si uniforma, ingentilendosi, rinunciando alla tendenza  di usare la violenza rispetto agli altri, contenendosi nei  limiti permessi dal Potere, cooperando con esso al Bene  comune.   La costituzione quindi della Società umana, fino al  grado di un' alta Civiltà, è possibile, perchè la psiche  umana, a preferenza di quelle dei bruti, è atta alla for-  mazione caratteristica della Idealità sociale, come è di-  mostrato nella Morale dei Positivisti (i).   Nella macchina fisiologica dell' animale non si dà  potenza centralizzatrice delle parti senza un organo di-  stinto da esse, che ne sia investito e la possegga. La  forza centralizzatrice poi, in un animale, è in ragione della  massa di questo organo; come la massa stessa è in ra-  gione del bisogno (2) della forza occorrente per dominare  le parti. E inoltre neir animale la materia dell' organo  centralizzante è presa dalle parti stesse centralizzate per  via di un processo di selezione naturale, come dimostra  la embriologia e la zoologia comparata. E secondo il  principio generale, da me tante volte ricordato, del pas-  saggio dall' indistinto al distinto (3).     (i) Vedi specialmente il Capo III della terza Parte del Libro  primo; e la Parte seconda del Libro secondo. Per questa espressione bisogno vedi la nota alla pag. 17 del  volume ILI di queste Op, fil.  Per la teoria dell' indistinto e del distinto vedi la Fortnazione  naturale nel fatto del sistema solare y nel Voi. II di queste Op, fil.    Cosi nella Società» La coordinazione delle partì com-  ponenti e la relativa reazione della Giustizia non vi può  aver luogo senza che vi sia costituito un ordine di per*  sone investito del Potere occorrente all'uopo, e fornito  dei mezzi sufficienti all' effetto. Tale ordine di persone si stabilisce nella Società per  la legge suddetta della selezione naturale, come già ac-  cennammo sopra; e di ciò parleremo in seguito più a  lungo,   E r ordine sovraiieggiante nella Società deve essere  in ragione della forza occorrente a produrre Teifetto di  contenere le parti nella associazione dello Stato. Più in queste è la resistenza alla coordinazione so-  ciale, come nella barbarie o nella depravazione, quando  ha ana grande prevalenza T egoismo (o perchè le Idea-  lità sociali non sono ancora progredite nella loro forma-  zione, o perchè abitudini prave sottentrate le paralizzano),  e più il Potere centrale è poderoso e A'iolento, e ha quindi  il carattere di Potere militare. E la Giustizia allora as-  sume la forma del fato inesorabile e crudele, che sforza  ad agire colla violenza necessitante.   E, nel caso che manchi nel Potere la forza suffi-  ciente, la Società si trova in quello stato di organizza-  zione imperfetta che si osserva negli animali inferiori  aggruppati in masse, che sono piuttosto delle colonie  che non degli individui propriamente detti.   Se invece poca o nuila è la renitenza alla coordina-  zione sociale, come nelle Società adulte, colte e virtuose.  quando le Idealità sociali negli individui sì sono già for-  mate e si mantengono impulsive, allora il Potere centrale assume il carattere di un semplice arbitro morale fra gli  individui associati. E la Giustizia qui perde il carattere  della violenza^ assumendo invece quello di una sentenza  vera ed equa, che ottiene il rispetto e T assentimento col  solo essere enunciata. E si conferma ciò che dicemmo al-  trove del regno del fato e del regno della Giustizia fra  gli uomini (i),   E discende anche dalle cose dette che, siccome il  dispotismo militare è proprio dello stato della barbarie,  così invece il governo repubblicano è proprio dello stato  della cultura più compita; intendendo per questo governo  (idealmente) un governo formatosi per la selezione natu-  rale più propria dell' uomo, ossia razionale; e di persone  funzionanti quasi come semplici arbitri morali; e rap-  presentanti U Idealità sociali ammesse dagli individui  associati, che sono disposti per ciò a rispettarle, senza  bisogno di coazione e di violenza.  Le cose dette hanno una conferma da ciò che  si riferisce al Diritto internazionale, e servono a chia-  rirne ÌL fatto e la teoria. •   1 diversi Stati tra loro indipendenti sono come degli   (i) Nella Morale dei Positivisti, Per es. Gap. II della Parte IV  del Libro li, al numero i6 (pag. 399 del voi. Ili di queste Op, fil,  nella edijE. del tSSs^ e 432 dell' ediz. del 1893 e del 1901, e 432 Del-  l' ediz, dei 1908).     3"«|P).individui non co-ordinati l’uno con l’altro sopra i quali vige la ragione del  più forte, poiché l' idealità sociale co-ordinante non è realizzata in un potere effettivo sovrastante, che si faccia  valere; e quindi vi campeggiano sole attività egoistiche  dei singoli, staccati V uno dall' altro.   Ma, essendo il principio della socialità naturale al-  l' uomo, come per esso tendono a stare uniti gli individui  nella Società più semplice della famiglia, e questa e le  altre unità sociali più o meno grandi tendono a colle*  garsi organicamente nelle unità dello Stato, cosi gli Stati  tendono poi a riunirsi fra di loro: e, parzialmente, in  gruppi di Stati; e, totalmente, nella unità universale della  umanità intera.   E da ciò si vede che il Diritto di uno Stato è rela-  tivo al pari di quello dell' individuo, che ne fa parte;  per la ragione che, come il Diritto di questo viene a sof-  frire una limitazione e una rettificazione col prevalere su  di esso del Diritto del Potere dello Stato particolare che  se lo subordina, così anche il Diritto di questo è limita-  bile e rettificabile nella sua subordinazione all'organismo  più grande, del quale tende a far parte.   E cosi dicasi della Giustizia, che è la funzione del  Potere.   Nella Giustizia del Potere si riassumono tanto o  quanto, diventando la Legge propriamente detta, o al-  meno (se non ne sono in tutto sostituiti) vi si appuntano  come tollerati, o permessi, o anche incoraggiati, certi  atti di iniziativa degli individui ispirati dalla Idealità so-  ciale, tendenti a frenare o vendicare la reazione istintiva irregolare: avverantisi già nel consorzio umano non  ancora sviluppatosi nell'organismo sociale civile, e per-  duranti in questo, o produeentisi nella condizione della  Civiltà. Il padre che governa la famiglia, il forte gene-  roso che difende il debole, V associazione che si prefigge  scopi umanitari, e via dicendo, ne sono esempi. Qui ab-  biamo le virtualità della Giustizia, che ne preparano  r avvenimento, o la riforma miglioratrice, nella Giustizia  di fatto dello Stato. E questa Giustizia di fatto di uno  Stato è soggetta a limitazioni e rettificazioni ulteriori,  per via di una Giustizia più ideale, in quanto uno Stato  può subordinarsi alle unità sociali maggiori, delle quali  dicemmo, e quindi alla Legge loro. Data la riunione effettiva di più Stati in una  unità sociale maggiore che li comprenda, e della quale  essi siano le parti componenti, in questa si avrà il Po-  tere distinto o specifico coordinante, del quale abbiamo  parlato sopra, col carattere della Giustizia, di fronte alle  funzionalità particolari degli Stati componenti; la reazione diretta dei quali per ciò fra di loro avrà il carat-  tere della Convenienza, mentre V uno non potrà valersi  della forza materiale contro T altro, sia in sostegno del  proprio Diritto, sia in offesa dell' altrui, ma dovrà la-  sciarne r uso al Potere internazionale sovrastante.   Il Diritto internazionale quindi non è effettivamente  un Diritto, se non ha il detto carattere, della Giustizia.  E non ha questo carattere, se non esiste un organo reale,  colla forza sufficiente all'uopo, per esercitarla pratica-  mente. La storia ci presenta diverse forme di questo potere intemazionale o egemmiico, che dir si voglia. Ma  sempre più o meno imperfette. Per esempio quello esercitato dalla madre patria sopra gli Stati delle colonie,  che ne furono fondate. O quello di uno Stato più forte  sopra altri più deboli soggiogati colle armi, o ridotti a  protettorato, o confederati, O quello di una autorità re-  ligiosa sui popoli che la riconoscono. O quello risultante  da una lega, più o meno precaria, per iscopi determinati. Le forme suddette, come già accennammo, sono  forme di egemonia imperfette, o per la loro ristrettezza  e precarietà, o perchè non abbastanza potenti per farsi  valere, o perchè una tirannia di im forte su molti deboli,   E per ciò disfatte o da disfarsi col progredire della  Società. La quale invece tende ad una consociazione più  ideale degli Stati fra di loro. Ma a quale? Poiché, e questa non deve essere  per mezzo di uno Stato più forte che soggioghici altri  più deboli, e tuttavia la consociazione, colla Giustizia so-  vrastante relativa, non è una vera realtà organica se non  esiste effettivamente il potere che la eserciti.   La risposta alla domanda si ha in ciò che dicemmo  costituire il governo più perfetto, ossia del vero regno  della Giustizia, cioè n^W Aròiiraio.   L'Arbitrato o l'Anfizionia internazionale. E come si  va già disegnando sempre più concretamente nel fatto  dei trattati internazionali aventi forza esecutiva, e del  consenso moralmente giusto e fortemente efficace, che si  va stabilendo nel gruppo degli Stati più civili circa te  questioni sociali di interesse universale, e che influisce  anche sopra la legislazione interna dei singoli Stati, Solo     — ac-  quando esista realmente, in forma ben determinata e colla  forza necessaria di farsi valere, questa Anfizionia, potrà  esistere un Diritto internazionale veramente tale. Dico, quando esista questa Anfizionia. Fogniamo sul  fare della autorità centrale elvetica o degli Stati Uniti  di America.  E dico, quando questa Anfizionia sia un Potere veramente efficace. Il che non può essere, se non pel pro-  gresso sociale dei singoli Stati dipendenti; come T Arbi-  trato efficace fra gli individui non è possibile che a misura che questi si perfezionano moralmente, come dimo-  strammo.  E in effetto il progresso sociale degli Stati ci-  vili è già riuscito a stabilire delle legislazioni, o comuni,  o concordanti, colle rappresentanze e coi mezzi di esecuzione rispettivi, in ordine ai rapporti di interesse non  politico; come sarebbero il Commercio, T Industria, la  Navigazione» le Comunicazioni, i Diritti privati, le Monete^ le Misure, la Scienza. E tende ad estendere sempre  più questo genere di Giustizia universale, sia colle Com-  pagnie internazionali riconosciute per imprese di interesse  della Civiltà generale, sia coi Congressi pure internazio-  nali per altre sue esigenze, come sarebbe p. e. l'Igiene. Lontana ancora è T epoca della unione politica in  discorso. Ma va facendosene sempre più forte V aspira-  zione, che è già T anima del partito politico dell' internazionalismo, e che per la forza delle cose deve ormai  essere confessata più o meno dagli stessi governi.   Queir epoca è lontana; ma arriverà una qualche  volta; e cioè quando nei singoli Stati saranno state rimosse le cause che la ritardano: quelle cause precisa-  mente che la Civiltà attuale tende a rimuovere: e che saranno rimosse quando ogni Stato avrà ottenuto il suo as-  setto naturale giusto rispetto all' Estero nella sua circo-  scrizione etnografica, nella sua sicurezza, nel suo equili-  brio cogli altri Stati. Anche la questione del Machiavellismo politico  trova la sua risposta nei principj da noi indicati; riu-  scendo cosi in pari tempo a riconfermarne la verità. La reazione dell'individuo nella rozzezza eslege  del consorzio ancora selvaggio non è una reazione morale.  Non lo è, né di fatto, né di diritto.   Non di fatto, perché il suo movente é il puro istinto  egoistico, pronto senza ritegno al danno altrui, indiffe-  rente all'uso di tutti i mezzi di riuscire: fino alla violenza più spietata, fino all' inganno più vile e sfacciato. Non di diritto, perché, mancando l'ordinamento so-  ciale e la Giustizia del Potere che ne é il prodotto, non  si ha ancora la ragione, onde le reazioni umane siano  giudicate col criterio della moralità.  In una condizione analoga si trova il Potere  nello Stato non progredito nella Civiltà. In tale condizione si rivela nel Potere ciò che si  chiama il Machiavellismo. Il Machiavellismo del Potere può divenire, nel fatto, una impossibilità e, nel diritto, una immoralità, solo in  forza di una Giustizia relativa che lo impedisca e lo ri-  provi,   E come?  Per rispondere bisogna distinguere la reazione del  Potere di uno Stato per rispetto al Potere di altri Stati,  e quella del medesimo per rispetto ai propri subordinati.  Nel caso della reazione del Potere di uno Stato  per rispetto agli altri Stati è evidente che, se esso non è  tutelato nella sua esistenza da una forza internazionale  equa e^ nella sua tendenza a vantaggiarsi sugli altri e a  soperchiarli, non è frenato dalla medesima, non farà dif-  ferenza tra mezzo e mezzo che giovi al suo intento; e  il danno altrui lo procurerà come bene suo proprio. Il ricorrere ai mezzi opportuni all' intento, nel caso  in discorso, come non ne è impedito dalla Giustizia in-  ternazionale, che non esiste, cosi non è nemmeno ripro-  vato,   E per ciò il ^lachiavellismo del Potere nella sua rea-  zione cogli altri Stati viene ad essere una possibilità di  fatto, senza essere ancora una immoralità di diritto. Ciò è dimostrato storicamente nelle formazioni in-  ternazionali imperfette di epoche e regioni diverse. Valga  r esempio dei vari Stati della Grecia antica, collegati  tanto o quanto fra loro, e insieme isolati dalle genti non  greche; alle quali, considerate per ciò come barbare, ne-  gavano i riguardi che pure si avevano fra loro. E valga  r altro esempio delle religioni abbraccianti diversi Stati,  i quali insieme per ciò di fronte agli altri, considerati  siccome infedeli, si credevano sciolti da ogni freno di  procedimento. Nel caso della reazione del Potere per rispetto  ai propri sudditi è da considerare che la sua condizione  in uno Stato progredito nella Civiltà è ben diversa da  quella che la precede. Qui il Potere non è ancora divenuto la semplice e-  spressione del volere di tutti che lo pone, lo regola, lo  sancisce, come la Giustizia che lo rigfuarda. Ma è ancora  solo la conquista machiavellica di una casta, di una fa-  miglia, di una persona, lottanti per conservarlo con tutti  i mezzi atti all' uopo di fronte alle altre caste, ad altre  famiglie, ad altre persone dello Stato medesimo, con una  reazione quindi come tra individuo e individuo prima  della costituzione definitiva di una Giustizia superiore al  di sopra di essi. Nel caso in discorso è notevole il fenomeno  del concetto della Giustizia divina, che si pensa sovra-  stare alla stessa persona del Principe (come spiegheremo  in seguito); in modo che le sue azioni, quantunque fuori  d* ogni Legge, tuttavia vengono considerate dal punto di  vista della moralità: onde il suo Machiavellismo, persi-  stendo di fatto, viene a cessare in qualche modo di esi-  stere di diritto.   Questo fenomeno non è un argomento contro il nostro principio, ma a favore di esso. La Giustizia perfetta accompagnante lo stesso svi-  luppo iniziale dell'organismo sociale, informa natural-  mente la coscienza di quelli che ne fanno parte. E que-  sti, ignorando come si è formata veramente, la immaginano una entità assoluta preesistente alla Società e pro-  pria del nume divino. E cosi la si pensa valere, nella lotta fra i competi-  tori del Potere, al di sopra e delle imprese degli emuli e  di quelle del vincitore.   In effetto però il Potere conquistato dallo stesso vin-  citore lo emancipa dalla Giustizia, che esso esercita sopra  gli altri, e (massimamente se la lotta è eccitata da idee  sociali nuove) si fa autore di una Giustizia nuova che  deroga quella anteriore creduta divina; e questa per con-  segfuenza non serve più quale criterio di moralità delle  azioni del Potere medesimo. Di che luminosamente ci  ammaestra la storia nei contrasti multiformi col Potere  sacerdotale sostituito da quello militare, e tra questo e  il civile che gli sottentra nella Civiltà più avanzata.   Il conòetto quindi della Giustizia divina né valse da  sé a impedire nel fatto il Machiavellismo del Potere, né  a riprovarlo nel diritto.  Parlando però di impedimento del Machiavellismo non abbiamo inteso di un impedimento assoluto,  ma solo relativo. La forza della Giustizia, che si stabi-  lìsce nella Civiltà avanzata, anche al di sopra del Potere  di uno Stato, ne impedisce il Machiavellismo tanto o  quanto; ma non mai affatto. La cosa qui è precisamente come nelle reazioni ini-  que tra cittadino e cittadino, che la Legge dello Stato  tende ad impedire: ed impedisce realmente tanto o quanto  ma non mai del tutto. Dalle cose dette importa soprattutto che si  raccolga V importanza suprema, in ordine alla moralità,  dello sviluppo dell' organismo sociale sopra indicato. Come accennammo (e lo dimostreremo più largamente  in seguito) lo sviluppo del consorzio umano nello Stato  ha per effetto la moralità privata. La Civiltà che per-  feziona r organismo dello Stato all' interno, e promuove  r associazione civile degli Stati ha per effetto la moralità  politica. La Giustizia (e quindi la Responsabilità, che  è un suo correlativo) non è perfettamente tale nell'organismo civile se in questo non si ha la libertà ù.^\\^ parti  coordinatevi, e la distinzione netta del Potere e delle sue  attribuzioni.   Importa fissare in modo preciso in che consista, teo-  ricamente, la libertà.   La libertà consiste in ciò, che la parte coordinata  neir organismo sociale vi possa funzionare secondo la di^  sposizione naturale onde è atta a funzionare. E, in base  a tale disposizione, imprescrivibilmente. E, tanto relativamente a se stessa, quanto nel reagire all' azione collaterale delle altre parti.   S' intende bene che la disposizione naturale onde la  parte è atta a funzionare, traente con sé il diritto impre-  scrivibile alla funzione relativa, deve essere quella del-  l' uomo socialmente perfezionato; e quindi in tutto razionale in ordine alla convivenza e alla collaborazione cogli  altri nel consorzio civilmente perfetto. Ma la reazione della parte verso le altre deve essere  tale che non le impedisca. Che altrimenti si avrebbe eli-  sione di attività nelle parti impedite, e quindi lesione in  queste della loro libertà.   È questa una condizione essenzialissima perchè esista  realmente nell'organismo sociale la libertà vera e per-  fetta delle sue parti.   Ora tale condizione importa che la reazione della  parte sulla parte si limiti a quella della pura Conve-  nienza, che esclude la violenza dell' uno suir altro. E cosi questa esclusione,. ossia questo limite nega-  tivo, viene ad essere essenziale al concetto della libertà.  Sicché questa è determinata positivamente dalla attività  intrinseca dell' operante che ne è fornito, e negativamente  dalla rimozione della violenza estrinseca che la impedi-  rebbe nella sua sfera di coordinazione.  Il limite negativo suddetto della libertà ne  porta seco di necessità anche uno positivo, per la ragione  che la rimozione degli impedimenti estrinseci alle libertà  delle parti non si può ottenere se non mediante la costituzione di una forza superiore a tutte, sufficiente all'uopo.   La coazione, colla quale questa forza deve reagire,  per lo scopo detto, sopra le parti subordinate, non eli-  mina la libertà, come sarebbe la coazione tra parte e  parte.   Come notammo sopra, la coazione della parte come  tale è egoistica, e quindi a vantaggio della parte che la  esercita e a danno della parte che la soffre; mentre la coazione del Potere sovrastante alle parti è antiegoistica,  vantaggiosa alla Società, e quindi diretta a salvare nella  integrità della sua attitudine e funzione la disposizione  naturale di ogni sua parte.  La forza superiore del Potere essendo richie-  sta dalle esigenze delle stesse libertà delle parti subor-  dinate» queste devono concorrere a costituirla con una  parte della loro attivitàt sottoponendola quindi alla ne-  cessità della organizzazione sociale.   Qui, come dicemmo, abbiamo un limite positivo della  libertà delle parti costitutive della società; ma, siccome  è posto da esse liberamente (mentre l'organizzazione so-  ciale è una spontaneità naturale del consorzio umano nel  quale si produce)» allo scopo di sussistere, torna poi sem-  pre che la libertà delle parti medesime rimane on primo  ed un assoluto da cui tutto in ultimo dipende nella società.   Dal bisogno stesso della libertà adunque di-  pende anche il Potere subordinante. E con ciò è legiitimaiù. E quindi anche determinato in ciò che deve essere.   Determinato nel corpo che ne è investito, il quale  non deve essere una delle stesse parti coordinate, perchè  con ciò essa si troverebbe nel caso sopra indicato ed e*  sclusOf della parte che impedisce V altra*   Determinato nella azione che deve esercitare, che è  quella precisa richiesta dai due limiti «opra detti, cioè^  quello di porsi, onde essere in caso dì funzionare, e non  più; e quello di impedire la violenza della parte sulla  parte, e non più-  Ciò posto r ideale della Società umana richiede  le ragioni che seguono. L' autonomia perfetta delle parti, che cioè  ognuno sia veramente un arbitrio, come dicemmo nella  Morale dei Positivisti (i). E precisamente quel tanto che  si trova di poter essere realmente.   Secondo. Nessuna esecutività diretta o violenta del  volere dell' una sull' altra. Sicché la reazione loro sia  quella della Convenienza, scevra da costringimento ma-  teriale.   Terzo. Costituzione distinta del Potere, al quale solo  competa la esecutività coattiva sopra le parti subordinate.   Quarto. U ordine del Potere derivante dal corpo  dello Stato per selezione naturale degli ottimi, in dipen-  denza dal volere stesso delle parti che vi si subordinano;  e in virtù delle Idealità sociali proprie delle stesse, e  quindi non altro che allo scopo della tutela delle auto-  nomie coordinate nella Società, e della stessa loro coor-  dinazione nella medesima.   Quinto. Giusta e stabile organizzazione e subordina-  zioue delle parti corrispondente alla stabile giusta orga-  nizzazione ed efficacia d' azione del Potere. Ma il fatto concreto delle Società storiche del-  l' umanità si presenta assia vario e complesso. E lo stesso (i) Libro I, Parte II, Capo IV, (Pag. 113 del voi. Ili dì queste  Op, fU. nella ediz. del 1883, 118 della ed. del 1893 e del 1901, 122  della ediz. del 1908).  Ideale generico di queste Società non sì può rettamente  comprendere senza lo studio diretto del fatto medesimo.   E noi qui lo tenteremo, prendendo le mosse dalla  stessa analogia, alla quale ricorremmo sopra, tra V orga-  nismo sociale e V organismo biologico. Nelle specie infime degli animali le parti del  corpo sono omogenee ed indistinte, o pressoché tali. E  somiglia a questo indistinto preorganico della zoologia  r indistinto preorganico sociale delle truppe o coacerva-  zioni disordinate delle popolazioni selvaggie.   Nelle specie animali che seguono alle infime nella  scala zoologica si ha una prima distinzione di formazione:  cioè una moltitudine di parti distinte, congiunte insieme  in colonie, nelle quali non è ancora costituito un apparato  speciale distinto unico atto a subordinarle insieme nella  unità più perfetta dell' individuo. E a ciò somiglia il fatto dei primordi di una formazione sociale, nei quali,  sul suolo medesimo e coi soli rapporti della vicinanza, e  della parità maggiore o minore delle idee, dei costuiri e  della discendenza comune, si trovano a contatto, in un  certo numero, le tribù o i pìccoli Stati indipendenti gli  uni degli altri.   Nelle specie animali superiori, per una distinzione ulteriore (onde si forma la diversità dei tessuti e uno di  questi, il nervoso, resta con una speciale superiorità verso  gli altri in quanto, formando un sistema solo di tutte le  sue diramazioni nate in ogni parte, associa cosi colla u-  nità del suo lavoro i lavori di tutte le unità singole su  cui domina), si arriva alla unità organica propriamente  detta, che non è più quella della massa informemente  coacervata, né quella delle semplici colonie delle unità  distinte, ma quella dell' individuo complete, E somiglia  a questa distinzione progredita quella della Società ci-  vile, formatasi in seguito alla distinzione delle tribù in  caste, e al predominio della più forte e intelligente sulle  altre, e alla trasformazione successiva della sua tirannia  nel Potere regolare, moderatore delle unità sociali con-  federate.  Nel processo evolutivo di distinzione della  formazione biologica l’apparato, onde si unificano le parti  neir organismo assai complesso dell' animale, sorge dalle  intimità della sostanza viva. La quale però non risente l’effetto proprio dell' apparato stesso, uscito dal proprio  seno, se non a misura che si è formato effettivamente.  Lo stesso avviene nel processo evolutivo di distinzione  della formazione sociale. Il Potere subordinante, e quindi  ciò che si dice la Legge e la Giustizia, e la relativa Re-  sponsabilità dell' individuo verso di esse, nasce dalla  stessa virtù intima delle parti associate; ossia in ultimo,  degli individui umani. E accennammo già come; e spie-  gheremo più a lungo in segfuito. Nasce cioè in virtù delle  Idealità sociali (i), che sono un fenomeno psichico pro-  prio dell' individuo.   Ma r individuo non ne ha coscienza distinta se non  dopo che, pel processo naturale indicato, e inconscia-  mente per lui, il Potere stesso si è costituito.   Ed ecco come l' individuo è il fattore della Legge,  della Giustizia, della Responsonilità; e, nello stesso tempo,  (i) Su ciò verte in generale tutto il Libro I della Maiale dei po-  sitivisti, e in particolare il suo Capo III della Parte III.  queste suppongono l’evoluzione sociale già avvenuta, e  vi sono risentite siccome la correlazione dell' individuo  subordinato col potere sovraneggiante.   E con ciò siamo ora in grado di rilevare ancora m.e-  glio, e una volta di più, la verità, già illustrata nella  Morale dei Positivisti (i), del concetto della morale degli  antichi e di Aristotele in ispecie, che la consideravano  correlativa essenzialmente alla Società formata; e la fal-  sità del concetto ascetico-scolastico, che la considera sic-  come indipendente dalla Società stessa, fondandosi sul  fenomeno sopra indicato (2) del concetto della Gitistizia  divina. Ma la coordinazione e subordinazione, nel corpo  sociale come neir animale, e in qualunque altra unità or-  ganica naturale, non è cosi semplice quale, per chiarezza  e preparazione del discorso ulteriore, sopra abbiamo supposto.  Non è cosi semplice. Vale a dire non è puramente  un certo numero di parti, proprio eguali ed equipollenti,  concertate per la dipendenza diretta unica e sola di o-  gnuna da un centro immediato di tutte unico e solo;  come, per esempio, i raggi di un cerchio dal punto di  mezzo, dal quale si dipartono uniformemente con ugua-  glianza di lunghezza e di divergenza. E invece immensamente più complessa. Gl’elementi fondamentali ed ultimi del corpo so-  ciale sono gli individui umani, i quali formano, in gruppi  di pochi, degli organismi sociali elementari distinti; que- (1) Capo V della Parte III del Libro I. (2) N. 6 del l III.    sti piccoli organismi elementari poi si coordinano come  parti di associazioni e di organismi superiori; i quali alla  loro volta di nuovo si aggruppano in complessi maggiori. E la serie di tali ordini maggiori, che ne abbracciano  dei minori, è ben lunga. Come è anche il caso dell' animale superiore, soprat-  tutto dell'umano, nel quale ogni arto ed ogni viscere è  già un complesso ottenuto per una certa serie di combi-  nazioni di gruppi minori; e gli arti e i visceri sono insieme collegati dai centri del midollo spinale, al quale  poi sono sovrapposti gli altri centri superiori del cervel-  letto e dei lobi cerebrali, dipendenti alla loro volta dal-  E qui possiamo venire a una conseguenza im- portantissima circa i diversi aspetti che assume nella So- cietà civile ciò che dicemmo in genere, la Giustizia; e quindi anche la Responsabilità. Data la serie delle subordinazioni dette sopra, solo degli estremi si potrà dire che siano assolutamente, T in- fimo, la piura Convenienza, e il sommo, la piura Giustizia. Non COSI dei medii. Qualunque dei quali non sarà asso- lutamente, né la Giustizia, né la Convenienza; ma con-   incoata, e si compia solo in virtù del Tribunale dello Stato.  E cosi il Potere dello Stato, per rispetto all' eser-  cizio della Giustizia subordinata della associazione particolare, no permette solo quello che non danneggia l'assetto generale della Società o il Diritto dei soggetti in  quanto questi sono enti, oltreché della essociazione par-  ticolare, anche in pari tempo della totale.   Il che fa sì che la Giustizia propria dei Poteri su-  bordinati, col progredire della Società, va sempre più av-  vicinandosi a ciò che chiamammo sopra V arbitrato, E  che rispteade massimamente in quello paterno del buon  padre di famiglia.  Spieghiamoci meglio.  Nelle popolazioni selvaggie l’individuo è vindice di se stesso, o dei propri voleri, al di sopra dei quali non è costituito ancora, per la  imperfezione della associazione in cui vive, nessun potere giudicatore. E vindice dei propri voleri, anche se violatori della  libertà dell’altro. La costituzione di. un Potere superiore. nelle Società  progredite, che si assume la vendetta delle violazioni  della libertà individuale, togliendo la esecutività co-attiva al *volere dell' individuo sopra l’altro*, assicura la libertà di ambi. Tanto la cosa è cosi che, se per poco vien meno  questo Potere superiore, torna subito all' individuo la ne-  cessità e quindi il Diritto della propria vendetta. Come  nel caso che una persona appartenente ad una società civile si trovasse fra una popolazione selvaggia, o sopra una nave in alto mare e quindi fuori della portata del  Potere vendicatore, o assalito senza scampo immediato  da malfattori, o in un momento di anarchia dello Stato  in cui vive. Nel primo embrione di Società, in quello mettiamo  di una famiglia isolg-ta dal resto degli uomini, le contese  tra i fratelli le giudica e le vendica il padre, che ne è  il capo naturale. E la sua vendetta è illimitata e senza  responsabilità verso nessuno.   Nessuno per ciò gli impedisce o gli contende il Di-  ritto anche sulla vita dei figli e della moglie.   Non così però, coordinate che siano le famiglie sotto  un Potere superiore nella città che le abbraccia in una società sola. In questa città il Potere superiore tende a  limitare il Potere del padre al puro necessario per l'esi-  stenza, il ben essere, la prosperità della famiglia come  tale; e veglia a che il padre non eserciti verso i suoi  dipendenti altro Potere che questo, che però in pari  tempo concorre ad assicurare: e vendica su di lui ogni  eccesso od abuso del potere. E da ciò consegue naturalmente, che se ne restringa  sempre più la esecutività, e che si converta in semplice  arbitrato; nel quale può soprattutto, e da sé sola, per la  propria impulsività morale, la Idealità sociale, nella quale  consiste la Legge, nel cui nome l'arbitrato si esercita. Ed ecco quindi l’effetto naturale del progresso  della evoluzione sociale: salvare e garantire sempre più le autonomie naturali. Stabilire sempre più distintamente il compito dei Po-  teri subordinanti; e impedirne gli eccessi e gli abusi.   Rendere quindi con ciò più evidenti le Idealità s(h  ciali, e rafforzarne la impulsività, e ridurle alla condi-  zione di Poteri efficaci senza uso di violenza e quali sem-  plici arbitrati. Come più volte, e per varie g^ise, dedu-  cemmo sopra.  Il quale eflFetto, che il Potere si converta in  semplice arbitrato, lo riscontrammo anche nello stesso  Potere, solo provvisoriamente supremo, di un singolo  Stato.   Solo provvisoriamente supremo. Perchè notammo,  che lo Stato tende a coordinarsi naturalmente nei colle-  gamenti intemazionali di più Stati.   E per la stessa legge; mentre dimostrammo, che il  Potere di uno Stato va sempre perdendo del violento, e  avvicinandosi alla natura puramente persuasiva della Idea-  lità, che si impone da sé, in conseguenza di una forza  estema e superiore ad esso; cioè del potere inter-nazionale, tendente ad impedire gli atti di lesa umanità nei  singoli Stati intemazionalmente collegati o altrimenti, e  il loro Machiavellismo.   Come emerge poi luminosamente anche dalla storia  politico-sociale contemporanea.   Un saggio storico eloquentissimo di un Po-  tere superiore convertitosi in semplice arbitrato si ha nel  fatto della Chiesa Romana, e in seguito all' abolizione di  ciò che in essa si chiamava il braccio secolare.   Si verificò in questa conversione, per questo lato,  r Ideale della Società umana, sopra da noi chiamato anche  il regno (razionale) della Giustizia sottentrante a quello irrazionale del fato; ossia il regno del concorso libero  o autonomico delle parti costituenti; e non eteronomico(\)y  ossia p>er violenza materiale esercitata sopra di esse da  una forza, non morale, ma bruta.  E questo arbitrato sociale non è poi altro in  fine se non lo stesso arbitrato della volontà dell' indi-  viduo sopra se stesso, onde emana, come più volte di-  cemmo.   Ne emana, e quindi ne ha in sé le ragioni costitu-  tive. Nel medesimo tempo però, per le ragioni già ripe-  tute, lo stesso arbitrio individuale non finisce di diven-  tare ciò che deve essere (vale a dire una forza che muove  per la impulsività pura delle Idealità sociali), se non a  misura che, idealizzandosi nel modo anzidetto, si perfe-  Circa r Autonomia e la Eteronomia, vedi la Morale dei Po-  siiivisti, Lib. I, Parte II, Capo IV (Pag. 113 del volume III di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 118 della ed. del 1883 e del  1901, e 122 della previa edizione).  seziona il Potere sociale al quale V individuo è subordi-  nato.   Onde poi lo studio dell' arbitrio sociale subordinante  serve indirettamente a far conoscere la natura dell'arbi-  trio deir individuo umano.   E siccome lo studio da noi qui fatto dell' arbitrio  sociale subordinante ci ha condotto al concetto di una  Legge© che si impone colla sola evidenza della propria  Giustizia, con ciò abbiamo una nuova prova della nostra  dottrina (esposta nella Morale dei Positivisti). L'idealità sociale impulsiva del volere individuale  è una Giustizia.   Ed ora poi dalle cose dette possiamo ricavare  la conseguenza, alla quale mirava tutto il lungo discorso  fin qui fatto sopra la distinzione e la genesi della Convenienza e della Giustizia. L' Idealità sociale è la stessa Legge che si stabilisce  nella Società. E la Legge è la Giustizia in quanto im-  porta una Responsabilità dei subordinati verso il Potere.  L' idealità sociale (impulsiva della volontà dell' indi-  viduo, com' è dimostrato nella Morale dei Positivisti) si  viene formando nella psiche dell' individuo convivente  nella Società per effetto di questa convivenza. Per ciò di-  ciamo che r Idealità sociale è infine nuli' altro che l'm-  pronta, nella psiche singola di un dato uomo, della Legge  o del Volere sociale subordinante. Nello stesso luogo indicato nella nota precedente.  Da ciò consegne poi che l’Idealità sociale nella psi-  che o nella mente dell' uomo, in cui si è formata nel  modo ora detto, non si presenta come una semplice ve-  rità logica, dipendente da una propria speculazione teo-  rica, ma si come qualche cosa che si impone; cioè come  una Legge che la domina da una altezza superiore, e ac^  compagnata dalla minaccia di una Sanzione vendicatrice;  ossia, non come una semplice idealità qualunque, ma come  una Giustizia. Ed ecco scoperto il nostro gran difficile.   La Giustizia non può essere che la legge del potere subordinante: e tuttavia la Idealità sociale, impul-  siva del volere dell' individuo e nascente in lui per la  evoluzione intima e propria della sua psiche, è pure una  Giustizia.   I due asserti parevano contradditorj; e invece sono veri  ambedue, accordandosi tra di loro e spiegandosi a vicenda. Si spiegano a vicenda.   Da una parte, non è possibile il fatto della Legge  del Potere subordinante senza il lavoro psichico dei di-  versi individui che compongono la Società.   Dall' altra, le stesse attitudini dell' individuo sono  però massimamente gridate nel loro funzionamento natu-  rale dall' ordine delle cose della Società in cui vive. E  quindi le Idealità sociali dell' individuo devono assumere  nella sua mente la forma della Legge subordinante che  domina nella Società che lo involge: devono essere nella  sua mente come 1' eco o la soggettivazione o il pensiero  del fatto oggettivo reale dell'ambiente che determina il  suo lavoro intimo. Il valore scientifico della detta soluzione della  difficoltà propostaci è tanto maggiore in quanto V indu-  zione sociologica qui conferma pienamente V induzione  psicologica, che nella Morale dei Positivisti ci portò alla  medesima conclusione.   Alla conclusione cioè, che la morale individuale è es--  senzialmente dipendente dalla morale sociale; e che VE-  tica è un ramo della Politica, come diceva Aristotile,  ossia della Sociologia, come si dice adesso.   E che il principio dei Metafisici, che sia l'Etica che  crei la Sociologia (e non il contrario), è falso.   Falso, come, in ogni altro ramo della scienza, il cre-  dere che il fatto complesso della natura sia determinato  direttamente dalle azioni indipendenti dei singoli compo-  nenti, e non che V azione di ogni componente sia essa  stessa determinata dal suo rapporto col resto della na-  tura; come ho spiegato nel libro della Formazione natila  rale nel fatto del sistema solare (i), dove dimostrai che  la legge di una formazione naturale qualunque è questa:  che un fatto singolo è il punto nel quale si intersecano le  due linee infinite dello Spazio (o delle cose tutte quante esistenti) e del Tempo (o delle azioni tutte quante succedutesi).   E godo adesso di avere illustrato quella legge gene-  rale col rilevarne la verifica anche n^Wz. formazione etica.   La quale ha questo carattere, di apparire nella co-  scienza individua siccome una Giustizia. E la Giustizia  implica un ambiente esterno alla coscienza stessa, dal  quale sia determinata. Del quale principio poi (e gioverà notarlo qui  ancora, quantunque, la cosa, V abbiamo accennata altre  volte precedentemente) è prova positiva diretta il fatto  storico (superiore a qualunque eccezione, e accertabile  nel modo più evidente) che nmt non fu possìòtle di ira-  vare in una coscienza individuale una Idealità elica, ossia  un principio di Giuslizia, di formazione inconsapevole,  £he non corrispondesse al fatto della Legge sociale real-  mente riabilitasi neir amòiente nel quale la coscienza  stessa fu educata. Proprio come sopra nessuna bocca  d'uomo parlante fu mai possibile una parola inconsapevolmente appresa, che a lui non abbia insegnato la So-  cietà dei parlanti fra i quali crebbe. E come in tutte le cose le diversità degli ambienti  creano le varietà e le specie delle individualità dipen*  denti, cosi le Varietà e le Specie eliche fra gli uomini  sono create storicamente dagli ambienti sociali vari e di-  versi, ai quali essi appartengono; e per quella stessa  leg^ge dell’ordine e del Caso, che in ogni parte della na-  tura si verifica nella produzione delle Varietà e delle  Specie delle cose, come dimostrai nel libro testé citato. Che più? La stessa teoria dei metafisicici for-  nisce un argomento in appoggio della nostra.   Anche il Metafisico ha trovato nella coscienza umana  Una serie di Idealità, direttive del volere, con questo ca-  rattere della Giustizia o della Obbligatorietà; e ha argo-  mentato che, per ciò stesso, ossia per tale carattere della  obbligatorietà, era giocoforza ricorrere a qualchecosa di  esterno alla coscienza medesima, onde quelle Idealità le  fossero dettate, e di fronte ad essa sancite.   Se non che il Metafisico non si è apposto nella de-  terminazione giusta di questo esterno. Ossia il suo esterno  non è quello distinto e vero del Positivista, che è quanto  dire V ambiente sociale; ma T indistinto, anzi il confuso  della speculazione volgare antiscientifica, ossia dio. Non si è apposto qui il Metafisico, come non si è  apposto neir assegnare T esterno onde dipende la produ-  zione della pianta e dell' animale, che il Positivista ha  trovato essere la stessa natura (i) e il Metafisico ha cre-  duto fosse il volere diretto della divinità. L' Idealità etica è una Legjge obbligante, ossia una  Giustizia. Dunque, ha detto il Metafisico, tale Idealità è  prima una realtà fuori dell' uomo, ossia è un pensiero di  dio. E da esso è dettata in modo misterioso all' uomo. Vale a dire lo stesso pensiero divino di quella Idealità  è riflettuto nella mente umana, come in uno specchio il  raggio di luce che lo illumini da un corpo per sé luminoso. L' Idealità etica è una Legge obbligante. E non lo  sarebbe realmente se non importasse una Sanzione. Dun-  que, ha detto il Metafisico, lo stesso dio ha decretato  quella sanzione e la applica in un modo misterioso. Un  castigo misterioso è preparato in una vita misteriosa av-  venire a quelli che trasgrediscono la Legge stessa. Non sarà inutile qui di avvertire che, pel significato dì questa  parola natura, mi riferisco alla spiegazione che ne do negli 'altri  miei libri, e specialmente in quello della Formazione naturale nel  fatto del Sistema solare: e per la quale intendo solamente le proprietà  inerenti alle stesse cose. Sicché è ridicola affatto V osservazione di  certi miei accusatori superficialissimi^ che io con questa parola non  faccia altro che sostituire al soprannaturale, chiamato dio dai metafisici, un* altro soprannaturale chiamato natura.  Dal che si rileva, che la Metafisica ha notato giu-  stamente la relatività della Giustizia data nella coscienza  verso una esteriorità che renda ragione delle qualità ca-  ratteristiche della Giustizia medesima quali la osserva-  zione le riscontra nel fatto della coscienza stessa. Solo  ha sbagliato nel projettare questo fatto. Ha sbagliato la  Metafisica nel projettare V individuo cosciente sul fondo  della esteriorità immaginaria e fallace della divinità^ an-  ziché su quello della esteriorità positiva e vera della  Società,   Ha sbagliato qui la Metafisica, come negli altri  campi dello scibile la scienza vecchia in genere. Per  esempio, V astronomia tolemmaica, che aveva ragione nel  distinguere i fatti dei movimenti dei corpi celesti, ma  errò nella loro projezione. Proiettandoli essa secondo la  ragione del suo falso supposto che la Terra fosse immo-  bile, le osservazioni vere condussero ad un disegno falso  del movimento cosmico reale. Per render vero questo di-  segno r astronomia copernicana non ha avuto bisogno di  altro che di projettare le figure medesime del movimento  sidereo, notate dai tolemmaici, secondo una ragione pro-  spettica diversa; cioè secondo la ragione della immobi-  lità del Sole, e della mobilità della Terra intorno ad  esso. E così qui possiamo riconfermare il nostro asserto  per ciò che dicemmo in un capitolo della Morale dei  Positivisti (i), dove accennammo alla genesi storica della (i) Capo VII della Parte I del Libro I, n. 8 (Pag. 70 del Voi.  Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 72 dell' ed.  del 1893 e del 1901, e 75 dell'ediz. del 1908).    stessa Idea della Giustizia divina nel terzo stadio della  evoluzione del sentimento religioso. L’Idealità sociale è gia Giustizia potenziale. La Giustizia adunque, secondo le cose dette,  ha due lati essenziali correlativi V uno air altro; correla-  tivi come r individuo e la Società. Due lati: dalla parte della Società, ossia come un  fatto verificatosi persistentemente nel Potere che la eser-  cita sugli individui dipendenti: e per questo rispetto spe-  cialmente si chiama Giustizia. E dalla parte dell* indi-  viduo nel quale è, non qualchecosa di statico, come nel  Potere, ma una potenzialità, ossia qualche cosa di dinamico: e per questo rispetto specialmente si chiama Idea-  lità sociale.   Capitale questo carattere della Giustizia o dell'Idea-  lità sociale dell' individuo. E positivamente certo: poiché  corrisponde alla osservazione del fatto. E che non si può  spiegare se non per le vie onde qui lo scoprimmo. E  senza del quale poi è impossibile chiarire le diverse  forme delle reazioni sociali, e quindi delle responsabilità corrispondenti al principj etici dominanti nella coscienza individuale. E in che consiste questa ragione dinamica o questa  Potenzialità? Ossia in che modo la Giustizia nella co-  scienza individuale è una Giustizia potenziale?  Nell’individuo non può esistere distintamente  in un determinato modo il concetto della Giustizia so-  ciale obbligante, e correlativa ad una Sanzione, se non  per effetto sull'individuo stesso della vita sociale com-  plessiva, della quale esso faccia parte. Questo si: ma è  pur vero che, come la Società è V opera degli individui  che r hanno costituita, cosi la Giustizia che vi domina si  deve in ultimo alle loro disposizioni psicologico-morali,  che ne sono la potenzialità inconsapevole.   Secondo. Una volta che la Giustizia sociale è dive-  nuta, pel processo naturale inconsapevole della forma-  zione della Società, un fatto statico atto ad informare di  sé la coscienza dell' individuo vivente sotto il suo re-  gfime, questa coscienza concorre a mantenerla nell'essere  suo. E ciò più o meno consapevolmente. Così, per esempio,  il maestro di musica di una data epoca è in possesso della  sua arte perchè questa vi si era naturalmente maturata; e  cosi potè essere da lui appresa nella forma che vi aveva.  Egli poi serve in pari tempo a mantenerne la tradizione. La applicazione della Sanzione sociale in virtù  della detta consapevolezza viene ad essere reclamata dallo  stesso pensiero della Giustizia vivente nella coscienza in-  dividuale. E quindi la detta applicazione è una soddis-  fazione della stessa coscienza individuale. E tanto, che  la Sanzione medesima essendo applicata, mentre soddisfa  il reclamo della coscienza individuale, nello stesso tempo  la rafferma e la rende più viva e sentita, come osser-  vammo nella Morale dei Positivisti (Libro II, Parte IV, Capo II, n. 17 (pag. 400 e seg. del Voi.  Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 423 dell' ed.  del 1893 e del 1901, e 433 delPediz. del 1908). La coscienza individuale diventa per tal modo  giudice in primo appello, o potenziale, dei fatti e degli  ordinamenti della Socteià complessiva. E giudice delle parti coordinate nella Società^   Settimo, E giudice di se stessa. Ed ecco, in questa  ultima cerchia, la Giustizia sociale divenuta Giustizia  etica.  La Giustizia sociale cosi nell'individuo lo rende  un giudice potenziale verso tre termini: la Società stessa,  le altre parti coordinate (ossia ciò che anche si dice, il  prossimo), e se stesso.   Come giudice potenziale verso la Società coopera  nella produzione del Potere e nella riduzione di esso alla  sua forma giusta.   Come giudice potenziale verso il prossimo si atteggia  nella reazione che dicemmo della Convenienza.   Come giudice potenziale verso se stesso si manifesta  nel fatto intimo del rimorso per la colpa e della compiacenza morale per la virtù,   Resta che si considerino un poco queste tre  specie di giudizi del tribunale individuale della coscienza  di ciascun uomo,   E, per ora, la prima e la seconda.  E cominciando dalla prima, ossia del giudizio del-  l' individuo verso il Potere sovrastante. Nello sviluppo normale della vita sociale la  ragione della Autorità subordinante e la sua fissazione  in un Potere effettivamente affidato ad un dato ordine di  persone va producendosi di continuo inconsciamente (quan-  tunque in modo inegualissimo dall' uno all' altro) nella  psiche dei singoli individui. E perciò fu da noi detta  sopra, non statica, ma dinamica.   Vi si va producendo di continuo secondo che la com-  partecipazione precedente degli individui stessi li ha  messi in grado di procedere, dalla formazione psichica  acquistata inconsciamente nella matrice sociale educativa,  ad una formazione ulteriore.   E con un lavoro, che si svolge si nei singoli indi-  vidui, ma nello stesso tempo, per la comunanza della vita  morale, si aiuta nel formarsi del lavoro simultaneo degli  altri.   Inegualissimamente, abbiamo detto, nei singoli indi-  vidui. Ma colla consapevolezza del consentimento nella  formazione stessa della massa sociale. In modo che la formazione medesima, quantunque  inegualissima nei singoli, determina una tendenza com-  plessiva, che ha la potenza unica e grande corrispondente  alla somma delle individuali.   Potenza che si attesta con un effetto proporzionato:  cioè colla creazione del Potere sociale, che rappresenta  quella Idealità sociale onde è l’effetto (come già di-  cemmo), o col perfezionamento del Potere già esistente,  in corrispondenza col perfezionamento delle stesse Idea-  lità sociali.   Per tal modo il Potere, come è una manifestazione  spontanea della vita sociale, nella quale concorrono i sin-  goli individui inconsciamente, e prorompe quindi da tale  inconscio concorso irresistibilmente, cioè pel processo in-  vincibile della natura, e diventa coscienza dell'individuo  solo dopo che si è manifestato nella realtà sociale pròdotta dal processo medesimo, così è potenzialmente prima  neir individuo.   Ne viene, che V individuo stesso, una volta che ha  potuto cosi accorgersi dell' Idealità sociale produttrice del  Potere sociale (accorgersene cioè dopo la sua manifesta-  zione comune in esso operatasi), s' accorge insieme di due  cose. Che cioè la detta Idealità ha all' estemo per suo  corrispondente il Potere stabilito nella Società, ed è nata  dentro di sé: e che vi è nata col carattere di una Giu-  stizia; vale a dire con quel carattere col quale apparisce  all' individuo quando arriva ad averne la coscienza. E  tanto, che l' individuo sfesso per tale Idealità concepita  come Giustizia giudica lo stesso fatto esterno del Potere:  ossia rileva come corrisponde o meno al principio di  Giustizia della propria coscienza, e pone astrattamente  una Responsabilità dello stesso Potere verso esso principio. Ed è ciò precisamente che notammo sopra, parlando  del Machiavellismo polìtico nel suo riguardo all' in-  terno, e del fenomeno storico del concetto della Giustizia  divina.  Il che poi spiega un altro fatto della evo-  luzione sociale. Quello cioè che, a misura che una Società  progredisce nella cultura e nella umanità, diminuisce ciò  che si dice il Diritto del più forte, é cresce ciò che si  dice il Diritto dell' uomo, e l’ordinamento sociale va  sempre più diventando elettivo.   Che è mai il Diritto dell' uomo, che si attesta di  fronte al Diritto del Potere subordinante, se non la sud-  detta coscienza individuale della Idealità sociale, onde il potere medesimo nasce e vige? Si: è proprio la suddetta  coscienza individuale, che ne è il giudice potenziale, po-  nendolo, fissandone i confini, e creandone la responsabi-  lità in modo. astratto verso se stessa.  Questo Diritto, la coscienza lo trova in sé, in seguito  al fenomeno sociale corrispondente verificatosi; a quel  modo che la coscienza dell'arbitrio sopra le proprie gambe  si ha solo dopo che si è fatto Tuso volontario delle  gambe medesime. E l’arbitrio la causa onde si muovono le gambe; ma  solo r effetto seguito del movimento rende avvertita la  coscienza di tal suo potere.   E ciò è proprio di ogni genere di coscienza.  Per esempio, dell' arte. Che sa dell'arte l'uomo prima  di avere prodotto un' opera d' arte? U opera riuscita inconsciamente estetica gli rivela il suo potere estetico. E  dair opera medesima che 1' uomo ricava la coscienza e la  regola dell' arte in genere e la mossa a progredire nel  correggere e migliorare la precedente, e a giudicarne.  E di mano in mano che la coscienza della Idealità  sociale va facendosi nella generalità distinta e forte e  impulsiva in proporzione dell* atto umano, anche la creazione del potere si sottrae al caso della forza brutale e  si fa dipendente dalle deliberazioni dirette degli indi-  vidui associati: tanto più razionali e libere dalla violenza,  quanto più la massa degli individui stessi è umanizzata.  Onde, se la selezione naturale è la legge secondo la  quale negli organismi in genere si crea il loro apparec-  chio centralizzatore, nell'organismo sociale, per la crea-  zione del Potere, che è il suo apparecchio centralizzatore.  ■"TW^W^^PP^la selezione naturale si specifica nella forma superiore  della ciezìofie,  E anche in ciò toma il principio già ricordato del  procedimento progressivo della Società nel suo sviluppo:  cioè del regno della Giustizia razionale, che si va sempre  più sostituendo a quello del fato: analogo al procedi-  mento generico della natura, che neir uomo tanto più è  diventata psiche quanto più ha cessato di essere cosa meramente _^ica. Tutto ciò nel processo sociale di evoluzione  normale. E nell'anormale?  Xeir anormale si genera un movimento periferico  contrastante la funzionalità centrale, che non armonizza  colle Idealità sociali già formate negli individui sotto-  posti. Un movimento contrastante che può andare fino  alla distruzione della funzionalità esistente, e quindi alla  sostituzione di un'altra che armonizzi colle dette Idealità,  ossia colla Giustizia potenziale degli individui medesimi.  E questo il processo della rivoluzione.  Succede in questa un fatto analogo a quello fisiolo-  gico della passione, nella quale una eccitazione insolita  invadente le parti subordinate dell' organismo sopraffa i  centri, sostituendo quindi il proprio impulso a quello  normale dell'apparato volitivo libero.  E tale processo anormale della rivoluzione, nel fondo,  è quello stesso normale detto sopra della evoluzione. Poi-  ché anche in questo il Governo sociale è determinato dal  consenso delle parti subordinate. La differenza sta solo  in ciò, che nel processo normale della evoluzione il centro  si presta, cedendo, ad atteggiarsi secondo le esigenze della Giustizia potenziale; e nell'anormale della rivohi-  none no. In una parola, le forze che agiscono sono le  stesse, e gli eflFetti diversi dipendono dalla diversità dei  rapporti delle forze medesime. La rivoluzione sociale propriamente detta dunque suppone una condizione avanzata di cultura mo-  rale dei membri della Società.  Più è questa cultura morale e più è irresistibile la  forza rivoluzionaria.  Ma più questa forza è irresistibile e più la sua anione è  moderata e procede per moto evolutivo anziché sovversivo-  In modo che, nel massimo della cultura, e quindi  della irresistibilità, e conseguentemente della modera-  zione, il moto rivoluzionario coincide con quello normale  progressivamente riformante detto sopra.  Q, — Perchè non si incorra in un equivoco circa il  principio sopra stabilito, bisogna ricordare qui esatta-  mente il concetto da noi posto a fondamento di tutto il  nostro discorso; ossia quello della Giustizia potenziale,  che infine è la stessa Idealfià sociale an^iegoùHca; la  quale nella umanità perfezionata è impulsiva irresistibil-  mente della volontà individuale.  Onde r individuo rivoluzionario per eccellenza è, non  Tuomo di poca levatura, nel quale la mente e il volere  si acconciano a ciò che impera esternamente» trovando  tutto buono; ma il Sapiente, quale fu da noi definito  nella Morale dei positivisti (i).  (D Libro I, Parte li. Capo IV, w. 17 (^ag^ lay del Voi. Ili di  queste Ofté re filosofiche nella ed, dei iS85, 132 dell* ed* del J&93  e deJ 1901, e 136 dell" ed. del 1908).  ^m  - 64 -  Il sapiente, come ivi dicemmo, è quello nella co-  scienza del quale le Idealità sociali antiegoistiche si sono  espresse colla massima evidenza, e acquistarono la mas-  sima impulsività sul volere. Onde è ciò che si dice un  carattere. Esso è per questo nella impossibilità di patteg-  giare cogli ordinamenti riprovati dalla potenzialità della  Giustizia imperante nella sua coscienza: anche se il patteg-  giare gli porti soddisfazioni egoistiche. Ed è anche nella  impossibilità di non isforzarsi secondo la potenzialità me-  desima; anche se il farlo gli porti danni personali. Questi  egli li incontra senza impensierirsene e tranquillamente  come Cristo e Socrate, e tutti i cosi detti martiri delle idee.  Sublimemente questo fatto nel cristianesimo primi-  tivo è stato espresso nel principio, che òisogna ubbidire  prima a dio poi agli tcomini, E il principio, come è  chiaro dopo le cose dette, è in tutto vero, quando alla  espressione dio, che indica indistintamente una realtà  giusta, si sostituisca quella di Giustizia potenziale, che  indica distintamente la realtà stessa. E discende poi da ultimo dalle cose dette  anche la conseguenza, essere la teoria della rivoluzione  del positivismo diametralmente opposta alla vecchia della  Metafisica, espressa soprattutto oella dottrina del contratto  sociale di Spinoza e di Rousseau.  Il contratto sociale è falso per la storia naturale della  umanità.  Per la storia naturale dell' umanità è vera invece  un' altra legge: la legge della naturalità della società  umana, formantesi spontaneamente, e inconsci gli indi-  vidui subordinativi.  Nella dottrina di Spinoza e di Rousseau il moto rivoluzionario è determinato dall' individuo che si pone  come un assoluto; e quindi è affatto egoistico; e quindi  tende a disfare la Società. Nella dottrina positivistica invece il moto rivoluzionario è determinato dall'individuo siccome ordinato naturalmente alla Società; ossia è determinato dall’idealità che vi hanno relazione. E quindi è essenzialmente  ant-iegoistico o altruistico – l’amore dell’altro, la benevolenza, la beneficenza: e conseguentemente tende, non a disfare la  diada sociale, rna a migliorarla. Consideriamo ora il giudizio del tribunale indi-  viduale della coscienza di ciascun uomo verso le parti  coordinate nella Società, ossia verso di ciò che si chiama il prossimo. Nel che tocchiamo di un argomento di importanza principalissima tanto dal lato sociologico quanto dal lato  morale propriamente detto.  E la nostra considerazione, cominciando in questi  due ultimi paragrafi del primo Capo del libro, sarà prò-  segpiita nel seguente. La Idealità sociale è una formazione naturale della  psiche individuale umana: e tale Idealità è impulsiva del  volere: e per esso gli atti liberi dell' uomo sono antiegoi-  stici e quindi morali.  E (come indicammo anche qui nei paragrafi precedenti) la Idealità sociale agisce sopra il volere dell'uomo  presentandosegli nella forma della Giustizia; vale adire  come qualchecosa che ha rapporto con una Sanzione: ossia  è una legge che importa la Responsabilità del volere  verso di essa.  La Giustizia onde è dettata e autorizzata Téizione del  volere ne costituisce il Diritto,  La Giustizia che importa verso di se la Responsabi-  lità del volere ne costituisce il Dovere a).  Ed ecco in che modo la Idealità sociale, che è una  formazione naturale spontanea dell* individuo, è in pari  tempo, e un concetto mentale, e un motivo pratico (ossia  una forza che determina T atto volontario), e una Giusti-  zia, e una Legge, e un diritto, e un dovere.  L' essere umano, unico o collettivo, in quanto  r azione ne è determinata dalla Giustizia, è una Persona,  Il genere poi della Personalità varia secondo il genere  del rapporto creato dalla Giustizia medesima.  Considerando qui il rapporto di subordinare nell'or-  ganismo sociale, si ha la Personalità del Potere. Consi-  derando il rapporto di esservi subordinato, si ha la personalità della parte sociale sottoposta che, in ultimo, è  r individuo. Pel potere la Giustizia è la stessa Legge dello Stato.  Per r individuo è la stessa Idealità sociale che in lui si  forma e che chiamammo Giustizia potenziale.  In virtù della Legge il Potere costringe il subordi-  (i) Vedi la Morale dei Positivisti; per es. Libro I, Parte II,  Capo IV, n. 15 e 16 (Pag. 125 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche  nella ediz. del 1885, 131, 132 dell* ediz. del 1893 e del 1901 e pag.  135» 136 nella ediz. del 1908).  - nato alla osservanza della Idealità sociale. E quindi il  Potere ha un Diritto sul subordinato, e il subordinato ha  un Dovere verso il Potere. E il Diritto del Potere qui è  positivo.  Ma in virtù della Giustizia potenziale anche il subordinato ha una azione sopra lo stesso potere. E per tale rispetto quindi  il potere ha un *dovere* verso il subordinato; e questo  ha un *diritto* verso il Potere. E il *diritto* del subordinato qui è *naturale*. Ed ecco il concetto vero del diritto naturale, creatore e gfiudice del positivo e vendicatore sopra lo stesso potere delle ragioni del subordinato.  E cosi, per asserire lo stesso diritto naturale, non  occorre punto uscire dall’uomo, e riferirsi ad una divinità e ad una Legge da essa emanata.  Questo diritto naturale appartiene all'essere umano,  malgrado che in esso non possa formarsi al di fuori  della Società e senza che V Idealità sociale della psiche  singola siasi prima convertita nella Legge positiva del  Potere. Essendo poi il Diritto positivo lo stesso fatto  del Potere che si è costituito efifettivamente in una data  Società, con ciò si spiega come possa essere più o meno  in contraddizione col Diritto naturale, preso siccome la  Giustizia potenziale astratta, desunta dallo studio compa-  rativo dei fatti sociali, e rappresentante quindi un ideale,  che solo imperfettamente si trovi realizzato nelle singole  formazioni storiche della Società umana.  Ed essendo il Diritto positivo stesso una formazione naturale della totalità sociale, che diventa qual' è col pas-  sare dall' indistinto al distinto (per la legge comune ad  ogni formazione naturale), cosi si spiega come, prima di  essere un codice scritto, è stato una consuetudine sorta  per inconscia spontaneità; e come la stessa consuetudine,  che seguita a sorgere pure per inconscia spontaneità an- che dopo la fissazione del codice, possa a poco a poco  avere prevalenza, come diritto, sopra la legge positiva. Il Diritto naturale, oltre comprendere la ragione, imperante nel subordinato, di creatore, giudice e  vindice verso il Potere sovrastante, ne ha in sé anche  un' altra.  Vale a dire ha in sé anche la ragione di ciò che de-  signammo sopra col nome di Convenienza, che riguarda  i rapporti dei subordinati tra di loro, e non ha esecuti-  vità propriamente detta. Ora é da dire di questa più chiaramente e precisela  mente, se e come sia o no una Giustizia, e quindi appar-  tenga alla Moralità; poiché la Moralità non si può con-  cepirla se non con una Sanzione e con una Responsabilità; e quindi in ordine ad una Legge sovrastante: cioè  come una Giustizia.  Domanderemo e risponderemo di nuovo: Quale é l’ufficio del Potere? L'ufficio del Potere è triplice. Dì stabìlii-si aella Società a spese delle  sue partì.  Secondo. Di difendere l’autonomia di ciascheduna  dalla violenza delle altre. Dì dispensare nell'effetto del mij^Uoramenta  delle parti quella forza coniane dell* ambiente sociale  che opera per esso Potere. In tutte e tre le suddette forme del suo ufficio il  Potere esercita sulle parti un Diritto, come abbiamo  detto. E la ragione della azione del Potere è quindi una  Giustizia, ossia è col legata ad una Sanzione, E ciò perchè  esiste una Responsabilità per parte dei subordinati verso  di essa azione, se mai violassero gli ordini stabiliti.  E il Diritto medesimo lo dicemmo un Diritto positivo.  Ma questo Diritto positivo dimostrammo sopra di-  pendere in ultima analisi dal Diritto potenziale o dalle  Idealità mentali degli individui» Onde, in ultima analisi,  potenzialmente la Giustizia non è altro che le stesse Idea-  lità mentali. La Giustizia dunque si estende quanto la potenzialità  della Idealità sociale, formantesi nella psiche singola dell’uomo per la sua partecipazione alla vita comune della  Società; nella quale si cova, per cosi dire, il germe in-  dividuale, si che si maturi in lui la disposkione naturale  al civile coasorzio. Maturazione questa che importa tutte  tre le forme suddette dell' ufficio del Potere, se non che il Potere stesso non è tutto l’effetto di tale maturazione; ma solo una parte* Quella cioè,  che si potrebbe chiamare V effetto più disHnéù.  Oltre sififatta parte ne resta un'altra; e più estesa  ancora: ed è quella che non si matura nel fatto di un  Potere legale, ma rimane neW indistinto di ciò che chia-  miamo la Convenienza. E la Convenienza la diciamo un indistinto appunto per-  chè il Potere non è altro che un distinto che si forma poste-  riormente da essa per una elaborazione più compiuta.   Ne /iene che, se il Potere è il Diritto distinto, e  quindi la sua ragione una Giustizia distinta, (e cosi la  Sanzione e la Responsabilità) la Convenienza è invece un  Diritto indistinto, e quindi anche una Giustizia indistinta. Una Giustizia indistinta si, ma pur sempre una Giustizia.  Ed ecco come il concetto della Giustizia, e  quindi della Legge morale (col suo rapporto ad una San-  zione e con una Responsabilità) si allarga oltre la sfera  delle prescrizioni del codice pubblico e si estende a tutte  le relazioni libere tra individuo e individuo. E come  questa Legge morale extralegale sia anch'essa puramente  una formazione naturale della psiche dell'uomo civile. E  quindi non occorra per ispiegarla ricorrere al sogno della  Legge eterna della divinità. E il farlo sia un errore ana-  logo a quello della vecchia astronomia che, il moto della  Luna intorno alla Terra, lo spiegava col comando dato alla  Luna da dio di girare cosi intorno alla Terra, e non per via  della stessa naturale evoluzione cosmica; e, la virtù dell'a-  cido di intaccare il metallo, lo spiegava colla proprietà in-  taccatrice capricciosamente concessa da dio all'acido, e non  per via della stessa disposizione intima degli atomi compo-  nenti la molecola dell'acido e del metallo, onde dipende na-  turalmente ossia necessariamente, il fatto chimico suddetto. La Giustizia legale (seconda forma dell' ufficio del Po-  tere) è una gradazione evolutiva superiore di un in-  distinto inferiore da cui emerge.  Ma la cosa ha bisogno di essere dilucidata  meglio e con esempj più concreti.   K per ordine. Cioè secondo le tre forme dette sopra  deir ufficio del Potere. E comincieremo dalla seconda, di difendere l’autonomia di ciascheduna parte della Società dalla violenza delle altre. La difesa dell' individuo subordinato, assunta  dal Potere, importa che questo lo guardi dalle ofifese  degli altri, e faccia che V ofifensore risarcisca T ofifeso; e  che gli arbitrj singoli nella loro attività si equilibrino  vicendevolmente in modo che la limitazione imposta a  ciascheduno sia la minima necessaria, la minima indi-  spa usabile ad ottenere la coordinazione giusta nella So-  cietà, richiedente la collaborazione egualmente non im-  pedita di tutte le sue parti.   Ma tale difesa, assunta dal Potere, della libertà e  del Diritto individuale non si pud estendere a tutti asso-  iuiamente i fatti sociali verificantisi attorno ad un indi"  viduo. Non a tutti, di gran lunga. Non a tutti, che sono  infinitamente molti. Ma solo ad alcuni pochi. A quei  pochi solamente che è strettamente richiesto dalla esi-  stenza del corpo sociale.   E la difesa in discorso, circa i detti pochi fatti, è  propria di quella che si chiama la Giustizia legale, o po-  sitiva, o distinta. Quanto poi agli altri infiniti fatti rimanenti ha luogo  il fenomeno sociale della Convenienza, che dicemmo es-  sere pure una Giustizia; ma non legale, o positiva, o distinta: sibbene potenziale, o indistinta, o morale. Quella della convenienza è anch' essa una Giustizia, come la legale.  Ma indistinta. E per la ragione che, nel fondo, V una e  r altra sono la cosa medesima, e si differenziano tra loro  solamente come il distinto dall' indistinto. E tanto che,  provenendo nelle formazioni naturali il distinto dall' in-  distinto, qui nella Società la reazione della Giustizia le-  gale non è altro infine se non una forma evolutiva supe-  riore della stessa reazione della Convenienza. Anzi di più. Come l'idealità sociale della psiche umana è sola-  mente una forma evolutiva superiore di un indistinto che si trova già nei bruti, cosi la Giustizia legale si collega  nelle sue gradazioni formative, non solo con quella della  Convenienza propria dell' uomo, ma anche con quella del  semplice talento egoistico osservabile nelle reazioni tra  bruto e bruto. E mettiamo in chiaro la cosa.   La reazione tra bruto e bruto è V effetto di un im-  pulso istintivo quasi affatto egoistico. Ma non del tutto,  poiché (come osservai più volte nella Morale dei Positivisti (i) in certi istinti socievoli dei bruti fa capolino  qualche cosa di antiegoistico. L' istinto egoistico del bruto si continua anche nell’uomo; nel quale però va emergendo l'impulso antiegoi-  stico a misura che si sviluppano in Fui le formazioni psi-  chiche superiori (2); in modo che nell' individuo umano  vivente nella Società apparisce la reazione della convenienza, che è mista di talento egoistico e di ragione an-  tiegoistica.   Quindi nella reazione della Convenienza si ha una  forma di passaggio dal talento egoistico del bruto alla  ragione dello schietto antiegoismo della Giustizia legale.  E questa è il divenuto della Convenienza, come la Con-  venienza è il divenuto del talento egoistico del bruto. E in effetto infinite sono le gradazioni della reazione  della Convenienza; da quella che rasenta la brutale del     (i) Per es. Libro I, Parte III. Capo III, n. 6 (Pag. 149  del Voi. III di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, 156 dell' ediz.  del 1893 e del 1901 e 161 dell'ediz. del 1908. Ciò è dimostrato in tutto il corso della Morale dei Positivisti,  essendone V assunto fondamentale.     l^WU IP ■ I     puro egoismo, a quella che tocca la più nobile del puro  antiegoismo.  Infine, se si guarda una medesima Società nel suo  progresso storico dallo stato della barbarie a quello della  civiltà, e se si guardano le diverse condizioni degli in-  dividui di una medesima Società in un dato tempo. Per  la legge, più volte indicata, che nella formazione natu-  rale i diversi del coesistente sono T immagine dei diversi  del successivo. E in oltre, da una parte, nelle Società imperfette il  talento egoistico si riscontra nello stesso Potere, e dal-  l' altra, la Convenienza, a misura che si spoglia dell' e-  goismo, si fa più antiegoistica e tende a diventare una  Giustizia legale. E la Giustizia legale da prima è stata sempre e da  per tutto una Convenienza radicatasi neir uso e final-  mente stabilitasi come legalità.   §n.   Dall'indistinto della Prepotenza (principio egoistico) nasce  il distinto della giustizia (principio anti-egoistico) che  è la risultante dinamica di quella,  per rendere evidente la verità dell'asserto, che  la Giustizia emerge, come formazione superiore, dal ta-  lento egoistico precorso, giova vedere come succede il  fatto.  Il più forte è prepotente verso il più debole.  E la Prepotenza è precisamente l'espressione del talento egoistico in opposizione colla ragione antiegoistica, o della Idealità sociale, o della Giustizia. Ne viene che l’adulto è prepotente col fanciullo, l’uomo colla donna, il robusto col debole, il ricco col  povero. Fra gli uomini sempre si verifica tale prepotenza, ma in gradazioni infinitamente diverse: da un massimo  ad un minimo. Cioè in ragione inversa dell’idealità anti-egoistica contrastante, ossia in ragione inversa della  civiltà. E ciò, tanto considerando la successione dei momenti del progresso di incivilimento, quanto considerando  gli elementi più o meno inciviliti di una medesima società. Considerando gli elementi più o meno inciviliti di  una medesima Società, la prepotenza dell' adulto del ro-  busto del maschio del ricco e via discorrendo è sempre  maggiore fra le persone rozze e minore fra le colte. E  in queste per la ragione del maggiore sviluppo delle  Idealità sociali contrastanti. Le Idealità sociali si impon-  gono alle persone colte per la semplice abitudine che ab-  biano di concepirle. Ai rozzi possono imporsi quando,  neir atto che essi inveiscono con Prepotenza, esse bale-  nano neir atteggiamento disapprovante e minaccioso di  vendetta degli altri uomini. Cioè, alle persone rozze, nelle  quali, le Idealità sociali non sono ancora una coscienza  ben forte e distinta, queste frenano il talento egoistico  nella forma di volere sociale con qualche maniera di San-  zione; e alle persone colte non occorre la manifestazione  estema vendicatrice, perchè in esse V imperiosità della  ragione della Società è diventata una loro coscienza, che  rinasce efficace senza la espressione materiale esterna del volere sociale. Ed ecco come avviene il passaggio Del-  l' individuo dalla disposizione egoistica del bruto alla an-  tiegoistica dell' uomo civile.   Considerando poi i momenti successivi di formazione  di una medesima Società, la Prepotenza degli individui  si vede a poco a poco eliminata dalla formazione contra-  stante del Potere; il quale, per esempio, ha tolto, in tutto  o in parte, le Prepotenze dell' arbitrio assoluto del padre  di famiglia sui figli e sulla moglie, della schiavitù sotto  le diverse sue forme, dei privilegi dei nobili, della infe-  riorità della donna, e via discorrendo.   Quando il Potere non era ancora riuscito a elimi-  nare queste Prepotenze anche la coscienza comune non  sentiva distintamente la ingiustizia loro. Mentre questa  ingiustizia vi è divenuta evidentissima in seguito al fatto  della Legge che le ha inibite. Questo fatto ha reso l'ingiustizia medesima evidente al segno, che nella coscienza  di tutti gli individui della società civile le Prepotenze  suddette appariscono delle vere impossibilità, non solo  per gli altri, ma anche pel proprio volere; cioè, nel vo-  lere, formatasi pienamente l' Idealità sociale antiegoistica  corrispondente, questa riusci ad ottenervi una forza assoluta di impulsività. E con ciò si ha la prova di fatto, e  della dottrina nostra generale circa la Moralità esposta  nella Morale dei Positivisti, e della dottrina qui toccata  del divenire della Idealità impulsiva: e della Giustizia  legale distinta dalla Giustizia indistinta della Convenienza. Ancora, le persone civili sono meno manesche delle rozze.  Onde, come fra queste è facilissima e pronta la vendetta dell' offesa, così fra quelle- riesce invece e difficilissima e  tarda. E ciò nulla ostante la persona civile ha esigenze infinitamente maggiori e più sottili verso le altre, e nello  stesso tempo assai più raramente offende. E la cosa parrebbe assurda. E lo è colla teoria vec-  chia della ragione degli atti morali. Ma si spiega chiaris-  simamente colla positiva. Il rozzo reagisce direttamente colle proprie mani, e  punisce l’offesa atrocemente: tuttavia è offeso ad ogni  poco. E basta udire, per convincersene, le ingiurie che  due persone rozze si scagliano colla massima facilità. Dunque T idea dell' utile non è quella che insegna il contegno dell' uomo. Il rozzo è più religioso del civile; e tuttavia con ciò  non è più rispettoso del Diritto altrui. Dunque 1' idea  religiosa non è la ragione della Giustizia. Immensamente più che nel rozzo è estesa l'idea del  proprio diritto nell' uomo civile, il quale dell' offesa recatagli si risente nel suo intimo assai più ohe il primo. Ciò dipende dalla più progredita formazione psichica dell' uomo civile. E questa dal beneficio più largamente produto della influenza formatrice dell' ambiente sociale. Il risentirsi poi più forte dell' offesa porta seco una  tendenza più forte a reagire. Ma nell’uomo civile anche la reazione (quantunque  più fortemente disposta) ha il carattere della umanità più  progredita. Quella dell' uomo civile è una reazione non  di egoistica e brutale Prepotenza: cioè non è fatta di  propria autorità e di propria mano. E invece una reazione fatta in nome di qualche cosa che trascende l'individuo; vale a dire in nome di una Idealità sociale rico-  nosciuta come tale. In nome insomma di ciò che si chiama  la pubblica opinione. E questa pubblica opinione, diventata la coscienza  della persona civile, che la trae al risentimento; ed è a  questa medesima pubblica opinione che è lasciato l'in-  carico della vendetta: in modo che l’offensore è responsabile deir offesa verso la stessa pubblica opinione ven-  dicatrice, la quale per ciò viene ad essere una Giustizia.  E conseguentemente una Gitistizia viene ad essere pure  la coscienza individuale, che ne segue la morale impulsività. Una Giustizia indistinta, che precorre e prepara  alla distinta o legale. E come?  La pubblica opinione si forma nel cozzo delle parti  della Società fra di loro, onde nascono le diverse Idea-  lità sociali relative. Questa pubblica opinione si annuncia prima vaga-  mente nelle parole e negli atti accidentali degli individui. A poco a poco si stabilisce nei detti e nei pro-  verbi e nelle usanze e consuetudini comuni.  Un pò' alla volta poi crea i suoi rappresentanti di-  retti. Da questi quelli del Potere. Ma con ciò, che il  Potere non può assorbirli in sé tutti. Onde, sotto tale  rapporto, il Potere deve considerarsi siccome il vertice  di una piramide, nel quale va a collimare una infinità di  piani sempre più allargantisi di sotto, cioè una serie di  associazioni giudicatrici subordinate. Costante e organica è questa legge della for-  mazione sociale.   Da prima è V individuo che si fa giustizia da se  stesso. Nel che però non si ha la Giustizia vera, ma an-  cora solo la Prepotenza. Poi più persone aventi speciali interessi comuni si  associano in modo tacito e anche espresso in vista di  essi; e nella associazione si va costituendo naturalmente  r arbitrio collettivo sopra le contestazioni che la riguar-  dano; nel quale è già quindi un principio di vera Giu-  stizia, quantunque ancora più o meno indeterminata o in-  distinta. Da ultimo il Potere supremo della Società si arroga  il giudizio nelle contese, fissandone precisamente i ter-  mini; ed ecco il meno della Prepotenza e il più dell' an-  tiegoismo e della Giustizia. E questa è la Giustizia di-  stinta, derivata per evoluzione dalla indistinta, come questa lo è dal talento più egoistico dell' individuo. E nella nostra attuale Società la legge mede-  sima apparisce nella sua massima evidenza.   Vediamo costituirvisi dei giuri al di fuori del Po-  tere legale; i quali, in nome di una pubblica opinione  (che è il loro codice) pronunciano dei verdetti, vendica-  tori almeno iniziali delle violazioni della opinione stessa,  e che quindi ne sono la Sanzione sociale diretta. Giusta, ossia antiegoistica, perchè sociale e non individuale o di  Prepotenza. Sanzione producente una Responsabilità pei  violatori delle Idealità sociali corrispondenti; e quindi  atta ad innalzare le Idealità stesse nelle coscienze di tutti  al grado di vera Giustizia; tanto più distinte quanto più stabile e ordinato e ripetuto e normale è l'esercizio del  suo ufficio. E anche quando non è eliminata ancora del  tutto nella vendetta V azione diretta della persona, che  ne ha da essere soddisfatta, si può tuttavia palesare l'in-  tervento subordinante di una autorità superiore all'indi-  viduo.   Come nel duello; nel quale la ragione di intimarlo  e di accettarlo deve essere sancita dal codice della opinione corrente ad esso relativa, e giudicata 1' applicabi-  lità al caso particolare da padrini, e questi devono pre-  senziare r esecuzione.   Nel duello si ha quindi una certa Giustizia, quan-  tunque molto imperfetta. Imperfetta, perchè vi si mantiene ancora troppo 1' eccessivo e il brutale dell' atto di  Prepotenza dell' individuo di vendicarsi colle sue mani.  Imperfetta ancora perchè 1' autorità che vi si intromette  non è riconosciuta come tale dalla Legge.  Il fatto del duello qui ricordato toma poi op-  portuno per confermare, colle particolarità da esso of-  ferte, la verità delle cose suesposte.   L* opinione, che vige nei paesi civili di. oggi in re-  lazione al duello, è una formazione storica della nostra  Società. Perchè, se, da una parte, esso ha la sua causa  generale in alcune ragioni costanti di ogni formazione  sociale, dall' altra però, le formalità che lo accompagnano  accusano la sua provenienza per trasformazione storica  dalla consuetudine di un tempo dei cosi detti giudizi di  dio, E da ciò si vede, come sia vero che la Giustizia  (anche quella naturale o potenziale o etema che dir si  voglia), quanto alla forma precisa colla quale è effettiva-  mente in una data Società o coscienza, è una accidenta"  lità storica. Come la produzione di un dato frutto di una  data pianta. L’opinione circa il duello non è qualchecosa di fis-  sato e sancito dal Potere legittimo, che T infligga inde-  clinabilmente anche a chi vi si rifiuti. Ma ciò non toglie  che r opinione stessa abbia una forza; e tale da imporsi  quantunque gravosissima, alla volontà. E da ciò si vede  che la Giustizia ha già una effettività piena di efficacia  anche nella forma indefinita della spontaneità vaga della  opinione pubblica. Ma r opinione circa il duello, appunto perchè ancora  in quello stadio della vaga spontaneità sociale, non ma-  turata e non maturabile in una Legge del Potere che la  stabilisca per tutta la Società, vi si restringe ad un certo  ordine di persone. E (cosa curiosissima) per questo or-  dine di persone è divenuta una idea di una impulsività  potente, certa, indeclinabile, atta a tenerlo sotto il proprio  impero, mentre per gli altri, esenti dalle influenze onde  è insinuata, è come se non esistesse. E tanto che, dove  presso gli uni è moralmente spregevole e disonorato chi  non si attiene alle prescrizioni della opinione favorevole  al duello, per gli altri è cosa ridicola e stolta il tenerne  conto. L' opinione relativa al duello associa delle conse-  guenze esecutive gravissime a fatti riguardanti V onore.  L' onore, che è un semplice rapporto mentale dell' indi-  viduo colla Società. E da ciò si vede che neir uomo, per  lo sviluppo speciale onde la sua psiche è capace, si  Voi. IV. 6    creano delle entità di un ordine superiore, che sono impossibili pel bruto e si trovano solo inizialmente e quindi  poco avvertite nelle Società rozze e nelle classi sociali  meno colte. Delle entità aventi per base, non il benes-  sere materiale dell* individuo, che è l'espressione del puro  egoismo, ma il benessere degli spiriti associati, che è  r espressione della ragione antiegoistica. Qui insomma  r individuo si trova necessitato perfino al sacrificio vo-  lontario della vita in omaggio di un' idea che lo padro-  neggia. L' opinione relativa al duello tende (come tutte le  altre opinioni, con tendenza positiva o negativa) a diven-  tare una Legge della Società. Questa tendenza in parte  è riuscita, in quanto esistono già delle disposizioni posi-  tive di Legge che riguardano il duello. Ma in parte non  è riuscita. Ora T analisi accurata della tendenza medesima e di ciò che n' è riuscito e non riuscito ci raggua-  glia circa il processo naturale, onde la Giustizia indi-  stinta, ossia la Convenienza, si fa la Giustizia distinta,  ossia la Legge positiva. Il Potere ha emanato delle disposizioni relative al  duello. Ciò ha potuto fare solo in seguito all'essersi que-  sto fenomeno sociale fissato a poco a poco nelle sue  forme precise, che presentarono 1' occasione alla opinione  pubblica di manifestarsi nel senso del partito adottato  nella Legge.   Ma, delle disposizioni stesse prese una volta dall'au-  torità in relazione al duello, altre rimasero poi anche in  seguito perchè trovate rispondenti allo scopo sociale, di  non impedire in modo nocivo il corso inevitabile di certe reazioni di Convenienza j altre invece dovettero essere  smesse come inopportune e quindi contrastate nella prova  dalla coscienza dei cittadini, cioè dalla Giustìzia poten-  ziale che, come dicemmo tante volte, è Tarbitro naturale  di ogni Legge sociale.   Il Potere però, nella reazione anche esecutiva del  duello, non ha potuto sosHiuirsi ialalmenie, come è la  sua tendenza in generale per rapporto a qualsiasi esecu-  tività forzata delle reazioni dirette tra individuo e indi-  viduo. E ciò ci istruisce praticamente di due cose, che già  osservammo sopra. Vale a dire:   Primo. Che nel Potere non si può appuntare se  non una parte delle reazioni tra indivìduo e individuo;  come nel cervello non arrivano direttamente dei fili ner-  vosi che governino immediatamente tutti i punti della  massa del corpo: ai quali invece in gran parte il cer-  vello fa sentire la sua influenza solo per J' azione che  esercita sopra centri secondari, aventi però anch' essi una  propria azione, che si compie in parte senza rintervento  degli organi cerebrali.   Secondo. Che, se una tendenza reale dell' individuo  non può essere soddisfatta intéramente dalT intervento  del Potere, Tindividuo cerca la soddisfazione da se; come  in un assalto improvviso dì un assassino, dove, non po-  lendo la forza pubblica difendere il cittadino, a questo  è concesso il Diritto anche dell' uccisione a propria di-  fesa.   Per cui si arguisce, che il fatto ancora incivile ed  anomalo del duello non sarà evitato nella civiltà, se non quando in questa le questioni circa V onore potranno es-  sere risolte appieno giuridicamente, sia modificandosi l'o-  pinione pubblica relativa, sia trovata in base a questa  una legislazione atta all' effetto. Vedemmo fin qui come la Giustizia legale, af-  fatto antiegoistica, del Potere sorga dalla potenziale della  coscienza degli individui, che ha per base una Idealità  sociale antiegoistica non ancora divenuta una Legge, e  nello stadio tuttavia solamente di opinione più o.meno  comune.   Resta ora a chiarire come questa Giustizia poten-  ziale, avente per base una Idealità antiegoistica, si svolga  anch' essa alla sua volta da una forma ancora più im-  perfetta di tendenza dell' uomo, cioè dal talento brutale  egoistico della Prepotenza. La reazione del semplice talento brutale, o  della Prepotenza, per la concorrenza dei prepotenti di  pari forza, diventa Equipollenza: e quindi Giustizia,   Non occorre per ciò che intervenga un elemento  nuovo. Il diverso, anzi 1' opposto, della Giustizia si ot-  tiene per la semplice reduplicazione dell' identico della  Prepotenza elementare dell' individuo. Per la legge universale dell' emergere del diverso distinto  dair identico indistinto per la reduplicazione dei molti identici (prima  distinzione dell* indistinto uno), che ha luogo in tutte le formazioni  naturali. Come ho dimostrato nello scritto sulla Formazione naturale  nel fatto del sistema solare (Voi. II di queste Opere filosofiche)^ e  come dimostrerò nei libri relativi alla Formazione del pensiero (nei  voi. V, VI e VII di queste stesse Op, fil.) Così nella formazione  chimica la materia identica diventa gli opposti deir acido e della  base dopo che, distintasi in atomi diversi, questi poi si reduplicano  e si aggruppano variamente. La Prepotenza è la coscienza che l' individuo ha acquistato del fatto della propria Attività  che esso ha esperimentato; e la Giustizia è la coscienza  che neir individuo stesso ha dovuto formarsi del fatto  della Equipollenza degli altri individui dato dalla espe-  ricìiza delle Prepotenze concorrenti nella Società. Sicché nel bruto la psiche non arriva alla trasfor-  mazione in discorso, perchè in esso, non essendo un es-  sere sociale, non si può formare la coscienza successiva  a quella della Prepotenza come nell* uomo, che è un essere sociale (Onde poi raccogliamo la conferma di un altro dei grandi principi  da noi già spiegati della Formazione naturale: vale a dire che la  Cosa è il molteplice preso nella coesistenza dei singoli, e la Forza è  lo stesso molteplice preso nella loro successione. Sicché Cosa e Forza  non sono che distinzioni di un identico indistinto: il quale, preso  nello schema della coesistenza, è la Cosa, e, preso nello schema  della successione, è la Forza. — La Giustizia o T idealità sociale,  come apparisce dalle cose dette nel libro, suppone una successione  di fatti; ed è assurda senza questa supposizione. Ma nello stesso  tempo, potendo questi fatti succedentisi essere presenti contempo-  raneamente al pensiero, pel lavoro suo descritto nella Morale dei  Positivisti^ è una entità (Cosa) del pensiero, ed è una virtù efficiente  (Forza) nella dinamica morale (Impulsività dell* idea). E qui dobbiamo notare una cosa curiosissima, spiegabile solo  colla nostra teoria della identità, nel fondo, della Cosa che è, e della  Forza onde essa agisce.  L' Idealità sociale è impulsiva del volere umano in quanto gli  si presenta siccome una Giustizia, vale a dire in quanto gli fa pro-  spettare una Sanzione; ossia lo avverte della sua responsabilità. E tuttavia, a misura che V Idealità sociale si fa più viva e abituale,  diviene invece più vago il presentimento pauroso delle relative  conseguenze di punizione per parte della reazione sociale. Anzi il  massimo della impulsività dell' Idealità sociale (nel Sapiente e nel  Regno della Giustizia, come dicemmo nella Morale dei Positivisti)  va col minimo del presentimento pauroso della punizione sanzionatrice.  Il concetto umano della Giustizia si forma da  quello della Prepotenza per V equilibrio di molti prepo-  tenti nella loro concorrenza sociale.   La filosofia tradizionale (o la filosofia sana, come la  chiamano) spiega la Giustizia ponendola siccome lo stesso  comando di dio. La spiega così: aggiungendo molto ingenuamente  alla sua spiegazione V avvertenza, che la Giustizia, ri-  mane distrutta assolutamente tosto che si rimova la di-  vinità e il suo volere assoluto.   E invece la verità è precisamente il contrario. La  Giustizia» in questo volere divino, è V opposto, ossia la  negazione, della Giustizia come tale. Come ne è l'oppo-  sto e la negazione la Prepotenza come tale.   Il volere di dio è la Prepotenza innalzata al grado  dèlia Prepotenza assoluta.   E il bello si è che la stessa filosofia tradizionale ha  dovuto accorgersi de IT inconveniente, tanto o quanto, an-  ch' essa, senza intenderlo distintamente. Poiché ha dovuto  maritare, nella sua dottrina della ragione della Giustizia,  il principio del volere divino con quello della conoscenza  che dio debba avere dell' essere intimo delle cose, e  della necessità onde il suo volere sìa costretto assolu-   Egli è come dire, che è V ordine dei fatti sociali, il quale è  diventalo un inrro ordine ideale, presente al pensiero in un suo atto  intuitivo momentaneo: qiTasi forza fissatavisi dal di fuori come  sommi» unica di efileni ng^i untisi a poco a poco l’uno all' altro. Proprio come la proprietà attuale, onde una sostanza è atta ad  agire in un dato momento con una data intensità dì forza, sì è for-  mata in questa per la addizione successiva, mettiamo, dì un certo  numero di \:alorie, entratevi dal di fuori a poco a poco V una dopo  V altra.     -tamente (se ha da essere giicsto) a regolarsi nel suo comando secondo le esigenze della essenza da sé cono-  sciuta appieno della cosa, alla quale impartisce il co-  mando.   In questo secondo principio maritato al primo è stata  riconosciuta implicitamente, in qtuilche maniera, tardi,  imperfettamente, confusamente e con una contraddizione  col primo principio la verità di ciò che dimostrammo;  ossia della derivazione della Giustizia dallo stesso uomo  per effetto della sua convivenza sociale.   Imperfettamente, dicemmo. E la dottrina teologica  della predestinazione n' è testimonio. E tardi: cioè a misura che lo studio dei fatti guidò  al presentimento confuso della verità contenuta nella  dottrina positiva. Tanto che la storia della idea di dio  ce lo presenta prima coir impero capriccioso, dispotico,  appassionato, mutabile del tiranno prepotente. E succes-  sivamente con una mitigazione del capriccio e della prepotenza, quale era suggerita dal fatto della legislazione  sociale in lui oggettivata, che venne diventando sempre  più giusta per T equi librar visi sempre maggiore degli  elementi componenti.  Come si è detto, nell'individuo non coordi-  nato nella Società si ha la sua autonomia che si goverua  colla Prepotenza.   una risul- tante dinamica di esse, per le considerazioni che seguono. Con uno straniero, e soprattutto con un barbaro, o con un selvaggio, un uomo in generale non sente il dovere della Giustizia come con un altro uomo della sua stessa Società. Perfino si dà che in faccia ad un uomo di razza diversa si atteggi ne' suoi sentimenti come in faccia ad un bruto o ad una fiera. E la cosa è naturalissima. La sua Società è in lotta colla popolazione alla quale appartiene queir uomo. La sua Società quindi si atteggia verso di essa e verso i suoi Componenti come un prepotente; ed egli pure. Anche se non è in lotta, dal momento che 1' offesa recata al(Il  Nel che si verifica la legge generale di tutta la natura, che  r ambiente è necessario all' ottenimento di una formazione, mettiamo la nebulosa solare alla formazione di un pianeta, o 1* ambiente vege- tativo alla formazione di un seme; ma una volta ottenuta la forma- zione questa funziona come tale anche indipendentemente dalle con- dizioni onde emerse. Mettiamo la forma e la solidità di un pianeta, e la virtù vegetativa specifica del seme. ^'^''PfliW^^IF lontano selvaggio non è vendicata dal tribunale del pro- prio paese, né di nessuno, queir offesa stessa non appa- risce un attentato vero e proprio contro la Giustizia. Che se ci sono degli uomini che sentono la Giustizia  anche per gli estranei, fossero anche dei selvaggi, questo  succede solo per quelli nei quali il sentimento della Giu-  stizia, prodotto prima nel modo che spiegammo, è diven-  tato una forma perfetta e assolutamente dominante della  psiche, e che agisce da sé e senza il bisogno più del co-  stringimento dell' ambiente produttore, e con una sponta-  neità esuberante. Ancora, nella stessa Società un gentiluomo è molto cauto  nelle sue relazioni coi stcoi pari. Non lo è egualmente  trattando con persone di condizione inferiore.E ciò perchè co' suoi pari le conseguenze speciali del  suo contegno (quelle mettiamo di un duello) hanno indotto  un ordine di Convenienza che non occorre per gli altri,  relativamente ai quale le conseguenze non hanno la me-  desima gravità.   In una parola, chi sta sopra è prepotente cogli infe-  riori, e non co' suoi pari, coi quali è più giusto. La formazione della Giustizia nel senso proprio va colla  formazione del Potere onde è l' espressione. L’idea della Giustizia non nasce se non dietro  i fatti determinati prodottisi effettivamente nelle reazioni  degli associati.  Dico, dietro i fatti determinati. Non prima di essi.   contenuta.   Per questo il Potere (nel senso da noi qui inteso)  è eminentemente la Giustizia, che i poeti rappresentarono  colla bilancia in mano (1* equipollenza giusta degli arbi-  trj) e colla spada nell' altra (la forza onde si determina  r equilibrio tra arbitrio e arbitrio). E lo è perfettamente  esso solo.   Lo è eminentemente in quanto dispone di una forza  che costringe e determina i soggetti alla osservanza della  Idealità sociale, o giusta, che dir si voglia.  Lo è perfettamente esso solo, in quanto a sé solo ri-  serba il costringimento violento alla osservanza della me-  desima Idealità giusta.   Onde viene poi che la Giustizia propriamente detta  si restringe agli atti che possono cadere sotto la direzione  del Potere, e non comprende quelli che ne sono esenti:  i quali per ciò rimangono la sola Convenienza.   E su tutto ciò non cade dubbio. Il furto, per esem-  pio, dove non e' é un Potere che lo inibisca, non é un  delitto. È solo un atto pericoloso e che esige del corag-  gio e della avvedutezza in chi lo commette. Dove e' é un Potere, che proibisca sì il furto, ma sia  impotente a impedirlo, il furto stesso é un delitto vago  e non grave.   Dove il Potere lo impedisce effettivamente e lo col-  pisce con forti punizioni è un delitto grave.   E può essere un delitto di varie specie se la puni-  zione è varia.   Per esempio, il furto del privato a danno del privato, che importa la prigionia del ladro, è perciò un de-  litto infamante. Il furto invece di un privato che non paga  un diritto della pubblica finanza, onde incorra solamente  in una multa pecuniaria, non è più infamante, a motivo  che la punizione non è la prigionia ma la multa.  La quale forza poi del Potere, onde è mante-  nuta violentemente V osservanza della Legge, in due ma-  niere è dispensata. '   Direttamente cioè dal Potere, stesso per V otteni-  mento delle condizioni occorrenti alla vita sociale, e indi-  rettamente quando esso è domandato per interesse pro-  prio delle parti individualmente offese.   E da ciò due forme di Giustizia. Questa seconda più  sentita dagli individui meno educati e quindi più egoisti;  la prima più sentita dai più eletti e quindi meno egoisti.  L' avaro si commuove per la infrazione della Legge. della  proprietà individuale, che è per esso la Giustizia per ec-  cellenza. Il virtuoso si commuove per una disposizione po-  litica antiliberale, preoccupandosi soprattutto della Giu-  stizia in se stessa. La circostanza di questa forza materiale occor-  rente al Potere ci conduce a scoprire una legge fonda-  mentale della Sociologia, ossia della formazione naturale  deir organismo e della vita sociale.   Nel Potere, per costituire questa sua forza, sono as-  sorbite delle forze prese dal corpo sociale: e in ima certa  misura (i). Così la forza propria del cervello, onde sono     (i) Ci limitiamo qui a notare il fatto. Quale sia questa misura,  e come sia variabile fra estremi assai distanti secondo le condizioni  e gli stadj storici di una Società, deve essere lasciato a uno studio  regolate le funzioni del corpo di un uomo, è costituita  dalle forze prestate dal sangue del corpo medesimo in  una misura, che non può essere oltre certi limiti.   Ora una quantità determinata di forza non può pro-  durre se non un effetto limitato, proporzionato ad essa.  Ne viene che, se la Società è mcipiente o selvaggia o  rozza, tutta la forza rimanendo impegnata nel costringere  gli individui a osservare la Legge fondamentale della esi-  stenza sociale, il Potere rimane senza altra forza da di-  sporre per la produzione nella Società di miglioramenti  ulteriori (i).   Ma quando in seguito si sono introdotte, colla ripetizione degli atti violenti di coercizione sociale, le abitu-  dini giuste, queste producono poi V effetto della osser-  vanza della Legge per parte dei soggetti da sé; e la-  sciano la forza del Potere disimpegnata e quindi disponi-  bile per altri usi, per altri lavori, per indurre altre abitu-  dini superiori; insomma pel progresso ulteriore della vita  sociale. Cosi nel corpo dell' uomo. Nel bambino il cervello è  tutto impegnato nel produrre le abitudini dell' esercizio  delle membra; e pogniamo anche in quelle di leggere e  scrivere. Prodotte queste abitudini iniziali, resta disponi-     particolare, che può da sé fornire materia per una scienza spcciaU,  E per noi basta notare, che la misura in discorso va crescendo in  ragione che progredisce V organizzazione sociale; analogamente a  quanto si osserva negli organismi biologici, nei quali cresce la pro-  porzione del cervello in ragione che si fa maggiore la centralizzazione  degli organi.   (i) Ciò si ripete nel caso di una guerra, che assorbisca le risorse  del Governo; e nel caso di anarchia che le dissipi.   bile per altri esercizi. Mettiamo per la cultura propria-  mente detta. E ottenute le abitudini di questa cultura, ri-  mane poi libero per V esercizio di una professione parti-  colare. E cosi via.   E insomma la questione dell' immagazzinamento delle  forze. Un' abitudine in un individuo è la forza che, por-  tata sopra di lui una lunga serie di volte, vi si è imma-  gazzinata in questa forma. Come nella produzione delle  proprietà delle sostanze chimiche dalle più semplici alle  più complicate. Come nella produzione della pianta dal  seme fino al frutto maturatone.   Onde la Giustizia, che va producendosi nelle coscienze  dei singoli uomini raccolti nella Società civile è )' imma-  gazzinamento lento e progressivo della forza dispensata  dal Potere nei singoli atti infiniti del suo esercizio, e im-  pressa e ricevuta in quelle coscienze volta per volta. An-  che nel fatto del concetto della Giustizia, come in ogni  fatto distinto della natura, si ha una forza o un rifmo  persistente, ottenuto per la fissazione di una forza appli-  cata dall' ambiente e divenuto 1' essere costitutivo di ciò  in cui si è formato (i), ossia dell' uomo civile come tale. Il che poi dimostra che anche la Società, come  ogni altra formazione naturale, è una formazione che  nasce, progredisce e muore.   Quando nasce, è la violenza che tende a produrre il  fatto e il sentimento della Giustizia.   Quando progredisce, è la forza del Potere che si di-  ■I) Si allude alla Legge della Formazione naturale \A\\\q\X.^ ^o^x?i  accennata.    spensa ad ottenere ordini sempre più alti di azioni e di  idee giuste.   Quando muore è V organismo vecchio, che non si  presta più al mantenimento di questa forza comune orga-  nicamente subordinante del Potere. Come (per una forma  dì questa morte) nella famìglia vien meno il potere su-  bordinante del padre quando la personalità adulta dei figli  non si presta più alla coordinazione di essi sotto la tu-  tela del capo della famiglia.  Se non che, riguardo alle Società che muoiono,  vale del pari ancora la relativa legge naturale di ogni  altra formazione, per la quale la morte «di un organismo  non è mai totale, restando tuttavia i ritmi singoli pro-  dotti dallo stesso organismo mentre era vivo. Come nel  seme della pianta, che resta alla morte di questa. Come  nelle idee, che restano per gli uomini succedenti a quelli  che le hanno trovate.   Sicché il mondo greco e il mondo romano, per es.,  sono morti come quelle date formazioni sociali, ma re-  starono le idee della Giustizia umana nate nel loro seno.  Restarono come germi, o magazzini di forza già elabo-  rata. E dei quali si giovarono le Società europee venute  dopo, che non dovettero ricominciare da capo (ossia dalla  condizione infima dell' uomo preistorico) il lavoro della  organizzazione sociale.  La giustizia è la forza specifica dell'organismo sociale. Siccome poi V organismo e la vita sociale si  spiegano per la Giustizia che vi si produce, cosi la teoria   «T-     della formazione naturale della vita sociale è anche nello  stesso tempo la teorìa della formazione naturale della  Giustizia. La quale per ciò è una formazione naturale,  come il Sistema solare, come un Minerale, come un Ve-  getale, come un animale, come una Goccia di Rugiada,  come un qualunque Pensiero di un uomo.   È cioè la Giustizia una formazione naturale della  Società; come, ad esempio, si direbbe che la vegetazione  è una formazione naturale del nostro Pianeta.   Ed è la Giustizia la forza specifica della società medesima. Ne è la forza specifica, come si direbbe che V affi-  nità è la forza specifica delle sostanze chimiche, la vita  delle organiche, la psiche degli animali.   Nessuna affinità, o vita, o psiche, senza sostanza chi-  mica, organismo vivo, animale. Del pari nessuna Giusti-  zia senza Società umana.   L* affinità, la vita, la psiche scaturiscono dalle stesse  forze onde esistono i loro soggetti; e ne rappresentano  la risultante, che, come tale, si distingue specificamente  dalle forze producenti medesime. E cosi la Giustizia sca-  turisce dalle stesse autonomie prepotenti degli individui,  ed è la specie distinta di essere risultante naturalmente  dal loro contemperarsi insieme. La società quindi, come tale, è tanto più per-  fetta quanto più è forte V idea della Giustizia formatasi  nei consociati; ossia quanto più questi sono morali: sic-  ché meno sia uopo concorrere colla forza materiale al-  l' ottenimento dell* ordine sociale.   D che equivale al dire che T Idealità sociale sia più  Voi. IV. 7    impulsiva da se stessa nella psiche di ciascheduno, e  quindi il regno della Gitcstizia {adoperando la nostra so-  lita espressione) si sostituisca a quello del Fato o della  Prepotenza.   In modo analogo una sostanza chimica è tanto più  stabile e perfetta quanto più V Affinità degli atomi vi è  grande» e la rende atta a mantenersi nell' essere suo in-  dipendentemente dalle circostanze fisiche esterne della  temperatura, delP ambiente, della compressione e via di-  cendo, che suppliscano colla loro azione al difetto della  forza di coesione intima dei componenti. La costituzione dell'organismo sociale, e quindi  la sostituzione della Giustizia alla Prepotenza, produce  la incolumità dei consociati. La incolumità, che non è  altro appunto se non la elisione della Prepotenza oflFen-  dente.  Questa incolumità ha due fattori:   Primo. La forza materiale disposta nelle mani del  Potere per far valere violentemente la Legge contro la  Prepotenza non domata delle parti subordinate.   Secondo. Il sentimento del Dovere formantesi negli  individui associati nel modo detto sopra. Ora, siccome questo sentimento del Dovere (o questa  Idealità sociale impulsiva, che torna lo stesso) è una vera  forza traente l' individuo a vincere la propria tendenza  egoistica della Prepotenza, e a segfuire la ragione an-  tiegoistica della Giustizia o della Legge, cosi le due  forze suddette, del Potere di fuori e del Dovere di dentro  collimanti a produrre V incolumità dei consociati e in^e-  granfisi vicendevolmente nella intensità sufficiente al-  l' uopo, si troveranno concorrervi in ragione inversa.   Meno è il sentimento del Dovere sviluppatosi nei  singoli individui, e più dovrà essere la forza materiale  usata dal Potere. E viceversa, più il sentimento del Do-  vere, e meno la forza materiale.   E ciò, sia normalmente, sia accidentalmente; e per  certi momenti critici sociali, e per certe Idealità.   La incolumità  poi del cittadino importa un  complesso di condizioni sue particolari molte e diverse,  cominciando dalla fondamentale della salvezza della vita  materiale e andando fino alle più delicate (proprie delle  condizioni sociali più perfette) del rispetto morale vicen-  devole negli atti anche più comuni della vita.   Il Potere supremo della Società non può (come altre  volte avvertimmo) provvedere per tutte le dette condi-  zioni della incolumità del cittadino: ma deve necessaria-  mente intervenire almeno per le fondamentali. Da ciò consegue che l’azione materiale sulla persona del cit-   Chi consideri tutte le possibili reazioni tra uomo e  uomo in una Società di leggeri può rilevare due cose  molto importanti pel discorso che facciamo qui. Cioè:  Primo. La varietà infinita delle azioni di un uomo  atte a destare in qualunque modo la attenzione di un  altro. Fogniamo, partendo da un assassinio e venendo  fino ad uno sbadiglio. Nella quale varietà, come è chiaro  da sé, si hanno delle vere diflFerenze di generi e di specie.  Secondo. Il sentimento nascente in un uomo, per  reazione, in seguito all' azione da lui osservata in un  altro. E di tale sentimento abbiamo parlato nella Morale  dei Positivisti (i), mostrando quanto sia variato e come  formi una serie di sentimenti diversi, anzi una scala in  ordine di nobiltà.  Ora, per le cose dette, ripetendosi e le azioni e i  sentimenti accompagnanti le reazioni che le susseguono,  si producono un po' alia volta e si fissano nella psiche,  come sue potenzialità, delle Idealità sociali corisppndenti.  Le quali per ciò sono costituite dalla rappresentazione  della azione e dalla reazione effettiva conseguente: onde  sono Idealità impulsive del volere, ossia Giustizie. La mente si confonde pensando alle varietà possibili  ad emergere in ragione di tale processo. I pochi ele-  menti del chimico, si sa a quale infinita varietà di for-  mazioni di sostanze si prestano: le poche note musicali,  a quale infinita varietà di composizioni musicali; le poche  lettere dell' alfabeto, a quale infinita varietà di suoni ar-     (i) Libro I, Parte I, Capo III (Pag. 21 e segg. del Voi. Ili di  queste Op, fil. nella ediz. del 1885, del 1893 e 1901, e pag. 22 nel-  l'Ediz. del 1908).     I20   ticolati. Or che sarà della varietà delle formazioni psichiche  della Giustizia, pensando anche solo alla varietà dei senti-  menti componibili colle rappresentazioni degli atti sociali? Per farcene una qualche idea prendiamo un esempio.   Neir uomo, fra i molti sentimenti onde è capace, si  ha anche quello caratteristico corrispondente alla espres-  sione del ridere. È questo si può connettere con un nu-  mero senza fine di rappresentazioni di atti, dando ori-  gine cosi al genere delle Idealità comiche; le quali nes-  suno ignora quanto siano potenti neir indirizzo della vita  e nell'impero della volontà; mentre è pur vero che il  timore del ridicolo ha talvolta più efficacia che non il  timore del carcere e della multa.   Il fatto, pel mondo morale, è analogo a quello di  una sostanza che, potendosi combinare con tutte le altre  nel mondo materiale, è atta a determinarvi un atteggia-  mento particolare per tutto T essere suo. Il nostro mondo,  per esempio, sarebbe un mondo aflFatto diverso da quello  che è, se gli mancasse il ferro. E cosi dicasi degli orga-  nismi in genere se mancasse, mettiamo, il potassio che  concorre a formarli, essendovi quindi un ministro della vitcu   Allo stesso modo V atteggiamento morale dell'uomo,  quale è al presente, verrebbe meno, se mancasse il coef-  ficiente del riso, che concorre a formarlo, essendovi quindi  con ciò anche esso un ministro del bene.   Il quale ragionamento poi va ripetuto per tutti i  sentimenti umani ad uno ad uno, che sono altrettanti  coefficienti dell* Idealità sociale direttiva delle azioni u-  mane, attivandola sotto la forma di generi speciali dì  Idealità o di Giustizie.  E della varietà inesauribile di queste, per tale via ottenute, è un saggio V arte, che nella scultura, nella pit- tura, nella poesia, nella prosa, riproduce dalla coscienza, in tante forme, gli atteggiamenti morali dell' uomo. In tante forme li ha riprodotti, e in tante ancora, senza fine, è atta a riprodurla 3. — E i sentimenti umani riescono cosi coefScienti della Giustizia, perchè un sentimento, qualunque sia, essendo la reazione corrispondente ad un atto, ne è anche la Sanzione; e chi commette V azione atta a susci- tare un sentimento incontra una Responsabilità in ordine ad esso.  Anche ciò è essenziale al concetto naturale vero e  pieno della Responsabilità umana.   Anche ciò quindi appartiene all' ordine naturale della  Giustizia nella varietà delle sue formazioni. Il restringere 1* ordine della Giustizia a quei pòchi  atti ai quali si rìduceva una volta, e che si abbraccia-  vano nei dieci comandamenti del decalogo, è eflFetto di  nna grossolana e non scientifica idea della cosa. Come  il restringere che fa il volgo dell' idea dell' animale a  quelli che sono forniti di occhi e di gambe per camminare: e il restringere l' idea del vegetale a quelli soltanto  che hanno le foglie verdi.   La scienza ha trovato animali anche senz' occhi e  fissi alle pietre; e vegetali senza foglie e senza verde. E  cosi trova delle Giustizie senza la Sanzione del carcere  e della multa. La restrizione suddetta corrisponde insomma perfet-  tamente a quella che fa il volgo e fecero gli antichi delle  specie degli animali, credute poche e sempre quelle e mo-  dellate a priori sugli esemplari fatti passare da dio in  rivista davanti ad Adamo nel paradiso terrestre.   E dipende dalla stessa ignoranza della legge della  formazione naturale. Poche, dicevano, e sempre quelle, le specie degli ani-  mali; e create direttamente da dio, e mostrate ad Adamo  al principio del mondo nel paradiso terrestre. E cosi,  poche e sempre quelle le specie della Giustizia, impresse  da dio direttamente neir anima di ogni uomo che nasce  e scritte sulle tavole di Mosè dalla cima del monte Sinai [cfr. Grice, ’10 comandi’, decalogo] La scienza sbugiardò V idea meschìnissima quanto  alle specie degli animali. Sbugiarda col positivismo l'idea  meschinissima quanto alla Giustizia. Non dio, autore delle  specie degli animali; ma la natura: e le specie, un nu-  mero stragrande; e non fisse, ma variabili; e variabili  accidentalissimamente. E cosi, non dio autore delle specie  della Giustizia, ma la natura: e queste specie, un numero  stragrande e immensamente differenziato; e non fisse, ma  variabili; e variabili accidentalissimamente.  L'idealità sociale, ossia la giustizia morale,  formata che sia nella coscienza dell' individuo, vi fun-  ziona come una forza speciale, nel senso antiegoistico  chiarito nella Morale dei Positivisti; e vi produce un  doppio effetto, secondo che si applica al giudizio e alla  direzione delle azioni individuali proprie, ovvero al giu-  dìzio e alla direzione delle azioni degli altri.   Da questo secondo effetto dipende la vitalità intrin-  seci e vera della Società, considerata siccome un organismo naturale nel senso proprio della parola. Perchè la  Giustizia, parlando nella coscienza dell' individuo, è la  potenzialità indistinta onde originano i distinti dei Po-  teri sociali effettivi e delle Leggi da essi emananti; e  perchè la Giustizia potenziale degli individui associati  collabora a rendere efficace l’opera del potere e della  legge sociale. E come se si dicesse che un organismo, pogniamo  vegetante, si sviluppa nei suoi organi caratteristici mercè  la vitalità delle parti componenti: e che poi T attività  di questi organi speciali è operativa de' suoi effetti par-  ticolari sopra le parti mercè il concorso della vitalità che  si mantiene nelle parti stesse. Sempre insomma la legge  generale della formazione naturale, che l' indistinto non  cessi mai di sottostare al distinto, e di offrire cosi la ra-  gione naturale e del suo essere e del suo operare.   Cosi si osserva che una legge in un paese rimane  senza efficacia e come lettera morta se, a farla valere, è  solo il Potere, e non lo ajutano di conserva le singole  coscienze dei cittadini; le quali, accogliendo in sé la  forza viva già formata della Giustizia morale, ne ricevono  un impulso atto a muoverle alla disapprovsizione degli atti  contrari alla Legge e a concorrere per quanto possono a  farla valere.  E, quanto sia vero ciò che affermiamo, lo di-  mostrano i fatti sociali tutti quanti. Anche, per esempio.     r interesse vivissimo onde si tien dietro allo svolgimento  di un processo criminale, pur dei paesi lontani, pure re-  lativo a persone che non ci riguardano punto, né diret-  tamente, ne indirettamente.   Che più? Tanto è viva e potente nell'uomo T idea  della Giustizia antiegoistica, che egli non può stare che  non ne provi V eflFetto più vivo anche pei fatti immagi-  nari delle fole, dei racconti, delle poesie, dei drammi.  Data r immaginazione di un fatto, al quale sia applica-  cabile l'idea della Giustizia, questa per legge psicologica  indeclinabile si ridesta nella mente, e col suo naturale  atteggiamento: come in tutte le altre associazioni men-  tali. In ciò la spiegazione della vivezza della voluttà,  onde si leggono o si odono i suddetti racconti, e si as-  siste ai drammi. E la vivezza di tale voluttà è il termo-  metro che prova la presenza nella coscienza della idea  efficace della Giustizia e ne ne misura l' intensità.  La punizione materiale, vendicatrice della Giu-  stizia, sarà necessaria quindi in ragione inversa della ef-  fettuazione nella coscienza della Idealità sociale giusta.  Meno sarà questa, e più dovrà essere la severità e la  prontezza della pena materiale, che n' è la Sanzione. Il  che, come altrove dicemmo, si fa per due scopi: per  quello di supplire, colla impulsività dall' esterno della  minaccia del castigo, al difetto della impulsività dall* in-  terno della Idealità sociale direttrice dell'azione: e per  quello di giovare a produrre questa impulsività nel!' in-  dividuo. Onde, più questa è già prodotta, e meno occorre  di coazione a supplirla.   E al massimo assoluto della produzione della detta  impulsività corrisponderà V assenza del bisogno della coa-  zione materiale e la sufficienza per la Moralità del puro  fatto psichico della idea e della disposizione della Giu-  stizia, e del giudizio mentale dettatone di approvazione  e disapprovazione dell' atto relativo.   Ciò nel rapporto dinamico tra chi detta la Legge e  chi ne è obbligato ad eseguirla.   Ma e' è di più. La effettuazione della Idealità della Giustizia, in ra-  gione che più avviene, più paralizza il suo contrario,  onde deriva; cioè la Prepotenza. E quindi i sentimenti  nei quali questa si esprime: come è, tra gli altri, quello  della vendetta considerata quale sodisf azione egoistica.   E più invece ravviva i sentimenti antiegoistici, come  quello della benevolenza altrui. Ravviva cioè i sentimenti  che, nella Morale dei Positivisti (i), distinguemmo colla  denominazione di pietosi, dopo avere dimostrato che la  Pietà è il carattere del sentire dell' uomo in corrispon-  denza della sua formazione caratteristica della Idealità  sociale.   Per conseguenza, la stessa pena materiale, a misura  che una Società diventa civile, va perdendo del carattere  di una vendetta espiatoria ed appassionata, assumendo  quello di un semplice rimedio; che si applica a malin-  cuore e con sentimento di compassione essendocene il  bisogno e per questo bisogno solamente.   E in generale, questa qualità della assenza del carat-  (i) Libro I, Parte III, Capo III, n. 7 (Pag. 150, 151 del Voi.  Ili di queste Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 158, 159 nella  ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 163, 164 nella ediz. del 1908) e altrove.    tere appassionatamente vendicativo e di pura espiazione  si trova nella Società assai più nella reazione del Potere,  che rappresenta maggiormente V Idealità antiegoistica, di  quello che nella reazione della Convenienza, nella quale  assai più rimane dell' egoismo e della Prepotenza.   E, negli atti stessi della Convenienza, la vendetta  appassionata, egoistica, prepotente, è più o meno in ra-  gione che è più o meno eflFettuata V idea della Giustizia  neir individuo reagente.   Ossia, in una parola, quantunque la Giustizia im-  plichi la Responsabilità, e questa una Sanzione o una  vendetta punitrice, tuttavia, compiuta che sia come for-  mazione psichica individuale essa Giustizia, vi si dissi"  mula o vi si fa latente la vendetta relativa: a quello  stesso modo che, formata che siasi in una sostanza la  sua affinità chimica per la trasformazione in questa di un  certo numero di calorie, il fenomeno propriamente ter-  mico vi si dissimula e non si manifesta più in una tem-  peratura misurabile col termometro.  E torna cosi, anche nello studio della Respon-  sabilità e del carattere della Idealità sociale come Giu-  stizia, il principio più volte illustrato nella Morale dei  Positivisti per altre vie (i), del regno della Giustizia sot-  tentrante nella Società, di mano in mano che questa si  perfeziona, al regno del fato.   E torna ad apparire del pari il carattere speciale  deir uomo formato sotto V influenza dell' ambiente o del-     (i) Libro II, Parte IV. Capo II, n. 16 (Pag. 399 del Voi. Ili  di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, e pag. 422, 423 nella ediz.  del 1893 e del 1901, e pag 432, 433, nella ediz. del 1908) e altrove.     PPipm>yi^"imtVi- k^i.J»^-» ■-pr^\»y-^r* t-^»t-«- ^vv --.. vt-w-    l'organismo sociale: ossia dell' uomo virtuoso, o sapiente,  che dir si voglia.   Per lui basta, ed è tutto, V idea della Giustizia; e  il giudizio che fa egli stesso di se medesimo in virtù di  essa: e al di fuori e al di sopra di ogni punizione mate-  riale. Come dice Dante di Virgilio:   El mi parea da sé stesso rimorso,  O dignitosa coscienza e netta,  Come t' è picciol fallo amaro morso!   E, relativamente al malvagio che lo oflFende, in ra-  gione della offesa, anziché il sentimento della vendetta,  cresce in lui quello della pietà. Come in quel divino cro-  cefisso, al quale, negli spasimi di dolore cagionatigli dalla  più atroce delle ingiustizie col più atroce dei supplizi,  l'offesa immensa non riusci che a trargli dall'anima la  preghiera sublime: Padre, perdgna a questi miei crocifis-  sori, perchè non sanno quello che si facciano. Abbiamo parlato di quello  che, sulla fine del primo, avevamo chiamato il secondo  degli uffici del Potere.   Resta dunque a parlare del primo di questi uffici,  che dicemmo essere di stabilirsi nella Società a spese  delle sue parti; e del terzo che dicemmo essere di di-  spensare nell'effetto del miglioramento delle parti  quella forza comune dell' ambiente sociale che opera  per esso Potere.   E lo faremo, cominciando la illustrazione divisata in  questo Capo e nel seguente, e compiendola nelF ultimo.   2. — La Giustizia propriamente detta non è tutta la  moralità.   Questa Giustizia, cóme vedemmo, riguarda la ifuo-  lumità delle parti sociali. E quindi è il solo lato nega-  tivo della Moralità.   Ma la Moralità ha anche i suoi lati positivi: come  quelli indicati dalle parole Diritto e Autorità; e quello   dei mezzi onde si costituisce e vive il Potere, organo  della Società; e quello del Premio della virtù.   Anche di questi lati positivi quindi (e sotto il punto  di vista prefissoci (i) della Responsabilità) si deve chia-  rire la formazione naturale. Con ciò potrà rimanere spie-  gato appieno il fatto naturale della Moralità, e la ragione  della Responsabilità potrà apparire sotto tutti i suoi  aspetti reali.   §11.   Criterio positivo del Diritto e del Dovere. Il Diritto (come dimostrammo nel luogo più  volte citato della Morale dei Positivisti) è la stessa  potenza libera che si avvera rielT essere umano. Considerato questo essere isolatamente, il Diritto,  come dicemmo sopra, coincide colla Prepotenza; e di-  venta il Diritto sociale antiegoistico e giusto (o il Diritto  propriamente detto) in quanto è ridotto in limiti deter-  minati dal contrasto della potenza opposta degli altri uo-  mini consociati.   Vale a dire: la potenzialità astratta dell' individuo,  nella condizione eflFettiva del suo esercizio (cioè di fronte  alle reazioni delle potenzialità degli altri), diventa una  potenzialità reale determinatamente limitata dalla effi-  cienza contrastante delle potenzialità degli altri uomini. 12) Libro I, Parte II, Capo IV. n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi.  nidi queste Op, ftl. nell' ediz. del 1885, e 131 dell' edìz. del  JS93 e del 1901, e pag. 135 nelle ediz. del 1908).   Voi. IV. 9     Tf^r»*   Con che però resta sempre il principio, che il Di-  ritto di un uomo è ciò che esso può fare.   Resta sempre; per la ragione xche, posto V uomo di  fronte agli altri, e rimanendone elisa per tale relazione  una parte della potenzialità, la potenzialità sua effettiva  non è tutta V astratta, ma solamente quella che residua  dalla elisione sofferta.   E, per togliere ogni dubbio su ciò, basta V osserva-  zione del fatto che, cambiandosi le condizioni e i rap-  porti dinamici, onde dipende la elisione di una parte  della potenzialità di un individuo, questa torna attiva, e  con ciò torna Diritto. Il potere di staccare un frutto ma-  turo da un albero non è Diritto dove il contrasto del  possesso altrui impedisce di esercitarlo; ma tolto questo  contrasto (portandoci, mettiamo, in una regione nella  quale le piante sono proprietà comune) lo stesso potere  di staccare il frutto torna Diritto, per la sola ragione che  non ha più T impedimento al suo esercizio del possesso  altrui. Il Diritto quindi, come dicemmo pure nello  stesso luogo della Morale dei Positivisti, se in astratto  è identico per ogni uomo, (essendo Tuomo in astratto  identico all' uomo) nella realtà per ogni uomo è diverso,  per la ragione che la potenzialità di un uomo differisce  sempre nel caso pratico da quella di un altro: quella  del maschio, ad esempio, da quella della femmina; quella  dell' adulto, del sano, del civile, del colto, dell' educato,  dell' uomo di genio, da quella del bambino, del malato,  del selvaggio, dell' ineducato, dell' imbecille; e via dicendo.     wyfmwii^i ' P Jl >»u-.ry -"^.-^v- ■f^.-.-v-.-f-—   l’uomo ha nella natura in forza del suo arbitrio in quanto è deter-  minato dalla Idealità lituana che è la Idealità sociale. Qui colla  spiegazione della formazione della Giustizia (o dell' Idealità sociale)  spieghiamo anche la formazione del Diritto, e quindi ne indichiamo le condizioni dettagliatamente, che si possono riassumere nel quadro che segue: A) Arbitrio umano libero. Non il potere generico della cosa sulla cosa. Non quello della persona in condizione irresponsabile. B) Arbitrio libero di un uomo (sulla cosa o sull* uomo) in con- fronto colla reazione delVarbitrio libero dell* altro uomo. Non dove non si pone questa reazione: e in quanto è regolata dalP Idealità so- ciale. E in ordine a ciò: Arbitrio libero di un uomo in confronto con una reazione pos-  sibile. E qui Diritto potenziale o naturale. Arbitrio libero di un uomo in confronto con una reazione  reale. E qui Diritto di fatto o positivo^ nelle diverse forme di questo.  il Diritto può essere nello stesso tempo un Dovere, e non  che deòòa.   E perchè questa differenza fra Diritto e Diritto?   Rispondendo, apparirà insieme come e quanto con-  vengano fra loro le definizioni apparentemente diverse da  noi date del Diritto nella Morale dei Positivisti (nel  luogo sopra citato), dove dicemmo che è in se stesso la  Giustizia, o la Legge o la Idealità sociale, e qui, dove  diciamo che è un potere libero implicante una Respon-  sabilità verso una Sanzione che ne salva V esercizio. Nel caso di chi mangia la propria mela, M impulsi-  vità traente all' azione è data, non dalla Idealità sociale  «  antiegoistica, ma dall' istinto egoistico, o da quella che  dicemmo la Prepotenza, precedente T Idealità morale propriamente detta. Trattandosi di questa Prepotenza, la Re-  sponsabilità r accompagna solo in quanto la limita, e non  in quanto la produca. E quindi la stessa Responsabilità ha con essa un rapporto unico. E. per ciò non può  aver che il nome di Diritto, ossia si può pensare soltanto  che r esercizio ne è reso incolume dalla Responsabilità  che lo salva.  In vece, nel caso del padre che educa il figlio, T im-  pulsività traente all' azione è data dalla Idealità sociale  antiegoistica, ossia da qualche cosa che è già una Giu-  stizia, implicante quindi T elemento della Responsabilità.  Da ciò proviene che il potere del padre di educare il  figlio sia fra due rapporti: fra quello di eserizio incolume,  in quanto è salvaguardato da una Sanzione sociale relativa, onde è Diritto; e quello che il padre è alla sua  volta obbligato, pure per una Sanzione sociale relativa.  ad avere in sé la Idealità della sua disposizione o del  suo potere di educare il figlio, onde è Dovere.   In una parola, il potere egoistico, non derivando  estrinsecamente dall' ordinamento sociale, ma dalla stessa  spontaneità dell' individuo, non può importare se non la  Responsabilità di chi volesse impedirlo. E quindi è solo  un Diritto. Mentre invece il potere antiegoistico, deri-  vando come tale dall' ordinamento sociale, che lo ingenera per mezzo della relativa Sanzione, impòrta due Re-  sponsabilità. Una per chi non lo rispettasse: onde gli  corrisponde il Dovere in un altro. Ed una seconda per  chi non lo avesse e non lo esercitasse: onde, sotto questo  rispetto, è un Dovere esso stesso. Dunque il Diritto è sempre una potenzialità  che importa una Responsabilità, secondo la definizione  che qui ne abbiamo dato. Ma questa potenzialità può es-  sere determinata da una Legge, o Giustizia, o Idealità  sociale, secondo che importava la definizione data nella  Morale dei Positivisti,  In questo secondo caso, come ivi dicemmo, il Diritto  è nello stesso tempo un Dovere. Non cosi quando la po-  tenzialità è di un ordine estramorale.  8. — E cosi siamo arrivati, per mezzo della analisi  positiva del fatto umano e sociale, a scoprire // criterio  positivo del Diritto e del Dovere.  Con questo criterio (e non altrimenti) si possono ri-  solvere i problemi che li riguardano; e specialmente i  quattro fondamentali che seguono: circa i Diritti dell' uomo sopra le altre cose  della natura. Circa i Diritti dell' uomo sopra se stesso.  Circa i Diritti di Autorità.  Circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità o Beneficenza, che dir si voglia. Nell'esempio innanzi citato di uno che pigli  dei pesci notammo, che il Diritto di chi lo fa è solo per  quanto il fatto riguardi altri uomini, e non per quanto  riguarda i pesci.  Coi pesci, che prende, l'uomo ha il semplice rapporto  generale della cosa colla cosa, quale è quello, pogniamo,  della foglia verde oscillante al sole e rubante all'atmo-  sfera la molecola di acido carbonico che vi nuota dentro  e si imbatte alla portata delle boccuccie predatrici.  In confronto col pesce 1' uomo non ha né Diritto né  Dovere. Esso, in forza del potere onde é fornito, ne usa  e ne abusa senza offesa della Moralità, che é estranea a  tale ordine di azioni. E nessuno dice reo di colpa e im-  morale, né il pescatore di professione che trae dall'acqua  il pesce e ne contempla impassibile gli spasimi dell'asfis-  sia, onde muore dibattendosi convulsivamente sulla secca  arena, e lo piglia cosi per procacciarsi da vivere; né il  pescatore dilettante, che gli infligge quel martirio per  semplice spasso.  Ma nella Civiltà progredita si può arrivare fino al  punto di estendere il carattere del Dovere anche alla  detta azione dell' uomo in rapporto col pesce. La Zoofilia  - 138 -  (che è una tendenza della Civiltà progredita) cosi parle-  rebbe in proposito air uomo; — Il pesce, prendilo pure:  x:hè ti abbisogna per vivere. Ma nel farlo non eccedere  i limiti della stretta necessità. Prendilo per quanto ti oc-  corre, o per mangiarlo, o perchè ti è di danno o di pe-  ricolo il viver suo. Altrimenti rispetta in lui il godi-  mento della propria vita. E, dovendo prenderlo, fa ia  modo che avvenga col minore suo dolore possibile. E tutto  ciò consideralo siccome un tuo Dovere verso il pesce.  E, un Dovere analogo, i moralisti più delicati oggi  lo stabilirebbero, non solo pei pesci, ma anche per tutti  gli altri animali; e non solo per gli animali, ma anche  per le piante; e non solo per le piante, ma anche per le  cose inanimate senza distinzione. Stabilirebbero cioè quel-  la ordine quarto di Doveri, che chiamano dei Doveri del-  l' uomo verso le cose della najtura: essendo V ordine primo,  secondo loro, quello dei doveri verso dio; il secondo,  quello dei Doveri, verso se stesso; il terzo, quello dei  Doveri verso il prossimo. E come ciò? E giusta tale estensione dell'idea  del dovere? E, se giusta, non si avrebbe con ciò una  smentita alla nostra dottrina della formazione naturale  deir idea del dovere?  Dicemmo che la effettuazione della Idealità  della Giustizia, in ragione che più avviene, più para-  lizza il suo contrario,., e più invece ravviva i sentimenti  antiegoistici, che distinguemmo col nome di pietosi, caratteristici del sentire dell' uomo in corrispondenza colla  sua formazione della Idealità sociale. In ordine a ciò, parlando in ispecie della Idealità  sociale della famiglia, nella Morale dei Positivisti (i) scri-  vemmo quanto segne: — Questa Idealità diversifica se-  condo le varietà umane. Rozza fra le rozze, gentile fra  le gentili; portante a illimitato uso di potere nelle So-  cietà embrionali, ristretta alla mera necessità dell* alleva-  mento, dell' educazione, e dei riguardi necessari, nelle So-  cietà più perfette; e cosi via per altre diversità e grada-  zioni senza numero. Sicché si può dire, che, se dal bruto  air uomo r idealità in discorso si umanizza, questa uma-  nizzazione è neir uomo stesso maggiore o minore. E, dove  è minore, vediamo T effetto, e nella forma ancor fiera del  sentimento relativo, e nella sua limitazione, restringen-  dosi, o alla nazione, o allo stato, o ^alla tribù, o ad un  semplice branco di uomini. Mentre, dove è maggiore, ve-  diamo Teffetto, e nella gentilezza del sentimento, e nella  sua estensione, che abbraccia tutti quanti gli uomini, per  quanto diversi e immeritevoli: e travalica anche il con--  fine dell'umanità, e si presta a che l'uomo sia pietoso anche  cogli animali inferiori, e perfino cogli esseri inanimati,  La pietà cosi estesa, o in genere Tappi icazione  del potere proprio verso le cose 7iei limiti del necessario  e del ragionevole, è una moralità indiretta, e non una mralità diretta. Che questa è solo quella che dipende  immediatamente dalla reazione tra uomo e uomo; e che  quindi ha per correlativo una Sanzione sociale e conseguentemente ne implica la Respc^nsabilità.  (i) Libro I, Parte III, Capo III, 11. 6 (|)a^. 149, 150 del voi.  lU di queste Op. fiL nella ediz. del 1885, e pag'. 156, 157 nel!' ediz.  del 1893 e del 1901, e pag. 161, 162 nella ediz. del 1908). Onde storicamente (nella successione dei periodi della  evoluzione della Moralità umana), e statisticamente (nei  gradi di evoluzione della Moralità propria dei diversi  ordini costitutivi di una stessa Società) da prima si ha  solamente la Moralità diretta, o che riguarda V uomo e  non le cose.  Le genti più rozze oggi e, fra le genti più colte, le  persone che lo sono meno, né sentono né sospettano  neanco che la Moralità possa riferirsi anche agli atti relativi ai bruti e alle cose inanimate. Il decalogo mosaico,  sintesi dei precetti morali di uno stadio evolutivo antico  e non ancora perfetto della Moralità, non ne fa cenno  nemmeno esso.  Ma, sviluppatasi più fortemente col progredire della civiltà nel sentimento pio la espressione della Idealità  antiegoistica, questa dovette risentirsi e muovere ogniqual-  volta nella rappresentatività umana si fossero avute anche  solo delle analogie coi fatti umani eccitatori dello stesso  sentimento pio.  E ciò per la legge generale della attività psichica,  la quale importa che la rappresentazione somigliante (os-  sia il ritmo analogo dell' attività centripeta) determini  affetti e volizioni somiglianti (ossia ritmi analoghi dell’attività riflessa).  Mansuefatto l’uomo per l’effetto dell' ambiente sociale, e reso più umano, e cresciuta in lui la potenza pietosa, questa dovette scuotersi al palpito, non solo delle viscere del fratello immolato dalla ferocia dell' assassino, ma (per somiglianza della cosa) anche di quelle dell’agnello semivivo sul lastrico del pubblico macello. Do-  ||Wli|ILP!iWWiJi,iS"iWii vette scuotersi perfino alla dilaniazione dei ramoscelli  vivi di una pianta, onde il pensiero è tratto per analogia a rappresentarsela con un senso di dolore. Come quando Goethe canta di una pianticella di rosa. Der wilde Knabe brach* s  Rdslein auf der Heiden;  Ròslein wehrte sich und sùach,  Hai/ ihm dock kein Weh und Ach !  Mussi* es eben leiden,  E siccome il senso della pietà è, come dicemmo, il  sentimento riassuntivo dell’idealità antiegoistica, ossia  doverosa, cosi il concetto vago del dovere, colla sua imperatività astratta e quindi misteriosamente indefinita, dovette associarsi anche alla Pietà sentita in causa dell’analogia per T agnello e per la rosa; e conseguente-  mente si dovette indirettamente o per riflesso, la ragione  del Dovere, estenderla anche al rispetto di un animale e  di una pianta.  Ed è ciò che confusamente presentirono quei vecchi  sensisti che posero la facoltà immaginaria del senso della  Moralità, o queir altra misteriosa della *simpatia* o compassione. Ma la cosa può andare anche più oltre.  Il sentimento pio medesimo, rimanendo offeso in chi  è testimonio della azione spietata, compiuta da una per-  sona o sopra un bruto o sopra un' altra cosa, e perciò  in lui risentendosi, può far sì che egli si esprima ripro-  vando r azione offendente. Tale espressione riprovatrice sarebbe una vera San-  zione vendicatrice della resizione di Convenienza, e che  — 142 —  potrebbe essere assunta dal Potere, quando esso (come è  possibile, anzi probabile, an2i in gran parte si è già  fatto (i) progredendo la Civiltà) convertisse in Legge  pubblica il giudizio privato divenuto comune. Come è notissimo, in tutti si può dire i paesi civili si sono  formate delle società per la difesa degli animali, e si sono fatte  delle confederazioni di esse anche internazionali, e si tengono di  tratto in tratto dei congressi dei loro rappresentanti. E si sono anche  fatte delle leggi proibitive degli eccessi contro le povere bestie. E  credo opportuno riportare (jui tradotto un tratto a proposito del  Konversations Lexikon del Brockhaus (Lipsia, 1895 voi. 15, pag.  844) — La legislazione più antica contro quelli che maltrattano gli  animali ci è presentata dall' Inghilterra dove essi erano puniti fino  dal secolo passato. Seguì una serie di leggi per la protezione degli  animali domestici, per la proibizione delle giostre delle fiere, per la  limitazione delle vivisezioni. Relativamente presto anche la Germania  dettò leggi nello stesso senso; oltre le misure di polizia, il codice  penale sassone del 30 marzo 1838 indisse la prescrizione generale per  la quale si deferivano alle autorità di polizia le punizioni per gli  eccessi dell' uso anche legittimo degli animali. Seguirono tosto la  Prussia, il Wtirtemberg, ecc. con prescrizioni in parte più estese.  Al presente vige un paragrafo del codice penale dell' Impero, col  quale è punito con una multa che va fino ai 150 marchi, o col  carcere, chi pubblicamente o in modo da fare scandalo con malvagità  d' animo tormenta o tratta male gli animali. Oltre ciò sono in vigore  nei diversi stati delle ordinanze speciali delle autorità amministrative  proibitive di particolari maltrattamenti degli animali e in favore di  un contegno ad essi favorevole, e in specialità con prescrizioni circa  il trasporto degli animali, i cani da tiro, la macejleria, il sopraccarico  dei carri ecc. Nell'Austria, oltre certe ordinanze speciali delle autorità,  ha valore di legge 1* ordinanza ministeriale del 15 febbraio 1855, che  dichiara punibile il maltrattamento degli animali che desti pubblico  scandalo; in Francia la cosidetta legge Grammont del 2 luglio 1850  per la protezione degli animali domestici, ecc. I rappresentanti delle  società per la difesa degli animali tendono a che la punibilità si  estenda maggiormente e non si limiti a restrizioni fissate, come per  esempio la pubblicità def maltrattamento. Di tale tendenza pare ab-  biano tenuto conto la Svizzera, 1' Italia (art. 491 del Codice penale  del 1889), il Belgio (Codice penale del 1867), l'America del Nord, ecc.  ■^i^i Nel qual caso poi si avrebbe una doverosità diretta  formatasi da una indiretta. E con una Sanzione e una  Responsabilità, non misteriosa e indefinita e vaga, ma  determinata.  E lo stesso avviene poi per molte altre dell’idealità morali. E anche per un altro verso V esercizio del po-  tere di un uomo sulle cose può finire coir essere gover-  nato da una doverosità. Come dove uno, che possiede un  podere e potrebbe farne lo strazio che volesse, è tratte-  nuto dair idea di non lasciare i figli senza pane. Nel  quale ordine di idee cade il fatto della legislazione sulla  interdizione dei prodighi. E per altri versi ancora; e per moltissimi. Ogniqual-  volta cioè r esercizio del potere, di un uomo sulle cose  offende, o affetta in qualsiasi maniera, il senso e l’appreziazione dell’altro e ne provoca una reazione, incontrandone quindi una sanzione e la responsabilità. E in tale ordine di casi è da notarsi che certi atti  fisiologici necessari ed inevitabili, ma incomodi o al senso  esterno o al sentimento estetico, importano una dovero-  sità solo in quanto sono compiuti da un uomo alla pre-  senza di altri e non in quanto sono fatti in disparte e  in segreto. Fatta però V abitudine di considerare gli atti mede-  simi fatti alla presenza degli altri come illeciti, V idea  della loro sconvenienza si associa poi ad essi • tanto o  quanto. anche compiendoli nascostamente. E quindi l'uomo,  a misura che diventa civile e moralmente più perfetto,  si studia o di evitarli più che è possibile o, non poten-. I !ij.i«pj  dolo assolutamente, di eseguirli nel modo meno inde-  coroso.  Ciò conferma anche la dottrina positiva già da noi  accennata (i) della formazione naturale dei Doveri del-  l' uomo verso se stesso.  E spiega in pari tempo il fatto curioso delle an-  tiche Moralità religiose, che consideravano alcuni fatti  fisiologicamente necessari dell'uomo, anche compiuti in-  segreto, impuri e tali da inquinarlo, e richiedenti quindi  i riti della purificazione,  7. — Secondo le idee religiose T arbitrio sulle cose  sarebbe una concessione di dio, creatore e quindi proprie- tario di esse: e in forza di questa concessione l'arbitrio medesimo sarebbe intero ed assoluto ed esente dalla restrizione doverosa sopra chiarita di un trattamento umano  e di un uso razionale, mancando il precetto divino rela-  tivo, che solo, secondo le idee stesse, può stabilire la ra-  gione del Dovere.  E da ciò si vede che il positivismo, anziché distrug-  gere la Moralità, è atto invece ad allargarla più che non  lo faccia la religione. La quale anzi, nella sua gelosia  pel monopolio arrogatosi della morale, si irrita e si im-  penna per questo eccesso (come essa lo chiama) di Mora-  lità positiva della Società moderna più colta, che vuol  essere buona anche colle bestie e coi fiori.  La religione si sente in ciò moralmente soverchiata,  e se ne vendica chiamando questa bontà, che essa non  sente e non può insegnare, cosa diabolica e perversa.  (i) Vedi sopra Capo II, J VI, n. 14, e la nota (2) relativa. Si teme che, perduta la religiosità, V uomo tor-  nerà alla ferocia brutale della prepotenza egoistica; e  non si vede che invece il positivismo è ancora più umano  e morale che non la religione.  Cosi si lamenta che la Civiltà vada distruggendo la  ingenuità santa dei tempi antichi; e non si vede che' i  santi ingenui dei vecchi tempi, perfino le matrone pa-  trizie e venerabili, erano, verso le stesse persone umane  degli schiavi, più fieri e crudeli che il rozzo mulattiere  colla sua bestia ricalcitrante, e il ragazzo ineducato col-  r insetto che strazia senza pietà.   L' uomo del positivismo non si umilia irragionevol-  mente col credere che V uso delle cose, sulle quali sente  di avere un potere, sia una concessione gratuita e capric-  ciosa che gli sia stata consentita dal talento o dalla mi-  sericordia di qualcheduno. Ed è orgoglioso di ritenere  cosa sua ciò che egli è in gprado di appropriarsi: anche  i mari, le montagfne, il vapore, V elettricità, che non sono  enumerati nel rogito di consegna del paradiso terrestre.  Ma ciò non impedisce che egli agisca verso le cose con  meno insolenza dell' uomo religioso e con maggiore mitezza.  Il proposito del positivista non è quello avaramente  egoistico del moralista della religione, che dice a se  stesso: — Queste cose dio me le ha date in proprietà: dunque perchè non ne caverò per me tutto il pro-  fitto possibile? Il suo proposito è quello retto, onesto,  morale della razionalità, di servirsi cioè delle cose pel  bene in genere, proprio od altrui; fosse pur anco solo il  bene delle cose che non sono lo stesso uomo.  Voi. IV. IO  '■■■^ ^ Pel moralista della religione le cose sono una pro-  prietà, onde dio, che le ha create e può quindi disporre  a suo talento, lo ha investito, col controsenso che abbia  ancora a sudare per raccogliere i frutti del campo, e lot-  tare contro la rabbia, molte volte fatale, delle bestie fe-  roci. Il moralista del positivismo invece, fiero di se stesso,  audace, generoso come Giapeto, non riconosce donatori.  Egli si sente- padrone della natura come frutto della siia  conquista faticosa; e, come un duellante cavalleresco, al-  l' elemento immite della natura dice: Eccoci alla prova;  se varrai più di me soccomberò io; sarai tu a soccom-  bere, se sarò io il vincitore.  Ma si dice dal moralista religioso, che un Do-  vere originato nel modo da noi detto sopra non è pro-  priamente un Dovere: e che, se V ha fatto V uomo, esso  può anche disfarlo.  Secondo il moralista religioso il Dovere propriamente  detto è quello che non è abbandonato alla balia del ta-  lento mutabile e capriccioso dell'uomo: onde è neces-  sario che sia un comando di dio, al quale non è possi-  bile sottrarsi.  E in tale credenza è secondato dalla falsa idea, pur  generale ancora fra gli stessi positivisti, che le buone  azioni in genere, e in ispecie la pietà verso i bruti e la  ragionevolezza neir uso delle cose, siano naturalità irre-  sponsabili, al pari, mettiamo, degli effetti delle cause fi-  siche sui corpi: disconoscendosi cosi, per ispiegare i fatti  in discorso, la loro natura morale, che è pure una realtà  attestata sperimentalmente.  Il positivismo (malgrado i positivisti che sbagliano) vita futura, conchiudono generalmente che l'uomo da nulla  è obbligato ad avere rispetto alla propria vita, poiché, suicidatosi, rimane senza efficacia qualunque minaccia che la Società ponesse a trattenerlo. E che quindi sia V uomo anche moralmente padrone assoluto della propria vita, e possa disporne come gli talenta. Queste sono due soluzioni opposte ed estreme. False  ambedue, perchè dedotte da una idea del Dovere scien-  tificamente non vera.  Una doverosità diretta, relativamente al suici-  dio, certo che non si può trovarla, poiché, né ha nes-  suna presa sul suicida una minaccia di punizione per  parte della Società sulla di lui persona, che se ne sot-  trae col suicidio stesso, né é ammissibile l' idea della  Legge divina e della immortalità dell' anima.  E, assolutamente parlando, quanto alla conservazione della propria esistenza, V uomo potrebbe considerarsi nella condizione estramorale indicata sopra parlando degli  atti deir uomo sopra le cose della natura. E quindi, come  non si ascrive a merito il tendere, nelle condizioni nor-  mali dell'animo, a conservarsi in vita, e neanche a tirare  il respiro (quantunque a ciò si possa concorrere anche  colla volontà), cosi il suicidio potrebbe essere riguardato  semplicemente quale effetto naturale di condizioni anor-  mali dell' animo di un uomo, come il tossire delle con-  dizioni anormali degli organi della respirazione.  Ma, se non una doverosità diretta, si può bene  avere, circa il suicidio e la conservazione della propria  vita, una doverosità indiretta; per la ragione che molte  e diverse Idealità morali doverose, connesse col fatto  della conservazione della vita, possono essere presenti  imperativamente (ossia con una impulsività morale o do-  verosa) nella coscienza disposta al suicidio; e rivestirne  la deliberazione del carattere della reità morale.  Mettiamo un padre disposto a suicidarsi, che pensi  di creare, facendolo, la infelicità materiale e morale der  figli superstiti. O uno che pensi danneggiare suicidan-  dosi dei creditori onesti, che si sono fidati di lui e lo  hanno beneficato prestandogli del denaro, che avrebbe  potuto pagare almeno in parte continuando a vivere. E  cosi via per moltissimi altri casi consimili (i).   (i) Molto istruttivo per questo è il noto dramma di Paolo Ferrari,  intitolato // Suicidio^ nel quale, come le tirate spiritualistiche sono  freddure senza fondamento scientifico, senza sugo e ridicole, che è  strano che egli creda che si possano prendere sul serio, cosi invece  è pieno di verità e di effetto il quadro delle conseguenze nella fa-  miglia superstite del suicida. Onde poi si deduce che anche nei casi nei quali la  doverosità affetta, per impedirla, la deliberazione del sui-  cidio, questa doverosità non è sempre la stessa, ma varia  secondo il numero, la importanza e la qualità delle ra-  gioni morali intervenienti. Cosi, se un corpo insipido per  sé acquista un sapore da sostanze che glielo danno, que-  sto suo sapore varia secondo la diversità delle sostanze  dalle quali Io riceve. Tanto è vero poi che la doverosità non è in-  trinseca al suicidio per se stesso, e gli è. conferita, quando  si dà che Io accompagni, da ragioni morali intervenienti  diverse secondo i casi, che si può pensare Inter venirvene  anche di opposte; e tanto da produrre perfino la dove-  rosità contraria, ossia quella puranco di commetterlo.  E invero tutti quanti i ragionamenti ingegnosissimi  architettati da certi moralisti non poterono mai togliere  r aureola di eroismo virtuoso onde risplende la memoria  di Lucrezia romana e di Catone uticense.  Dicemmo, che la doverosità può associarsi al  fatto del suicidio, e contrastarlo quindi nella coscienza  morale in quanto si dà accidentalmente la circostanza  che, commettendosi da un uomo, restino inadempiuti dei  Doveri che gli incombono e sono da lui apprezzati.  E per ciò affermammo che la doverosità stessa viene  così a riguardare il suicidio, non per sé, ma indiretta-  mente.  Se non che è pur vero che anche una doverosità  diretta, atta a contrastare da sé la deliberazione di com-  metterlo, si accompagni al suicidio. E per ciò per una  Sanzione che minacci, non la persona viva (che non può  I- "II* PF.I 'darsi come dicemmo), ma la sua fama dopo la morte. La  paura di nuocere alla propria fama col suicidio può trat-  tenere tanto o quanto un uomo dal commetterlo, e in tal  caso esisterebbe per quest' uomo una doverosità diretta  impeditiva del suicidio. E sono due gli ordini dei motivi che possono deter-  minare questa Sanzione per la quale la Società può ven-  dicarsi del suicidio sopra la memoria del suicidato.  Il primo è quello delle doverosità indirette accen- nate sopra. E per esse viene ad avverarsi così ciò che si disse al numero 5 del paragrafo precedente della dove- rosità indiretta occasione della diretta. Il secondo è quello della opinione sfavorevole che  domini in una Società o in una classe di persone ri- guardo all'atto der suicidio, fondata sopra la idea che  sia una irreligiosità abbominevole o una rivelazione di  debolezza d' animo o di alterazione delle facoltà mentali.  La doverosità diretta dipendente da una San-  zione sociale, determinata da questo secondo ordine di  motivi, è una doverosità accidentale e temporanea, e non  normale e durevole, come si richiede pel Dovere assolu-  tamente tale.   E in vero T opinione relativa al suicidio, non sem-  pre, non dapertutto, si trova ad esso sfavorevole. Quante  volte, e presso quanti invece il suicidio è solo ragione  di compassione, come per una disgrazia non colpevole, o  è anche una ragione di lode!  La disapprovazione motivata dalle idee religiose vien  meno con queste. Si danno circostanze nelle quali il sui-  cidio si riveste del carattere di atto eroicamente lodevole,  come nei citati di Lucrezia romana e di Catone uticense.  Si danno condizioni e periodi dello stato di una Società,  che fanno considerare il suicidio siccome una fatalità ir-  responsabile.  Che più? Se uno è colto a commettere una azione  criminosa, la gente si avventa sdegnata contro il delin-  quente e si presta in aiuto della pubblica autorità ven-  dicatrice. Si corre invece a salvare dalla morte chi è in  procinto di darsela, e con senso, non di sdegno, ma di  pietà,  Tutto giorno si moralizza sul suicidio a fine  di impedirlo, ritenendosi di danno alla Società in gene-  rale e a certe sue istituzioni in particolare. Ma si mora-  lizza inutilmente. Le ragioni che si fanno campeggiare  sono inefficaci per mancanza di solidità intrinseca. Il fatto  si ripete ugualmente, come la febbre curata coli* acqua  fresca. E il male, riguardo alla Società, non è tanto nella  perdita dei suicidi, che in generale non costituiscono la  sua parte più attiva e sana, ma nelle condizioni stesse  della Società, che, se sono favorevoli al suicidio, con ciò  dimostrano di essere non buone e da migliorarsi.  Per le cose dette certo si scandolezzeranno  molti. E crederanno di avervi trovato un capo d' accusa  ineccepibile contro T etica del positivismo, per sostenere  che essa è esiziale alla Moralità dell' individuo e del  corpo sociale. Ma noi rideremo dello scandalo; ingenuo,  se chi lo prova è un pusillo; e ipocrisia, se chi lo pre-  testa è un accorto. E diremo: Acquietatevi, che né la  Moralità individuale, né la Società avranno danno nes-  suno. Anzi ne avranno vantaggio.  L' esperienza dimostra che anche tra i credenti in  una fede, che riprova assolutamente il suicìdio, si danno  di quelli che lo commettono. Sicché non si può soste-  nere che la religiosità valga ad impedirli. Quanto alla  minaccia dell' eterno castigo il credente suicida, o la af-  fronta disperatamente, o trova modo di persuadersi di po-  terlo evitare. Tanto che si sa di suicidi cattolici che si  confessano prima di darsi la morte. E nei credenti, se  si ha il ritegno della paura della pena avvenire, non si  ha poi queir altro, del non credente, dell'orrore di metter  fine per sempre alla esistenza, che per questo non si pro-  lunga oltre la vita attuale. E se si disse, che i credenti  un tempo si trattenevano molte volte dal suicidarsi per  r idea di essere sepolti fuori del cimitero consacrato, non  è men vero che ora possa altrettanto l'idea del biasimo  che può restare alla loro memoria.   Abbastanza ha provveduto la natura coli' istinto  strapotente della vita alla conservazione dell' umanità,  malgrado i mali gravissimi che ne accompagnano la esi-  stenza.   La disperazione che porta al suicidio non si mani-  festa con frequenza allarmante se non in certe condizioni  morbose sociali; e ne è il sintomo. Si manifesta per ef-  fetto delle condizioni medesime, regnino o non regnino  le religiose credenze. Ed avviene pel morbo, onde il sui-  cidio è il sintomo, come per tutti gli altri morbi; che,  se non producono la morte, le loro crisi stesse ajutano  la guarigione, sia segnalandoli alla cura da applicarsi,  sia promovendo una reazione salutare.   Quando in una Società si verificano frequenti suicidi     HW"*^ »    è certo ch^ la pubblica opinione si scuote dalla sua indifferenza per le cause dalle quali essi dipendono. E  finisce per rendere giustizia alla protesta contro di lei  di quelli, ai quali fu fatale lo sdegno contro la sua durezza.   E i singoli individui sono avvertiti e ammaestrati  circa i pericoli fatali di certe posizioni e circa gli effetti  funesti di certi indirizzi della vita, perchè li evitino e si  ravvedano intanto che il male può essere ancora scon-  giurato.  Il Diritto suppone l'Autorità; ossia è Diritto  solo in quanto è autorizzato ad esserlo. Ma la stessa Au-  torità è tale solo in quanto è un Diritto. E lo stesso Di-  ritto, qualunque esso sia, è in se stesso una Autorità.   Questi asserti sono altrettanti principj fondamentali  positivamente veri; quantunque la loro enunciazione ab-  bia r apparenza di un circolo vizioso.   Come dicemmo sopra tante volte (i), il Diritto per  essere veramente tale (e non semplicemente la potenza di  fare, comune ad ogni cosa che agisce), deve corrispon-  dere ad una Sanzione che ne assicuri V esercizio, con-  forme air Idealità sociale o giusta: e importare quindi  una Responsabilità morale. Ora la potenza che stabilisce  questa Sanzione, e verso la quale esiste questa Respon-   (E si veda per tutte la nota al n. 5 del § II di questo Capo III ) sabilità, è ciò che si chiama una Autorità. Onde è chiaro  essere il Diritto un correlativo della Autorità, e quindi  supporla necessariamente.   Potrebbe sembrare a prima giunta che questa  dottrina fosse identica alla vecchia religiosa e politica  circa TAutorità e la dipendenza da essa del Diritto. Ma  tra quella e la nostra corre una differenza di opposizione  perfetta.   La vecchia dottrina religiosa della Autorità insegna,  che ogni Diritto dell* uomo risulta da una concessione gra-  tuita di dio: che il Diritto, assolutamente parlando, non  l'ha se non dio: che T uomo di suo ha solo il Dovere:  che quindi, quando si dice di un uomo che ha un Di-  ritto verso un altro, la cosa va intesa cosi, che dio ha  imposto a questo il Dovere di fare o rispettare o lasciar  fare una cosa che lo stesso dio vuole che sia pertinenza  del primo.   Politicamente poi la stessa dottrina insegna che il  capo dello Stato è investito divinamente (e ciò significa  la consacrazione e la incoronazione con rito religioso per  parte del sacerdozio) di un potere sopra tutti i cittadini;  che esso ne è il sovrano per volere diretto di dio (onde  il titolo Per la grazia di dio) e indipendentemente dal  volere loro e da qualunque ragione naturale di Giustizia  o di bene comune (onde il precetto religioso: Obedite  praepositis vestris etiam discolis)\ e che quindi i citta-  dini, per lo stesso arbitrario volere divino, non sono altro  che sudditi. La scienza ha fatto ragione del principio religioso;  r evoluzione storica sociale del politico.     IP^II^KIIV idn,»»^ij5'tr«'isnfc#«^--xj' Il principio religioso è il solito fenomeno psicolo-  gico volgare, onde, concepito V astratto di un ordine na-  turale di fatti, il medesimo astratto è pensato come una  realtà fuori degli stessi fatti e come causa di essi. Gli  esseri viventi, ad esempio, danno V astratto dalla vt^a,  che non è se non la forma caratteristica speciale che li  distingue dai non viventi. Pel fenomeno psicologico sud-  detto si fece di questa vita una realtà atta ad introdursi  in questi esseri che lo possiedono e a renderli vivi con  ciò. Cosi fu fatto per V Autorità. Per una illusione ana-  loga; separata mentalmente dalla funzionalità sociale, onde  è un aspetto, fu collocata in dio, e di là si è fatta valere  a cagionare la funzionalità medesima.   E qui, come è ben noto, ci troviamo col solito abbaglio, del metodo metafisico, che spiega la cosa e il  fatto colla stessa cosa e collo stesso fatto. Come nel de-  rivare gli effetti fisiologici dell'Oppio dalla sua Virtù  dormitiva: per citare lo stesso esempio addotto da Pa-  squale Villari nel suo scritto intitolato e La Filosofa po-  sitiva e il Metodo storico » pubblicato fino dal gennaio  1806 nel Politecnico di Milano, e che io qui ricordo per-  chè egli fu il primo che ponesse la questione del Posi-  tivismo (nel senso che ha oggi) in Italia, e perchè una  grande influenza anch' esso ebbe sopra V indirizzo delle  riflessioni che finirono a produrre l'ordine attuale delle  mie idee filosofiche. Parlando poi della applicazione politica dello stesso principio religioso basterà osservare  come per essa il Potere è concepito, non come Giustizia,  ma come Prepotenza ed Usurpazione; onde si ha la Pre-  potenza, ossia r Ingiustizia, eretta alla dignità di principio inorale. Il che è bene scandaloso in una dottrina  che pretende di essere la salvaguardia unica possibile  della Moralità.   E questa applicazione politica del principio religioso  si trova poi corrispondere precisamente ad uno stadio  arretrato della evoluzione.   Il contrasto sociale (dal quale, come dimostrammo,  dipende la riduzione della Prepotenza e la sua trasfor-  mazione in Giustizia) si attestò da prima nell' impero  della religfiosità e della sua rappresentanza, cioè in quella  del sacerdozio. E allora si disse, il sovrano avere il po-  tere da dio, ed essere responsabile verso di lui dell'uso  di esso; e il sacerdozio si atteggiò a creatore e giudice  del sovrano in nome di dio.   Poi, venuta meno per le ragioni storiche la forza ef-  fettiva del sacerdozio nella Società, e quindi il peso del  suo contrasto, la sovranità se ne emancipò, e il legitti-  mismo di ortodosso divenne eterodosso; cioè, riconoscendo  ancora T esser suo dal cielo, autore e giudice della so-  vranità della terra, sottrasse però questa alla elezione e  al foro sacerdotale.  Incontrastabile veramente è il principio della  filosofia etica tradizionale, che il Diritto suppone la Autorità e che quindi questa si richiede pure per la Mo-  ralità.  Ma si ragiona falsamente dicendo, che il Positivismo  viene a distruggere la Moralità, dal momento che toglie  di mezzo l'Autorità; sicché per salvare la Moralità si  debba necessariamente tornare alla filosofia tradizionale,  che sola possa stabilire il principio della Autorità.  L'Autorità, il Positivismo, la pone anch' esso; e con  certezza, poiché ne trova il fatto nella Società e nella  psiche deir uomo civile, e ne dà la spiegazione partendo  dalla osservazione di ciò che succede realmente. E cosi  la fissa scientificamente ne' suoi termini veri e giusti, e  la garantisce dal dubbio (fatale sempre in materia di mo-  rale), e da ogni falsa, e dannosa, e immorale interpreta-  zione e applicazione.  L'Autorità, che la filosofia tradizionale fa venire dal  cielo, è un sogno antiscientifico ed involgente una con-  traddizione.   Come avvertimmo un' altra volta (i), il comando di-  vino imponente il Dovere all' uomo è un principio im-  morale della Moralità, mentre in fondo è la tirannia, o  l'ingiustizia, in grado infinito. E mostrarono d'essersene  accorti gli stessi metafisici quando concedettero, che il  comando divino abbia da essere non ripugnante alla es-  senza stessa delle cose, per cui riesca giusto, e dio che  ne usa debba chiamarsi santo. La stessa condizione po-  sero anche per la sua Autorità; e cosi, ammettendo una  dipendenza di essa dalla essenza delle cose, fecero di  questa il primo e di dio il secondo, e quindi vennero a  disautorarlo.   E r ammettere la condizione in discorso è poi infine  un riconoscere in modo indistinto la verità della nostra  dottrina, per la quale l'Autorità, non è un assoluto,. xm,  un relativo.   Cioè l'Autorità è il relativo di qualche cosa che si  impone moralmente; vale a dire con una Responsabilità   (i) Sopra Capo II, § II, n. ii.    ..LUI «IVI   verso una Sanzione, e quuidi verso una reausione libera  od umana: insomma verso la Sanzione sociale. Per cui  l'Autorità non può nascere se non nella Società degli uomini, e non può essere se non una formazione naturale  della sua attività organica. Ma questa dottrina del positivismo circa l'Au-  torità pare anch' essa contradditoria alla sua volta.   Un Potere, come si disse, è una Autorità in quanto  conviene con una Idealità sociale ed è giudicabile se-  condo questa; e quindi il suo esercizio è passibile di  una Responsabilità verso un Tribunale che dispone di  una Sanzione per far valere i principj secondo i quali  sentenzia.   Ora, siccome tale è precisamente anche il Diritto,  cosi l'Autorità viene ad essere anch' essa un Diritto.   Ma se l'Autorità è un Diritto, e il Diritto lion è tale  se non per l'Autorità subordinante che lo riconosca e lo  sancisca, come potrà darsi l'Autorità, non potendo essere  che il subordinante sia nello stesso tempo il subordinato?  Per rispondere alla difficoltà basta richiamare  quanto fu detto sopra (i) della Giustizia effettiva o giu-  ridica, o del corpo sociale; e della potenziale, o dell' in-  dividuo.   Ciò che sancisce l'Autorità suprema dello Stato è in  genere l' indistinto delle coscienze individuali, che ve-  demmo sopra come esista e come operi. E che, in modo  via via più distinto, si concreta nelle prerogative proprie  della gerarchia sociale (I) Capo I. i VII.    E COSI è tolta la contradd^ione obbiettata.   Il Diritto del subordinato è sancito dalla Autorità  stabilita nella Società. Il Diritto di questa Autorità è  sancito anch' esso da qualche cosa. Ma non da un' altra  Autorità superiore a quella della Società, che non può  darsi: sibbene dalla potenzialità morale del corpo sociale  collettivo (o delle coscienze individuali) che si forma ed  esiste e funziona ed è efficace in r^ione e a misura che  vige l'ordinamento effettivo della Società. E questo vero è attestato dal fatto storico co-  stante della Società umana, nella quale sempre si è ma-  nifestato questo processo; da una parte, della Autorità  stabilita che sancisce il Diritto del subordinato; e dal-  l'altra, della coscienza comune dei subordinati che san-  cisce il Diritto della Autorità stabilita.   Questo fatto è evidentissimo nella costituzione delle  Società moderne più avanzate, nelle quali é già ricono-  sciuta anche legalmente la dipendenza del Governo, in  tutte le sue parti, dal beneplacito dei cittadini. In tutte  le sue parti; mentre ormai la irresponsabilità, o si limita  alla sola persona del capo supremo, o è tolta affatto  anche per questa.   All' infuori del potere tirannico della forza e della  violenza di certe Società informi, che non è ancora l'Au-  torità giusta propriamente detta, ma la Prepotenza in-  giusta, nei governi teocratici la potenzialità morale del  corpo sociale collettivo si manifesta nella istituzione e  dipendenza del Potere dalla religione. E nei governi as-  soluti laici la potenzialità stessa si manifesta nella dipendenza del Potere sovrano, che pure ivi ha luogo, da  qualche cosa; come dalle consuetudini, dalle caste, dagli  ottimati e via discorrendo.   7. — Ed è poi confermato il vero medesimo dalla  distinzione, che sempre fu riconosciuta, fra il Diritto  reale e il potenziale; ossia, che è lo stesso, fra il Diritto  positivo e il naturale.   Poiché, scientificamente parlando, che è mai il Diritto naturale, se non la potenzialità morale propria degli individui componenti la So-  cietà. Il nostro ragionamento ci ha condotto:  Primo, a scoprire la vera indole del Diritto naturale.  Secondo, a spiegare con ciò V origine e la natura   vera della Autorità sociale. A darci il criterio per istabilire i rapporti del  Diritto naturale col positivo, tanto storici quanto ideali.   2. — Il Diritto positivo è, come già dicemmo più  volte, il Potere quale è costituito e funziona nella Società  umana; il Potere dei subordinanti e quello dei subordinati,  in quanto è riconosciuto fissato e garantito dal primo.     (i) Vedi in proposito: Morale dei Positivisti Libro I, Parte li.  Capo IV. n. 15 e segg. (pag. 125 e segg. del Voi. Ili di queste  Op. fil, nella edizione del 1885, e pag. 131 e segg. nella ediz. del  1893 e del 1901, e pag. 135 e segg. nella ediz. del 1908), e Parte HI,  Capo I (pag. 129 e segg. del medesimo nella ediz. del 1885, e pag.  135 e segg. nella ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 139 e seg. nella  ediz. del 1908). — E questa Sociologia Capo I J VII (principalmente  n. 6) e J Vili (principalmente n. 3 e 4), e Capo II.? 11, nota al n. 5.   Il Diritto naturale non è altro che il potenziale.  Ossia quello che corrisponde alle Idealità sociali, o giu-  ste, o morali. £ alle Idealità sociali universe: tanto a  quelle che si sono già avverate nella psiche e nella co-  scienza umana, quanto a quelle che non vi si sono an-  cora avverate, ma vi si possono avverare quandochesia.   Dalle quali definizioni enaerge che il Diritto positivo è determinato e giu-  stificato dal naturale; che il Diritto naturale è imprescrivibile, ed  ha un valore trascenclente assoluto, corrispondendo al va--  lore trascendente assoluto della natura onde è il prodotto:  come una forza o una specie naturale qualunque, che  l'uomo trova nella realtà e deve subirvi e riconoscervi; che il Diritto naturale è universale, come la  natura umana, allo svolgimento proprio della quale cor-  risponde.   Quarto, che il Diritto naturale è infinito.   Il Diritto naturale è infinito, nel senso posi-  tivo della parola, spiegato nella Morale dei Positivisti (i).   Infinito cioè nel senso, che è una potenzialità inter-  minabile nelle serie e nelle forme de' suoi svolgimenti.  Una potenzialità indistinta atta a determinarsi nei fatti  dei Diritti distinti che si verificano via via senza fine,  come i fatti in genere nella natura per la sua forza ine-  sauribile. E non mica un pensiero, o un sistema di pen-  sieri, già determinato e fissato in tutto il suo contenuto  (Libro II, Parte III, Capo I (pag. 255 e segg. del Voi. Ili  di queste Op. fil,, neir ediz. del 1885 e pag. 268 nell'ediz. del 1893  e del 1901, e pag. 275 nella ediz. del 1908).  e in una forma unica, nella mente di dio, come dà la  filosofìa tradizionale.   La quale immiserisce meschinissimamente il concetto  del Diritto. Come immiserisce meschinissimamente il con-  cetto delle specie naturali delle piante e degli animali,  riducendole ad un numero chiuso di archetipi fissi pre-  stabiliti in una mente creatrice.   Come realtà attuale, già distinta nella sua forma di  Diritto, questo è un fatto accidentale; è il risultato del  caso dell'incontro fortuito delle reazioni particolari che  ne determinarono la effettuazione reale, analogamente a  ciò che avviene per ogtii fenomeno naturale, e come nella  Formazione naturale nel fatto del sistema solare dimo-  strai importare la legge universale della Formazione na-  turale. Ma esso Diritto poteva realizzarsi in un infinito  numero di altri modi; come era possibile un infinito altro  numero di accidenti (i) nella coincidenza produttrice della  serie degli eventi e della serie delle condizioni dell'uomo,  in cui si avverò la coincidenza. E, del pari, resta sempre  infinito il numero dei momenti evolutivi ulteriori, per la  stessa ragione, e perchè V attività naturale resta sempre  inesauribile, e non si arresta al punto al quale è arrivata  in un dato momento.  Dalle quali cose poi emerge che tra il Diritto  positivo e il naturale vi deve sempre essere lotta. Tanto  è lungi che il positivo (come discenderebbe dalle dot-  trine dell' etica tradizionale) sia T acquietamento defini-  tivo del naturale; e che questo, eflFettuatolo, riposi in     (i) Vedi la Parte IV dello stesso libro.    -   quello, e solo debba stare in guardia contro i principj  contrari (sia delle passioni ree dell' uomo, sia di potenze  sovrannaturali perverse) tendenti a disturbare V assetto  etico definitivo del mondo.   Eterna è la lotta fra il «Diritto positivo e il Diritto  naturale. E non effetto della reità di nessuno, ma dello  stesso Processo del Bene. Il Diritto naturale lavora continuamente a trasfor-  mare il talento della Prepotenza egoistica, che rimane  nella Autorità vigente, in ijome della Idealità antiegoi-  stica. E la trasformazione, incominciata sopra il massimo  della Prepotenza, e continuata pei gradi insensibili infi-  niti della sua diminuzione, non è mai compiuta total-  mente.   Il Diritto positivo di un dato momento è sempre in  arretrato verso le Idealità sociali più progredite, già al-  beggianti nelle coscienze sociali. E la evoluzione di que-  ste Idealità, che, nate, si ribellano subito al Diritto po-  sitivo discordante per riformarlo ad immagine di se stesse,  è una evoluzione che mai non cessa. L’Autorità del subordinante e in pari tempo, un suo Diritto. Soggiungiamo ora che anche il Diritto del subor-  dinato è, esso pure, una Autorità nel vero senso della  parola.   Il Diritto del subordinato è si riconosciuto dalla Au-  torità del subordinante, mai non è da questa creato. Esso  esiste per sé in virtù del fatto del suo comparire nella  coscienza individuale. Se questo fatto non si avesse, l'Au-  torità del subordinante non potrebbe fare che fosse il Diritto relativo. Dato che sia il fatto, la stessa Autorità  non può esimersi dall' ammettere il Diritto.   Il Diritto del subordinante quindi si impone per que-  sto verso all'Autorità del subordinante, e perciò è esso  stesso una Autorità. Oltreché poi ogni Diritto, anche di  un subordinato, è sempre tanto o quanto subordinante,  cioè atto a determinare dei Doveri e dei Diritti corre-  lativi.   E questa dottrina della autorevolezza intrinseca del  Diritto del subordinato (santo pel subordinante, come  l'Autorità di questo è santa pel subordinato), era sentita  nella coscienza etica degli antichi, malgrado il falso loro  riferimento della cosa, quando all' ordine iniquo del prin-  cipe tendente a violare il Diritto naturale del suddito,  questo rispondeva: Se il principe comanda ciò che dio  proibisce, o proibisce ciò che dio comanda, l' ordine e il  divieto del principe non hanno valore per la coscienza. La dottrina positiva dell'Autorità e del Diritto è liberale.   Questa dottrina (che è quella del liberalismo  positivo) contrasta a due estremi opposti; esiziali 1' uno  e r altro alla Moralità vera. A quello del Nichilismo del  Diritto individuale della dottrina etico-religiosa dei me-  tafisici; e a quello del dichilismo deldiritto del Potere  di un certo socialismo materialistico. Il Diritto naturale e l'Autorità del Potere, che  lo riconosce, sono fatti naturali della Società, correlativi  ruoo all'altro. Onde» sopprimendo T uno di essi, sì sop-  prime anche V altro. Il Nichilismo materialistico dunque,  annullando l'Autorità del Potere viene ad annullare lo  «tesso Diritto individuale, che vorrebbe rimanesse col carattere di Diritto unico ed assoluto*   Il Diritto individuale è un effetto dell' organismo so-  ciale; e tanto che» tolto questo organismo, né potrebbe  formarsi, né perdurare, esistendo di già; come la fun-  zione e il prodotto speciale di un viscere particolare non  è segregabile dall* organismo deir animale e dai centri  nervosi superiori, onde è determinata e regolata V atti-  vità di ogni sua parte. Si form<\ il viscere a misura che  si formarono i centri regolatori; si mantiene finché si  mantengono i rapporti di dipendenza da essi. E analogo  è il caso del Diritto individuale nel suo rapporto coli' Au-  torità centrale.   E dunque liberale la dottrina positiva che, mante*  nendo TAutorità subordinante, può mantenere anche il  Diritto dell' individuo. E, per conseguenza, illiberale è  quella del Nichilismo materialistico, poiché, distruggendo  questa Autorità, finisce con ciò a distruggere anche que*  sto Diritto.  Ma la stessa dottrina positiva combatte, nel  medesimo tempo, il principio illiberale del Nichilismo  teistico, dal quale non è riconosciuto nelT individuo un  Dìntto propriamente detto, o proveniente dal suo essere  stesso; ed è insegtiato essere il Diritto una concessione  gratuita di dio, che egli possa dare e togliere a suo pia-  dmento, e lasciare anche alla balia degli usurpatori della  sovranità, nei quali si debba in ogni caso riconoscere una Autorità che non emani dal corpo sociale e sia ir-  responsabile verso di esso.   Il positivismo combatte questo principio, stabilendo  l'Autorità originariamente ed inalienaòilmente risiedente  neir individuo di esercitare il suo naturale imperio sopra  le cose, sopra di sé, sopra gli altri. E mostrando, come  la dipendenza dell' individuo dal Potere subordinante non  è quella dello schiavo, che è costretto colla violenza dal  padrone, e ne eseguisce i comandi suo malgrado, e col-  r ira incitante alla vendetta; ma è quella liberale di chi  fa con persuasione e con amore. E ciò perchè, l'Autorità  giusta subordinante, l'individuo la pone esso stesso pel  Bene di tutti; anche se importa un sacrificio per parte  propria: la pone, la coltiva, la difende come cosa, pro-  pria, anzi come suo proprio Diritto. Proponemmo quattro problemi fondamentali da  risolvere secondo il criterio positivo del Diritto e del Do-  vere prima indicato.   Dei primi tre problemi abbiamo trattato nei paragrafi  successivi del Capo medesimo. Tratteremo in questo del  quarto, cioè circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità Beneficenza, che dir si voglia.  Fin qui il nostro libro ha voluto soddisfare a  due dei tre suoi intendimenti; cioè di dimostrcure che la  Moralità, come è spiegata nella filosofia positiva, com-  prende, non solo gli atti della Gitistizia propriamente  detta, ma anche:   Primo. Gli atti infiniti offensivi non contemplati e  uon contemplabili dalla Legge. I quali perciò, esclusi  dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno at-  tribuiti a queir altro della pura Convenienza. Gli atti sindacabili soltanto dalla coscienza  intima dell' individuo in cui si avverano, e producenti la  sola reazione del Rimorso intemo. Trattando ora del quarto problema suddetto,  vedremo di soddisfare al terzo degli intenti propostici,  vale a dire di mostrare, che la Moralità, come è spie-  gata nella filosofia positiva, comprende anche;   Terzo. Gli atti virtuosi, che V individuo potrebbe fare  e sarebbe bene facesse, e non è costretto a fare. Ossia  quegli atti, che non si attribuiscono né alla Giustizia né  alla Convenienza, ma alla Carità, come dicevano i mo-  ralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come di-  rebbero i nuovi.  Gli atti benefici nell* Etica tradizionale.  E noto che nell' Etica tradizionale si stabiliscono due ordini diversi di atti buoni:  Quelli ai quali uno é tenuto per poter essere senza  colpa, che si dicono atti di Giustizia; e si riassumono  nel detto: Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia  fatto a te. Che é quindi un vero Precetto,   E quelli che uno può tralasciare senza diventare con  ciò colpevole, che si dicono atti di Carità o di Beneficenza, e si riassumono nel detto: Fa agli altri ciò che  vorresti fosse fatto a te. Che è quindi propriamente, non  un Precetto, ma un Consiglio, Ed è noto che 1' osservanza dei primi si dice pro-  durre la semplice Onestà morale; e la semplice Esenzione dalla punizione. E che la pratica dei secondi pro-  duce anche una Perfezione morale; e quindi il Merito di  un premio.   Ed è noto ancora che, tra i pronunciati morali ap-  partenenti alla categoria dei Consigli miranti alla mag-  giore Perfezione morale, se ne pongono anche di quelli  relativi, non al bene da farsi agli altri, ma alla nobilita-  zione interna della Persona morale. Il principio del Bene morale non prescritto, e  quindi n&n obbligatorio o gratuito (che è un principio ve-  rissimo, anzi è il principio morale per eccellenza), l'Etica  tradizionale, e non potè mai riuscire a dedurlo rigorosa-  mente, ed è, nel sistema di essa, contradditorio. E regge  solo nella dottrina dell'Etica positiva. E ciò malgrado sembri a tutta prima che questa,,  posta la dipendenza da essa stabilita del fatto morale  dalla Sanzione costringente, conduca ad una conseguenza  affatto opposta; a quella cioè di togliere di mezzo quello  che ora chiamammo (ed è senza dubbio) il principio mo-  rale per eccellenza.  L' Etica teologico-metafisica tradizionale si è  accorta dell' imbroglio che sta nella sua dottrina; e ha  cercato di cavarsene colla sua solita gherminella (rilevata  stupendamente dal Mefistofele del Faust di Goethe) di un  vocabolo equivoco. Cioè col vocabolo Consiglio contrap-  posto a quello di Precetto.   Il Bene morale obbligatorio (ha detto V Etica teolo-  gico-metafisica tradizionale) è il Precetto di dio, che non  si può non seguire: il Bene morale gratuito invece è il  suo Consiglio, che l'uomo può anche non seguire. Ma ciò non è altro, come dicemmo, che una  gherminella. La mentalità divina del Bene morale, onde partono  i metafisici in discorso, derivandone tanto il Precetto  quanto il Consiglio, sta, secondo loro, colla ragione di-  vina dell' Ordine morale.  Ora si può domandare:  L' Ordine morale metafisico, ragione del Bene, è esso  esigenza assoluta dell' essere proprio delle cose che ri-  guarda? E allora è necessario che sia Precetto tutto  il Bene. O sta invece che l'Ordine morale sia il puro bene-  placito di dio, il quale possa stabilirlo arbitrariamente  in un dato modo, e di due sorta, cioè uno da esigersi  inesorabilmente, e un altro da consigliarsi soltanto e  quindi da permettere che sia anche violato da chi voglia? E allora il Bene morale, anche quello prescritto,  non ha un valore assoluto; e si può supporre che dio po-  tesse non averlo voluto, come si suppone dagli stessi me-  tafisici, che egli potesse non aver voluto creare il mondo.  Si può supporre insomma, che il male sia male solo perchè dio r ha decretato, e che egli avesse potuto decre-  tare che non lo fosse. Il che sarebbe la distruzione pili  radicale immaginabile della Moralità. E da questo dilemma non si scappa. Cosa ben curiosa e ridicola il sistema etico  della filosofia sana, anche da questo punto di vistai   Secondo questa filosofia sana un uomo sa che dio io  consiglia ad un Bene che egli potrebbe fare benissimo;  e sa che con ciò darebbe soddisfazione a lui che deve amare sopra ogni cosa: ma quest' uomo non si cura, né  del Bene per sé, né dell'autorità di dio che lo invita a  farlo, né del dispiacere che gli reca trascurandolo; e ciò  per la preferenza data a un proprio interesse egoistico  contrario: e tuttavia il medesimo uomo rimane dopo tutto  questo esente da colpa, e nella grazia dello stesso dio  cosi postergato.  L' imbroglio e V assurdo della distinzione tra  il Precetto e il Consiglio dipende dalla distinzione falsa,  posta dai moralisti in discorso nella stessa ragione di-  vina del Bene morale, del Bene doveroso e di quello non  doveroso, corrispondente all' altra distinzione falsa, di un  Ordine morale che dio voglia necessariamente e di uri  Ordine morale che egli voglia arbitrariamente; e che è  la conseguenza di un principio ontologico fondamentale  erroneo circa le leggi dell' essere e della causalità in ge-  nerale e della provvidenza in particolare. Nel principio ontologico al quale alludiamo si accoz-  zano, in modo confuso e contradditorio, il necessario e  r arbitrario, come nell' Etica corrispondente la Moralità  determinata dalla ragione assoluta dell' essere e quella  determinata dalla ragione di un comando arbitrario. E  per un processo logico analogo.   Il concetto del necessario e dell'assoluto deriva dalla  osservazione della costanza delle leggi naturali dove que-  ste appariscono a tutti. Il concetto dell' accidentale e del-  l'arbitrario deriva dalla osservazione dei fatti, che nella  apparenza non si connettono necessariamente a cause na-  turali, onde si attribuiscono all' intervento diretto volta  per volta dell' arbitrio divino; come, pel volgo, la piog-      colare della povertà (che anzi questa sublimità per sé la  povertà non V ha niente affatto, se non ha invece la qua-  lità opposta); ma bensì se mai fosse V effetto inevitabile  di una azione o giusta o caritatevole, sì che uno non a-  vesse potuto rimaner giusto se non si fosse rassegnato ad  incontrare la povertà, o avesse sofferto perfino di subirla  per un maggior bene altrui.E così la povertà volontaria può essere anche pel po- sitivista una cosa sublime ed eroica. Mentre in caso di- verso egli la direbbe una stoltezza ridicola e riprovevole. Che se pel religioso la elezione della povertà non è una stoltezza, ciò dipende unicamente dalla circostanza che egli la riferisce ad uno scopo; cioè a quello di gua-  dagnare con essa il paradiso. Ma, se cessa così di essf re una stoltezza, riesce però un atto al tutto egoistico e quindi ancora tutt' altro che eroicamente morale.  E merita una speciale considerazione a questo proposito la dottrina relativa alla elemosina e al dare a prestito. Ho un ricco, fatto proprio secondo lo spirito dell'E- tica sana teologico-metafisica. Egli crede fermamente che  r esser lui nato ricco e destinato, senza lavorare, a go-   di ogni genere, mentre il povero non ha da coprirsi a- vendo freddo; se il ricco ha a sua disposizione palazzi e ville, quando il povero manca di un tetto qualsiasi; se il ricco imbandisce la propria mensa di cibi e vini costo- sissimi con profusione, dove il povero manca della stessa  polenta; se il ricco ha cavalli e cocchi e servi che lo  ajutano a fare niente, mentre il povero si stima fortunato  che altri gli offra per carità un lavoro che lo esaurisce senza compensarlo; se al ricco si offrono tutti i pia-  ceri da vicino e da lontano (poiché non gli bastano quelli  che può dargli il suo paese e gli occorrono anche quelli che solo si trovano altrove), e questi gli sono sempre  perdonati quand' anche affatto eccessivi e corrompenti e illeciti e scandalosi, quando il povero ne è privo al tutto ed è barbaramente rimproverato pur dei pochissimi e grami che gli sia dato di procurarsi; se fa tutto questo il ricco, non solo crede, secondo la sua sana morale (che sempre ha cura di contrapporre ad un' altra diversa, detta da lui empia e sovversiva) di far uso di un Diritto concessogli da dio per un gusto particolare di predilezione, ma crede poi anche di adempiere ad nn Dovere: a quel Dovere che si chiama il Dovere di vivere secondo il proprio stalo.   Or bene questo ricco, fatto secondo lo spirito dell’Etica sana teologico-metafisica, riconosce fra i Doveri  del proprio stato anche quello della elemosina, ritenendo che coir adempirlo diventi, non solo buono (che lo è già senza la elemosina), ma ottimo, ed in modo perfetto ed  eroico. Ed è assai bello vedere come il nostro ricco  intenda la detta elemosina. C è da rilevarne proprio la  sublimila della morale onde ha lo spirito. Prima di tutto, se egli si trova padrone di una so-  stanza vistosissima ereditata nascendo (quanta fatica,  quanto studio, e quanto merito!), la sua proprietà è cosa  sacra, qualunque ne sia la origine antica: anche se in  questa origine fu accumulata colla frode e colla rapina.  È cosa sacra, che gli viene da dio stesso. E, se deve contribuire una parte piccola e superflua per lui dell' aver  suo, per concorrere alle spese dello Stato che glielo di-  fende, o per dare un pane insufficiente a chi si logora la-  vorando penosamente per lui, che nulla fa e solò consuma  godendo e corrompendo, egli intende, nella goffaggine su-  perlativa del suo pensiero, che T operaio, che suda per la  scarsissima paga, e il funzionario pubblico, che si sacri-  fica pel meschino stipendio, della paga e dello stipendio  debbano arrossire come di suoi compassionevoli e gratuiti  donativi, e debbano riconoscere che, se faticando assai  hanno poco da mangiare, anche questo poco è tutta gene-  rosità sua, per la quale si compiaccia di largirlo, privandosi di una piccola parte di ciò che gli sovrabbonda. Ma va più in là l’eroismo della sua generosità di  dare del superfluo a chi non ha di proprio se non il dovere di lavorare (quando. gliene danno) e di soffrire. Va  più in là; poiché, oltre pagare le imposte che non può  frodare, oltre angariare V operajo coir avarissimo com-  penso dei servigi avutine, esercita anche la viriti dell’eielosina. Non già impoverirsi per ciò. E nemmeno restringere  di nulla gli scialacqui demoralizzanti. Oibò! Sarebbe questo un venir meno ai Doveri del proprio stato. E nem-  meno impiegarvi una, anche piccola, parte delle super-  fluità più riprovevoli. Tanto non occorre; e di gran  lunga.   Se, per cavarsi un capriccio stimato come un nulla,  il nostro ricco non bada a spendere un migliaio di lire,  una lira sola è anche troppo gettarla, come si farebbe  di un osso ad un cane, ad un vecchio cadente per la fame. Un pugno di monete di rame, ecco quanto basta per a-  dempiere al Dovere di perfezione della elemosina, per es-  sere morale in grado superlativo ed eroico, per acquistare  il merito -di un posto riservato in paradiso.  Poiché anche quelle miserabili monete di rame della  elemosina non si intende mica s'abbiano a gettare gratis. Né anche per sogno! Anche da esse, quantunque non  abbiano un valore apprezzabile per chi le getta, deve ve-  nire un vantaggio: e un vantaggio assai grande; devono  fruttare nientemeno che una felicità eterna in un'altra vita. E la cosa va di suo piede. Il povero, la cui vita fu  uno strazio continuo, é ben giusto e naturale che vada  poi air inferno, essendo infine, un povero, un malvagio  mascalzone; mentre il ricco, che ha sempre goduto senza  nessun merito, deve essere premiato colla beatitudine del  cielo, essen'do infine, un ricco, una persona buona. Un pugno di piccole monete di rame; ecco dunque  la limosina del ricco, secondo l'Etica sana. Un pugno di  piccole monete di rame date all' impazzata ad una turba  degradata di accattoni che le implorino, facendo ressa e  alzando le mani supplichevoli, intorno al castello minac-  cioso e al cocchio superbo, di chi le getta loro col piglio del disprezzo. E questa turba di accattoni degradati é poi neces-  sario, secondo la stessa Eti.ca sana, che ci sia anch'essa.  Altrimenti come sarebbe possibile al ricco di avere il  vantaggio di procacciarsi il paradiso a si buon mercato,  e di far risplendere, al di sopra dei languenti per inopia,  r orgoglio stupido della ricchezza in tutta la forza della  sua brutalità? Onde, nel pensiero del nostro ricco (fatto secondo ìct  spirito dell'Etica sana), è cosa immoralissima e sovver-  siva del Bene, che altri, come il positivista, cerchi di to-  gliere dalla Società T ignominia dell'accattonaggio: che  consigli la Società a provvedere, non in apparenza ma in  realtà, V impotente, 1' ammalato, il disgraziato: e senza  degradarlo, e con un soccorso che apparisca un Diritto  riconosciuto in chi lo riceve, e non una elemosina che lo  avvilisca; che faccia opera affinchè il povero sia educato  in modo da sentire il danno e la vergogna di accattare  il pane poltrendo neir ozio; e il vantaggio e la soddisfa-  zione confortevole di guadagnarselo nobilmente col pro-  prio lavoro.  E, il sommo della immoralità della condotta del po-  sitivista, il nostro ricco la riscontra poi in questo; che,  se si dà il caso dell' incontro di un infelice bisognoso di  soccorso, egli, il positivista, glielo porga per puro sen-  timento antiegoistico di umanità, senza pensare punto allo  interesse, né del paradiso né di nient' altro, da ricavarne;  e lo faccia senza avvilire chi riceve, comportandosi con  esso come il fratello col fratello; e nell' intento, non di  perpetuarne lo stato miserabile, che faccia risaltare meglio-  il proprio più decoroso, ma di agevolargli la via per u-  scirne al più presto, diventando un suo pari.  Dopo tutto però bisogna confessare che il no-  stro ricco, fatto secondo lo spirito dell' Etica sana, è  logico.  Ma le conseguenze pratiche di tale sua logica ser-  vono assai bene per farne apprezzare i principj. Come,  al contrario, la verità dei principj positivi apparisce nelle conseguenze opposte or ora accennate, eminentemente (ed  esse sole) buone e morali.  Certo si deve ammettere, che nella Società (pur pre-  valendo nelle dottrine dei maestri di morale il concetto  teologico-metafisico sopra descritto) si fece strada a poco  a poco, e per, la condotta individuale e per la direzione  delle cose pubbliche, V idea della beneficenza propugnata  dal positivismo, fondata sulla benevolenza effettiva che  r uomo, diventato buono, ha pe' suoi simili, stimati tutti  avere gli stessi Diritti ai beneficj della vita e della So-  cietà; alla quale perciò incomba il debito di provvedere  normalmente, più che sia possibile utile e morale, per gli  infelici.  Ma giò è V effetto della stessa natura, che opera se-  condo le sue leggi invincibilmente, senza e malgrado le  teorie dei filosofi. E qui pure, come in tutto il resto dei fatti  etici, essa natura ha dimostrato, che la Moralità non si  attacca materialmente ad un atto determinato circa. il  quale dio abbia detto: Questo atto voglio che sia un atto  buono. E ha dimostrato che la Moralità consiste invece  nella stessa disposizione antiegoistica dell' animo, creata  dal vivere sociale; e per la quale V atto materiale (che  per sé non è moralmente né buono né cattivo) diventa  buono, se la disposizione relativa dell' animo è buona, e  cattivo, se cattiva, E ha dimostrato che non occorre, che  un atto buono sia stato prescritto positivamente da nes-  suno, perchè si introduca nella pratica morale degli uo-  mini, e che questi lo eseguiscono anche senza e prima che  sia stato prescritto. Che anzi la prescrizione positiva medesima è pur essa non altro che V effetto della disposi-  zione potenziale degli individui precedentemente forma-  tasi neir animo moralizzato, nel modo sopra descritto.  Un discorso analogo si può fare circa il dare  a prestito. L' Etica religiosa, computandolo fra gli atti di  beneficenza e volendo quindi che, se altri lo eseguisce,  abbia da, poterlo fare solamente sotto questo riguardo, e  conseguentemente senza interesse, ne sopprime la funzione  vitalissima per la prosperità commerciale ed industriale  nel meccanismo economico sociale; lasciando più libero  il campo alle imprese esiziali degli usurai; sottraendo il  capitale all'ingegno e all'operosità dei volonterosi; re-  stringendo le fonti del benessere pubblico e quindi della Moralità comune.   E allora non sarà colpa l'approfittarne per contravvenirla:  e Vufficio del galantuomo sarà tulio nello studio di elu^  dere la Legge, E vi riuscirà, più o meno sempre, es-  sendo verissimo V adagio: Fatta la Legge, trovato V in-  ganno. Ed ecco il galantuomo inappuntabile dell'Etica sana. Quanto diverso, e più veramente galantuomo,  quello del positivismo, che l'Etica sana dice sovversione,  distruzione, negazione della Moralità.  Lo scopo dell' attività umana congegnata insieme nell’organismo sociale è di produrre nella coscienza degli  individui la Idealità morale antiegoistica, atta a muoverne  la volontà a fare il Bene. Fino a che l'individuo, questa  Idealità, non ha potuto formarsela, è un infelice da com-  passionarsi, come il selvaggio che non ha appreso da una  Società colta a procurarsi ciò che forma il benessere e il  decoro di un uomo. Si faccia dunque ogni sforzo per  isvolgerne le facoltà etiche onde egli goda del bene di  avere il carattere dell' essere morale. — • 2og — Una volta che Tuomo sia tale, egli fa il Bene in virtù della Idealità, che è viva in lui e impulsiva per sé del suo volere. Impulsiva per sé: tanto pel Bene della Giustizia propriamente detta quanto per quello della beneficenza. Impulsiva sempre; ogni volta che si presenti V occa-  sione di ravvivarsi nella coscienza. Operatrice del Bene nella stessa misura della sua im-  palsività, ossia del suo esserci. Impulsiva finalmente pel solo fatto di esserci; e senza  la scappatoja immorale del difettò, o nella promulgazione della Legge, o nella sua redazione negli articoli del co"  dice. Poiché, come dimostrammo già più volte, l'Idealità  morale, essendo essa la Giustizia potenziale, non segue  (come vaneggia la filosofia da noi riprovata), ma precede  la Legge propriamente detta; e quindi esiste nella coscienza (ancor prima della redazione scritta di una Legge  e della sua promulgazione) un suo dettato e una sua an-  nunciazione, che integra qualunque difetto della redazione  e della promulgazione positiva; e conseguentemente im-  pedisce che la Legge e il suo spirito siano ipocritamente  dissimulati e dolosamente elusi.  Il Bene di perfezione non obbligatoria, la vecchia Etica teologico-filosofica, lo ravvisò anche negli  stessi atti della Giustizia propriamente detta.  E in vero essa insegna, come notammi^ altrove, che,  se la volontà si decide a questi atti unicamente perchè  premuta dalla minaccia del castigo sancito per essi, si ha  solo la Giustizia e non la perfezione; e la perfezione si  raggiunge, eseguendo gli atti della Giustizia indipendentemente dalla minaccia del castigo e per la pura soddis-  fazione di fare le cose giuste.  Ed è giustissima questa distinzione fra il primo e il secondo genere della deliberazione volontaria rispetto ad un medesimo atto obbligatorio. E l'etica positiva la ri- pete e la mantiene anche per conto suo. E ne approfitta per argomentarne ad hominem contro TEtica vecchia. Poi- ché questa colla distinzione in discorso (che è una prova della verità dei principj della nostra Etica sperimentale) mette a nudo il proprio difetto per gli artificj, ai quali deve ricorrere affine di conciliarla colle sue teoriche; e per le incongfruenze che, malgrado gli artificj stessi, vi risultano. Notiamo, per esempio, l’incongruenza relativa alla distinzione tra T atto di rigorosa Giustizia e V atto gra- tuito, al quale essa annette il carattere di perfezione mo- rale. Qui non si tratta più di un Bene supererogatorio, e tuttavia vi trova il carattere della stessa perfezione. La quale incongruenza svanisce subito partendo dai principj da noi esposti dell'Etica positiva. L' essenza dell' atto morale propriamente tale, ossia di perfezione, di un'atto che ecceda l' efifetto diretto della minaccia del castigo, consiste, come dicemmo, nella atti- tudine del volere a esegfuire V atto indipendentemente dalla eccitazione esterna della Sanzione del castigo minacciato. E questa attitudine si ha quando, per effetto appunto della applicazione della eccitazione esterna mede- sima, a poco a poco si ingenerò e si rinforzò la dispo- sizione psichica impulsiva per sé; e tanto, che, divenuta questa una autonomia morale, ha da sé quanto basta per agire, senza bisogno di esservi ajutata dalla eccitazione della minaccia esteriore. Il che in qualche maniera é ammesso anche dall' E- tica vecchia, che pur riconosce la detta spontaneità mo- rale, ricorrendo però per ispiegarla al sogno della grazia di dio, che sostituisca il timore del castigo all' uopo di muovere la volontà al Bene. Coi principj dell'Etica positiva é dunque spiegata nel modo più ovvio e conseguente 1' analogia che corre tra r atto della stretta Giustizia eseguito per pura bontà d' animo, e l' atto della beneficenza in pari modo prodotto; e come ambedue possano avere cosi egualmente il carat- tere della Moralità perfetta. Molto più che è precisamente la spontaneità di operare la Giustizia (ossia lo Giustizia potenziale) che, precedendola, promuove la legislazione positiva colla rela- tiva Sanzione costringente (come dimostrammo). Ed é la stessa spontaneità che ne mantiene il vigore. Chi ha in sé l'amore alla Giustizia si fa autore diretto o indiretto della Legge, la difende, e concorre a renderla efficace e a vendicarla, se violata. E non impegna persé la forza del Potere, lasciandola disponibile interamente all' utile comune della Società. Dalle quali cose si trae un nuovo argomento in favore del principio etico positivo in confronto col me- tafisico tradizionale. Nella formazione della Moralità umana, secondo le cose dette, va considerato il momento disponente alla for- mazione stessa, e il momento della Moralità già attuata neir animo. Il momento disponente si ha nel cedere che fa il volere alla eccitazione che le viene esternamente dalla Sanzione della Legge. Il momento della Moralità già attuata si ha nella spontaneità acquistata dallo stesso volere air azione giusta e buona senza il bisogno della suddetta eccitazione. Or bene: il principio etico metafisico, onde la ragione deir atto morale è riferita al motivo della pena e del premio, contempla la Moralità nel Momento dispo- nente, vale a dire quando essa non è ancora la Moralità già fatta: dove il principio etico positivo, pel quale la ragione dell' atto è nell' Idealità sociale impulsiva per sé, contempla la Moralità proprio nel momento nel quale essa esiste veramente nella disposizione effettiva del volere. § VII. La virtic, il merito e il premio. Ora poi, esposte le quattro considerazioni pro- posteci, e confermata cosi e chiarita pienamente la dot- trina positiva riguardante gli atti cosidetti di carità o beneficenza, possiamo anche iritendere più compiutamente e precisamente, che sia ciò che si chiama la viriti e il me-' rito, nel loro senso distinto e proprio. Pl'lt.■l.J * — Tr"»T' ^r- Il merito è la proprietà della virtù, come tale; e non del semplice atto morale. E la virtù è una disposizione esistente realmente nel- l'uomo virtuoso. Il che, come sia, è chiaro dalle cose dette sopra. Cosi la scienza è V attitudine particolare dello scien; ziato. Ed essendo la virtù una disposizione reale dell'uomo virtuoso, questo per ciò è un essere diverso dall'uomo non virtuoso; poiché in questo secondo non esiste la potenza etica, che esiste nel primo. E questo vero è stato riconosciuto (quantunque con- fusamente e in contraddizione col loro principio (i)) dai moralisti della chiesa, in quanto per essi il merito e la virtù richiedono la presenza nell'anima di una attività spe- ciale, vale a dire di ciò che da loro è chiamato, la grazia. Se qualcheduno osservasse che noi, col ricor- rere alle dottrine dei teologi cattolici per trarne una con- ferma dei dettati del positivismo, tiriamo in campo inse- gnamenti già abbandonati dalla stessa filosofia etico-me- tafisica che combattiamo, e che quindi facciamo opera inutile (come anche oppugnando il dogma della grazia, che è voler sfondare una porta aperta, non credendo ad esso oramai più nessuno dei moralisti metafisici non teo- logi), soggiungeremo che la teoria dei metafisici non teo- logi non è che un riflesso sparuto della dottrina teolo- (r) Vedi Morale dei Positivisti Libro li, Parte I, Capo II, n. 26, 27 e 28 (pag. 224 e segg. del Voi. Ili di queste _Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 234 e segg. nella edìz. del 1893 e del 1901, e pag. 241 e segg. nella ediz. del 1908). • ^'••^'^'^gica patristico-scolastica precedente; e che ne ha eredi- tato i difetti perdendone i pregi; rimanendo cosi una su- perficialità destituita anche di quel valore scientifico, che bisogna pure riconoscere, anzi ammirare, nellametafisica ecclesiastica. Gli autori della quale furono grandi pensatori che, se non poterono arrivare alla soluzione positiva del pro- blema morale (ed era impossibile al loro tempo e nelle loro circostanze), ne ebbero però dei presentimenti. E il principale fra questi pensatori fu S. Agostino vescovo di Ippona, il cui genio potè a ragione essere messo allato a quello del divino Platone. La dottrina della grazia, relativamente al fatto morale, è analoga alla dottrina della forza creativa, rela- tivamente al fatto fisico. Il corpo agisce fisicamente perchè ha in sé la pro- prietà di farlo. Del pari T uomo agisce moralmente per- chè ha in sé la proprietà di agire cosi. Per ispiegare V azione fisica gli antichi supponevano la produzione della proprietà relativa nel corpo per parte della onnipotenza divina. E così davano una ragione della azione fisica stessa quantunque falsa. Il positivismo (come dimostrai nel libro della Formazione naturale nel fatto del sistema solare) trova che la proprietà del corpo di agire fisicamente è la stessa sua costituzione naturale. E così spiega Y azione fisica in modo analogo a quello degli antichi: ma colla differenza che, dove questi considerano la proprietà introdotta nel corpo arbitrariamente da dio nel crearlo (che è contro l' insegnamento del fatto), il positivista considera la proprietà connaturale al corpo medesimo. Nella evoluzione scientifica, onde si passò dalla spie- gazione antica della azione fisica alla positiva attuale, tra quella e questa si formò una spiegazione ibrida e con- tradditoria; la quale, da una parte, riconosceva V appar- tenenza della proprietà al corpo, proclamandola quindi una naturalità; e, dall'altra, riconosceva ancora dio quale primo autore di ogni naturalità; il che è una incon- gruenza scientifica, ed è il vizio capitale della dottrina teistica, come si trova ad esempio nel sistema del padre Secchi.Tale e quale la storia della evoluzione della dottrina etica. La virtù, o la proprietà psichica specifica dell'uomo morale, i teologi cattolici la supponevano un dono santo e sovrannaturale di dio. Il positivismo invece trova che tale proprietà santa è la stessa costituzione che potè acqui- stare la psiche umana per 1* azione esercitata sovr' essa dalla Società; ed è quindi una naturalità nel senso asso- luto della parola. La dottrina ibrida intermedia dei me- tafisici non teologi rende confuso econtraddittorio il con- cetto, pur semplice e chiaro, escogitato dai teologi, della proprietà etica infusa come grazia diviua. Rende, dico, confuso e contradditorio questo concetto in quanto, da una parte, negano V intervento diretto dell' azione divina sulla volontà, e, dall'altra, ne mantengono la indiretta. Il merito è l' indice della virtù. Esso è quindi per ogni atto virtuoso in ragione inversa dell'intervento del motivo estemo nella spinta alla deliberazione volon- taria. Appunto come la virtù, la quale, essendo la pro- pensione ad astenersi dal Male e a fare il Bene ingene- ratasi neir animo per le vie già indicate, tanto più ha in W-Vfl«-JJJ «.P., —sé di intensità quanto meno ha bisogno di essere mossa dal costringimento della minaccia del castigo e dall'ade» scamento della prospettiva di un vantaggio. Per conseguenza, minimo è il merito nelle azioni buone dipendenti al tutto dalla diretta efficacia della loro Sanzione esteriore: come in quelle che si fanno perchè imposte dalle Leggi positive. Ed è massimo nelle azioni buone per nulla determinate da motivo di fuori: come in quelle del Bene gratuito o supererogatorio, o di carità e beneficenza, per le quali, o non esiste Sanzione positiva determinata, o, esistendo, non si considera da chi le fa. Ma la stessa osservanza della Legge avente 4a sua Sanzione può in un uomo, indipendentemente dal ri- gfuardo della Sanzione stessa, essere determinatadallavirtùformatasi in lui di eseguirla solo perchè giusta, come vedemmo sopra nella osservazione quarta, E così anche per questa osservanza può aversi un grado di me- rito: e per questo distinguersi nella Società il semplice galantuomo (o quello che non può essere messo in pri-» gione perchè non fu còlto a delinquere) dall' uomo virtuoso, che è stimato non disposto a mancare agli obblighi del cittadino anche aboliti il Tribunale e il carcere. L' uomo, per la formazione che in lui si veri* fichi della energia morale o della virtù, diventa un essere fornito di una eccellenzaparticolare; cioè della eccellenza dignità o prerogativa d’essere morale. E il fatto è analogo a quello, per esempio, della for- mazione della energia vitale nel corpo materiale, per la quale questo si distingue fra le cose come ESSERE VIVENTE. Il premio, in relazione alla Moralità, o è una sua causa, o è un suo effetto. Come causa è la Sanzione allettatrice della quale par- lammo nel paragrafo quarto al numero sette. E con ciò si comprende percliè alla osservanza della Legge imposta colla minaccia di una Sanzione punitrice, ed eseguita per evitarla, non si addica la ragione di un premio, ma solo la esenzione dal castigo. Con questo la Società si difende dalla offesa dell' individuo; dal quale si procura invece l'opera utile della beneficenza colla offerta di un van- taggio. Dove è da considerare che la offerta stessa, fa- cendosi più per r utile dell' azione che per la sua Mora- lità, non si differenzia da quella che si fa in generale per la prestazione dell' opera volontaria da chi la desidera, cominciando dai premj dei concorsi riguardanti o un libro, una cosa d' arte, o una invenzione scientifica, meccanica, industriale, o un' impresa, e venendo fino allo stipendio dell'impiegato e alla mercede giornaliera dell' operajo. Come semplice effetto il premio è la conseguenza spontanea del merito; ed è l’espressione onde altri lo riconosce. Sotto questo riguardo anche la semplice osserva- vanza della Legge punitrice può avere una ragione di premio, se V osservanza avviene nel senso detto sopra al numero sei, parlando dell'' uomo virtuoso. E il premio consiate in questo caso, oltreché nella stima comune, anche in ciò, che questo uomo virtuoso è considerato siccome il rappresentante nato della Legge e del Diritto, come spiegheremo meglio in seguito. Il premio conseguente al merito della virtù è una naturalità non determinata positivamente. In generale si restringe alla stima e alla venerazione degli uomini pel virtuoso; la quale non è altro che la reazione spontanea sociale di fronte al Bene morale, e quindi si produce negli uomini in ragione che sono buoni, ossia bene di- sposti moralmente. Ma alla detta stim^ e venerazione si possono accompagnare anche vantaggi di posizione so- ciale e di benessere materiale. La mancanza del premio o della espressione del riconoscimento del merito, quando si verifica, è una ingiustizia, ma non distoglie dalla virtù chi ha la pro- prietà di averla; essendoché la virtù è per sé, e basta a se stessa. E non si addice il nome di virtù a quella disposi- zione a fare il Bene che sia determinata proprio dalla sola idea di averne la rimunerazione; secondo V osserva- zione sublime del Vangelo su quelli che fanno il Bene per essere veduti e rimeritati dagli altri.Esso dice di loro giustissimamente, che rimangono così senza il merito della virtù, essendo già pagati per quello che hanno fatto egoisticamente in vista della ricompensa. Il che però non vuol dire che il virtuoso non ap- prezzi la lode e T ammirazione altrui e non se ne soddisfi. Nobilissimo sentimento é questo di fare stima e di sod- disfarsi del giudizio morale degli uomini che apprezzano e ammirano la virtù; e più che di vantaggi materiali anche grandi. E di ciò parlai nel mio Discorso su Pietro Pomponazzi, dicendo del pensatore, che esso « ama la so- litudine. Ma non perchè sia privo di sentimenti benevoli, che anzi in lui si trovano più generosi; mentre nulla tanto disavvezza dall' egoismo, quanto la scuola delle idee. ^^P".  E nemmeno perchè non apprezzi la stima e la lode degli uomini; che, invece, in nessuno la passione della gloria è più viva, che in lui. E, nobilmente altero della sua oscurità, solo egli rinuncia sdegnosamente all' onore, che si acquista colle umili arti.  Sciolto cosi il problema propostoci, riguardante r azione benefattrice e la virtù che porta ad essa, gioverà fermarci a considerare il fatto dell' Ordine morale, e la naturalità della sua formazione. Circa la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL' ORDINE MORALE, in quanto questo fatto è un Ordine, alle cose dette alla fine del Capo prece- dente (2) e a quelle più generali esposte nel libro della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL SISTEMA SOLARE {3) e nel lavoro s\x\Y Inconosciòile di H, Spen- cer (4), qui ci proponiamo di aggiungerne una nuova. 3. — L' insufficienza e quindi la falsità del principio assoluto, che un Ordine qualunque naturale presupponga (i) Vedi pag. 51 del Voi. I di queste Op, fil, nella ediz. del 1S82, ^ P3&- 54 nell'edìz. del 1908). (2) \ VII. Vedi sopratutto V Appendice sul Caso (pag^. 271 e s%%%. del Voi. II di queste Op, flL nell'ediz. del 1884, pag. 287 e segg. nel- l'ediz. del 1899, e pag. 295 e segg. nell'ediz. del 1908). (4) Specialmente al J VII (pag. 353 e segg. dello stesso vo- lume neir ediz. del 1884, pag. 375 e segg. nella ediz. del 1899, e pag. 383 e segg nell'ediz. del 1908J. una Mente, che lo abbia concepito anteriormente e pre- disposto, emerge: Primo. Dalla considerazione che ciò che si chiama, la mente, è il fatto stesso della formazione psichica umana svolgentesi da ciò che non è ancor tale: onde la stessa Mente è per tal verso, essa pure, un effetto, come tutti gli altri avvenimenti naturali. Secondo. Dalla considerazione che, se la Mente (sorta per graduale isvolgimento da ciò che non era tale), è an- ch' essa la causa dell' Ordine che è subordinato alla sua efficienzaspecifica, sono del pari cause di Ordini subor- dinati propri anche tutte le altre formazioni naturali: anche quelle puramente meccaniche e fisiche. Sicché la il- lazione che 5i fa per la Mente, come ragione dell'Ordine, vale tanto quanto la illazione identica che si faccia per l'agente puramente fisico e meccanico. E in effetto, se r analisi del fatto mentale vi discopre gli elementi e le ragioni della sua efficienza ordinatrice, anche l'analisi del fatto puramente fisico e meccanico vi rintraccia pure gli elementi e le ragioni della sua analoga efficienza ordina- trice. Né più, né meno. Terzo. Dalla considerazione che I' efficienza ordina- trice della Mente, da una parte, si estende solo alla sfera dell' ambiente da essa abbracciato, e quindi è impotente al di fuori di questa; e, dall'altra, essa stessa suppone un ambiente maggiore nel quale si forma e che la fa es- sere: un ambiente che é, non una Mente, ma qualchecosa di puramente meccanico e fisico. Sicché, paragonando in- sieme le due formazioni ordinatrici (cioè la formazione meccanico-fisica, e quella della Mente), la prima è più ampia della seconda e quindi superiore ed anteriore ad essa. Quarto. Dalla considerazione che l'Ordine, che realmente si trova esistere in un dato punto della natura e in un dato momento del tempo, non è V effettuazione di un disegno, nel quale fosse stabilita la serie degli atti occorrenti alla effettuazione stessa, fino all'ultimo, cioè a quello del compimento dell' Ordine contemplato. No. Nella linea del tempo questo ordine ha la sua ragione in un primo che è fuori della Mente: cioè nelle stesse possibi- lità di svolgimento verso un Ordine proprie dell' essere naturale attivo. Nella linea dello spazio poi 1' Ordine in discorso ha tante ragioni quanti sono gli incontri fortuiti subiti dall' essere naturale attivo nel corso del suo svol- gimento; in modo che ad ogni incontro lo svolgimento stesso devia accidentalmente dalla sua direzione prece- dente, e quindi V ordine ultimo non corrisponde più alla virtualità Iniziale dell' essere che si svolge, ma solo a quella diversissima e puramente casuale portata dall' in- contro ultimamente subito. In una parola, la Mente, né pone il disegno dell' Ordine, che è già nell' essere natu- rale stesso, né lo eseguisce come l' aveva disegnato, poi- ché la esecuzione sempre ne differisce per opera degli agenti naturali casualmente concorrenti. Fra i quali può benissimo essere anche la mente stessa (che è pure una attività naturale), ma 'solo con analoga accidentale effi- cienza. Ciò fu già chiarito a lungo e dimostrato con argomenti positivi nelle trattazioni sopra citate. Ora faremo un ragionamento che suppone i suddetti. ne discende e li completa: ed è poi senz' altro la semplice constatazione logica del fatto dato dalla osservazione. La teoria metafisica, onde si pone in una Mente la ragione dell' Ordine delle cose, è basata sopra i due falsi supposti, che il disegno finale della Mente preceda al tutto la esecuzione estema, e che l'adattamento delle parti nel tutto reale effettuato sia stato determinato dal concetto medesimo di esso tutto; sicché questo sia asso- lutamente un fine e le parti siano assolutamente mezzi; e non il contrario. Il secondo falso supposto deriva dalla osservazione superficiale ed illudente della specie già formata, che ap- parisce come un ultimo, ossia come un fine. Anche perchè la specie è di una stabilità relativamente grandissima per rispetto alla esperienza dell' uomo. Egli, trovandone già r esistenza anteriormente alle mutazioni conosciute, la im- magina realizzata nella sua interezza attuale fino dal suo principio: e, non essendogli dato di essere testimonio del suo trapasso in una specie nuova, ritiene che sia desti- nata a durare inalterata fin che dura il mondo. E cosi si forma il proprio concetto della specie, che, o sia come è, o non sia punto. E, siccome la esistenza di una specie im- plica quella delle parti onde risulta, cosi l'uomo pensa che queste non siano altro che i mezzi necessari al fine di essa, e quindi siano il trovato ingegnoso di una Mente; la quale, formatasi da prima il disegno della specie, sia passata poi a divisare le parti occorrenti alla sua realiz- zazione. Il primo falso supposto poi deriva dalla esperienza del fatto della Idealità dell' arte, che è qualchecosa di re- lativamente compiuto e fisso, e che si comunica qual' è da uomo a uomo: e in un modo che uno avendone la co- gnizione e segtiendone la rappresentazione mentale, è atto ad eseguire addirittura, senza tentennamenti e prove im- perfette, un' opera definitiva, predisponendo e coordinando all'uopo tutto ciò che si esige. perchè riesca nella realtà quale si concepisce. I metafisici fanno i due detti falsi supposti, commettendo T errore di considerare il tempo della osser- vazione siccome una eternità, nella quale non sia diffe- renza tra un momento e V altro della esistenza; mentre invece nella durata reale i momenti sono effettivamente diversi l'uno dall'altro, ed essa nei precedenti va diven- tando ciò che risulta poi nei successivi, cessando in que- sti quello che era nei primi. L'essere naturale esiste trasformandosi (i); e, nella linea infinita del tempo, solo per un tratto di questo si trova in una forma che svanisce col venire del successivo. La specie è questa forma, instabile come il tempo del quale è figlia. Si muta insensibilmente nel mentre che pare persista la medesima, come il posto del Sole in cielo che sembra fermo a chi lo guarda. E ciò vale tanto per la specie, quale complesso di parti, quanto per la parte coordinata nella specie. L' una e l' altra soggiace del pari al fato del mutamento. E cosi n) Vedi per ciò 1* Osservazione III del libro della Formazione naiuraie nel fatto del Sistema solare e sopratutto il J X (p-ig. 193 del Voi. II di queste Op, fil. nella ediz. del 1884, pag. 204 nella ediz. del 1899, e pag. 209 nella ediz. del 1908). la parte viene ad essere, non solo un mezzo, ma anche un fine, come la specie; e questa, non solo un fine, ma anche un mezzo, come la parte. Molto più che nella na- tura nessuna cosa è tanto una specie, che non sia nello stesso tempo semplice parte in una specie più grande; e nessuna cosa tanto è una parte che non sia nello stesso tempo una specie per sé. E nella natura medesima non è la esigenza a priori di una specie, destinata ad esistere, che abbia determi- nato il farsi delle parti occorrenti alla sua esistenza, se- condo il divisamento precorso di una mente ragionatrice: ma è la esistenza avveratasi delle stesse parti costitutrici che ha determinato la formazione della specie, quale si trova in effetto nella realtà. Se le cause naturali relative (indipendentemente af- fatto da un concetto della specie che non era prima della esistenza reale di essa) non avessero prodotto le parti costitutive della specie, questa non si sarebbe realizzata. E se le cause naturali avessero prodotto le parti in modo diverso, la specie si sarebbe realizzata diversamente. La coordinazione quindi delle parti alla specie, come del mezzo al fine, è una coordinazione a posteriori. Non può esistere la specie qual' è senza le parti occorrenti; e se esiste la specie è solo pel caso avvenuto della formazione delle parti richiestevi. Per ciò, se la parte è il mezzo a cui consegue il fine della specie, questo mezzo non è un effetto (come è sup- posto nella teoria metafisica della Mente che è determi- nata a ricorrervi dalla necessità del fine della specie); ma è la stessa causa della specie. E quindi, se si vuol chiamare la specie un fine, ciò va inteso come dell' effetto che segue la sua causa, e non viceversa, come nella teoria che ripudiamo. Così, se si avverasse che il tronco di un albero per un accidente qualunque cadesse sopra un altro tronco in modo da stare sovr' esso in bilico, e questo fatto dello stare in bilico lo si prendesse come un fine, apparireb- bero mezzi per ottenerlo la esistenza sotto il caduto di queir altro tronco colla sua sufficiente resistenza a non piegarsi e rompersi, e T esservi dato sopra il tronco in bilico col centro della sua gravità. Ma qui il detto fine, nessuno lo direbbe la causa precedente del fatto; nessuno direbbe i detti mezzi degli effettivenuti dopo, ossia di- visati e predisposti da una Mente consecutivamente al pensiero di avere un tronco in bilico sopra un altro. Non altrimenti è la cosa nel fatto della Idea- lità e dell'Arte umana, e in genere di tutto ciò che si chiama il disegno ordinatore della Mente. La Mente e il suo disegno sono fatti della natura, analoghi a tutti gli altri in essa verificantisi nella sfera biologica e nella inorganica; e quindi soggetti alle stesse leggi: sono casualità, come la produzione di una specie o la caduta or ora accennata di un albero sopra un altro. Quando un dato disegno è già un fatto compiuto, al- lora certo può rimanere un certo tempo come è riuscito; ed essere trasmesso da uomo ad uomo; e servire per pro- durre addirittura l’opera corrispondente, e per predisporre e coordinarvi le parti come mezzi al fine dell'opera stessa; e in modo che questo fine venga ad essere proprio la causa di dovere divisare i mezzi relativi, e il divisamento di questi mezzi venga ad essere l’effetto di aver voluto r opera. Ma ciò non succede soltanto per la mente e pel suo disegno: che succede lo stesso anche per la specie fisica, una volta che sìa g^ià un fatto compiuto. Una volta che esista g^à la gallina, essa potrà pro- durre un' altra gallina. Cosi un bruco nato da un altro potrà fare un bozzolo simile a quello che faceva il suoprocreatore. Un uomo, arrivato a comporre nella sua Mente il di- segno di una locomotiva a vapore, ha potuto costruirne una reale: i meccanici in seguito poterono imparare quel disegno e costruirne delle altre. Non potè succedere che la gallina procreasse altre galline prima che se ne formasse la specie. E lo stesso del bruco. E lo stesso dell' uomo. Non potè succedere che questo costruisse la locomotiva a vapore prima che se ne fosse formato il disegno nella sua Mente. E come la specie della gallina e quella del bruco non proruppero tali e quali dal nulla, secondo la cre- denza di un tempo, ma furono la riuscita ultima di una serie lunghissima di gradazioni di svolgimento dell'essere, che prima non era né gallina né bruco, cosi il disegno della locomotiva a vapore della Mente umana, fu la riu- scita ultima di un lavoro del suo pensiero, che prima non era quel disegno. Né divèrsa nel fondo è la legge della formazione nelle specie biologiche della gallina e del bruco e nel di- segno della mente umana. E analoga nei due casi è la ra- gione della potenza di produrre la cosa a propria immagine e somiglianza, e di fare che nella cosa stessa corri- spondano allo scopo dell' essere suo i mezzi impiegativi. £ quindi un libro che narri la storia della invenzione di una macchina è analogo a quello che esponga la evolu- zione formativa di una specie naturale. E, se, come di- cono i teisti, dio è 1' autore della natura, questa non se- rebbe altro che il libro nel quale si può leggere ciò che esso è arrivato a inventarvi, una cosa dopo l'altra, a poco a poco. Ma dobbiamo dimostrare e chiarire meglio la cosa. Un uomo ha fatto bollire dell'acqua in un vaso. Ne ha visto sortire del vapore. Per caso copre il vaso mente ritenta l' esperimento, e il vapore solleva il co- perchio. E l'uomo pensa allora: — Dunque il vapore è una forza: e non si potrebbe adoperarla a produrre un qualche lavoro? Sì certo. E si prova ad applicare al coperchio del vaso un' asta, la quale, alzandosi il coper- chio, trasmette il suo movimento ad un corpo che essa urta. Ma il movimento così è in un solo senso; e l' uomo immagina che si potrebbe averlo nei due contrarj di va e vieni. E che perciò sarebbe necessario che il vapore spingesse il coperchio una volta al disotto e un' altra al disopra. E quindi studia e trova il modo di far passare il vapore dal vaso dell' acqua bollente, per un foro in un cilindro, nel quale sforzi il coperchio medesimo ora al di- sopra e ora al disotto. E allora gli soccorre V idea di ap- plicare r asta, moventesi avanti e indietro, ad una ruota per farla girare. E vi riesce praticando un foro all'estre- mità libera dell' asta e applicandolo ad una caviglia fissata vicino al centro della ruota. Ed ecco inventata la locomotiva a vapore. Ecco tutto. Il disegno della locomotiva a vapore, la Mente non lo creò con un suo fiat. Quel disegno in essa è r esito faticoso e lento di una serie di operazioni succedutevi r una dopo T altra; e determinatevi da una serie di accidentalità che la trassero fino al compimento della sua invenzione, che riusci una sorpresa per la mente stessa che si trovò di esservi arrivata. Analogo è il processo di tutte le formazioni mentali. La Psicologia positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL PENSIERO in genere, e logico in ispecie; su di che spero di pubblicare presto un mio lavoro g^à pressoché ulti- mato (i). L'Estetica positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL- L'ARTE, che mi duole assai non avere potuto ancora pre- sentare in un libro pel quale ho già preparato tutti i materiali. L'Etica sociologica positiva lo dimostra nel suo studio (i) Cosi ho scritto e ripetuto nelle edizioni precedenti, quando aveva ancora la fiducia di poter ultimare il lavoro. La speranza ora è quasi svanita. La circostanza di essere impegnato otto mesi del- l' anno per le lezioni mi lasciò sempre poco tempo per ciò che avrei voluto fare fuori di esse. Gran parte del materiale preparato per la Formazione naturale nel fatto del Pensiero mi ha servito pei tre libri del Vero^ della Ragione e della Unità della Coscienza, E questi quindi possono supplire tanto o quanto invece del libro promesso; che poi non ha cessato di preoccuparmi, come apparisce dai lavori sull'argo- mento pubblicati nei Volumi IX e X di queste Op, fU, Ptll —  della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL’ORDINE MORALE, che è l' oggetto della presente trattazione. 10. — Ora è noto come la scienza oggi, illuminata e messa sulla strada dal genio di Darwin, dimostri av- venire allo stesso modo la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELLA SPECIE organica: e per ciò mi devo rimettere ai libri che uq trattano. Anche qui si rileva lo stesso processo di formazione, indicato per V invenzione del disegno della locomotiva a vapore nella Mente umana, pei lenti e accidentali ingran- dimenti e tramutamenti di struttura e conseguentemente di funzione: la stessa ragione, onde la formazione già ot- tenuta è riprodotta nella forma raggiunta. E per la stessa legge, da me formulata nel libro della Formazione naturale più volte citato, del ritmo che lentamente si trasforma per gli urti esterni non concor- danti, e indefinitamente si conserva in quanto non è di- sturbato, e si trapianta fuori di sé, applicato come forza ad un altro essere atto a riceverla. Ciò posto, riepiloghiamo il nostro ragiona- mento. Il piano mentale è un meccanismo o apparato psico- logico riuscito per aggiunte e modificazioni cernali suc- cessive, indipendenti da un proposito consapevole del sog- getto pensante, e occasionato dalle azioni e reazioni ac- cidentalmente verificatesi tra esso soggetto e le cose ate. Vedi Formazione naturale nel fatto del Sistema Solare ^ Os- servaz. Ili, J XIV.a impressionarlo,come la specie della gallina è un mec-- canisfno o apparato fisiologico riuscito per aggiunte e mo- dificazioni casuali occasionate dalle azioni e reazioni dell' ambiente in cui si è formata. L' apparato psicologico del piano mentale serve alla produzione di un' opera a sua immagine e somiglianza: come l'apparato fisiologico della specie della gallina serve alla produzione di un individuo nuovo della specie mede- sima. Il fatto è come di uno stromento che 1' arte della natura (cioè del complesso delle cause che esistono in essa) ha preparato, nel primo caso entro la psiche deU r uomo, nel secondo caso entro la vita della gallina, per produrre 1' opera relativa (i). Dunque nel disegno della mente ciò che si chiama il fitte di esso (poniamo per la locomotiva a vapore di muoversi della macchina sulla ferrovia colla forza di tra- scinarsi dietro il treno attaccatovi) non è un primo, che la Mente si sia proposta e che abbia motivato per essa il divisamento, al quale sia quindi venuta solo dopo, delle sue parti, come deimezzi necessari al conseguimento del fine medesimo: nel che si fa consistere la ragione di dover (i) Nel Capo I della Parte II del Libro I della Morale dei Positivisti, numero 3 ho mostrato potersi definire la Psiche: Un mondo possibile^ che si presenta coyne il piano dell* opera a chi ha da pro- durne uno reale. E precedentemente vi è dimostrata la casualità della formazione del stessa psiche. Una cosa affatto analoga è V energia specifica di un agente naturale fisico qualunque. Tale energia è un ordine di proprietà costituite nella cosa per la stessa ragione della casualità della sua formazione, le quali vengono ad essere la possi- bilità degli effetti che la cosa è atta a produrre, e precisamente di un ordine di eff*etti corrispondente all' ordine delle proprietà dalle quali dipendono. Fra la psiche e V agente puramente fisico nel ri- ricorrere alla Mentalità per ispiegare il fatto dell’ordine, inteso quale divisamento dei mezzi necessari al conseguimento di un fine. Nel disegno della mente, ciò che si chiama il fine non è un primo, ma un ultimo, che vi si verifica posteriormente, perchè prima vi si è verificata la cogni- zione dei mezzi. Nel fatto particolare della concezione del disegno della locomotiva a vapore allo scopo di trascinare il treno ferroviario, la Mente che vi è arrivata possedeva già la cognizione della forza del vapore; e del modo di farlo agire sopra uno stantuffo si che ne risultasse un movi- mento di va e vieni sopra un'asta; e del modo di con- vertire il movimento rettilineo dell' asta in quello circo- lare di una ruota; e la cognizione, che un peso, gravi- tando sopra ruote che lo portino è girino su guide di ferro, si trasloca con esse. Solo dopo ciò, solo dopo che la Mente era già pervenuta alla cognizione di questi mezzi, ad esso potè sovvenire V applicabilità loro al fine di avere un motore di un treno ferroviario. L'Ordine adunque anche nella Mente è un risultato accidentale di concorrenze casuali nel quale i mezzi non spetto in discorso si ha la sola differenza, che nella prima l'ordine mentale, causa dell'ordine delle opere, mettiamo dell* uomo, è accom- pagnato dalla coscienza di sé, mentre nel secondo 1' ordine delle proprietà attive, causa dell' ordine de' suoi effetti, non è fornito di tale coscienza. Ma ciò non influisce punto ad alterare la natura del processo della estrinsecazione, per così esprimermi, della attività. Cosciente o non cosciente, V attività funziona in un agente sempre e necessariamente nel modo onde è atta a funzionare, ossiasecondo lacostituzione propria dell'attività stessa nella intimità dell'agente che la esercita. L  sono determinati dal fine, ma è questo determinato dai mezzi. E tanto, che supporre il contrario è supporre ima impossibilità o un assurdo della dinamica della natura. E cesi la tantovantata scoperta di Anassagora, che V Or- dine dell'universo importi una Mente ordinatrice, vale quella del suo predecessore Talete, che si argomentò di ritenere doversi V attrazione della calamita pel ferro ad un' anima che vivesse in essa, e ne determinasse questo effetto curioso. Se qualcheduno qui credesse di sfuggire alla nostra conclusione, osservando che il pensiero che si at- tribuisce a dio non è come il pensiero dell' uomo, sul quale noi facemmo la nostra argomentazione, risponde- remmo due cose: Primo. O il pensiero attribuito a dio è qualche cosa di analogo al pensiero dell'uomo, e allora l'argomenta- zione fatta su questo vale anche per quello: o non è una cosa analoga, e allora non si può dire che sia un pen- siero. Perchè a noi, quando diciamo, pensiero, è impossi- bile concepire altro che non sia lo stesso nostro pensiero. E poi non si può ancora in nessuna maniera fondarvi sopra r argomentazione relativa all' Ordine, dal momento che questa è suggerita precisamente (quantunque per sem- plice illusione) dal fatto dello stesso pensiero umano. Secondo. Lo stesso fatto della natura poi smentisce direttamente la supposizione della obiezione. E in che modo? Si disse: Concepì dio il disegno del mondo e poi lo esegui creandolo: e tale subitoqualedoveva es- sere poi sempre a gloria sua; e quindi coli' uomo, dotato per ciò da lui, non solo del senso come il bruto, ma anche della ragione e del libero volere, che lo rendes- sero atto a conoscerlo e a rendergli omaggio e culto spontaneo. E il sistema era logico. Non aveva che il piccolo di- fetto di essere basato sul falso supposto che il mondo at- tuale sia una formazione che persista immutabilmente: tale al suo primo principio, tale ancora fin che ne dura la esistenza. Ma la scienza s'è avveduta che la formazione quale ora si presenta, l'uomo compreso, è una fasetransitoria della esistenza. E con ciò ha distrutto il sogno che fosse r opera definitiva, nella quale si fosse realizzato appuntino il disegno di una Mente divina. La scienza s' è avveduta, che lo stato attuale delle cose è dovuto ad un processo continuo di formazione ana- logo a quello delle idee e dell' arte dell' uomo, e che que- sto processo è determinato dalla attività  intrinseca delle stesse coseche si formano, e dal caso delle reazioni delle cose fra di loro. E con ciò ha distrutto il sogno che siano r Ordine preveduto come fine in una divina idea. I teisti, smentiti così nel campo degli Ordini della natura fisica, si restrinsero a sostenere il loro prin- cipio della preordinazione della Mente divina, nel campo dell' ORDINE MORALE; e credettero che quivi sareb- bero rim£isti eternamente inoppugnabili. Ma ahi! che anche qui la scienza li ha seguiti e ha messo in evidenza la insostenibilità della loro tesi.La scienza positiva dell' Etica sociologfica ha sco- perto, come vedemmo, 1' analogia perfetta che corre tra la formazione naturale in genere e quella della Giustizia e del Bene morale in tutte le sue forme. Ha scoperto quindi che tutto ciò che si riferisce all' Ordine morale, e r Ordine morale medesimo, sono il prodottolento e pro- gressivo {e vario secondo le dccidentalitàaccompagnanti) della attività intrinseca dell' essere umano e delle reazioni degli individui nella convivenza della Società.  Il fatto del Diritto (diversità, specie, coordinazione) e il suo Ideale. Circa la diversità del Diritto tra individuo e individuo, in ragione della potenzialità non ugnale dal- l' uno air altro, alle cose dette nel libro della Morale dei Positivisti {\) e superiormente in questo {2), un'altra im* portantissima qui ora torna la opportunità di aggfiungerne. La diversità in discorso dipende in parte dalla stessa costituzione fisico^psichica colla quale uno nasce; e per questo riguardo si potrebbe chiamarla diversità ini- zicUe; e in parte (grandissima) è il prodotto della convi- venza sociale: e per questo altro riguardo si potrebbe (i) Libro I, Parte II, Capo IV, n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. ITI di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, e pag. 131 nella ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135 nella ediz. del 1908). (2) Capo III, J II, n. 3. pi L I «IP^« chiamarla diversità riuscita. La quale poi alla sua volta influisce pur anche indirettamente sulla disposizione ini- ziale della nascita. L' argomento della diversità del diritto, considerata sotto il secondo degli aspetti ora indicati, è vastissimo: ma noi qui lo toccheremo solo per ciò che occorre allo scopo della nostra trattazione. Le specialità di condizione di un uomo, dipen- denti dalla sua relazione e convivenza cogli altri uomini uniti in Società, sono moltissime; come ognuno sa. Per esempio, la ricchezza, la parentela, la clientela, gli ade- renti, gli amici, i conoscenti, T ufficio, il grado, la cultura, il merito, le idee, e via discorrendo. Queste specialità di condizione sono nello stesso tempo altrettante specialità di attitudini e di potenza del- l' uomo. E quindi anche, secondo le cose stabilite sopra, altrettante specialità di Diritti di esso. Si verifica perciò nell'organismo sociale la legge di tutti gli organismi, per la quale V elemento, che, con- siderato in astratto e fuori dell' orgfanismo, è uniforme, una volta entrato a farne parte, si diversifica per opera dell'organismo medesimo; poiché questo, fra le moltis- sime funzioni delle quali un elemento ha primitivamente la potenzialità indistinta, lo dispone e lo destina ad una data funzione distinta. Che è ciò che si chiama anche il fenomeno della divisione del lavoro, ed è nello stesso tempo ciò che altrove (i) dicemmo corrispondere alla (i) Per esempio, nella Formazione naturale nel fatto del sistema solarCy Osservazione III, § V (nel Voi. II di queste Op, fil,). wf^'^vmmmifm^gg^ della varietà, onde si spiega T attitudine alla esi- stenza e alla virtù formativa nella natura in generale e negli organismi in particolare. Così vediamo che gli atomi polivalenti del carbonio si costituiscono, negli organismi degli animali e delle piante, in una serie di forme diverse di radicali: in una serie tanto più notevole per numero e varietà, quanto più complicato e perfetto è V organismo costruitone. Nell'organismo sociale poi i suoi radicali (per ado- perare questa espressione) o le sue varietà elementari co- stitutive, o attitudini distinte di funzione, onde emerge r essere suo complessivo quale organismo sociale, sono precisamente le specialità di condizione dell' uomo sopra accennate: ossia quelle specialità di potenza, che l'uomo vi assume: ossia le specialità dei Diritti, I quali Diritti, nell' organismo sociale, in pari tempo, e lo costituiscono, e ne sono determinati. In modo che la Società si può chiamare la procreatrice dei Diritti, Come la pianta è la. procreatrice delle sostanze speciali necessarie alla sua vita particolare; le quali, nello stesso tempo, e la costituiscono e ne sono determinate. I diritti individuali, per tal modo nascenti e vigenti in una Società, sono in numero immensamente gratide: e perchè i fatti determinati sono moltissimi, e perchè questi si connettono insieme in maniere differen- tissime, e perchè le attitudini emergenti si diversificano all' infinito secondo le condizioni infinitamente diverse nelle quali si verificano. Tuttavia si deve avere nella Società umana, in quanto è un organismo speciale dato, una certa costanza nel nu- - 238 - mero e nella qualità dei generi secondo i quali si pos- sono classificare i Diritti. Allo stesso modo che nell'or- ganismo vegetale, per esempio, si ha una certa costanza nel numero e nella qualità dei generi delle sostante com- ponenti. La quale costanza però non sarà mai quella delle Idee^ eternamente immutabili, di Platone; né quella delle specie, sempre le medesime dopo la creazione, dei vecchi naturalisti; né quella dei Diritti ab eterno ed immutabil- mente stabiliti dal verbo divino, dell'etica metafisica: ma sarà solo, come dicemmo, una certa costanza; e si che, da una parte, ammetta una lenta trasformazione secondo i tempi le circostanze e i casi e, dall'altra, nella realtà si verifichi sempre con qualche diversità, come il tipo di un uomo o di una foglia, che non si effettua mai lo stesso in ogni uomo, in ogni foglia. Il Diritto, che si forma nel modo suddetto, è il Fatto del Diritto; ma non il suo Ideale, Un uomo esercita la propria potenza in quanto l'ha e in quanto glaltriglielo permettono, o gli detta la Idealità sociale: che torna lo stesso, dal momento che la Idealità sociale non è che 1' astratto della reazione altrui e quindi del permesso dato dagli altri di agire. £ la forma della reazione altrui e quindi della Idealità sociale, nella loro tendenza a ridurre e trasformare la prepotenza egoistica originaria dell' arbitrio individuale nella Giu- stizia antiegoistica del suo concc«:so nel lavoro social- mente utile, sono continuamente in via di progressivo mu- tamento; come spiegammo sopra, e come esige, secondo che pure avvertimmo più volte, la legge universale della ^'«ifannipiiij I ^^Formazione naturale applicata al caso particolare della Formazione etico-sociale.6. — Un uomo esercita la propria potenza in quanto r ha e gli altri glielo permettono, o gli detta V Idealità sociale regolante il suo operare. Ecco il Fatto del Diritto. La reazione sociale, e quindi V Idealità mentale con- seguente diretttiva dell' azione umana, va sempre trasfor- mando r arbitrio individuale dalla sua originaria prepo- tenzaegoistica nella Giustizia antiegoistica. £ questa Giustizia antiegoistica, alla quale tende la detta forza trasformatrice, è T Ideale del Diritto. Ma questo Ideale è un termine al quale si può andare avvicinandosi sempre più, senza che si effettui però mai perfettamente. E da ciò consegue: Primo. Che V Ideale assoluto del Diritto non esiste realmente. Sicché è una assurdità il concetto di un ordi- namento morale definitivo, come porta la dottrina meta- fisica della istituzione morale per parte di un legislatore divino, che la fissasse una volta per sempre, e nei ter- mini di una sognata Giustizia assoluta e quindi irrefor-mabile. Secondo. Che il fatto del Diritto è sempre una Giti^ stizia relativa: e cioè relativa al lavoro di riduzione so- ciale precedente e alla potenza attuale dell' organismo so- ciale derivatone. Ma tale Giustizia, quantunquesolamente relativa quando sia rapportata ad un concetto astratto più perfetto dell' organismo sociale, nella Società in cui vige ha valore come se fosse assoluta, perchè essa giù- ■Jf W4» l  dica, non in base all' Ideale o di un' altra Società o di una Società possibile più perfetta, ma in base al Fatto che si è già verificato in essa. Terzo. Che ogni Diritto di fatto è nello stesso tempo in parte una prepotenza ingiusta, che si tende ad elimi- nare, e si va sempre più eliminando. E ciò, sia regolando meglio il fatto medesimo, sia, quando occorra, togliendolo del tutto. 8. — Senza questi criteri è affattoinspiegabile la storia del Diritto, e il processo legislativo delle Società. Tale processo, senza questi criteri, apparirebbe, non la Giustizia in azione (come è realmente, e non può non es- sere), ma la ingiustizia incaricata di creare la Giustizia. E con questi criteri poi si spiega il fatto storico della evoluzione sociale procreatrice del Diritto più utile e più giusto. La quale evoluzione quindi, secondo i cri- teri medesimi, si può dire consistere in ciò, che il Diritto dell' avvenire, ossia il Diritto ideale, combatte e vince il Diritto delpassato, ossia il Diritto di fatto. L' Ideale assoluto del Diritto dicemmo che non esiste realmente. E che nella realtà non si ha, dell'Ideale del Diritto, se non una effettuazione incompleta. E da ciò potrebbe altri dedurre, che il Diritto di fatto sia un relativo il quale supponga un assoluto: e che questo assoluto sia l'Ideale o il tipo eternamente deter- minato del Diritto, che la mente o possieda gfià o abbia la possibilità di possedere quandochesia. Ma anche ciò è un errore. L'Ideale del Diritto non è un tipo assoluto o eter- namente determinato, nemmeno come semplice mentalità. L' Idealità del Diritto è, anch' essa, un fatto, come quello del Diritto effettuatosi realmente. U Idealità del Diritto presiede si, come mentalità direttiva, nella pro- duzione del Diritto di fatto, ma è pur sempre un fatto anch' essa. Solo che questa Idealità è un fatto della mente, dove il Diritto effettuatosi realmente è un fatto della co- stituzione già vigente esteriormente in una Società. Ed essendo un fatto ha le proprietà di tutti gli altri fatti jn quanto tali: cioè di essere casuale e quindi relativo. Il tipo ideale del Diritto è come tutti gli altri tipi ideali. Per esempio, come quello del disegno della crea-- zione supposto nella mentedi dio, del quale abbastanza ho discorso nel libro della Formazione naturale, E come, quello dell' arte; mettiamo dell'Architettura: che (per una serie di casualità) è riuscito diverso nell'India, in Egitto, in Roma,in Germania, e via dicendo; e pur nello stesso paese non fu mai identico affatto nemmeno nella stessa epoca, e nemmeno in due soli architetti, anzi nemmeno nello stesso architetto in tutta la sua vita. Il tipo ideale del Diritto, come tutti quanti i tipi ideali, è una formazione mentale, che apparisce un dato momento per una accidentalità che la suggerisce; vi si perfeziona poi in una data maniera per altre accidentalità che guidano la mente a farlo; e un dato momento poi si oblia e si sostituisce con altri diversi e opposti, ancora per delle accidentalità che ve la inducono. E tanto, che il tipo ideale stesso non è quindi deter- minabile a priori, come un vero preesistente inmodofisso e inalterabile nella mente di ognuno: ma solo a poste- riori, cioè come 1' astratto di tutti i tipi conosciuti veri- Vol. IV. 16 ficatisi effettivamente nelle Società umane d* ogni tempo. A quella maniera che il tipo del vegetale non si può avere se non pel confronto mentale fra le forme reali che effettivamente s* è dato che se ne producessero. IO. — Che se altri dicesse che il tipo ideale del Di- ritto è assoluto in quanto è il corrispettivo necessario etico-sociale di una entità reale, cioè dell' uomo e della sua convivenza nella Società (i), risponderemmo: Primo. Che la reale entità stessa, dell' uomo e della sua convivenza nella Società, determinante necessaria- mente il tipo ideale del Diritto, è ancora una somma di accidentalità, che si rileva a posteriori, e non si prefigge a priori. Secondo. Che il tipo ideale del Diritto sipresta al concetto di essere il correspettivo necessario del fatto so- ciale, non come il disegno preesistente di ciò che non è ancora succeduto; ma solo come V astratto rilevato dopo (i) Su ciò ho scritto nella Psicologia come scienza positiva (Voi. I di queste Opev e filosofiche pag. 219, 220) un tratto che stimo op- portono di ripetere anche qui: « Anche nel dire, idealità, il filosofo positivo esprime un concetto armonizzante i veri imperfetti di diverse scuole. La scuola psicologica dà l'idea, come una mera forma del tutto soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola onto- logica le assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto. La scuola storica ricorre per ispiegarla alle relazioni dell'uomo colle con- dizioni esterne in cui vive, per cui le attribuisce una semioggettività, e la considera, da una parte contro i psicologi, non una creazione fa- cile ed efimera dell' individuo, ma una produzione faticosa,lenta, du- revole della Società, e dall' altra contro gli ontologi, non una intui- zione che la riveli d' un tratto nella sua interezza ed in una forma unica sempre e per tutti, ma una formazione progressiva e varia, che incomincia dall' abbozzo per venire al lavoro sempre più finito; e che riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti dalle quali •*-^..r9,rr-fr- ^.-^ — 243 di ciò che è già succeduto. Onde il ricorrervi che fanno i nostri avversari è un circolo vizioso. §n. // Diritto è in virtù di se stesso, gioverà qui ripetere, in forma appropriata a questo punto del nostro discorso, ciò che pursopra sotto vari aspetti dimostrammo. Quello che può un uomo, che fa parte di una So- cietà, è una forza, che vi si pone da sé col solo fatto che r uomo medesimo ne faccia parte; e che vi emerge in quanto non vi è elisa dal contrasto dei consociati. Come già dicemmo più volte. Emergendo la forza di un uomo nella Società, vi è dipende. Or bene anche nel filosofo positivo l' idea è una formazione lenta, progressiva, durevole, non dell' individuo, ma della società, e dipendente dalie esteme condizioni di essa, ma solo in quanto queste condizioni esterne e l'opera sociale giovano a dare eccitamento e rin- forzo al pensiero individuale, il quale è il vero fattore dell' idea, se- condo chedicono giustamente i psicologisti. Ma l' individuo e la so- cietà, producendo l' idea, non fanno opera capricciosa, ed avente solo valore momentaneo e soggettivo. No: tale lavoro ha la sua ragione nella stessa natura per la quale agiscono, come la forma che assume il seme germogliando. E come la forma assunta dal seme per la ger- mogliazione, più che se stessa, rappresenta queir ordine di cose, che ha determinato la formazione della specie vegetale a cui appartiene, cosi r idea di un uomo, più che 1' operazione accidentale, soggettiva, variabilissima di esso, rappresenta, secondo che dicono giustamente gliontologisti, queir ordine assoluto e immutabile, almeno quantola natura, nel quale è la ragione oggettiva del fatto particolare, che consideriamo. Vedi per esempio nel Capo I, dove parlammo della Giustizia potenziale y e nel Capo II, dove parlammo della derivazione della Giustizia dalla prepotenza. ■«T- riconosciuta: o estrale galmente nel tacito consenso degli altri uomini, e nell' uso, e nella esplicita manifestazione dell'opinione pubblica in qualunque modo approvante: o legalmente nelle forme stabilite dal Potere sociale rico- nosciuto come tale. E pel detto riconoscimento la forza in discorso acqui- sta il carattere di Diritto, per la ragione che importa la Responsabilità di chi la lede verso la Società, la quale, col suo riconoscimento, se ne è costituita tutrice e vin- dice. E quindi è falsa V idea che il Diritto emani assolu- tamente dall'Autorità superiore, che lo doni o lo conceda air inferiore. Non emana da essa: esiste potenzialmente prima e indipendentemente e malgrado di essa: si impone da sé: e sforza la stessa Autorità ad ammetterlo col riconoscerlo e sancirlo. E anche questo dicemmo già più volte. Ma ci occorre ora di far notare un fatto essen- ziale alla dottrina della sociologia positiva, non ancor ri- levato: il fatto cioè che il Potere sociale crea pur esso direttamente dei Diritti individuali. E, dato questo, si domanda: come si accorda questo fatto col suddetto principio della emanazione del Diritto dall'individuo e non dalla Società? Facile è la risposta. Il fatto della creazione di un Diritto individuale per parte del Potere sociale si ac- corda col principio in discorso per la ragione che questo Potere, nel caso qui contemplato, può porre il Diritto neir individuo in quanto può fornirlo di una forza; e in quanto questa forza, che l' individuo ha ritratto dal potere che gliel' ha fornita, sia riconoscibile quale Diritto come le altre forze possedute comecchessia dall'individuo medesimo, e dalla società rispettate o difese. In ogni caso il fatto del Diritto di un uomo neir organismo sociale è analogo a quello delle proprietà acquistate dall' elemento materiale quando é entrato a far parte di un organismo; e, per un esempio, dalla molecola combinata nel tutto di una sostanza, che acquista la forza specificamente funzionante della sostanza medesima solo perchè è divenuta V elemento di essa. Nell’organismo chimico di una sostanza V elemento è la molecola, come neir organismo sociale l’elemento è la persona di un uomo. L' organismo intero, neir un caso e neir altro, e' è solo pel rapporto della forza di un ele- mento con quelle degli altri; ossia per orientarla se- condo la coordinazione acconcia di tutte. Il che però non esclude: Primo. Che, coordinandosi nella complessa azione dell' organismo le forze proprie degli elementi, ognuno di questi non ne ceda un tanto a formare delle somme comuni, che poi siano distribuite di nuovo nelle parti in ordine alle esigenze generali dell' organismo. Secondo. Che l' individuo stesso non dipenda (e in quanto giunge all' acquisto di tutte le forze onde riesce rivestito, e in quanto le conserva e ne usa liberamente) dall' ambiente sociale, nel quale trova il mezzo dell'acquisto e della sua gsiranzia. Sicché per questo lato (ma per questo solamente) è vero il principio della derivazione del Diritto neir individuo dalla Società e dal suo Potere direttivo: e come, per esempio, nella sostanza del chimico, nella quale, in virtù della sua costituzione, le forze sono condotte ad assommarsi in certi punti determinati, e in certa maniera; e poi anche V acquisto e la costanza della forza specifica operante negli atomi dipendono dall' es- servi coordinati. Il diritto è la facoltà del bene sociale. L’esercizio del diritto è la funzione del bene sociale. Dalle cose dette apparisce, che il Diritto è la facoltà del Bene sociale; e che l'esercizio del Diritto è la funzione del Bene sociale. E ciò, o solo indirettamente, o anche direttamente. Solo indirettamente, in quanto la facoltà indi- viduale sia puramente V egoismo contenuto nei limiti inof- fensivi per gli altri e producente il Bene dell' individuo investitone; che torna il bene della Società, e perchè è il Bene del suo elemento, e perchè se ne possono giovare e se ne giovano anche gli altri. Come nel fatto di una industria, che arricchisce l'in- dustriale, e quindi anche il paese, e offre nello stesso tempo un utile e un comodo ai consumatori de' suoi pro- dotti. E anche direttamente, in quanto la facoltà in- dividuale sia quella che corrisponde alla Idealità antiegoi- stica; la quale, come si estenda in urla Società adulta e colta e bene ordinata e fiorente, vedemmo sopra; dove anzi dimostrammo che, se si tien conto di tutte le gra- dazioni della Idealità e delle disposizioni antiegoistiche (da una minima che lavori insieme con un massimo di egoismo, ad una massima che lavori insieme ad un mi- nimo diegoismo), si trova in tutto ciò che può fare e fa r individuo sociale. Il Diritto costa una contribuzione, I. — Ma, se, da una parte, l'individuo è investito di una potenza o di un Diritto (del quale usa poi facendo, o indirettamente, o direttamente, il vantaggio altrui) dal- l' altra, la stessa potenza o Diritto costa una contribuzione per parte degli altri. E questa una legge naturale correlativa alla sopra accennata e necessariamente ad essa collegata. Si piglia; ma si deve dare. Si dà; ma si piglia per poter dare. Questa legge dell' organismo sociale non è altro cioè che r applicazione al caso particolare di esso organismo della legge che domina in tutti gli organismi, anzi in tutta la natura, dove una forza, posseduta da un agente che funziona in virtù di essa, è, non una forza creata dal nulla neir agente medesimo, ma comunicata ad esso da altri agenti, che gliela cedono in ragione dei rapporti correnti fra quello che cede e quello che acquista; come ho dimostrato nel libro della Formazione naturale, par- lando del ritmo (i). Il vegetale si appropria l' acido carbonico che lo at- (i) Vedi Formazione naturale nel fatto del sistema solare^ Os- servazione terza. § XIV (nel Voi. II di queste Op. Jil.J. tornia, e con esso mantiene la vita. Gli animali maggiori vivono cibandosi dei minori. Neir organismo di un mam- mifero alcune parti lavorano a preparare il sangue, e le masse nervose ne fanno consumo. Impossibile V attività specifica nervosa, necessaria al funzionamento generale deir organismo e anche a quello particolare delle parti preparanti il sangue, senza la contribuzione di queste alla nutrizione dei nervi mediante la somministrazione del sangue acconciamente preparato e distribuito. 2. — Parlando in particolare deir organismo sociale, la partecipazione al contributo di ciascuna parte è in ra-gione della importanza del Diritto, e quindi della facoltà di produrre il Bene sociale. Più è r importanza del Diritto, e più è la facoltà di produrre il Bene sociale. Più è questa facoltà e più è la partecipazione al contributo delle parti. Come nel resto della natura, dove si trova che le funzioni più elevate de* suoi agenti costano un immagaz- zinamento di forza tanto più grande quanto più distinta è la forma e ìa sfera della efficienza. Risultando cosi una proporzione di equivalenza tra la natura che dà e quella che riceve. E in questo modo, che al più della contri- zione apportata corrisponda il più della importanza della attività emergente. Per la stessa ragione il Diritto di un ordine supe- riore, quello ad esempio di un Giudice, costa una contri- buzione per parte di quelli sui quali ha giurisdizione. Sicché il Giudice mangia dei frutti della terra che essi hanno lavorato, come il sistema nervoso consuma del sangue che fu preparato da altre parti dell'organisme animale. PPP^P"?!'^. Come molto movimento equivale a poco di calore, e molto calore a poco di attività chimica, e molta attività chimica a poco di attività vitale, e molta attività vitale a poco di pensiero; cosi, nell'ordine etico della natura, a molta materialità (intendendo con questa espressione le forme inferiori della esistenza) corrisponde poco di attitudine morale: poiché, nella gradazione delle formazioni naturali e quindi delle equivalenze delle forze, i suoi poli opposti possiamo rappresentarceli, o andando dal movimento meccanico al pensiero, che ne è l'ultima trasformazione (i), o andando dalla materialità alla mora- lità, che è r ultima e più sublime sfera della evoluzione ascendente della natura insensibile e bruta. Naturale è questo fatto della contribuzione delle parti nell'organismo sociale. E quindi, non effetto solo di arbitrio o prepotenza di alcuno, ma necessario; a quel modo che è necessario l'assorbimento del carbonio per parte del vegetale, e il consumo del sangue per parte dei nervi. E naturale il fatto stesso; ed anche giusto, in quanto è, direttamente o indirettamente, consentito ed approvato da quelli che contribuiscono. Ed è consentito ed approvato da questi per la legge, rilevata dagli economisti, della domanda; la quale, come tutti sanno, consiste in ciò, che più una cosa importa a molti e più è domandata; e tanto più si paga quanto più (i) Intendendo questo nel senso della filosofia positiva e non in quello della metafìsica materialistica. Come spiego da per tutto nei miei libri, e più a lungo in quello col titolo V Unità della Coscienza nel VII voi. dì queste Op. fil. iiu^.i'i>nn^  si domanda; ma si paga quanto occorre per averla e non più. Questa legge poi, che determina nei suoi limiti ne- cessari la contribuzione assentita e giusta nell'organismo sociale, è analoga alla fisiologica, onde un tessuto vivo si impadronisce delle sostanze che lo nutrono nei limiti deter- minati dallo stesso bisogno della funzione domandatagli. 4. — E quindi il fatto in discorso deve essere con- siderato come un caso speciale di selezione naturale; che si potrebbe chiamare la selezione etico-sociale. E dalle cose dette si conferma e si chiarisce viemmeglio la dottrina sopra esposta, che il Diritto indi- viduale è pur esso una autorità (i). Poiché, come ve- demmo, il Diritto individuale si impone a tutti quelli che contribuiscono all' essere suo; e agli eguali, che lo rico- noscono e lo rispettano; e agli inferiori, ossia a quelli che, in ragione dei rapporti nascenti dalla sua speciale natura, ne subiscono una dipendenza e una direzione; e al Potere sociale subordinante, in quanto questo non lo crea ma lo riconosce, ed è determinato a riconoscerlo dal fatto stesso di porsi da sé; onde, una volta che si sia posto, viene ad essere realmente Diritto in virtù di se stesso. Le unità minime, le unità medie, e V unità ^ massima nel corpo sociale. L’individuo è V unità minima del composto so- ciale, come r atomo del composto chimico. E, come in (i) Vedi Capo III, specialmente \ V. tutti gli altriorganismi naturali, cosi nel sociale, oltre le unità minime degli individui sociali, e Munita massima dell' intero organismo, si trovano delle unità di mezzo di terzo grado, risultanti di più individui associati parti- colarmente fra loro, o di più di queste associazioni di individui collegate particolarmente in federazioni più grandi. In unaSocietà adulta, fiorente e grande, la vita del tutto si manifesta nelle più svariate e spiccanti differen- ziazionidelle attitudini e conseguentemente dei Diritti individuali, come accennammo or ora. Anzi la grandezza della Società è, alla sua volta, il risultato di tali varietà o specificazioni di attitudini; ovvero di tale divisione di lavoro, verificatavisi: come in ogni altro organismo; per esempio, in quello fisiologico dell' uomo, nel quale la ec- cellenza zoologica sopra gli altri animali dipende da una suddivisione di specificazioni in massimo gradodegli or- gani componenti. In un animale del grado infimo della scala zoologica la sostanza componente (come avvertimmo nel principio del libro) non è né muscolo ne nervo: come in una Società umana primitivissima tutti gli individui sono, mettiamo, dei guardiani d' armenti: e non vi si trova una distinzione di occupazioni, per salire, po- gniamo, da uno che attende a far pascolare le oche ad uno che attende a costruire stromenti di ottica o di astro- nomia. La differenziazione in discorso nella Società più pro-gredita va, si può dire, all' infinito. E non solo nelle u- nità minime degli individui, ma anche nelle combinazioni medie già dette delle associazioni degli individui e delle confederazioni di queste associazioni. Le quali pure, nelle Società adulte fiorenti e grandi, si producono, per cosi dire, anch' esse all' infinito: dalle più comuni, normali, e costanti, come quella della/amiglia, alle più insolite, ac- cidentali ed efimere, come quella ad esempio per dare una volta una festa o uno spettacolo: dalle più piccole, come di due persone in una impresa commerciale, alle più grandi, come di due provincie di uno Stato tra loro consorziate per interessi speciali. Or bene, anche queste unità medie sono (al modo che una data somma, come tale, si distingue dalle sin- gole quantità sommate, considerate ad una ad una) sog- getti distinti in possesso di una facoltà speciale, analoga alla individuale, a somiglianza di ciò che pur si verifica neglialtri organismi naturali: nei quali, per esempio, la cellula nervosa singola ha le sue proprietà particolari, e una data massa distinta di cellule nervose ha un dato uf- ficio distinto fisiologico, che essa esercita in quanto esiste e si conserva nella peculiarità del suo insieme. E siccome poi il possesso di una potenza di fare im- porta il possesso di un Diritto, come dimostrammosopra,cosinellaSocietà si danno i Diritti degli individui e i Diritti delle stssociazioni loro. E questi Diritti delle As- sociazioni hanno le proprietà già notate dei Diritti indi- viduali più quelle dipendenti dalla specialità proporzio- nale della associazione. Delle quali ultime proprietà una massimamente occorre che sia qui messa in rilievo. L' individuo, in astratto, si può considerare siccome un plasma generico, il quale, nell' ambiente sociale e nel circolo della sua vita, secondo le disposizioni già pos- sedute nascendo, e le circostanze accidentali nelle quali viene a cadere, riceve una particolarità di impronta di- stinta e tutta sua. Nel che ha luogo un fatto di selezione naturale: cioè la selezione naturale onde una unità so- ciale si sceme quale individualità distinta fra altre unità. Anche le agglomerazioni di più individui in associa- zioni o totalità distinte sono determinate e foggiate, con grandezze, tendenze e attività particolari, neir ambiente sociale, secondo i bisogni ed i fatti, e costanti e acciden- tali, onde emergono, per una analoga selezione naturale distinguente un composto singolo fra altri composti. Ma in questo composto (o unità media, come sopra lo chiamammo) ha luogo un' altra forma della selezione naturale: cioè quella che, neir interno stesso del com- posto, diflFerenzia edistingue fra loro le parti compo- nenti: e si che esso composto riesca un organismo e non rimanga una semplice agglomerazione inorganica di ele- menti tutti identici fra loro. E questa forma di selezione si potrebbe chiamare selezione interorganica. La unità sociale da noi detta media non è puramente un certo numero di parti addizionate le une alle altre, ma è una collaborazione organica degli individui o dei soda- lizi aggregati insieme; e quindi con diversità di attinenze e di facoltà distribuite fra loro. Altri fanno numero, con- tribuiscono e concorrono a mantenere T associazione: altri invece la rappresentano, la dirigono, ne applicano le forze accumulatevi. E, occorrendovi specialità di lavoro e di ufficio, queste vi sono divise quali negli uni e quali negli altri. E, come è naturale la creazione di queste differenze interorganiche delle parti costitutive delle unità medie, cosi è naturale la selezione interorganica dalla quale di- cemmo che proviene. Questa selezione interorganica, come insegna la os- servazione del fatto, avviene in diverse maniere secondo i casi; ma soprattutto secondo la legge, che riesce a una data facoltà ufficio chi piti vi ha attitudine, o ne ha il merito, e colla condizione del consentimento degli as- sociati. Il fatto del merito, onde uno acquista una preroga- tiva o una particolarità d'ufficio a preferenza di altri, è analogo a quello notato da Darwin della specie preva- lente nella lotta per la esistenza. Il fatto del consentimento degli associati è analogco air altro, pure da Darwin segnalato, dell* efficacia del- l' ambiente nel secondare la trasformazione progressiva dell' essere naturale. L' individuo investito di nna facoltà o di un ufficio in un corpo di individui o di sodalizi viene con ciò ad avere due sorta di facoltà o di Diritti: cioè il Di- ritto fondamentale spettante a lui come parte elementare della Società intera, e il Diritto avventizio, onde è in- vestito come organo speciale della associazione partico- lare a cui appartiene. Il Diritto fondamentale ha il suo rapporto immediato colla costituzione generale delle Società che lo garantisce direttamente a tutti senza distinzione: T avventizio V ha con quella della associazione particolare per la quale e- merge; ed è garantito dal Potere sociale supremo in quanto esso riconosce il Diritto della medesima associa- zione particolare. Se privato si dice ciò che è proprio della unità sociale minima, come tale, e pubblico ciò che è proprio della unità massima, parlando delle unità medie si dirà che hanno un carattere di mezzo tra i due, e gradata- mente; in ragione cioè della importanza loro, intensiva- mente o estensivamente, nella vita sociale complessiva. Il pubblico poi si differenzia in genere dal privato in quanto ha un rapporto diretto col Bene, non indivi- duale, ma sociale; ossia è, non egoistico, ma antiegoistico. La proprietà quindi di ente morale antiegoistico com- peterà massimamente alla unità più glande o allo Stato. E se, come sopra dicemmo, il Diritto in genere è \2l fa- coltà del Bene sociale e il suo esercizio è la funzione del Bene sociale, ciò si avvererà meno pel Diritto privato, più pel Diritto delle associazioni sociali intermedie, e in grado più alto pel Diritto dello Stato. Ma non diremo che per questo Diritto dello Stato il principio si avveri proprio nel grado massimo, per la ragione che, come sopra dicemmo n), uno Stato singolo, o già in effetto, o almeno in potenza, si coordina internazionalmente con altri Stati, anzi con tutte le Società umane esistenti sulla terra. La selezione interorganica nella evoluzione formatrice dello Stato. La legge della selezione interorganica, che si avvera nella costituzione degli organismi delle unità com- (i) Dove parlammo del Diritto internazionale (Capo [, \ II). plesse medie, si avvera poi per le ragioni medesime nella costituzione dell' organismo della unità massima dello Stato. Ed è per essa legge che ha luogo in questo la formazione del Potere onde si esercitano le sue fimzioni subordinanti, che sono poi funzioni del Bene sociale. Questa selezione assume storicamente forme svari atis- sime. Ma anche la varietà è determinata da una ragione costante, che si rivela chiarissimamente nella storia poli- tica degli Stati, e che non è altro che una applicazione del principio nostro fondamentale della formazione etico- sociale, che cioè la prepotenza è V indistinto onde si forma il distinto della Giicstizia, E in vero nello stadio iniziale, o della prepotenza, la selezione formatrice del Potere sociale è dipendente dalla violenza, che a poco a poco si mitiga nella eredità, finché da ultimo è sostituita, prima in parte e poi del tutto, dalla elezione (per parte dei subordinati, e in modo legale e pacifico) dei più degni, in ragione del merito morale e della Giustizia» e non del soprastare materiale della ricchezza o della forza dei muscoli: e si che riesca investito dell' ufficio chi si trova piti atto ad esercitarlo, e che il Potere nella direzione del corpo sociale sia quel premio del virtuoso del quale un' altra volta parlammo nel Capo precedente (i). 2. — Il costante e vivissimo lavoro evolutivo del- l' organismo dello Stato, onde si ha la sua formazione na- turale e il suo sviluppo e isuo progresso, è T applica- zione nel grado massimo del principio della formazione (I) \ VII, numero 8. morale, cioè, dall' indistinto (morale solo virtualmente) della prepotenza e dell' egoismo, al distinto (morale in atto) della Giustizia antiegoistica. Più procede la formazione organica dello Stato e più si estende e arriva in tutte le parti e nel!' intimo di esse la virtù direttiva e moralmente perfezionatrice della So- vranità politica. In modo che, dove prima le parti erano agglomerate e coacervate e tenute in fascio violentemente, a poco a poco vanno organizzandosi vitalmente insieme e finiscono coli' aderire 1' una con V altra, e tutte nel tutto, volontariamente e per liberoconsentimento. Come, per esempio, le molecole di certe sostanze, che fanno sentire la loro affinità e aderiscono insieme a formare un cri- stallo solo in seguito ad una compressione che le sforzò a ravvicinarsi meccanicamente. Il quale processo però va di pari passo con quel- r altro; che le parti stesse subordinate, di mano in mano che si orientano nella armonia politica dello Stato, di- ventando partecipi e collaboratrici della sua vita, reagi- scono sul Potere sovraincombente, rintuzzando la prepo- tenza, che vi fosse, e riducendolo ad una forza giusta e mo- rale; ad una forza, in una parola, diretta al Bene di tutti. 3. — Non è nostro compito (non richiedendolo lo scopo del presente libro) di studiare i modi precisi onde, per la elezione interorganica, e pel processo di distin- zione, si va formando nell' organismo dello Stato bordine del Potere, che riesce un sistema complesso di funzioni speciali esercitate da individui e corpi particolari; e come nasca il fatto, mettiamo, della divisione del Governo in diversi ministeri, e di ciascuno di questi in parecchie Voi. IV. 17  dipendenze, alle quali, variamente e per mez£o di centri subordinati, si rannodano le ultime propag^ni della am-ministrazionepubblica sparse in ogni parte dello Stato. Pel nostro scopo, in riguardo alle specializzazioni ac- cennate degli organi del Potere, basterà fare T osserva- zione (pure importantissima) che, come si distinguono tra loro le amministrazioni pubbliche, e quindi gli c^getti di ciascheduna, e conseguentemente il modo di funzionare (che deve atteggiarsi in conformità dell' intento da otte- nere), cosi si distinguono tra di loro le Sanzioni pub- bliche e legali degli atti sociali relativi; e quindi (si noti bene) le specie di Responsabilità, che neemergono. E da ciò proviene che le forme della Giustizia e quindi della Moralità si specializzano insieme collo spe- cializzarsi della pubblica amministrazione; onde, moral- mente, non sono, per esempio, identiche le azioni degli individui giudicate da un tribunale civile e quellegiudi- cate da una una intendenza di finanza, o da una commis- sione igienica o di belle arti; e per un reato controla proprietà individuale o per uno contro le restrizioni della libertà della stampa, in materia scientifica; e cosi via. Il che non vuol dire però che non si possano tutte le dette azioni ridurre al genere comune delle obbliga- torie nel foro intimo della coscienza, in ragione che Del- l' individuo si è formata, come sopra abbiamo dimostrato, r abitudine virtuosa e propria del saggio; l'abitudine cioè di attribuire universalmente alle Idealità antiegoistiche sociali un valore obbligativo per se, assoluto e indipen- dente dalle specialità di procedura e di Sanzione, che loro corrispondono nella amministrazione governativa. m — Come risuiii spiegata la prima /orina de li* ufficio del Intere, e anche la terza: e stabilito l' assunto del liérù. Ora, facendo, colla proporzione dovuta, al fatto del Diritto del Potere, Tapplicazione del priacipio stabi- lito sopra, che ogni Diritto importa una conirièuzionc, possiamo trovare la verità di quella che sopra, alla fine del Capo I, dicemmo la pritna forma dell' ufficio del Po- tere, cioè: di stabilii*^! nella Società a spese delle sue parti. Et facendo allo stesso fatto» pure colla pro- porzione dovuta, r applicazione dell' altro principio, che il Diritto è la facoltà del Bene^ constatiamo la verità di quella, che ivi stesso chiamammo la terza forma dell' uf- ficio del Potere, cioè: di flÌH|ìensHri^ la forza propriadeir ambiente sociale (cioè le contribuzioni suddette) al migli orauiento delle sue parti. In questo ultimo enunciato poi abbiamo il com- pendio, per cosi dire, di tutta la trattaEione di questo libro, E> in relazione allo stesso enunciato, si verificano, in ragione cho lo Stato si perfeziona in ogni sua parte, i principj che seguono: Primo* Che le contribuzioni di ogni genere, prestate da tutti gli elementi costitutivi dello Stato, diventano li-èeramente consentile. Secondo. Che le contribuzioni medesime si vanno av- vicinando al massimo di ciò che pi4Ò dare ciascuno ^ senza suo esiziale detrimento* ^ i '«.iFI-i-^..' TChe nulla, di ciò che è contribuito, va consur- malo prepotentemente ed egoisticamente da chi è investito del Potere di disporne. Quarto. Che la erogazione medesima è fatta secondo il volere di quelli stessi che contribuiscono. Quinto. E alla tutela dei Diritti di tutti; e dXVotte- nimento della prosperità, e al miglioramento morale. Sesto. E a questo soprattutto. E nella ragione che il miglioramento morale ottenuto, supplendo da sé, come dimostrammo sopra (i), alla tutela dei Diritti e all' otte- nimento della prosperità materiale, lascia per sé disponi- bili mezzi sempre maggiori. E cosi nello Stato siverifica T idea della prov- videnza, che il teista colloca in dio, come in esso colloca il tipo della specie di una pianta, per la solita illusione tante volte notata. E si verifica anche V idea della grazia, immaginata per una simile illusione dalla teologia cattolica siccome emanazione divina, atta a rendere V uomo morale, a far che segua le leggi della Giustizia ed eserciti la beneficenza. La possibilità per 1* individuo di essere morale, di conoscere e seguire la Giustizia, e di essere benefico verso gli altri, si ha, come dimostrammo nel corso del libro, dalla sua convivenza nella Società e dalla proprietà di questo di svolgere e perfezionare le facoltà dell'uomo, e di moralizzarlo. 5. — Onde lo Stato, cosi concepito, viene ad essere l'attuazione pura e compiuta della Idealità sociale, ossia (i) In molti luoghi: per es. Numero 2 del J VI del Capo IV. 201 del principio del Bene an ti egoistico, del Bene morale, in una parola del Bene pel Bene, E quindi lo Stato medesimo riesce la prova concreta ' sperimentale della verità del principio della Morale dei positivisti da noi affermato, chiarito, dimostrato: e una prova evidente, in quanto nel fatto dello Stato il fenomeno individuale si trovaingrandito, E mi spiego. Se, ad esempio, si può dubitare che un atomo materiale preso da sé sia pesante, perchè il peso deir atomo è tanto piccolo che non si può rilevare iso- latamente, il dubbio cessa affatto prendendo una grande congerie di atomi, nella quale i pesi minimi non valu- tabili di ognuno sisommano in un peso valutabile, dal quale si arguisce quello troppo piccolo dei componenti. E, se si può dubitare che una molecola di ferro, consi- derata isolatamente, sia calamitata, il dubbio cessa quando se ne prenda una grande massa. E cosi nel caso nostro. Se si può dubitare che T uomo singolo sia mosso nelle sue azioni da una Idealità sociale antiegoistica, perchè la ragione di questa, nella singola azioneumana di un individuo, si sottrae facilmente alla osservazione, stante il concorso e il contrasto colle ragioni egoistiche, le quali ve la accompagnano, il dubbio è tolto interamente arguendo dal fatto che, appuntandosi i voleri individuali nella totalità dello Stato, ne risulta la incontrastabile sovranità del volere morale, e antiegoistico, che vi os- servammo. Le cose dette nel corso del libro dimostrarono che la Responsabilità, intesa nel senso che sia Vastraito delle Sanzioni,onde la Società reagisce, rintuzzandola, contro V azione propriamente umana individuale, si rife- risce, non solo agli atti della Giustizia propriamente detta, ma anche a tutti gli altri atti  etico-civili dell'uomo; cioè: Primo. Agli atti offensivi non contemplati e non con- templabili dalla Legge. I quali perciò, esclusi dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno attribuiti a quel- la altro della puraConvenienza. Secondo. Agli atti sindacabili soltanto dalla coscienza intima dell* individuo in cui si avverano, e producenti la sola reazione del rimorso intemo. Terzo. Agli atti virtuosi, che V individuo potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non fa. Ossia a quegli atti che non si attribuiscono, ne alla Giustizia, né alla Con- venienza, ma alla Carità, come dicevano i moralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come direbbero inuovi. E cosi è sciolta la questione, propostaci nella Introduzione, come compito di questa nostra Sociologia. Rodrigo Ardigò. Keywords: sociologia. Grice ed Ardigò:  implicatura cooperativa — positivismo filosofico —  biologia filosofica — psicologia filosofica naturalista — il sociale — l’intersoggetivo ——, la morale positivista, il positivism filosofico. La morale e il diritto all’altro – la convivenza sociale – la giustizia, il bene sociale – la benevolenza e la beneficenza – il calcolo ragionale nella convivenza sociale – l’evoluzione sociale – l’organismo sociale – il positivismo filosofico – communicazione e convenienza sociale – l’onesta morale – spettazione di onesta reciproca – Fondazione naturalistica della morale – Fondazione – il fatto sociale – il devere, la regola d’oro, fare all’altro cioe che vorreste fatto a te – consiglio di prudenza – kant – costume – fatto sociale presupposizione del linguaggio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ardigò” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51684424707/in/photolist-2mTna1x-2mRnYF2-2mQzgRD-2mPszkp-2mMZzKx-2mLLy7L-2mLLy6U-2mLLBQT-2mLGwFD-2mKDXUP-2mKT6cK-2mKLzDp-2mKwdUT-2mKAsyK-2mKAuZM-2mKjsJY-2mKfNvB-2mKbbNP

 

Grice ed Arena – nudi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripatransone). Filosofo. Grice: “I like Arena; my favourite of his tracts are one on what he calls, ambiguously, ‘guerriero dello spirito,’ which is pretty naif – wasn’t Aeneas killing for something too, not necessarily ‘spiritus’? – His focus is two orders: the templari and the teutonic order – my other of his favourite trats is  his ‘nudi’ – or ‘gnudi,’ if you mustn’t – when Romolo converses with Romo, they are ‘nudi’ – what they say is what they mean and what they mean is what they say – ‘nakedness’ becomes a philosophical category, as when Strawson says, ‘the naked true.’” “There is no reason why it shouldn’t be a philosophical category, since the etymology is fascinating – vide Clarke, “The naked and the nude,” --  Leonardo Vittorio Arena (Ripatransone), filosofo. Arena insegna "Storia della filosofia contemporanea" presso Urbino. Filosofo e orientalista,ha dedicato in particolare al Buddhismo Zen, al Taoismo e al Sufismo una vasta produzione saggistica; è anche autore di romanzi e traduzioni sui medesimi temi. Insegna tecniche di meditazione tratte da pratiche buddhiste e sufi. Ha collaborato ai programmi religiosi della Radio Svizzera.  Pensiero La sua visione filosofica è esposta principalmente nelle tre opere Nonsense o il senso della vita,Note ai margini del nulla e Sul nudo, dove si propone una sintesi delle grandi correnti filosofiche orientali e occidentali, con particolare riguardo a Nietzsche, Wittgenstein, Zhuāngzǐ e il Buddhismo Chán/Zen.  Il nonsense, come dall'opera Nonsense o il senso della vita, è da intendere come la meta di ogni autentica indagine filosofica, realizzando la "distruzione delle opinioni" sulla scorta del Buddhismo. La filosofia del nonsense non è teoria, bensì non teoria: come la zattera del Buddhismo o la scala di Wittgenstein, serve ad arrivare a una sorta di consapevolezza speciale, per poi essere tranquillamente accantonata. Punto di partenza: non è possibile formulare una filosofia esente da contraddizioni. Nelle pagine di ogni filosofo si cela il tarlo dell'incoerenza. Traendo tutte le conseguenze logiche di ogni filosofia se ne attesta la contraddittorietà.  L'idealismo, base di ogni filosofia, dovrà sfociare nel vuoto e nel nonsense, laddove se ne sviluppi il suo principio-base, che è esistenziale prima ancora che teoretico, secondo cui il mondo è la rappresentazione del soggetto o di una mente cosmica. La posizione del nonsense spinge a riconoscere che le cose stanno proprio così (Tathātā), cioè sono caratterizzate da una nudità che non può essere interpretata o espressa attraverso alcuna dottrina od opinione.  Non c'è senso nascosto, e tutto è già qui, direttamente accessibile nella vita quotidiana all'uomo comune e al Risvegliato, mai così tanto accomunati. Lo strumento del nonsense è l'arte, specialmente la musica e si procede verso la dimensione del non suono, già cara a John Cage, nella sua composizione 4'33", cui Arena dedica una lunga disamina, nella sua opera La durata infinita del non suono. La stessa tematica viene ripresa e ampliata in Il tao del non suono, nonché nell'analisi di alcuni solisti o gruppi di musica contemporanea, come John Lennon, David Sylvian, Brian Eno, Robert Wyatt, Giacinto Scelsi e Ryuichi Sakamoto. Musica e filosofia si intersecano, entrambe sono mezzi di conoscenza, addirittura intercambiabili. Arena è influenzato dalla beat generation, e riconduce parte del suo interesse di lunga data per l'Oriente ai Beatles e ai grandi gruppi rock dei '60 e '70.  Nella poesia, l'haiku esprime lo yugen, un senso di "profondità misteriosa" che convive con la semplicità del "qui e ora". Nonsense implica il superamento degli opposti, quindi permette di giungere alla non dualità, al di là della logica formale di Aristotele, perseguita dall'esorcista del nudo, il quale pretende di cogliere e congelare in una articolazione sistematica il caotico divenire della vita; operazione votata all'insuccesso, e alla contraddittorietà. Come per Nāgārjuna e Wittgenstein, anche per Arena la logica può servire a invalidare sé stessa, ma nella dimensione radicale del kōan, come è concepita nel Chán/Zen. L'insegnamento si trasmette grazie a una sorta di empatia o comunicazione energetica tra maestro e allievo -, di baraka nel senso che il termine acquista nel Sufismo -, veicolata dal silenzio e dal non suono.  Nella sua opera Note ai margini del nulla, Arena riprende la posizione di Bodhidharma, relativa al "non sapere, non distinzione" (fushiki), in direzione epistemologica ed ermeneutica, sottolineando la complessità della diffusione del nonsense nell'ambito del sociale. Egli analizza le concezioni di vari esponenti del pensiero orientale e occidentale, tra cui Max Stirner, Fernando Pessoa e i maestri del Taoismo, specie Zhuāngzi. Il nonsense propone un nichilismo costruttivo, dove le "ragioni" del nulla non vengano concepite attraverso la modalità unilaterale del nihil privativum, negativum od oggettivizzato. Arena rovescia la conclusione del Tractatus Logico-Philosophicus: di tutto ciò su cui si dovrebbe tacere occorre proprio parlare.  Arena propone di sondare il nonsense attraverso il nudo, una comprensione che sfoci nella non comprensione e nel non pensiero, ben più fecondi di quanto la riflessione logico-formale non abbia dato da vedere all'Occidente. Nietzsche, Bob Dylan e i maestri Zen si rivelano, al momento, i suoi principali ispiratori nei toni di una filosofia non accademica, nemica del dogmatismo e della necrofilia della teoresi. La musica elettronica contemporanea sembra particolarmente adatta a sondare la nudità, nei modi della improvvisazione radicale, cui Arena dedica anche un'attività concertistica solista con lo pseudonimo Mu Machine.  Arena ha pubblicato una serie di ebook sull'analisi di maestri e filosofi alla luce delle categorie del nonsense e del nudo, sondandone tratti indipendenti dai "punti nodali", riscontrabili nei compendi od opere manualistiche, e considerando queste figure nella loro alterità: Samuel Beckett, Jacques Derrida, Nietzsche e Wittgenstein rientrano nel novero, ma anche Jacques Lacan (cfr. la voce Opere). Parallelamente, sta sondando le illusioni e i condizionamenti dell'animo, che non lasciano percepire il nudo/nonsense.  La produzione romanzesca è iniziata con La lanterna e la spada, dove Arena analizza la figura di Qinshi Huangdi, il primo imperatore della Cina, famoso per l'unificazione della lingua, del Paese, e il forte impulso dato alla costruzione della Grande Muraglia, ma anche per il rogo dei libri, che ha ispirato Ray Bradbury in Farenheit 451, e varie efferatezze. La produzione letteraria è proseguita con un altro romanzo, L'imperatrice e il dragone (ripubblicato come Il Tao del sesso), in cui si rievoca un'altra figura molto discussa, stavolta nella Cina medioevale, quella di Wu Zhao, la quale regnò per virtù propria, fondatrice di una sua dinastia, e non come semplice imperatrice vedova, altresì famosa per gli eccessi e le passioni sessuali. Anche di questa figura Arena dà un ritratto senza giudizi moralistici ed esaminandone i multiformi aspetti, come per il primo imperatore. In L'Ordine nero, ripubblicato come La svastica sul Tibet, si tratta della spedizione Schaefer, alla ricerca delle origini della razza umana e di ineffabili segreti magici. Nel gruppo di nazisti si trova anche il filosofo Leonard Mayer (personaggio inventato), alla ricerca del segreto della mente. In Il coraggio del samurai, si parla dell'arcano connubio tra samurai e ninja, e dei segreti di questi ultimi, descritti attraverso un gruppo di donne guerriere, la cui sovrana è la misteriosa Padrona, di cui si dice che abbia quattro secoli; si parla anche di Yoshitsune, un samurai del clan dei Minamoto, sfortunato quanto valoroso, ostile al fratello Yoritomo. Nell'ultimo romanzo pubblicato, La corda e il serpente, Arena si discosta dal romanzo storico e scrive un'opera sperimentale, dove la trama è un pretesto, e si nota l'influsso di William Burroughsanche di H.Lovecraft, per certi aspetti: nell'opera si parla di Atlantide, un mondo sommerso, distrutto da una catastrofe; il protagonista L., darà vita a una nuova specie umana.  Arena propone una personale versione della meditazione nella sua opera La Via del risveglio, Manuale di meditazione. Egli prende spunto dal buddhismo, vipassana e Zen, dal sufismo e da Georges Gurdjieff, dalla psicologia analitica di Carl Gustav Jung (il Libro rosso)[25] e dal lavoro sull'ipnosi di Milton Erickson. Una meditazione che conduce talvolta agli stati alterati di coscienza e permette di sviscerare il nudo nonsense, caposaldo della visione filosofica di Arena. Una meditazione che ha il suo supporto nella musica, la quale non ne costituisce solo il sottofondo, ma anche la base per approfondire le intuizioni che ne emergono. "Difficile separare la musica dalla meditazione", scrive Arena, "l'una porta all'altra".[26] Scopo della meditazione è anche attingere il non suono, categoria che Arena aveva sviscerato nei succitati studi su John Cage e Brian Eno. Una meditazione che attinge all'Oriente, ma fa tesoro delle conquiste psicologiche e spirituali dell'Occidente. Per indicare la modalità filosofica della pratica Arena propone una metafora: "La meditazione è premere il pulsante della consapevolezza".[27]  Dopo anni, e non sulla base di un ripensamento quanto di un ampliamento, Arena torna sul nonsense con una nuova riflessione, imperniata sul non sapere alla luce del buddhismo Chan/Zen nel suo complesso (non solo in riferimento a Bodhidharma), e soprattutto da non intendere come non sapere socratico. Il non sapere invita a diminuire la quantità di nozioni, a spogliare la mente dei preconcetti, principio che potrebbe essere il pilastro della scoperta scientifica. Lo anima il non pensiero, attività più affine alla intuizione, che usa la logica ponendola contro se stessa. Anche questa posizione, come quella relativa al nonsense nelle opere precedenti, mira all'acquisizione di un equilibrio psicofisico, all'autorealizzazione, al riparo da dogmatismi ed eurocentrismi. L'incontro con la nudità permetterà, nella solitudine esistenziale, di svelare nuove risorse nel soggetto, un incontro con se stessi fecondo e produttivo, senza entrare in polemica con alcuna visione filosofica, anzi ospitando visioni del mondo contrastanti. La contraddizione, implicita nel nonsense, è foriera di nuovi sviluppi teoretici, e consente di recuperare istanze che, nel pensiero occidentale, erano state sepolte dopo la demonizzazione dei sofisti.[28]   Altre opere: “Nietzsche-Wagner-Schopenhauer” (Fermo); “Il Vaisheshika Sutra di Kanada (Quattroventi) La filosofia di Novalis (Franco Angeli) Comprensione e creatività. La filosofia di Whitehead (Franco Angeli) Novalis, Polline (Studio Editoriale) Antologia della filosofia cinese (Arnoldo Mondadori Editore) Storia del buddhismo Ch'an (Mondadori) Il canto del derviscio [povero mendicanti sufi] (Mondadori) Il Nyaya Sutra di Gautama (Asram Vidya Edizioni) Antologia del Buddhismo Ch'an (Mondadori) Diario Zen (Rizzoli) I maestri (Mondadori) Haiku (Rizzoli); “Al profumo dei pruni. L'armonia e l'incanto degli haiku giapponesi, Rizzoli ). Realtà e linguaggio dell'inconscio (Borla) Novalis, Enrico di Ofterdingen (Mondadori) Vivere il Taoismo (Mondadori) Il Sufismo (Mondadori) Il bimbo e lo scorpione (Mondadori) La grande dottrina e Il Giusto mezzo (opere confuciane) (Rizzoli) La filosofia indiana (Newton) Buddha (Newton) La via buddhista dell'illuminazione (Mondadori) Del nonsense (Quattroventi) Sun-tzu, L'arte della guerra (Rizzoli) Iniziazione all'autorealizzazione. Un percorso verso la consapevolezza (Edizioni Mediterranee) Chuang-tzu, Il vero libro di Nan-hua (Mondadori); Zhuangzi (Rizzoli). Poesia cinese dell'epoca T'ang (Rizzoli) La barriera senza porta (Mondadori) La filosofia cinese (Rizzoli) La storia di Rama (Mondadori) Nei-ching, canone di medicina cinese (Mondadori) I-ching. Il libro delle trasformazioni (Rizzoli) Samurai. Ascesa e declino di una nobile casta di guerrieri (Mondadori) Musashi, Il libro dei cinque anelli (Rizzoli) Kamikaze. L'epopea dei guerrieri suicidi giapponesi (Mondadori); “Hagakure, Il codice dei samurai (Rizzoli) La mente allo specchio (Mondadori) Il sogno della farfalla (Pendragon) Il libro della tranquillità. 100 koan del buddhismo Zen (Mondadori) Sun Pin, La strategia militare (Rizzoli) Dogen, Shobogenzo (Mondadori) Tecniche della meditazione taoista (Rizzoli); “Il tao della meditazione, Rizzoli); I 36 stratagemmi (Rizzoli); I guerrieri dello spirito (Mondadori); La lanterna e la spada (Piemme) Lo spirito del Giappone (Rizzoli) L'imperatrice e il dragone (Piemme) La pagoda magica e altri racconti per trovare la felicità dentro di sé (Piemme); “Il libro nella felicità”; “II pensiero indiano (Mondadori) Orient Pop. La musica dello spirito (Castelvecchi) L'arte della guerra e della strategia (Rizzoli) Il lago incantato. Racconti sull'amore (Piemme) L'ordine nero (Piemme) L'innocenza del Tao (Mondadori); Il maestro e lo sciamano (Piemme, ) Incontri di filosofia. La biblioteca di Babele,  I (Città di Ripatransone). Xunzi, L'arte confuciana della guerra (Rizzoli) Confucio (Mondadori) Il coraggio del samurai (Piemme) Nietzsche in Cina nel XX secolo”; Incontri di filosofia. La filosofia come conoscenza di sé,  II (Città di Ripatransone). Memorie di un funambolo; Note ai margini del nulla; Nonsense o il senso della vita; La durata infinita del non suono (Mimesis) Il pennello e la spada. La Via del samurai (Mondadori, ) Introduzione al Sufismo (ebook, ). Un'ora con Heidegger (Mimesis, ). Introduzione alla storia del Buddhismo Ch'an (ebook, ). Il libro della tranquillità (Congronglu) 100 koan del Buddhismo Zen”; L'arte del governo (Huainanzi) (Rizzoli); “Heidegger, il Tao e lo Zen (ebook, ). Il Tao del sesso: La storia di Wu Zhao; La lanterna e la spade”; “La svastica sul Tibet”; Il libro dei segreti d'amore”; All'ombra del maestro”; Il Tao del non suono”; “La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock postmoderno (Mimesis); “Ikkyu poeta zen; “La filosofia di Brian Eno. Filosofia per non musicisti (Mimesis); “Novalis come alchimista”; “La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voceunlimited (Mimesis). Yogasutra (di Patanjali) (Rizzoli ). Sun-tzu: l'arte della guerra per conoscersi; La barriera senza porta (Wu-men kuan) 100 koan del buddhismo Zen”; “La comprensione negata”; “Buddha: La via del risveglio”; “Nagarjuna: la dottrina della via di mezzo (Zhonglun)”; “Il libro rosso di Jung (ebook, ). La storia di Rama (Ramayana)”; “Sul nudo. Introduzione al Nonsense (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; Lacan Zen, L'altra psicoanalisi (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; “Oltre il nirvana”; L'altro Derrida”; “Watt, la cosa e il nulla. L'altro Beckett; L'altro Wittgenstein”; “Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan. Un'autobiografia”; “ L'altro Nietzsche”; “Una introduzione alla filosofia di John Lennon”; “Scelsi: Oltre l'Occidente, Crac Edizioni. La corda e il serpente, Illusioni, La filosofia di Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Mimesis. La Via del risveglio, Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli. Wenzi, Il vero libro del mistero universale. Un classico della filosofia taoista, Milano, Jouvence. La filosofia di John Lennon. Rock e rivoluzione dello spirito, Milano-Udine, Mimesis. Togliersi le idee. L'ombra del nonsense, Il Tao della pedagogia (selezioni da: Annali Primavere-Autunni di Lu Buwei); Il libro segreto dei ninja: Shoninki; Ikkyu: l'Antibuddha, (poesie in traduzione dal giapponese); Confucio come counselor, Miyamoto Musashi: Dokkodo; Quanti orientali. Oltre il Tao della fisica; Daodejing: Laozi come counselor; Zhuangzi: i capitoli interni; Bhagavad Gita; Qohelet, l'interpretazione "orientale"; Il pensiero giapponese. L'età moderna e contemporanea, Jouvence. La filosofia di Bob Dylan, Mu Machine Collection; Zhuangzi: i capitoli esterni, Mu Machine Collection; Zhuangzi: miscellanea, Mu Machine Collection; La raccolta della roccia blu (i cento koan del Biyanlu), Mu Machine Collection; Basho:Haiku, Mu Machine Collection; Vivere il taoismo, Mu Machine Collection; Il libro rosso di Jung: Liber Primus, Mu Machine Collection, ebook. Storia del pensiero indiano,  II, Mu Machine Collection, Storia del pensiero indiano,  III, Mu Machine Collection, Storia del pensiero indiano,  IV, Mu Machine Collection, ebook. Il libro rosso di Jung: Liber Secundus, Mu Machine Collection, L'antistoria della filosofia, Mu Machine Collection, Zen contro Zen, Mu Machine Collection,  I greci in Oriente, Mu Machine Collection, Liezi il libro taoista della verità, Mu Machine Collection, Lo spirito del samurai: Budoshoshinshu, Mu Machine Collection, Il giardino nascosto (sul tempo), Mu Machine Collection, Neijing il canone di medicina cinese, Mu Machine Collection, Dogen Shobogenzo, Mu Machine Collection, Guida al cinese classico, Mu Machine Collection; Nascita di un samurai, Mu Machine Collection; Il Canone di Mozi. La logica cinese, Mu Machine Collection, ebook. Jung Zen, Mu Machine Collection.  In Inglese Nonsense as the Meaning, ebook,. Nietzsche in China in the 20th Century, ebook,. The Shadows of the Masters, ebook,. An Introduction to Sufism, ebook,. The Dervish, ebook,. Cage Nagarjuna Wittgenstein, ebook,. Nosound, ebook,. The Red Book of Jung, ebook,. Illusions, ebook,. The Book On Happiness, ebook. On Nudity. An Introduction to Nonsense, Mimesis International. David Sylvian As A Philosopher, Mimesis International. In Spagnolo El canto del derviche. Parabolas de la sabiduria Sufi, Grijalbo, Barcelona 1997. In Francese Sur le nu. Introduction à la philosophie du Nonsense, Editions Mimésis,. Note  L. V. Arena, Nonsense o il senso della vita, ebook, cap. 1  Nonsense o il senso della vita, cap. 6  L. V. Arena, La durata infinita del non suono, Mimesis   L. V. Arena, Il tao del non suono, ebook   L. V. Arena, Una introduzione alla filosofia di John Lennon, Kindle Edition   L. V. Arena, La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock postmoderno, Milano, Mimesis   L. V. Arena, La filosofia di Brian Eno, Milano, Mimesis,.  L. V. Arena, La filosofia di Robert Wyatt, Milano, Mimesis,.  L. V. Arena, Scelsi: Oltre l'Occidente, Falconara Marittima, Crac Edizioni,.  L. V. Arena, La filosofia di Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Milano-Udine, Mimesis,..  L. V. Arena, Orient pop. La musica dello spirito, Roma, Castelvecchi, 2007.  Nagarjuna, The Philosophy of the Middle Way, D. Kalupahana, Albany, 1986  L. Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, Torino, Einaudi 1984  L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, passim  L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, cap. 1  Biyanlu, 1  Leonardo Vittorio Arena, Zhuangzi: I capitoli interni, ebook; Idem, Zhuangzi: i capitoli esterni, ebook, idem, Zhuangzi: Miscellanea. ebook..  Contra Kant, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1979, p.281  Nonsense o il senso della vita, Appendice  L. V. Arena, La comprensione negata, ebook,.  Leonardo V. Arena, La filosofia di Bob Dylan, Collezione Mu Machine, ebook..  Leonardo V. Arena, Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan, Autobiografia,  I, ebook.  L. V. Arena, Illusioni, Kindle Edition,.  L. V. Arena, La Via del risveglio, Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli..  Leonardo Vittorio Arena, Il libro rosso di Jung, ebook.  Ibidem13.  Ibidem15.  L. V. Arena, Togliersi le idee, L'ombra del nonsense,.. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Leonardo Vittorio Arena  Nonsense o il senso della vita, su amazon.  Note ai margini del nulla, su amazon. L'attività accademica di Leonardo Vittorio Arena [collegamento interrotto], su uniurb. Il blog filosofico di Leonardo Vittorio Arena, su leonardovittorioarena.wordpress.com. L'autobiografia, su amazon. Filosofia Letteratura  Letteratura Religioni  Religioni Storia  Storia Filosofo del XXI secoloOrientalisti italianiStorici delle religioni italiani 1953 Ripatransone. Leonardo Vittorio Arena. Keywords: nudi, Novalis, Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, Puccini, Butterfly, Turandot, Mascagni, Iris, Leoni, L’Oracolo, Confucio, la guerra, stratagema, strategia, antistoria della filosofia, Heidegger, Wittgenstein, l’unconscio, Whitehead, Grice on east and west, Staal, ‘those in a position to know’ – metafisica, greco-latina, Heidegger citato par Arena, Leonardo Arena, Leonardo Vittorio Arena. Cinese, linguaggio, la filosofia del linguaggio di Novalis, Gozzi, libretti di Butterfy, Turandot, Isis, L’Oracolo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arena” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789467047/in/dateposted-public/

 

Aristosseno (Taranto). of Taranto. How to live the good life.  Aristosseno filosofo greco antico Lingua Segui Modifica «Diceva Aristosseno che il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni, così come, nelle scienze ed esperienze, quelle buone ed oneste amano davvero il bello; mentre ciò che dai più è detto amore del bello, cioè quello che si manifesta nelle necessità e nei bisogni della vita è, se mai, la spoglia del vero amore.»  (Stobeo, Florilegio, III, 1, 101.) Aristosseno (in greco antico: Ἀριστόξενος, Aristóxenos, in latino: Aristoxĕnus; Taranto, ... – ...; fl.335 a.C.[1]) è stato un filosofo greco antico, peripatetico e scrittore di teoria musicale.   Ritratto immaginario di Aristosseno Biografia Modifica Figlio di Spintaro (allievo di Socrate), fu da questi e dal padre avviato alla musica e alla filosofia.  S'interessò alla dottrina pitagorica, per poi diventare discepolo di Lampo Eritreo, di Senofilo e infine uno dei principali allievi di Aristotele: infatti ebbe l'incarico di tenere nella sua scuola lezioni di musicologia. Aspirò alla successione del maestro e la nomina di Teofrastoalla direzione della scuola peripatetica, dopo la morte di Aristotele, fu la profonda delusione della sua vita [2].  Infatti si trasferì a Mantinea, una città del Peloponnesofamosa per la diffusione della musica, dove visse per molti anni, ebbe molti discepoli detti Aristosseni e fu consigliere del re Neleo. Qui scrisse due opere, Il carattere dei Mantinei [3] e l'Elogio dei Mantinei [4].  Opere                                                   Modifica Secondo Suda, Aristosseno scrisse 453 opere, molte delle quali sulla musica, per la quale divenne autorità indiscussa. In base ai frammenti, le opere aristosseniche possono essere divise in vari gruppi [5].  In primo luogo, Aristosseno si dedicò, sulle orme di Aristotele, allo studio delle teorie pitagoriche, con opere come la Vita di Pitagora (Πυθαγόρου βίος, fr. 11 Wehrli); Su Pitagora e i suoi allievi (Περὶ Πυθαγόρου καὶ τῶν γνωρίμων αὐτοῦ, fr. 14 Wehrli); La vita pitagorica (Περὶ τοῦ Πυθαγορικοῦ βίου, fr. 31 Wehrli); Massime pitagoriche (Πυθαγορικαὶ ἀποφάσεις, fr. 34 Wehrli).  L'attenzione alla dimensione educativo-pedagogica è testimoniata dalle Leggi educative (Παιδευτικοὶ νόμοι, fr. 42-43 Wehrli) e dalle Leggi politiche (Πολιτικοὶ νόμοι, fr. 44-45 Wehrli). Numerose furono anche le sue biografie: Vita di Archita (Ἀρχύτα βίος, fr. 47-50 Wehrli); Vita di Socrate (Σωκράτους βίος, fr. 54 Wehrli); Vita di Platone (Πλάτωνος βίος, fr. 64 Wehrli); Vita di Teleste (Τελέστου βίος, fr. 117 Wehrli), sul poeta ditirambico.  Dove, però, Aristosseno lasciò una duratura impronta fu la teoria della musica, con opere come Sui tonoi(Περὶ τόνων), di cui resta una breve citazione nel commentario di Porfirio agli Armonica di Claudio Tolomeo; Sulla musica (Περὶ μουσικῆς, fr. 80, 82, 89 Wehrli); Ascolto della musica (Μουσικὴ ἀκρόασις, fr. 90 Wehrli); Su Prassidamante (Πραξιδαμάντεια, fr. 91 Wehrli); Sulla melica (Περὶ μελοποιίας, fr. 93 Wehrli); Sugli strumenti (Περὶ ὀργάνων, fr. 94-95, 102 Wehrli); Sugli auloi (Περὶ αὐλῶν, fr. 96 Wehrli); Sui flautisti(Περὶ αὐλητῶν, fr. 100 Wehrli); Sui fori degli auloi(Περὶ αὐλῶν τρήσεως, fr. 101 Wehrli); Sui cori (Περὶ χορῶν, fr. 103 Wehrli); Sulla danza della tragedia (Περὶ τραγικῆς ὀρχήσεως, fr. 104-106 Wehrli); Comparazioni (Συγκρίσεις, fr. 109 Wehrli); Sui poeti tragici (Περὶ τραγῳδοποιῶν, fr. 113 Wehrli).  Infine, tipicamente erudite erano le Miscellanee simposiali (Σύμμικτα συμποτικά, fr. 124 Wehrli); Memorabilia (Ὑπομνήματα), Memorabilia storici(Ἱστορικὰ ὑπομνήματα), Memorabilia in breve (Κατὰ βραχὺ ὑπομνήματα), Note miscellanee (Σύμμικτα ὑπομνήματα), Note sparse (Τὰ σποράδην): fr. 128-132, 139 Wehrli.[6]  A noi sono giunti gli Elementi di armonia (᾿Αρμονικά) divisi in tre libri: nel primo, intitolato Principii vengono esposti la definizione della scienza armonica e i suoi argomenti, quali la voce, acuto e grave, intervalli, melodia, generi, suoni e tonalità; nel secondo vi è una introduzione filosofica, una presentazione innovativa delle caratteristiche dell'armonia, una polemica contro gli esperti di musica passati e tradizionalisti; il terzo libro inizia con l'approfondimento degli intervalli e s'interrompe sulla parte intitolata Elementi.  Musica ed estetica in Aristosseno                  Modifica Interessa rilevare negli scritti di Aristosseno la presenza più o meno esplicita di un pensiero estetico: un'idea di quel che sia o come debba essere intesa l'opera d'arte musicale. Alla musica attribuì un notevole influsso etico ed educativo, ma anche un uso terapeutico:  «il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni, così come, nelle scienze ed esperienze, quelle buone ed oneste amano davvero il bello; mentre ciò che dai più è detto amore del bello, cioè quello che si manifesta nelle necessità e nei bisogni della vita è, se mai, la spoglia del vero amore.»  (Stobeo, Florilegio, III, 1, 101.) Aristosseno applicò alla musica il duplice metodo, sperimentale e teorico, di chiara influenza aristotelica, tanto da scrivere che i pitagorici «usavano medicine per purificare il corpo e musica per purificare la mente». Abbinò questi studi allo sviluppo della dottrina dell'anima come armonia del corpo, perfezionando gli astratti presupposti dell'aritmeticapitagorica con l'osservazione attenta dei fenomeni del suono. È, tra l'altro, andata perduta un'opera di Aristosseno che era intitolata Sull'ascoltare musica, nella quale pare si sostenesse il carattere necessariamente attivo di questa operazione, che richiede un vigile e assiduo confronto tra i suoni passati e quelli presenti e futuri. Ossia, Aristosseno riconobbe la funzione fondamentale della memoria nell'intelligenza della musica, come risulta da un paragrafo degli Elementi di armonia: «Di queste due cose, invero, la musica è coesistenza: sensazione e memoria. Bisogna infatti sentire ciò che accade e ricordare ciò che è accaduto».  Grazie a Plutarco sono giunte fino a noi altre parti del modello musicale elaborato da Aristosseno, il quale era consapevole che la musica non poteva essere limitata a una ricreazione scientifica e nemmeno a un gioco di sensazioni, bensì alla riuscita di tutte le sue parti, dalle parole ai ritmi e ai suoni, e il compito del genio è quello di creare le corrispondenze fra questi elementi, attraverso un lavoro di sintesi. Il compito dell'ascoltatore, secondo le teorie di Aristosseno è quello di ricostruire l'opera stessa e se la fusione è esaustiva, in qualche modo l'opera esiste.[6]  Note                                  Modifica ^ Secondo la Cronaca eusebiana. ^ Suda, s.v. ^ Μαντινέων ἔθη, fr. 45, I, rr. 1-9 Wehrli. ^ Μαντινέων ἐγκώμιον, fr. 45, I, rr. 10-12 Wehrli. ^ Il riferimento è all'edizione di F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967, con il testo greco dei frammenti e commento in tedesco. ^ a b "Dizionario di Musica", di A.Della Corte e G.M.Gatti, Torino 1956, voce "Aristosseno", pp. 21-22. Bibliografia                               Modifica Carl A. Huffman (ed.), Aristoxenus of Tarentum: Discussion, New Brunswick - London 2011. Sophie Gibson, Aristoxenus of Tarentum and the Birth of Musicology, New York, Routledge, 2005. Amedeo Visconti, Aristosseno di Taranto. Biografia e formazione spirituale, Napoli 1999. F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967. Altri progetti                                  Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Aristosseno Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Aristosseno Collegamenti esterni                                                     Modifica Aristòsseno di Taranto, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Aristosseno di Taranto, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Aristosseno, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Aristosseno, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Aristosseno, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Trattato di armonica di Aristosseno di Taranto, su users.unimi.it. Controllo di autorità                                          VIAF ( EN ) 49269266 · ISNI ( EN ) 0000 0004 0361 8850 · SBN BVEV014339 · BAV495/44017 · CERL cnp00397377 · LCCN( EN ) n83048707 · GND ( DE ) 118650149 ·BNE ( ES ) XX4578909 (data) · BNF( FR ) cb12181778c (data) · NDL( EN ,  JA ) 00911201 · CONOR.SI ( SL ) 101681763 · WorldCat Identities ( EN ) lccn-n83048707   Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Magna Grecia   Portale Musica Ultima modifica 13 giorni fa di Biobot PAGINE CORRELATE Spintaro compositore e filosofo greco antico  Clearco di Soli filosofo cipriota  De audibilibus opera dello Pseudo-Aristotele

 

Grice ed Armetta – dialogo – filosofia italiana – filosofia siciliana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Armetta; he is into ‘dialogue,’ I am into conversation. I once suggested to Strawson that he should write a dissertation on the distinction betweehn dia-logos and cum-versatio, but he said that ‘converse’ is used to mean ‘make out’ in the Bible, while ‘dialogue’ ain’t!” Principale allievo di Santino Caramella, di cui cura il lascito.   Si è laureato in Filosofia presso l’Palermo con Santino Caramella, di cui è diventato subito assistente universitario. Con lui e gli altri allievi e collaboratori ha fondato la rivista di filosofia «Dialogo» (1964-1974); dal 1960 al 1992 ha insegnato nei licei di stato (per un lungo periodo di tempo presso il Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II); dal 1981 insegna presso la Pontificia Facoltà Teologia di Sicilia «San Giovanni Evangelista», prima come docente incaricato di Dottrine filosofiche e fino al 2004 anche di Logica; ha fatto parte della segreteria della Rivista della Facoltà per un decennio fino al 1998 e sin dall’anno accademico 1985 è Segretario Generale della medesima Facoltà.  Il pensiero di Armetta è una rilettura del neoidealismo crociano e gentiliano sulla base dello spiritualismo cristiano. I suoi studi sono rivolti soprattutto alla storia del pensiero filosofico e teologico in Sicilia, e sono culmila curatela del monumentale Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia.  Altre opere: "La filosofia del volere da Omero a Platone”; “Storia e idealità in S. Kierkegaard”; “L’uomo come natura”; “Guida agli scritti di Santino Caramella”; “Teoria e pratica in Santino Caramella”; “Caramella e Gobetti. Un rapporto oscurato”; “Il Carteggio Caramella-Croce”; “Il carteggio tra Caramella e Radice”; “Per una società in dialogo”; “Il pensiero filosofico in Sicilia”; “Elementi di ideologia”; “Istituzioni ideologiche”; “Rosario La Duca. Guida agli scritti”; “La toponomastica di TerrasiniFavarotta”; Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc. XIX e XX, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma); “Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec XVII (Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma). Riconoscimenti Papa Benedetto XVI lo ha insignito del titolo di Cavaliere Commendatore dell'Ordine di S. Silvestro (13 febbraio ).  Note  Caltanissetta, Sciascia Editore,. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1928 Palermo. Francesco Armetta. Keywords: dialogo, fascimo filosofico, filosofi del fascism, croce e caramella – il carteggio curato da Armetta, presenza di Caramella nel primo convegno a Milano, dialogo, implicatura dialettica, Caramella e Giobetti, storia della filosofia italiana, filosofia politica nella Italia del primo novecento, la metafisica del dialogo in Vico.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Armetta” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51791128045/in/dateposted-public/

 

Grice ed Arrighetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Arrighetti: his forte was Aristotle’s rhetoric, and he was very popular with the Accademia degli Ardenti, and later with a subgroup of this, The Accademia degli Svelati (which later merged with the Accademia dei Lunatici); his other forte was the distinction between ‘oratio’ and ‘oratio vvocalis’ – “Os” is of course Romann for ‘mouth’ – but figuratively for ‘linguaggio’ – (after all, the tongue is IN the mouth). I happen to prefer ‘mouth,’ because Roman ‘os’ is related to ‘essere’: you are who you are, i.e. you exist, because you can breathe through your mouth. Appartenente a una nobile famiglia fiorentina, studiò la lingua Greca e le filosofie Aristotelica e Platonica nelle Pisa e di Padova. Dedicatosi agli studi teologici, venne ascritto al Corpo dei Teologi dell'Università Fiorentina il 20 novembre del 1631. Il Pontefice Urbano VIII, che aveva molta stima per il giovane, lo creò Canonico Penitenziere della Cattedrale di Firenze e esaminatore sinodale, posizione che mantenne fino alla morte. Arrighetti morì il 27 novembre del 1662 all'età di 80 anni. Fu uno dei membri più illustri dell’Accademia Fiorentina e di quella degli Alterati fra i quali si chiamò Fiorito.  Altre opere: “La rettorica d’Aristotele e Cicerone spiegata” (Firenze);  “La Poetica d'Aristotele, spiegata” (I Svogliati, Pisa), “Il Piacere” (Firenze); “Il riso” (Firenze); “L’ingegno” (Firenze), “L’onore” (Firenze); “Vita di S. Francesco Saverio estratta dalle relazioni, fatte in Concistoro da Francesco Maria Cardinale del Monte”, “Sermoni sacri, volgari e latini fatti in varie chiese e compagnie di Firenze”; “Opere spirituali”; “L'Orazione vocale e mentale”; “Tractatus de iis quae necesitate medii et precepti credenda sunt”. Note  Arrighetti (Philippe), in: Louis Gabriel Michaud: Biographie universelle ancienne et moderne, 2ª edizione 1843,  2291.  Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for the Diffusion of Useful Knowledge,  3, 2 (1844)641 sg.  Arrighetti (Philippe), in: Nouvelle biographie générale, 1852–66,  3358 Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for the Diffusion of Useful Knowledge,  3, 2 (1844)641 sg. Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Filosofia Categorie: Religiosi italianiFilosofi italiani del XVI secoloFilosofi italiani del XVII secoloGrecisti italiani 1582 1662 27 novembre Firenze PadovaTraduttori dal greco all'italiano. RETTORICA E POETICA D'ARISTOTILE TRADOTTE E SPIEGATE DA FILIPPO ARRIGHETTI CANONICO FIORENTINO. PROLOQVII NELLA RETTORICA D'ARISTOTELE RECITATI NELL'ACCADEMIA DELLI SVEGLIATI IN PISA. RAGIONAMENTO I. De principii vniversali dell'arte. Prooemium. E' lodevol'usanza di tutti i buoni espositori et massime di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque trattato ch'eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni, o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza et intelligenza delle cose che si deven trattare, et molti son questi de quali si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati parte nascenti dalla natura delle cose da insegnarsi, parte da varii accidenti onde si vede che questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti dunque benigno uditore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione. Quel ch'inducesse li huomini et quando a ritrovar l'arti. E' cosa manifesta a ciascheduno che l'huomo è composto di due parti principali, d'anima et di corpo. L'anima divina et immortale et per se stessa aspirante a cose alte et elevate: ma per esser racchiusa nel profondo del corpo nostro, tale che non può senza l'aiuto suo sostenersi, il ch'è la vita nostra. Hebben acconcia la terra, onde potessen nutricarsi et altresì provedut'onde commodamente vivesseno, si dieden alla contemplazione. Et tanto basti haver detto dell'occasion del ritrovar l'arti, et del tempo in che elle si ritrovarono.  Del fine dell'arti et della via loro in acquistarlo. Delle differenze dell'arti prese dal modo dell'acquistar il lor fine. Dell'origin et principio dell'arti. Dell'unità et distintion dell'arti. Del modo del discorrer dell'arti. Delle differenze tra l'arte com'habito et come metodo. De principii proprii della Retorica come arte. Quel che sia il persuadibile che è suggetto dell'oratore. A che specie d'arte si riduca la Rettorica. Dell'origine et autori della Rettorica. Della dispositione del corpo d'un ragionamento in universale. Delle parti della Rettorica com'arte. Considerasi la Rettorica come metodo. Delle parti materiali della Rettorica come metodo et ordine loro. COME LA RETTORICA SIA COLLEGATA CON LA DIALETTICA. De' luoghi della persuasione in universale. Schema ad albero dei luoghi rettorici. In che maniera succede il far fede. Delli affetti e'n che maniera et con che stromenti o ver metodi si muovino. Che via si deve tenere per far il DIRE DILETTEVOLE. Del modo del definire comun al poeta et all'oratore. Trattano i logici e metafisici della diffinizione ma con esquisitezza singulare mostrando che la diffinitione è una oratione, la quale dichiara la essenza et natura della cosa, et questa da loro si compone di genere et differenze. Ma havendoci noi proposto di ragionar di quelli che son più oscuri et manco trattati da professori della Rettorica, che son chiaramente quelli di cui già habbiam discorso. Poscia che havuto fine il nostro proposito, porrem anchor noi fine al nostro ragionamento.  DELLA POESIA. RAGIONAMENTO. Qual sia il primo fine del poema. Camminando su l'orme de discorsi fatti sin a qui sì in generale, sì in particolare sopr'il negozio rettorico acciocché si proceda secondo l'ordine della natura, che è cominciando prima delle cose prime, andrem ritrovando il fine a cui s'indirizza questa professione, o ver arte che dir la vogliamo. Però essend'egli parte della felicità, vien ad esser ancho parte del fine humano. Insin a qui habbiam vedut'in quanti modi si piglia il diletto, et non ha dubbio alcuno ch'un di questi si convien alla poesia; hora è da veder quale et come, et scior le dubitazioni ch'intorn'a ciò accadesseno. Determinazione del DILETTO come fine della poesia. Qual sia il giovamento che si trae delle poesia. Dell'imitazione. Delli stromenti et maniere d'imitar del poeta. Quali sien le cose da esser imitate. Risposta d'Aristotele alle opposizioni del Castelvetro contro l'imitazione. Disse Aristotele l'imitazione esser una delle principali cagioni della poesia et noi poco fa l'habbiam posta come fine. Adunque terremo per fermo che l'imitazione co'l metro habbin dat'origine alla poesia et che le sien la vera essenza di quella. Del suggetto della poetica. S'egli è vero quel che noi habbiam determinato ne discorsi rettorici essend'il suggetto quel ch'è capace della forma che intende d'introdur l'artefice et ove s'impiega l'opera del poeta, tutta rigirandos'intorno a questo che s'imiti alcuna attione è necessario dir ch'ella sia il suo suggetto. Et vedesi che s'è ben dato qualche condimento all'arti et alla filosofia mediante il verso come fecen molti scrittori innanzi a Platone Anassagora Empedocle ET APPRESS'I LATINI LUCREZIO et di medicina da Q. Sereno et altri la qual'usanza non è stata approvata né seguita da maestri delle scienze et pur le cose da loro eran trattate co' principii proprii, cosa molt'alieno dal sentimento et processo poetico.  Che sorte d'arte sia la poetica. Dell'unità dell'arte poetica. Dell'origine della poesia. Del furor poetico. Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Due son le parti del ben poetare come di esercitar ben tutte l'arti et professioni, l'una è l'ingegno, l'altra il giudicio, perché ogni buon opera debbe esser regolata da buon giudicio. Ma si com'il giudicio non ha luogo ove non è l'invenzione, sì anchor l'invenzione senza giudicio è cosa poc'artifiziosa et casuale. Della Rettorica d'Aristotele libro primo. La Rettorica ha convenienza con la dialettica trattando l'una e l'altra di quelle cose le quali communemente da tutti in un certo modo si conoscono, né si riferiscono ad alcuna determinata scienzia. Di qui è che tutti gli huomini in qualche modo dell'una o dell'altra partecipano, conciosiache tutti infino a un certo termine sappino arguire e rispondere, e difendere e accusare. Noi dunque (disse colui) domanderemo che voi giudici stiate a le cose che con il giuramento havete sententiato, et noi ci staremo? Anchora le altre cose simili che appartengono all'amplificatione. Et questo basti haver detto quanto alla fede senza artificio. Sommario del primo libro della Rettorica d'Aristotele. La Rettorica è distinta da Aristotile in tre libri. Nel primo narra le cose communi a i tre generi dell'oratione, i quali distinguendosi in deliberativo, dimostrativo e giudiziale, dichiara le propositioni et il fine di ciascheduno. Intorno a quai modi allega Aristotile i precetti di trattare de giuramenti. E così pon fine alle fedi et al primo libro della Rettorica.  Sommario delle cose più notabili del 2° libro della Rettorica d'Aristotile. Seguendo di ridurre in breve le cose principali del 2° libro della Rettorica d'Aristotile diremo avanti come in questo libro Aristotile tratta de gli affetti dello animo, de costumi. Termina poi questo libro annoverando le cose egli ha trattato nell'ultima parte et proponendo la materia del 3° libro che resta a perfettionare questa arte, cioè la locutione et dispositione.  Sommario del terzo libro della Rettorica. Nel terzo libro della Rettorica si contengono come dicemmo da principio due cose principali che sono gli ornamenti della oratione con le parti di essa. Comprende dunque l'epilogo la benevolenza dell'uditore, la amplificatione, la commotione degli animi et l'essamenatione delle cose dette.  Lettione. Proemio nella Rettorica d'Aristotele. Se dalle operationi si conosce la nobiltà della cosa niuna è più propria a manifestare l'eccellenza dell'animo nostro che quell'istessa la quale da gl'animali irragionevoli ci fa differenti. E' l'huomo mercé della divina bontà di molti doni dotato; onde secondo il Filosofo mediante la parte intellettiva vive sempre desideroso di conoscere la verità. Et Quintiliano seguitando Cicerone afferma che quest'opera è come un germoglio della civile filosofia. Et questo basti haver detto circa i preloquii della Rettorica. Qui fa fine Aristotile al trattato delle fedi senz'artificio et al primo libro della sua Rettorica. Intorno all'espositione della quale mi sono affaticato, per dar maggior luce et agevolezza a voi più giovani accademici nell'apprender da questo famoso filosofo i precetti dell'arte poetica. Il fine della dichiaratione del primo libro della Rettorica. Proloquii nella Rettorica d'Aristotele. Proemio. E' lodevol cosa di tutti i buoni espositori et massime di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque trattato che eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni, o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza et intelligenza delle cose che si devon trattare, et molti son questi de quali si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati. Onde si vede che questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti dunque benigno lettore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione.    Proloquii. Discorsi poetici. Qual sia il primo fine del poema. Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Delle parti del poema. Della poetica come metodo. Delle parti della poesia come metodo. Ne metodi ben ordinati il principio e comincia dalle cose che per ordine di natura procedono et questo ordine è di più maniere perché o egli è di perfettione, o di origine. Resta solo per dar fine a questo trattato che noi aggiunghiamo le considerazioni della musica delle quali col tempo piaccendo a dio da cui ogni mia attione riconosco, un'altra volta ne scriveremo. Magl. Cl. Rettorica e Poetica d'Aristotile tradotte e spiegate da Filippo Arrighetti canonico fiorentino. Il testo del vol. I.com. con questo titolo, "Proloquii nella Rettorica d'Aristotele recitati nell'Accademia delli Svegliati in Pisa". Cart., autogr., in fol. Leg.in mezza membr. Già della Bibl. Mediceo. Palatina. Precede il vol. I la tavola delle materie (lezioni, proloqui e versioni). II,I,22.(Magl.CI). Il titolo è di a Lezioni, relazioni e ricordi varii. Ma il vol.contiene "Lettione del Piacere recitata nell'Accademia degl'Alterati da Filippo Arrighetti accademico detto il Fiorito" (fol. 1-6). Lezione «DelRiso» delmedesimo (fol.7-10). Lezione sull'In gegno, del medesimo (fol.13-27). «Notitiaetincontridelviaggiodel R. card. di Firenze Legato in Francia l'anno 1596 » (fol. 29-31). Propositi tenuti da S. M. tả (Enrico iv] alli signori del suo Parlamento in presenza del suo Consiglio et de Duchi et Padri di Francia » (fol. 33 34). « Lettera in materia delle cose di Francia e de Ghisi » (fol. 35 45). « Lettera del Re di Navarra [Enrico iv) ai tre Stati del Reame di Francia » (fol. 50-58): in fine è la data 4 marzo 1589. Cart., infol., sec.XVII, autogr.dafol.1-6,f.79. Leg. inmezza membr.Proviene dalla Bibl. Mediceo-Palat. II,I,23. (Magl.CI.VI, num.15). G. MAZZATINTI Manoscrilli delle biblioleche d'Italia, viii. (Carlo di Tommaso Strozzi, num.581.  at:interlocutori SaccenteeFrinfri(fol.60-71).— «Ricordian l'Alchimia u tichi.Autore Iac. Petribonifiorentino» (titolo del sec.XVII). Precede na nota dei Gonfalonieri di Filippo Arrighetti. Keywords: il piacere, lista di figure rhetoriche --   A Accumulazione Adynaton Agnizione Allegoria Allusione Anacoluto Anadiplosi Anagramma Analogia (retorica) Anastrofe Anfibologia Annominazione Antanaclasi Anticlimax Antifrasi Antilogia Apagoge Apallage Aprosdoketon Arcaismo B Baritonesi C Cacofemismo Cacofonia Captatio benevolentiae Catacresi Catafora (figura retorica) Chiasmo (figura retorica) Clavis aurea Climax (retorica) Concinnitas Correctio D Deissi Diafora Dialefe Dialisi (figura retorica) Diallage Diastole (retorica) Dieresi Difrasismo Dilogia Disfemismo Distribuzione (figura retorica) Dittologia E Ekphrasis Ellissi (figura retorica) Ellissi temporale Enallage Endiadi Endiatri Enfasi Engo Enjambement Entimema Enumerazione Epanadiplosi Epanalessi Epanodo Epanortosi Epicherema Epifora (figura retorica) Epifrasi Epitesi F Fallacia patetica Figura di stile Figura etimologica Figure di suono H Hysteron proteron I Iato Invettiva Ipallage Iperbato Ipocoristico Ipofora Ipotassi Ipotiposi Ironia Isocolon K Kakekotoba Kakemphaton Kenning L Latinismo Leixaprén M Merismo Metalessi Metalogismo Metanoia Metasemema Metatassi N Nemesi storica Neologismo Noema O Occupatio Olofrase Omeoarco Omeottoto Omoteleuto Onomatopea P Palindromo Palinodia Panegirico Paradosso Parafrasi Paragone Paraipotassi Parallelismo Paraprosdokian Paratassi Parequema Paretimologia Parodia Paromeosi Paronimia Paronomasia Patronimico Pleonasmo Polisemia Polittoto Premunizione (figura retorica) Priamel Prolessi R Reduplicazione S Sarcasmo Scarto semantico Senhal Sillessi Similitudine (figura retorica) Simploche Sinafia Sinalefe Sinchisi Sincope (linguistica) Sineddoche Sineresi Sinestesia Sinonimia Sistole Tautologia Tmesi Truismo Umorismo Understatement Variatio Zeugma tipi di discorsi, discorso dimonstrativo, discorso deliberative, discorso di giudizio, imitazione, ornamentation, parte dell’orazione, giovinetti, rettorica per giovinetti, dialettica a la sua convenienza colla rettorica, rettorica come arte, dialettica come arte, l’arte di conversare, filosofia civie, rispondere, argomentare, il fine della retorica, le la rettorica distinta in tre parti, demostrazione, giudizio, buon giudizio, deliberazione, albero della retorica, luoghi retorici, il fine della poesia e il diletto, animale ragionabile, animale non-ragionabile, lucrezio, cicerone, quintiliano, il dire dilettevole, la benevolenza dell’oratore, la benevolenza del conversante, la benevolenza dell’auditore, la benevolenza dell’audienza, principi di rettorica, cicerone sulla rettorica di Aristotele – l’aristotele toscano, aristotele per i platonici di fiorenze, del piacere, della lussuria, dell’onore, dell’ingegno, del riso – Bergson – la felicita come fine – arte e natura – poetica come arte, il poeta e la natura – l’imitazione come fine della poetica, la filosofia e la rettorica. Rettorica e dialettica, universalita fra i uomini, la villa di Giulio di Filippo Arrighetti – Filippo Arrighetti, canonico, detto il Fiorito – pseudonimo, figura retorica, Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrighetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690463382/in/photolist-2mKH8TU

 

Grice ed Assunto – i nazareni – filosofia italiana – Luigi Speranza (Caltanissetta). Filosofo. Grice: “I like Assunto; of course in Italy they take aesthetics seriously; my wife would say that they ONLY take aesthetics seriously! And I would correct her, ‘You mean that they take only aesthetics seriously,’ and she would re-correct me, ‘Whatever, dear.’” – “Anyhow, Assunto is best known in Italy as a historian, but he fails to see that when at Clifton we speak of the classics we mean the timeless – my timeless meaning was meant as a Cliftonianism! So Assunto is lacking background when he equates classicism, or worse, neo-classicism of the Canova type popular in London, as dealing with ‘l’antichita’ – that would have offend Canova: his statues were meant to represent Platonic timeless ideas or ideals!” Grice: “Gilbert and Leighton are very explicit about this in ‘The Artist’s Model’!” “Then Assunto thinks he can play with a fictiotious dichotomy between ‘l’antico’ and ‘il non-antico.’” Grice: “I treasure Millais’s slogan that at the Royal Academy, he had to do only TWO things: draw naked men ‘from nature’ – or draw naked men ‘dall’antico’!” – Grice: “As Millais suddently realised: ‘We found out that there were no English types that would represent the ‘antico’, or timeless ideal, so we had to deal with Italian models!” -- L'uomo che contempla il giardino vivendo il giardino [...] solleva se stesso al di sopra della propria caducità di mero vivente.»  -- Ontologia e teleologia del giardino). Ha compiuto i suoi studi secondari presso il Liceo Classico di Caltanissetta nella sua città natale. Laureato in Giurisprudenza è stato avviato alla filosofia da Pantaleo Carabellese professore di filosofia teoretica presso l'Roma.  È stato docente di Estetica a Urbino dal 1956 e titolare dal 1981 della cattedra di Storia della filosofia italiana presso la Facoltà di Magistero a Roma.  «Il suo insegnamento è anticonformista, fortemente intriso di contraddittorio. Ma forse proprio per questo motivo, quando arriva il Sessantotto, il filosofo sceglie la via della controrivolta: quella che passa attraverso l'élite. Rifiuta di adeguarsi al voto politico, si oppone ai collettivi e agli insegnamenti assembleari. I suoi allievi non si oppongono al suo rifiuto, anzi con questo comportamento Assunto riesce ad attirarsi la stima di molti esponenti del Movimento studentesco. Talmente rivoluzionario da divenire reazionario, Rosario Assunto dagli anni Settanta in poi avrà un atteggiamento sempre più schivo...»  Un isolamento, il suo, iniziato col Sessantotto, ma poi sempre più accentuato; infine, si chiuse nei suoi studi e nelle sue speculazioni dopo la morte della moglie, la storica dell'arte Wanda Gaeta, molto amata («Sono la fotocopia di lei, che è stata uccisa dal mio stesso male»).  A Roma fu molto amico di Giulio Carlo Argan pur contrastando le sue idee politiche.  Pensiero Rosario Assunto, interessato ai temi estetici della filosofia da un punto di vista storico e teoretico li ha trattati non solo come tipici della filosofia dell'arte e del bello ma considerandoli coincidenti con la filosofia stessa giudicata come pura estetica. Egli si rifà a Baumgarten, Cartesio, Leibniz, Kant esaminati soprattutto per la loro concezione dell'uomo e del suo rapporto con la natura. Una visione tradizionalista della filosofia, proprio nel momento in cui l'estetica si rivolgeva alla semiotica, che isolò Assunto soprattutto in Italia, mentre in Germania veniva tradotto e apprezzato.  Assunto ha rappresentato una delle voci più significative all'interno del dibattito filosofico estetico del Novecento. Vivamente interessato all'estetica dei giardini anticipa largamente nelle sue opere alcuni rilevanti concetti per la riflessione più recente, come per esempio quello di "estetica del paesaggio", che hanno ispirato i temi ambientalisti sulla tutela e conservazione del paesaggio, naturale o elaborato dall'uomo, che egli definisce «Spazio limitato, ma aperto; presenza, e non rappresentazione, dell'infinito nel finito».  Altre opere: "Civiltà fascista"; “Il teatro nell'estetica di Platone, in "Rivista italiana del teatro"; Curatela di Heinrich von Kleist, Michele Kohlhaas, Torino, Einaudi); “Essere e valore nella filosofia di C. A. Sacheli, in "Rivista di storia della filosofia"; “L'educazione estetica, Milano, Viola); “Educazione pubblica e privata, Milano, Viola); “La pedagogia greca, Milano, Viola); “Forma e destino, Milano, Edizioni di comunità); “L'integrazione estetica. Studi e ricerche, Milano, Edizioni di comunità); “Teoremi e problemi di estetica contemporanea. Con una premessa kantiana, Milano, Feltrinelli); “La critica d'arte nel pensiero medioevale, Milano, Il saggiatore); “Estetica dell'identità. Lettura della Filosofia dell'arte di Schelling, Urbino, STEU); “Giudizio estetico, critica e censura. Meditazioni e indagini, Firenze, La nuova Italia); “Stagioni e ragioni nell'estetica del Settecento, Milano, Mursia); “L'automobile di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma, Ateneo); “L'estetica di Immanuel Kant, una antologia dagli scritti a cura di, Torino, Loescher); “Hegel nostro contemporaneo” (Roma, Unione italiana per il progresso della cultura); “Il paesaggio e l'estetica I, Natura e storia, Napoli, Giannini); Arte, critica e filosofia, Napoli, Giannini); “L'antichità come futuro. Studio sull'estetica del neoclassicismo europeo, Milano, Mursia); “Ipotesi e postille sull'estetica medioevale. Con alcuni rilievi su Alighieri teorizzatore della poesia, Milano, Marzorati); “Libertà e fondazione estetica. Quattro studi filosofici, Roma, Bulzoni); “Intervengono i personaggi (col permesso degli autori), Napoli, Società editrice napoletana); “Specchio vivente del mondo. Artisti in Roma” (Roma, De Luca); “Hohenegger. Esploratore del possibile” (Roma, De Luca); “Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell'Europa barocca, Napoli, Società editrice napoletana); “Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Roma, Bulzoni); “La città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche della città, Milano, Jaca); “La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna, il Mulino); “1. Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento, Palermo, Novecento); “Verità e bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell'Italia neoclassica e primoromantica, Roma, Quasar); “Ontologia e teleologia del giardino, Milano, Guerini); “Leopardi e la nuova Atlantide, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa-Edizioni scientifiche italiane); La natura, le arti, la storia. Esercizi di estetica, Milano, Guerini studio); “Giardini e rimpatrio. Un itinerario ricco di fascino attraverso le ville di Roma, in compagnia di Winckelmann, di Stendhal, dei Nazareni, di D'Annunzio, Roma, Newton Compton); “La bellezza come assoluto, l'assoluto come bellezza. Tre conversazioni a due o più voci, Palermo, Novecento); Il sentimento e il tempo, antologia Giuseppe Brescia, Andria, Grafiche Guglielmi, 1997. Note  Rosario Assunto, Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e Associati, 1994,  978-88-7802-513-4.  Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, su emsf.rai. 24 agosto  26 agosto ).  Paola Nicita, Assunto scandaloso esteta, La Repubblica, 13 maggio 2006  Cutinelli-Rendina, Emanuele, Il Sessantotto di Rosario Assunto, Ventunesimo secolo: rivista di studi sulle transizioni: 22, 2,, Soveria Mannelli: Rubbettino,.  Op. cit. ibidem  Assunto scrisse contro il progetto politico della realizzazione del ponte di Messina  Antonio Debenedetti, Rosario Assunto, filosofo delle forme, Corriere della Sera, 25 gennaio 1994, p.27  Claude Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea Editrice, 2005 p.90  Marisa Sedita Migliore, Il giardino: mito estetico di Rosario Assunto, Società Dante Alighieri, 2000. Teresa Calvano, Viaggio nel pittoresco: il giardino inglese tra arte e natura, Donzelli Editore, 1º gennaio 1996,  139–,  978-88-7989-218-6. Claudia Cassatella, Enrica Dall'Ara e Maristella Storti, L'opportunità dell'innovazione, Firenze University Press, 2007,  191–,  978-88-8453-564-1. Francesca Marzotto Caotorta, All'ombra delle farfalle. Il giardino e le sue storie, Edizioni Mondadori,,  207–,  978-88-04-61114-1. Domenico Luciani, Luoghi, forma e vita di giardini e di paesaggi: Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, 1990-1999, Fondazione Benetton Studi Ricerche, 2001. Pier Fausto Bagatti Valsecchi e Andreas Kipar, Il giardino paesaggistico tra Settecento e Ottocento in Italia e in Germania: Villa Vigoni e l'opera di Giuseppe Balzaretto, Guerini, 1º gennaio 1996,  978-88-7802-665-0. Emanuele Cutinelli-Rendina, Il Sessantotto di Rosario Assunto (con un carteggio inedito), in «Ventunesimo secolo», VI (2009),  45-57. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Rosario Assunto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Rosario Assunto Opere di Rosario Assunto,. Rosario Assunto, su Goodreads. Filosofia Filosofo Professore1915 1994 28 marzo 24 gennaio Caltanissetta Roma. Rosario Assunto.  Keywords: i nazareni, massimo, sala dante, koch, civilta, civilta fascista, theorie des schoenen; D’Annunzio, i Nazareni, I nazareni, pittori germani a Roma, Casino del marchese Carlo Massimo, Aligheri, Tasso, Ariosto. D’Annunzio, la preservazione dei Giardini antichi, villa, giardino di villa, giardino di palazzo, estetica del giardino, il giardino e il uomo, giardineria, filosofia del giardino, il giardino di Epicuro a Roma. Horto di Epicuro – il giardino d’Epicuro (non di Epicuro). Hortus, orto romano, i Scipione e la filosofia a Roma dopo Carneade – filosofia al giardino – filosofia nell’orto – orto italiano, giardino italiano, orto romano, simmetria, “teatro, cinematografo, radio” “sono tre simboli ideali” – “Civilta” – “estetica del teatro in Platone” assunto — annunzio —  i nazareni a roma — il giardino d’epicuro — “teatro, cinematografo, radio” — teatro nell’estetica platonica — schelling — il bello — intro alla fondazione della metafisica dei costumi — natura ed arte — roma città — giovanni gentile —  --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Assunto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790729324/in/dateposted-public/

 

Grice ed Astorini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Albidona). Filosofo. Grice: “I like Astorini, but more so does Sir Peter, vide his section on ‘Space’ in “Individuals: an essay in descriptive metaphysics”: ‘Surely we wouldn’t have space as we know it if it were not for Astorini.” La vivacità del suo ingegno, e il desiderio di apprendere cose nuove, lo induce a spogliarsi de' pregiudizi del secolo, e a studiare attentamente i filosofi, conosciuta la forza delle loro ragioni, ardì dichiararsi nemico del Peripato; al che avendo congiunto lo studio delle lingue ebraica e siriaca, ei cadde presso alcuni in sospetto di novatore, e per poco non si attribuì ad arte magica ciò che era frutto del raro suo ingegno e del suo instancabile studio.” Alcuni considerano i paesi di Cirò o di Cerenzia la sua patria. Si ritieneno deboli gli argomenti esposti da un ingegnoso filosofo di Cirò  il quale volle onorare la sua patria della sua nascita. Molti filosofi presero a difendere l'autorità del romano pontefice e a sostenere la chiesa romana contro i nimici della medesima. Uno solo, Astorini, ne accennerò per amore di brevità, con tanto maggior vigore si accinse a difenderla, quanto più avea per sua sventura potuto comprendere la debolezza dell'armi con cui essa era oppugnata. Vari luoghi della Calabria Citeriore han preteso all'onore di aver dato i natali a questo insigne filosofo, ma noi crediamo rimuovere ogni dubbio intorno al luogo di lui natìo, seguendo in questo punto l'opinione di Zavarrone, il quale afferma esser egli nato nella Città di Cirò, detta anticamente Cremissa, luogo non ignobile del Paese de' Bruzi, dove questa famiglia vive ancor oggi onorevolmente. «Molti scrittori di materie ecclesiastiche rilussero in questo secolo, e fra i più celebri si annoverano: primo, Astorini. Studia con il padre Diego, medico in loco, la grammatica, la retorica e la lingua greca. Si trasferì a Cosenza per completare gli studi e poi a Napoli per apprendere gli studi di filosofia, e di teologia a Roma, dove fu insignito dalla corte papale del compito di scrivere alcuni annali. In questo periodo pubblica “De vitali aeconomia foetus in utero”. Pubblicò alcuni saggi di matematica e geometria, come gli “Elementa Euclidis ad usum...nova methodo et compendiare olim demonstrate” e un “Decamerone pitagorico”. Dopo alcuni anni lascia l'Italia per raggiungere la Svizzera e la Germania, ma in quei territori, come la città di Groninga, riscontra una notevole influenza religiosa protestante e poiché il conversar co' i filosofi protestanti gli fece conoscere chiaramente che fuor dalla chiesa di Roma non v'e unità di fede, decise di tornare in patria -- Terranova, feudo del paese di Tarsia.  Note  Giacinto Gimma, Elogi Accademici Della Società Degli Spensierati Di Rossano, Troise, 1703. 7 dicembre.  Si tratta di Francesco Zavarrone (Montalto Uffugo, 1672Roma, 1740), religioso dell'ordine dei Minimi e teologo al servizio di illustri politici, come Augusto III re di Polonia e pontefici. Fu lettore del collegio urbano Propaganda Fide e consultore del Tribunale dell'Inquisizione.  Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Tomo VIII, Parte I, Libro III, par. V ("Notizie e opere delElia Astorini"), Firenze: Molini, Landi e C.o,  110-11, 1812 (Google libri) Pietro Napoli-Signorelli, Vicende della Coltura nelle Due Sicilie o sia storia ragionata, 1784  9781145973954 Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini (Domenico Martuscelli), Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, ornata de loro rispettivi ritratti, N. Gervasi, 1826  9781145650077 Niccola Falcone, Biblioteca storica topografica delle Calabrie (seconda edizione), 1846  9781104076337  Elia Astorini, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Elia Astorini, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofi italiani del XVII secoloMatematici italiani Professore1651 1702 5 gennaio 4 apriled Albidona Terranova da SibariCarmelitani. Altre opere: "De Vitali Oeconomia foetus in utero" (Groninch); "Elementa Euclidis ad usum novæ Academiæ Nobilium Senensum, nova methodo, & compendiariè demonstrata" (Stampat. in Sienna e di nuovo Neap., apud Felicem Mosca in 8); "Prodromus Apologeticus"; "De Potestate Sanctæ Sedis Apoftolicæ"; "De Vera Ecclesia Jesu Christi, contrà Lutheranos,& Calvinianos,  libri tres" (Neap. apud de Bonis, in 4); "Apollonij Pergæi Conica, integritati suæ, ordini, atque nitoripri stino restituta" (Neap. in 4); "De Recto Regimine Catholicæ Hierarchiæ"; "Ars Magna Pythagorica"; "Philosophia Symbolica"; "Archimedes restitutus"; "Decameron Pitagorico"; "Il consenso, e dissenso delle tre Gramatiche Ebraica, Arabica, e Siriaca; e'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno da se stesso in breve tempo"; "Commentaria ad Scientiam Galilæi de Triplici Motu". La movimentata vicenda biografica di Astorini aonda le radici in una formazione cosmopolita e interdisciplinare, iniziata in Calabria sotto la guida del padre e proseguita accanto allo zio Tommaso Cornelio, esponente del fronte de inovatores nella Napoli di metà secolo. Fu per lui naturale ripudiare la filosofia scolastica e aderire alle teorie dei moderni, da Galilei a Cartesio, Hobbes e Gassendi, teorie che diuse a Cosenza e tra i filosofi nobili in varie località del viceregno e che gli recarono grande notorietà. Al termine di un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Paesi Bassi durante il quale si fece apprezzare per le non comuni capacità didattiche,visse alcuni anni tra Firenze e Siena, dove frequenta i principali esponenti della cultura umanistica e scientifica toscana, da Magliabechi a Redi e Viviani. Ritornato nel viceregno per dedicarsi alla pubblicazione di numerose opere, si pone sotto la protezione di D. Carlo Francesco Spinelli Principe di Tarsia, ed anche d'Orsini, avvezzi amendue a favoreggiar letterati. Per l’ampiezza dei temi arontati, sua "Philosophia Symbolica puo giovarsi del ricco patrimonio librario custodito nella biblioteca di Spinelli. Il testo e diviso in dialoghi nei quali sono illustrati tutti gli antichi sistemi filosofici, colle dimostrazioni matematiche e colle osservazioni fatte in varie accademie, ed erudizioni prese da' filosofi latini." Sebbene varii luoghi della Calabria‘si contendano la patria dello Astorino, pure l’opinione più comune de’ suoi biografie, che egli sia nato a Cirò e fu nel battesimo nomato Tommaso Antonio. Fu gli padre un Diego Astorino professore di medicina reputatissimo in Albidona, ove da questi il figliuolo apprese la grammatica, la lingua greca e la rettorica. Studia quindi in Napoli e Roma la filosofia aristotelica, in che acquista tale riputazione, che gli venne permesso di scrivere a fronte delle sue conclusioni il motto: de/‘elndet ipse solus. Morto il genitore ripatrio per assestare i suoi dome stici affari, e iotè frai libri e fra le conversazioni dei suoi concittadini, dopo non lievi meditazioni, darsi tutto alle dottrine filosofiche del Telesio, ed alla libera maniera di ragionare. Era cosi istrutto nelle lingue greca, latina, ebraica, siriaca ed araba, che ne compose le relative grammatiche. E si disse,secondo l’andazzo de’tempi, e fu accusato lotto per magia; ma ei pote discolparsi dalla bassa calunnia, e percorrere per ben tre volte l’ltalia, ovunque acquistandosi e fama ed amicizia. Nominato a reggente di filosofia a Cosenza, fu da qui il propagatore della moderna filosofia per le calabrie; come lo fu altresi della città di Penne per gli Abruzzi. Invitato in Roma, vero o supposto che vi sfinfermasse, egli invece dimoro per qualche tempo in Albano. Ritenuto a Bari da alcuni nobili filosofi, che lo vollero a maestro, ebbe a cominciare in quella Chiesa di S. Nicolo il suo annuale di prediche; ma le convinzioni libere che egli spacciava, gli mossero fiera persecuzione. Sicclie passò in Zurigo, ed indi in Basilea, ove non dimore che un solo aniie. Pescia recessi nel Palatinato, donde si trasferì nell’Assia, dove fu costituito Maggiore ossia Vice Prefetto dell'Universita di Marburgo con la facoltà d’ insegnar filosofia, dacche non essendo dottorato non avrebbe potuto insegnarla. In stabile sempre si condusse dappoi in Groninga, e da quella Repubblica ebbe l'incarico di insegnar filosofia e quivi a spese del Senato fu dottorato, nel quale anno pubblico il suo saggio, "De vitali oeeonomia foetus in utero", in cui sostenne la opinione, non per ance in quell’era divulgate, della generazione dell'uome. Scorgendo intanto, che iteo legi della Chiesa riformata. fra le mille contese religiose si laceravano, penso ritornarsene fra’cattolici in ltalia; e d’Amburgo chieseil condono d’ogni apostasia; il che ottenuto dal S. Uffizio, recatosi presso il Vescovo di lilunster‘ fece solenne abiura, e si porto in Roma, onorevolmente accolto, ed inviato in Pisa come predicatore generale. Dopo un anno da Pisa si tradusse in Firenze, ove si acquista il favore del Granduca, e si concilio l’amistà fraternevele del Redi, del Viviani, del Marchetti e d’altri molti filosofi. In Siena, dove recessi come professore di filosofia, coopera efficacemente alla istituzione dei Fisio-Eritici, e ne fu eletto Principe e Censore perpetuo. Qui pubblica nel medesimo anno: Eiementft Euclidis nova methodo demostraiei. Ritornato in Roma fu inviato a Cosenza col grado di maestro in filosofia, e di prefetto degli studii. Ma riaccesigliodiisempre a cagien de’ suoi meriti, si ritira in Cervinara nel Principato Ulteriore; e da la spesso recandosi in Napoli ebbe a cenciliarsi la stima di Carlo Spinelli principe di Tarsia, il quale per Paifetto che portava all'Astorino (e per rimuoverlo dalla tristezza in che era caduto per la morte di Francesco Mainerio Astorino) lo indusse a recarsi in Terranova, deputandolo custode della sua scelta biblioteca. Fu questa l'ultima residenza, perocchè vi mori. Sono del pari sue opere stampate: Apollonii Pergei conica integritati suae ac nitori restituta" (Nap.); "De potestate S. Sedis apos-tolicae, Siena); "De‘nera Ecclesia Christi disciplina, libri tre Nap.). Fra i molti altri saggi che lascia si commendano: "Philosophia symbolica iuxta propria principia, in dialoghi"; "Ars magna Pythagorica," una specie di enciclopedia scientifico-universale; "Decamerone Pitagorico", in verso,  diviso in dieci giornate, e contenente tutta la filosofia naturale pitagorica in forma di satire in verso sciolto bernesco; "Commentario, ad scientiam Galilaei de tripliei motu"; "Archimedes restitutus"; "De reato reyimine Catholi caelticr archiae; "De vita Christi"; Apologiapro fitte catltolica, che divisava di dedicare a Filippo di Spagna. Parlano con somma lode di questo dotto filosofo il Cimma, il Zavarroni, l’Amato, l'Aceti, il Mazzucchelli, l’(lriglia, il liraboschi, il d’ Alllitto, il Signo relli, i Dizionarii storici, e per tacer‘ di tanti altri,. il Cantù. ASTORINI, Elia. - Nacque il 3 genn. 1651; è incerto se a Cirò, feudo degli Spinelli principi di Tarsia che lo protessero nelle ultime fortunose vicende della sua vita (Zavarroni), o ad Umbriatico oppure ad Albidona (Gimma), dove il padre Diego esercitò la professione di medico e dove sicuramente egli trascorse gli anni dell'adolescenza. Sedicenne, nel 1667, entrò fra i carmelitani dell'antica osservanza, mutando il nome di Tommaso Antonio in quello di Elia. Completò gli studi di filosofia aristotelica a Napoli nel convento dei Carmine Maggiore (dove appartenne all'Accademia degli Incauti) e a Roma quelli di teologia. La morte del padre lo richiamò in Calabria, nell'ambiente familiare.  Stando ai suoi biografi, in questi anni (1670-75) si colloca la sua prima crisi spirituale che investe il campo delle dottrine filosofiche acquisite: un radicale atteggiamento antiperipatetico lo avrebbe indotto a formarsi un sistema eclettico platonico-pitagorico e meccanicistico-materialistico, quest'ultimo ispirato dalla lettura delle opere di Galilei, Gassendi, Cartesio, Mersenne, Hobbes. Più prechaniente. possiamo dire, sulla base degli elementi desumibili da taluni suoi scritti, che egli riprese il pensiero dei suoi conterranei, del famoso "notomista" Marco Aurelio Severino, erede delle speculazioni campanelliane e delle teorie fisiognomiche del Della Porta; di Carlo Musitano, che aveva accolto le posizioni dei "moderni" come elaborate dalla napoletana Accademia degli Investiganti; e soprattutto di Tommaso Comelio, del quale l'A. amò più tardi dichiararsi nipote (cfr. Giornale de, Letterati del 1692..., p. 119).  La crisi non gli impedì tuttavia di raggiungere il sacerdozio nel 1675 e di divenire, nel 1680, reggente degli studi e lettore di filosofia e teologia nel convento dei suo Ordine a Cosenza. Ma i confratelli, nella congregazìone della provincia di Calabria, il 26 aprile dell'anno successivo, gli si ribellarono apertamente chiedendo al generale la sua sostituzione. Rivalità locali, come il contrasto tra l'A. e il provinciale P. T. Puglisi, adombrano l'inquietudine intellettuale del giovane religioso e le resistenze di metodi tradizionali di studio. Sospeso dall'insegnamento, penitenziato nel carcere della curia arcivescovile di Cosenza durante il 1682, l'A. è infine inviato a Roma per un giudìzio definitivo da parte deì superiori dell'Ordine. Dopo un breve ciclo di predicazìone si ritira ad Albano: non si sa se per punizione inflittagli o per motivi di salute. Ha comunque ìnizio adesso il momento più ambiguo e per taluni aspetti più oscuro della sua vita.  Nel 1683 passa a Bari, dove stringe amicizia con G. Tremigliozzi, seguace del gassendista Sebastiano Bartoli e del Cornelio e fondatore in quello stesso anno dell'Accademia dei Coraggiosi, bandìtrice delle nuove dottrine antigaleniche nel settore delle scienze mediche. Partecipò alle polemiche del Tremigliozzi in difesa del Musitano e compose un "epitafio" sulla "materia prima" per quella Nuova Staffetta del Parnaso circa gli affari della medicina...dirizzata all'illustrissima Accademia degli Spensierati di Rossano, Francoforte 1700, che ad opera del Tremigliozzi costituì una convinta difesa del metodo sperimentale degli Investiganti contro la metodologia cartesiana. A Bari conobbe il Gimna, che sarà il suo più diffuso biografo, al quale avrebbe mostrato vari suoi lavori manoscritti (tra essi un'Ars magna trigonometrica di cui si dirà più avanti). Predicò a S. Nicola e visse nel convento carmelitano barese dal quale poco tempo prima era fuggito, apostata in Svizzera, il priore Angelo Rocco. Se dietro esempio del Rocco o per raggiunta maturazione della sua crisi, è certo comunque che di lì a poco l'A., rotto ogni indugio, depose l'abito religioso e riparò anch'egli oltr'Alpe.  Da Zurigo raggiunge Basilea, dove nell'ottobre del 1684 presenzia a esperimenti. di medicina di J. J. Harder (Apiarium observationibus medicis... refertum,Basileae 1687, pp. 28, 47, 110) e dove rimane circa un anno seguendo anche i corsi di teologia di J. R. Wettstein (non si sa se il padre, morto nel 1684, o il figlio succedutogli nello stesso anno sulla cattedra). Sostò nel Palatinato presso il principe elettore Carlo fino alla morte di lui (26 maggio 1685), per trasferirsì poi, nel suo peregrinare da università ad università, a quella di Marburgo dove divìene viceprefetto con facoltà di insegnare filosofia pur non essendo addottorato (stando al Gimma, ma la notizia non trova conferma nel Catalogus professorum Academiae Marburgensis 1527-1910, a cura di F. Gundlach, Marburg 1927). A Marburgo prosegue con fervore gli intrapresi studi di medicina ascoltando le lezioni del rettore J. J. Waldschmiedt. Nel 1686, dopo un breve soggiorno a Brema, è a Groninga: insegna matematica nel collegio dei nobili cadetti francesi e si laurea in medicina, il 1° novembre, con la dissertazione De vitali oeconomia foetus in utero,Groningae 1686 (pubblicata sotto il nome di Tommaso Antonio), che pare sottendere nello studio del problema della fecondazione, oggetto allora di discussione tra "ovisti" e "animalculisti", le preoccupazioni speculative dell'autore, volte sulla scia del Severino e più del Bartoli alla ricerca del "principio" vitale e formativo dell'embrione.  Durante il soggiorno in Olanda, tra il 1686-88, si ha notizia vaga di una sua partecipazione alle polemiche religiose nell'ambito del calvinismo: la difesa che egli assume del cattolicesimo preannunzia un suo più meditato ritorno all'antica fede. Attaccato pubblicamente dai ministri calvinisti, si rifugia ad Amburgo. Qui una sua lettera al S. Uffizio, con la richiesta di poter ritornare in Italia, gli procura una benigna risposta da parte del cardinale Lorenzo Brancati di Lauria e un salvacondotto. Assolto dal vescovo di Münster il 13 dic. 1688, è a Roma il 13 marzo dell'anno successivo.  Riammesso nell'Ordine, predicò a Pìsa e, nel 1690, la quaresima a Firenze. Conobbe allora A. Marchetti, cui dovette unirlo l'interesse per la filosofia "corpuscolare" e che lo presentò al Magliabechi, il Redi, cui lo legò la comune curiosità per il problema della generazione, e il Viviani. là questo, tra il 1691-94, il periodo culturamente più felice dell'Astorii.  Nel 1691, per interessamento del principe Gian Gastone de, Medici, ottiene la cattedra di matematica nella Nuova Accademia dei nobili senesi: per l'insegnamento prepara un'edizione degli Elementa Euclidis ad usum Novae Academiae Nobilium Senensium nova methodo et succincta demonstrata..., Senis 1691,dedicata al principe protettore. Ma la prefazione è indirizzata al Redi, e in essa l'A. chiarisce il proprio metodo ("... etiam proportiones ipsas, quarum nimis longa est series, redigerem. ad acquationes, more Analystarum", p. X) ed esalta la matematica in funzione dello sviluppo delle scienze naturali, concludendo con un elogio della scuola scientifica toscana, dal Galilei al Redi al Torricelli al Viviani al Marchetti al Bellini al Malpighi. Il Redi lo ringraziò (v. lettera del 18 sett. 1691, edita in Gimma, p. 413), promettendo di intervenire nuovamente presso Gian Gastone: il che dovette procurare all'A. la cattedra straordinaria di filosofia naturale nell'università di Siena, che resse dal 5 nov. 1692 al 3 apr. 1694.  Intanto, nel 1691, l'A., con Pirro Maria Gabrielli e Teofilo Grifoni, è tra i fondatori dell'Accademia dei Fisiocritici e ne diviene "principe perpetuo" (v. lettera del Redi al Gabrielli del 6 ott. 1691, in Redi, Opere,VIII, p. 56).Dalle lettere che l'A. indirizzò m questo tomo di tempo al Maghabechi desumiamo molte preziose notizie circa i rapporti tra cultura filosofica e scientifica meridionale e tradizione sperimentale toscana, rinnovando l'A. quell'incontro che per la generazione -precedente era stato compiuto a Pisa dalla scuola iatromeccanica,di G. A. Borelli. Il rapporto ideale tra le due culture è anzi tanto stretto che l'A. teme per quella toscana, le ripercussioni della lotta scoppiata a Napoli contro la filosofia "moderna" (processo degli ateisti): "In Napoli vi sono di gran rumori: mi scrivono che sia stata origine la dottrina di Tomaso Comelio e che già la modernità va sossopra. Mi dispiace per diversi capi, benché io non dubiti esservi framischiate delle calunnie degli emoli aristotelici e galienisti, e molto più mi dispiace per essersi già qui in Siena eretta un'Accademia fisicomedica tutta moderna e per esserne io stato eletto principe perpetuo. L'abbiamo celebrata due volte con l'intervento di tutta la più dotta nobiltà, ma adesso ci siamo raffredati non sapendo dove vadano a terminare le faccende" (al Magliabechi, Siena, novembre 1691). Sotto la guida dell'A. l'Accademia poté tuttavia continuare con tranquillità le riunioni "colla metodo de' Progimnasmi [i Progymnasmata Physica] di Tomaso Comelio" (al Magliabechi, Siena, 15 nov. 1691).  L'A. sperò contemporaneamente di raggiungere una sistemazione migliore: ambì (1691) al titolo di maestro di teologia e sollecitò, tramite il Magliabechi, un intervento del Malpighi, per il momento senza successo (divenne maestro il 13 marzo 1693);compose, mettendo a frutto la sua diretta esperienza del mondo protestante, un Prodromus apologeticus de Potestate sanctae Sedis Apostolicae, Senis 1693,dedicato al cardinale Francesco Maria de' Medici (ristampato in J. T. Roccaberti, Bibliotheca maxima pontificia, XI, Romae 1698),introduzione a una progettata serie di dissertazioni controversistiche, che però non si distacca dalla consueta letteratura dei tempo; dedica tuttavia il meglio della propria attività ancora al settore scientifico, apprestando, tra l'altro, l'edizione delle Coniche di Apollonio, con la quale per suggerimento del Redi e del Viviani intese completare e sistemare l'edizione già apprestata dal Borelli con l'aiuto di Abramo Echellense (Firenze 1661), e stendendo uno scritto di meccanica (Commentaria ad scientiam Galilaei de triplici motu), rimasto inedito.  Ma ai primi del 1694 l'A. lascia quasi improvvisamente Siena per le non buone condizioni economiche, dati gli scarsi proventi che gli venivano dall'insegnamento, e per le sue precarie condizioni di salute. Il 29 maggio 1694 è a Roma; poi a Cosenza, quale prefetto degli studi e successivamente commissario generale nel suo convento di un tempo. Si riaccendono le persecuzioni a suo danno; le vicende sono ancora più oscure che per gli anni 1680-81, ma gli procurano la protezione del principe di Tarsia, F. Spinelli, presso il quale, a Terranova, dimorò nel 1697, e quella del cardinale Vincenzo Maria Orsini (poi Benedetto XIII), allora arcivescovo di Benevento. Il 12 genn. 1697 chiese il trasferimento dalla provincia di Calabria a quella di Terra di Lavoro nel convento di Cervinara e, in un secondo momento, in quello di Mongrassano. Nel giugno 1698 è però di nuovo prefetto degli studi a Cosenza; il 10 settembre priore del convento di Scala e come tale partecipa al capitolo provinciale del maggio 1699. Eletto priore di Mongrassano, non partecipa al capitolo dell'aprile 1701 per le peggiorate condizioni di salute e rinunzia anche alla carica.  Cura nel frattempo a Napoli la stampa dei De vera Ecclesia Iesu Christi contra Lutheranos et Calvinianos libri tres (1700), degli Apollonii Pergaei Conica (1698?, 1702?) e la ristampa degli Elementa Euclidis, Neapoli 1701.  Il nucleo ispiratore dei De vera Ecclesia... libri tres,abbozzati in parte a Siena e dedicati al principe di Tarsia, ha un reale interesse. L'A., come aveva accennato in una lettera al Magliabechi, appare preoccupato di confutare la tesi protestante circa i fondamenti aristotelici della dottrina cattolica e sostenere invece "la identificazione della nuova linea culturale incentrata sull'umanesimo e sul neoplatonismo con il cattolicesimo" (Badaloni). Sulla linea umanistica viene rivendicata anche la continuità del movimento scientifico del '600italiano. Ma tali motivi accennati nella prefazione sono sommersi, nell'opera, da un denso argomentare tradizionale, in cui tuttavia èmessa a frutto dall'A. la conoscenza dell'ebraico e delle lingue orientali.  Nel chiuso ambiente conventuale, dopo l'esperienza in terra tedesca e in Toscana (durante la quale però sembra che l'A. sia stato spinto più dall'esigenza di contatti e di fresche osmosi scientifiche che non da un meditato approfondimento culturale), accanto a un crescente disagio che lo rende insofferente della disciplina dell'Ordine e lo induce a frequenti viaggi a Napoli per sorvegliare la stampa delle sue opere, riaffiorano nell'A. le preoccupazioni proprie di una formazione e di una tradizione meno aperta e duttile: il pesante enciclopedismo e il gusto mnemotecnico della giovinezza prendono nuovamente il sopravvento sull'inteligenza sperimentale della natura, e l'A. dedica gli ultimi anni della sua vita a studi linguistici, condotti con criteri analogico-combinatori, Il consenso e dissenso delle tre Grammatiche ebraica, arabica e siriaca, e 'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno da se stesso in breve tempo (inedito), e ad elaborare o completare una Philosophia symbolica,sorta di enciclopedia pitagorica di cui probabilmente facevano parte opere che dai biografi ci sono indicate con titoli particolari: un'Ars magna pythagorica, un Decamerone pitagorico (esposizione in rime bernesche della filosofia naturale), una Logica pythagorica seu de natura et essentia rerum (lo stesso che l'Ars magna?).  Degli inediti è conosciuta soltanto l'Ars magna in duas divisa Dissertationes Altera De origine rerum altera De ortu et progressu Scientiarum (ms. 336;copia sec. XVIII, pp. 31 con 4 tavv., della Biblioteca Alessandrina di Roma). La copia fu effettuata dall'erudito calabrese Zavarroni per la Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici diretta da Angelo Calogerà (cfr. acclusa allo stesso ms. una lettera dello Zavarroni al Calogerà del 21 luglio 1739).Probabilmente il carattere in apparenza bizzarro dello scritto dovette dissuadere gli editori dal darlo alle stampe. Esso, almeno nella copia dello Zavarroni, pare l'introduzione a una serie di Dissertationes e non va tout court identificato con l'Ars magna di cui fa menzione il Gimma. Se il De origine rerum,cioè la prima parte del manoscritto, può in qualche modo connettersi ai primi studi dell'A., a escludere che il De ortu et progressu Scientiarum sia uno scritto giovanile contribuiscono il cenno all'edizione postuma dei Progymnasmata del Comelio (1688),il ricordo del Redi e del Viviani, la notizia degli studi compiuti dall'A. sulla scienza galileiana del triplice moto, la notevole conoscenza che l'A. dimostra degli studi di anatonúa, elementi tutti che presuppongono appunto la sua esperienza culturale in Germania e in Toscana.  La prima parte dell'opera, che vuole essere una guida "ad metam naturalis sapientiae", contiene una critica agli schemi mnemotecnici del Lullo e del Kircher e si svolge nell'elencazione di triadi platonico-pitagoriche, alla cui base v'è il presupposto gnoseologico della possibilità di conseguire verità assolute attraverso l'ordine naturale delle idee (poiché nella natura creata v'è una "triplex virtus", "intellectiva, volitiva et effectrix", ad essa corrisponde una "triplex operatio", "interectio, volitio et impetus"' ecc.). Tale schema conduce ovviamente alla critica decisa della definitio logica aristotelico-scolastica che non attingerebbe alla "quidditas rei" come la definitio methaphysica,vagheggiata dall'autore.  La seconda parte è in sostanza una ripartizione delle scienze ancora su base platonico-pitagorica. Da "Sophia" è esclusa la logica, di cui sì ribadisce il carattere meramente discorsivo; ma a "Sophia" appartengono la metafisica (notevoli i cenni platonizzanti circa il rapporto microcosmo-macrocosmo); la fisica, per la quale l'A. si dilunga nella critica all'aristotelismo e al cartesianesimo e nell'esaltazione della filosofia atomistico-gassendiana e dello sperimentalismo galileiano, pur richiamandosi insieme nettamente alla tradizione filosofica meridionale da Bernardino Telesio a Tommaso Cornelio; la politica, per la quale egli esalta l'insegnamento di Platone; l'etica, per cui continuo è il richiamo al pensiero di Hobbes, ecc.  A questo impasto di vecchio e di nuovo, che contrappunta un momento della cultura meridionale e riflette il travaglio di un pensiero l'A. dedicò dunque lo scorcio estremo dei suoi anni, divisi tra la meditazione filosofica e la occupazione di biblìotecario presso il principe Spinelli, a Terranova di Sibari, dove morì il 4 apr. 1702.   Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Naz. Centrale, Magl. CI. VIII,171, Elia Astorini lettere ad Ant.Magliabechi da 25 sett. 1691 a 29 maggio 1694...; Giornale de' Letterati del 1692 e primo di Modena, pp. 118-119; Giornale...dell'anno 1693, pp. 244-246; F. Redi, Opere,VIII,Milano 1811, p. 56; G. Gimma, Elogi accademici della società degli Spensierati di Rossano,I,Napoli 1703, pp. 387-413; A. Zavarroni, Bibliotheca calabra, Neapoli 1753, pp. 172-174; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia,I,2, Brescia 1753, pp. 1194-1196 (riprende dal Gimma); N. Di Cagno-Politi, E. A. filosofo e matematico del sec. XVII,Appunti, 2 ediz., Roma 1890; G. Maugain, Etude sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ,Paris 1909, pp. 133 s.; A. Grammatico, E. A., O. Carm., insignis disceptator saec. XVII, in Analecta Ord.Carm.,VI(1927-29), pp. 493-515; N. Badaloni Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, p. 225. Elia Astorino. Elia Astorini. Tommaso Antonio Astorini. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Astorini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691259951/in/photolist-2mKMdFR

 

Grice ed Azeglio – non si danno doveri reciprochi senza società – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Azieglo; first he was a marchese, unlike me – second he looked for the fundamental law (or ‘fundamental question,’ as I call it) for the principle of cooperativeness – he finds it’s a natural thing, not a Rousseaunian contractualist thing – so he is a Griceian at heart – on top, he relies on Bentham, to minimise the Kantian rationalism and make it digestibale to those who care about what Azieglo calls ‘amore proprio’ – i. e. conversational self-love as still operating under a wider principle of conversational benevolence.” Coniò il termine giustizia sociale, successivamente ripreso e sviluppato da Antonio Rosmini (1848) nel saggio La Costituzione secondo la giustizia sociale e da John Stuart Mill nel saggio Utilitarianism.  Taparelli d'Azeglio è stato anche uno dei primi teorici del principio di sussidiarietà. Era il quarto degli otto figli di Cesare, conte di Lagnasco e marchese di Montanera, diplomatico della corte di Vittorio Emanuele I, e della contessa Cristina Morozzo di Bianzè. Alla nascita gli fu imposto il nome di Prospero che, divenuto gesuita, cambiò in Luigi. I fratelli Massimo e Roberto furono politici e senatori del Regno.  Maturò la propria vocazione religiosa a seguito di un corso di esercizi spirituali dettati dal venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore della congregazione degli Oblati di Maria Vergine. Studiò nel Collegio Tolomei di Siena e poi nell'Ateneo di Torino fino al 1809. Entrato nel seminario di Torino, quando il padre fu inviato come diplomatico alla corte di Pio VII si trasferì con lui a Roma e fu ammesso nel noviziato dei gesuiti di Sant'Andrea al Quirinale.  Fu ordinato sacerdote nel 1820. Iniziò a studiare negli anni 1824-29 la filosofia di San Tommaso d'Aquino, studio che continuò a Napoli negli anni 1829-32. Nel 1833 fu destinato al Collegio Massimo di Palermo dove insegnò lingua francese per poi assumere la cattedra di diritto naturale.  Nel 1840-1843 pubblicò con i tipi della Stamperia d'Antonio Muratori di Palermo il suo testo più importante, il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, considerato a quel tempo una vera enciclopedia di morale, diritto e scienza politica.  Nel 1850 ricevette da papa Pio IX il permesso di cofondare con il padre Carlo Maria Curci La Civiltà Cattolica, rivista della Compagnia di Gesù, ove scrisse per venti anni per poi assumerne la direzione nell'ultimo periodo della vita. I suoi oltre duecento articoli pubblicati sulla rivista furono tutti caratterizzati da un contenuto tale da meritargli il titolo di «martello delle concezioni liberali»(Antonio Messineo).  Morì a Roma il 21 settembre 1862.  Pensiero Era preoccupato soprattutto dai problemi che nascevano dalla rivoluzione industriale. Il suo insegnamento sociale influenzò papa Leone XIII nella stesura dell'enciclica Rerum novarum sulla condizione dei lavoratori.  Proponeva di riprendere gli insegnamenti della scuola filosofica tomista. A partire dal 1825 portò avanti questa convinzione, ritenendo che la filosofia soggettiva di Cartesio portasse a errori drammatici nella moralità e nella politica. Argomentava che mentre la differenza di opinioni sulle scienze naturali non ha nessun effetto sulla natura, al contrario idee metafisicamente poco chiare sull'umanità possono portare al caos nella società.  A quel tempo la Chiesa cattolica non aveva una visione sistematica chiara sui grandi cambiamenti sociali apparsi all'inizio del secolo XIX in Europa, la qual cosa portava molta confusione tra la gerarchia ecclesiastica e il laicato. In risposta a tale problema, Taparelli applicò, in maniera coerente, i metodi del tomismo alle scienze sociali. Dalle pagine de La Civiltà Cattolica attaccò la tendenza a separare la legge positiva dalla morale e lo "spirito eterodosso" della libertà di coscienza che, a suo avviso, distruggeva l'unità della società.  Termini chiave della sua opera sono socialità e sussidiarietà. Vedeva la società non come un gruppo monolitico di individui, ma come un insieme di varie sub-società disposte in diversi livelli, ciascuna formata da individui. Ogni livello di società ha sia diritti che doveri, ognuno dei quali deve essere riconosciuto e valorizzato. Ogni livello di società deve cooperare razionalmente e non fomentare competizione e conflitti.  Dopo l'istituzione della Società delle Nazioni, Taparelli d'Azeglio ne vanne considerato un precursore. Sua fu l'idea di un'autorità universaleda lui chiamata "etnarchia"con il ruolo di tribunale e di arbitrio, che potesse proteggere ogni nazione dalle minacce esterne. Taparelli d'Azeglio continuò a fungere da autorevole guida al pensiero cattolico in materia di pace e guerra ancora nel Novecento. Altre opere: “Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto” (Palermo); “Nazione e nazionalità” (Genova, Ponthenier); “La Legge fondamentale d'organizzazione nella società” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “La libertà tirannia” “Saggi sul liberalesimo risorgimentale” (Piacenza, Edizioni di Restaurazione Spirituale); “La Civiltà Cattolica). Diritto soggettivo, proprietà e autorità in Luigi Taparelli d'Azeglio, di Alessanfro Biasini, sito della Università Ca Foscari Venezia. Scuola Dottorale d'Ateneo.  The Origins of Social Justice: Taparelli d’Azeglio, su home.isi.org.  Education and Social Justice, J. Zajda, S. Majhanovich, V. Rust, E. Martín Sabina, Springer Science & Business Media, 20061  Vittoria Armando, Il Welfare oltre lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale in Italia, tra istituzioni e democrazia Seconda edizione, G. Giappichelli Editore, Georges Minois, La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all'èra atomica, Bari, Dedalo, 2003493.  L. Pereña, La autoridad internacional en Taparelli, Libreria editrice dell'Università Gregoriana, 1964,  405-432. Studi Pierre Thibault, Savoir et pouvoir. Philosophie thomiste et politique cléricale au XIXe siècle, Québec, Maria Rosa Di Simone, Stato e ordini rappresentativi nel pensiero di Luigi Taparelli d'Azeglio, «Rassegna storica del Risorgimento», Giovanni Miccoli, Chiesa e società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato, Francesco Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull'idea di nazione, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano, Francesco Traniello, Religione, Nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Emma Abbate, Luigi Taparelli D'Azeglio e l’istruzione nei collegi gesuitici del XIX secolo, «Archivio storico per le province napoletane», Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, 5 voll., Palermo, Stamperia d'Antonio Muratori, 1840-1843. S. T., Per il centenario della nascita delLuigi Taparelli D'azeglio, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, Luigi Di Rosa, Luigi Taparelli. L'altro d'Azeglio, Milano, Cisalpino, Gabriele De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del '48, con documenti sulla condotta della Compagnia di Gesù e scritti inediti di Luigi Taparelli d'Azeglio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963. A. Perego, La «Miscellanea Taparelli», in Divus Thomas,  Gianfranco Legitimo, Sociologi cattolici italiani. De MaistreTaparelliToniolo, Roma, Volpe, 1963,  30–51. Antonino Messineo S.J., IlLuigi Taparelli d'Azeglio e il Risorgimento italiano, in La Civiltà Cattolica, Carlo Maria Curci Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum novarum  Luigi Taparelli d'Azeglio, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Angiolo Gambaro, Luigi Taparelli d'Azeglio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Luigi Taparelli d'Azeglio, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Luigi Taparelli d'Azeglio,.  Francesco Pappalardo, Luigi Taparelli d'Azeglio, in Giovanni Cantoni, Dizionario del pensiero forte, Piacenza, Cristianità, 1997. Giovanni Vian, Luigi Taparelli d'Azeglio, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Storia e Politica, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.Aloysius Taparelli, in Catholic Encyclopedia, Compagnia di Gesù Filosofia Sociologia  Sociologia Categorie: Gesuiti italianiFilosofi italiani del XIX secoloSociologi italiani Torino Roma. Non si danno doveri reciprochi senza società. Egli è costume di chi spiega diritto naturalo -- il ius naturale -- il considerare certe classi di doveri dell'un uomo verso l'altro anteriori ad ogni idea di società. E un tal modo di speculare è coerente con tutto il resto della dottrina allorchè la società si riguarda come una pura convenzione umana. Ma siccome il fatto di questa convenzione, per confessione di parecchi fra i suoi difensori, non è se non una finzione di diritto, fictio juris, ed io non amo fondar sopra una finzione quanto vi ha di più sacro ed importante nel commercio fra gli uomini, mi vidi astretto a cercare nel *fatto reale* (italici d'Azeglio) altro miglior appoggio. E sì mi parve averlo trovato con nulla più che analizzare la idea che ognuno si forma allorché pronunzia il vocabolo *Società*, o paragonar questa idea collo stato *naturale* in cui ogni uomo trovasi sulla terra. Ecco per qual motivo non credei poter trattare dei *doveri reciprochi* fra gli uomini se prima non li considerava formanti una qualche società. E in verità, come potrebbero esservi *doveri* reciprochi senza relazioni reciproche? Come relazioni senza qualche congiunzione? Come congiuzione senza qualche legge? Come legge senza legislatore e senza autorità? Data poi la congiunzione di molti esseri intelligenti sotto una autorità comune che altro ci manca per costituire una società? Parventi dunque ripugnante la voce di *relazioni extrasociali*, usata dal ch. C. di Haller -- di cui per altro ammiro in molti punti la dottrina --, nù seppi come introdurmi a considerare i doveri reciprochi se prima non no stabiliva *sul fatto* le fondamenta con una attenta osservazione dell’essere sociale. La legge fondamentale del *civico* operar sociale potrebbe dunque ridursi a questa — la socielà (e per essa la autorità) dee far sì che ciascuno *cooperi* a *difendere* e crescere il bene altrui senza sua perdita, anzi con vantaggio proporzionato alla sua cooperazione. Della società in generale. Società suol dirsi una concorde comunicazione di bene fra esseri intelligenti. Società di questi esseri *in istato di tendenza* sarà dunque la *tendenza concorde a fine comune*. E siccome la tendenza intelligente fra uomini dee produrre azione esterna, cosi la società umana potrà definirsi *cooperazione concorde di uomini ad un bene comune*. Prop. I.: Gli uomini tutti hanno nella lor *natura* un elemento di società universale. Prova: Gli uomini tutti sono obbligati a secondare l’ intento del Crea- tore. Or il Creatore vuole da essi *cooperazione concorde a ben comune*. Dunque ec. La minore si prova. Uno è per natura il bene da tutti conosciuto, ed a cui tendono tutti, giacche una è la loro *natura* ossia impulso primitivo. Questo impulso manifesta l'ntento del Creatore. Dunque ec. Diremo questo elemento *dovere di socialità*. Coroll. 1.: Ogni dovere sociale deriva da questo principio *fa il bene altrui*. Giacché la causa che mi obbliga a far ad altri *un* qualche bene è che debbo far loro il bene. Coroll. 2.: Questo è il primo principio *sociale* applicazione del primo principio morale. Coroll. 3: Il precipuo bene di ogni società è la *onestà*, giacché a questa tende precipuamente la *natura umana*. Coroll. 4.: Poiché *ottener il bene* è negli *enti ragionevoli* un *divenir felice*, il fine di universal società è rendere gli *associati* *onestamente felici*. E poiché la felicità dell’uomo consiste *secondo natura* nei beni di *mente* e di *corpo*, *assicurarci* e *crescerci* queste due specie di beni è il fine naturale della società universale. Una società determinata può o abbracciare tutto il fine naturale con mezzo particolare cioè col convivere stabilmente, o abbracciarlo parzialmente. Il *fine* particolare della prima sarà il *convivere* onestamente felice. Della seconda il conseguire quel particolare oggetto per cui ella si associa. Diremo società *completa* quella che abbraccia tutto l'obbietto naturale della umana società, cioè il bene di mente, quello di corpo, o la difesa di entrambi. Incompleta quella che ne abbraccia sol qualche parte. Coroll. 5.: La società è *mezzo*, non fine dell’ individuo. Luigi Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Luigi Prospero Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Prospero Tapperelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. D’Azeglio. Azeglio. Keywords: non si danno doveri reciprochi senza società, ius naturale, “non si danno doveri reciprochi senza società”, cooperazione, cooperare, fa il bene altrui – onesta, fine, principio della socialita, applicazione del principio della moralita, natura umana, fatto, socieeta totale, societa parziale, definizione di societa in termine di cooperazione, ‘de more geometrico’ – tendenzia impulso naturale all’onesta – societa – azione esterna, esseri ragionabile, esseri intelligente, convivir stabilmente, felice, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Azeglio” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789362417/in/dateposted-public/

 

Grice e Bacchin – anypotheton haploustaton; overo, i fondamenti della filosofia del linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Belluno). Filosofo. Grice: “I like Bacchin; as an Italian he is allows to speak pompously as we at Oxford cannot! But he is basically saying the commonplace that ‘intersoggetivita’ has a ‘dialectical dimension’ (interoggetivita come dimensione dialettica) in the sense that the ego (or ‘l’io’) presupposes the ‘altro’ (as he puts it: ‘a cui’) – therefore; it is a presupposition of the schema, as Collingwood would have it, alla Cook Wilson – and thus only transcendentally justified. Bacchin has noted that the operator ~ is basic in that ‘inter-rogo’ invites a ‘risposta’ whose ‘motivation’ may be ‘implicita’ – the ad-firmatum is motivated by the domanda – which can be another dimanda: why do you think so? “Why do you ask why I think so?” --  Bacchin is alla Heidegger and other phenomenologists, with the ‘essere’ versus appare on which my impicata in ‘Causal Theory of Perception’ depend (‘if A seems B, A is not B. Note that there is no way to express this implicata without a ~. It might be argued that it can express with some of the strokes or with some expression that would flout ‘be brief, rather than the simplest” – and which would involve, as Parmenide has it, the idea of, precisely –altro’ (other than). Note that Bacchin equivocates on the ‘altro’ – in the dialectical dimension of intersubjectivity he obviously means ‘tu,’ not ‘altro.’ In the negation or contradiction (in dialectical terms) of an affirmation – which is involved in every ‘dialogue’ that Bacchin calls ‘socratico’ or euristico rather than sofistico (based on equivocation) – the ‘altro’ is the other, A is not B, impying A is other than B (cf. my ‘Negation and Privation’). This does not need have us multiply the sense of ‘ne,’ in old Roman!” -- Giovanni Romano Bacchin (Belluno), filosofo. Dopo aver conseguito la laurea nel 1961, nel 1965 ottenne la libera docenza in filosofia della storia. Dal 1966 al 1980 insegnò filosofia della storia e filosofia della scienza presso l'Perugia. Occupò anche la cattedra di filosofia della scienza presso l'Lecce. Fu docente presso la facoltà di lettere e filosofia dell'Padova, tenendo la cattedra di filosofia teoretica.  Fu membro della "Società Filosofica Italiana". Morì il 10 gennaio 1995, sulla spiaggia di Rimini.  Pensiero Cresciuto filosoficamente nella scuola metafisica padovana di Marino Gentile, intorno agli anni sessanta, Bacchin presto sviluppò una propria originalità di approccio e di ricerca filosofica, che lo rendono difficilmente assimilabile ad una qualche corrente o "famiglia" filosofica se non quella della libera e inesausta teoresi.  A testimonianza della specificità del suo approccio metafisico si può citare questa sua affermazione.  «V'è un senso metafisico che può andare perduto. Né basta parlare di metafisica e considerarsi metafisici per possederlo. La perdita del senso metafisico è anche trionfo del condizionale e quindi dell'ipocrisia: "direi", "avanzerei la proposta", "mi si passi l'espressione", "vorrei che il lettore ricavasse l'impressione..'", "anche se siamo, il lettore ed io,certo ioimmensamente piccoli", "a mio sommesso avviso" e così via in un continuo spostare l'attenzione su di sé e in un continuo, inutile, domandare scusa al lettore della propriascontatapochezza, rivelando che non è poi così scontata da non parlarne. Nudo e indifeso alla presenza della verità, il metafisico non lo può essere di meno di fronte agli uomini, i qualidi certo- non sono la verità. »  Riferimento costante dell'incessante dialogo filosofico di Bacchin fu senz'altro l'attualismo gentiliano.  Altre opere: “Su le implicazioni teoretiche della struttura formale” (Roma, Jandi Sapi); “Originarietà e mediazione del discorso metafisico” (Roma, Jandi Sapi); Sull'autentico nel filosofare” (Roma, Jandi Sapi); “L'originario come implesso esperienza-discorso” (Roma, Jandi Sapi); “Il concetto di meditazione e la teoremi del fondamento” (Roma, Jandi Sapi); “I fondamenti della filosofia del linguaggio” (Assisi); “L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica); “Anypotheton” Saggio di filosofia teoretica” (Roma, Bulzoni); “Teoresi metafisica” (Padova, Nuova Vita); “Haploustaton” (Firenze, Arnaud); “La struttura teorematica del problema metafisico”;  “Classicità e originarietà della metafisica, scritti scelti” (Milano, Franco Angeli); “La metafisica agevola o impedisce l'unità culturale europea?”in ‘Il contributo della cultura all'unità europea', Danilo Castellano, Edizioni scientifiche italiane, Napoli); “L'attualismo nel pensiero di Marino Gentile, in Annali, Roma, Fondazione Ugo Spirito 1992. Note  Informazioni biografiche reperibili anche in G.R. Bacchin, Haploustaton, Arnaud, Firenze 1995  Giovanni Romano Bacchin in Teoresi metafisica, 1984  Berti, Enrico Ricordo di Giovanni Romano Bacchin, "Bollettino della Società Filosofica Italiana", n. s. 154, gennaio-aprile 1995,  126-128 Scilironi, Carlo Tra opposte ragioni: nota in ricordo di Giovanni Romano Bacchin a dieci anni dalla morte. in Studia patavina: Rivista di scienze religiose. Filosofia Filosofo Professore1929 1995 27 dicembre 10 gennaio Belluno Rimini. Metafisica del principio. Si comincia dopo avere cominciato. L’innegabile è innegabilmente. Negare è escludere un’inclusione indebita. Non v’è limite del sapere. Il luogo del filosofare è la domanda del luogo per filosofare. Ciò che v’è di originario nell’esperienza. La filosofia non ha oggetto e nessun oggetto si sottrae alla filosofia. La riappropriazione metafisica. L’esperienza praticabile è conversione fattuale in fatto. Funzione della parantesi nell’asserzione e l’aporia del dogmatico. L’autorità del dogmatico si presenta come critica di ogni autorità. L’ideale dell’autorità è di essere indiscutibile. Autorità e intelletto si fronteggiano. Ciò che l’intelletto impone all’autorità è di essere ciò che pretende di essere. Il luogo della domanda è l’insufficienza di ciò che si presenta a ciò che, presentan- dosi, non è interamente. L’identità tra inevitabile e necessario è solo co- struita. Il senso in cui non si può domandare tutto. Ciò da cui dipendono le valutazioni del domandare. Il senso in cui non si può non domandare tutto. Domandare tutto è negare di poter asserire. Paradigma del dottrinario in filosofia. Una richiesta che preceda la domanda di verità non può essere vera. Il prefilosofico oltrepassa il sapere di non sapere credendo di superarlo. L’impossibilità di oltrepassare quel ‘limite’ che è la stessa impossibilità di oltrepassarlo. La costante esistenziale dell’esperienza e gli equivoci della sua valorazione. La domanda universale investe il linguaggio come luogo della possibilità dell’errore. Digressione. La base del filologismo in filosofia. Dell’ingenuità storiografica in filosofia. Le due direzioni dell’ingenuità storiografica. L’equivoco storico in filosofia. Equivoco di coscienza storica e conoscenza storica. Le storie della filosofia rendono la filosofia accessibile al senso comune prefilosofico. L’ideale sistematico del prefilosofico si prolunga nella storiografia. Filosofare nonostante la storia della filosofia. Inattualità teoretica dello storicismo. La nozione dogmatica di storia. Il carattere fideistico della tradizione e il circolo del riconoscimento. Due figure dell’accoglimento della tradizione: integralismo e progressismo. La ragione formale come unica ragione delle due figure. L’ideale immanente del credere è coincidere con il vivere. La ragione. Indice. Indice formale presiede nel suo uso ciò che la determina nei suoi contenuti. Se ogni fede è cosmica, ogni cosmo è creduto. La valenza sperimentale è già nella protomatematica, come si esemplifica in Galilei. Il carattere ipotetico di ogni riferimento assertorio all’esperienza. Il rischio erme- neutico è considerare effettivo ciò che è interpretazione, come si esemplifica in Galilei. Il senso in cui la scienza è alienazione. Ingenuità del ten- tativo di fondare scienza e filosofia sull’esperienza immediata. Il campo in cui si discute è ciò che intanto permane indiscusso. Credere di conoscere è non sapere di credere. Il rapporto tra intendere e pretendere è struttura del conoscere. Il rapporto strutturale di compreso e comprendente tra universi. Il rapporto di compreso e comprendente è struttura del contenuto di osservazione. Costanti del progetto d’esperienza e il vettore di interesse. Il progetto fondamentale e Kant. Il progetto di filosofare è il modo filosofico di progettare: miraggio del ritorno all’immediato, Controllabilità e statuto dell’individuale. Ambiguità del sapersi orientare nel mondo. L’intenzione conoscitiva del fenomeno individuale. Progetto del conoscere come adeguazione progressiva. Il co- noscere rappresentato come rappresentazione. Il presupporre è limite presupposto all’operare. La scienza ignora di essere una fede. La scienza non può sapere ciò che essa implica, dovendo postulare ciò di cui abbisogna. La considerazione pensante. La conoscenza scientifica ipotizza la realtà che le consente di ipotizzare. Tentativo della distinzione tra ‘visione naturale’ e ‘visione scientifica’ del mondo. Esame della struttura del ‘punto di vista’ nella configurazione dei sistemi di riferimento. Dopo l’intermezzo ludico, che cosa si intende per ‘considerazione logica’. La logica formale è il modo formale di considerare la logica. Il formalismo della logica è il nihilismo della verità. La conciliazione tra storia mondana e filosofare non può avvenire nella storia mondana. Ciò che si presenta con la divisione pone la richiesta della connessione. Il pensiero si affida al linguaggio per essere riconosciuto come indipendente dal linguaggio. Si esemplifica con l’espressione hegeliana “movimento dell’essenza”. Si insiste con l’esemplificazione hegeliana. Ancora esemplificazione hegeliana: la “cosa stessa” non può venire utilizzata. Il senso della cura–custodia. Il senso in cui il pensare penetra. Il pragmatico è fittiziamente teoretico. La verità mette in questione ogni discorso intorno alla verità. Il nesso tra tecnica logica e configurazione funzionale del concetto. La conoscenza scientifica considera astratto ciò che essa non può considerare. Rischio dell’equivoco tra mera domanda e domanda pura. L’imporsi della verità è l’asse delle pseudofilosofie. Volontà di coerenza e volontà di dominio. Coerenza è fedeltà alla logica di un sistema. Sistema ed esistenza. Esistenza e chiarificazione. Esistenza e coscienza. Coscienza e punto di vista. Il punto di vista fondamentale non è un punto di vista. La nozione comune di esistenza e l’istituzione. Ciò che esiste non è assoluto. Differenza tra teoresi e teoria e l’impossibilità di scegliere la teoresi. La teoresi, che non è teoria, appare in una qualche teoria. Poiché l’intero non può essere oggetto, nessun og- getto è intero. La scienza che escluda la filosofia diventa “filosofia della  natura”. Il mondo della vita impone l’astrazione. La filosofia non vincola a se stessa le scienze. Ricorso alla formula. La “formula” e l’aporia del metodo ideale. Il metodo di filosofare è filosofare, ossia domandare. Inevitabilità dell’astratto. Necessità e cogenza. Il carattere divino della matematica è l’essenza matematica di Dio anche se Galilei non lo vuole. L’ordine astratto si esemplifica in Wolff, ma esso è la logica interna della formulazione del principio di non contraddizione. La “proposizione” è la figura minima del sistema, la forma del quale è l’equazione. L’ideale del conoscere esclude dal conoscere l’operare. Le condizioni del conoscere sono riconosciute nella loro indipendenza dal conoscere, nel conoscere di cui sono condizioni. La relazione, che è esperienza, non può essere relazione dell’esperienza con altro da essa. La conoscenza dell’incono- scibilità dello in sé è conoscenza in sé. L’astratto è inevitabile, ma non necessario. Per dire con che cosa si comincia, si comincia con la domanda intorno a come si comincia. Affermare la totalità è dimostrare che es- sa non può venire negata e, dunque, non abbisogna di venire affermata. La condizione apriori è trovata analiticamente, perché è contraddittorio che, nel no- stro conoscere, tutto derivi dall’esperienza. L’uso è unicamente empirico ed è riconosciuto trascendentalmente. L’analisi è la presenza operante del “principio di non contraddizione”. La struttura sintetica del giudizio è l’infinitezza dell’analisi. Il giudizio è domanda infinita di venire fondato. Tra esperienza e giudizio non sussiste rapporto, perché l’esperienza non può essere un giudicato. La prima forma di mediazione è l’immediatezza fenomenologica, o medialità. Il contessere infinito del dato non è dato. Ogni ordinamento di oggetti è teorico. L’oggetto è pluralità di oggetti. Se è astratto l’oggetto, è astratto il suo contesto. L’intuizione astrae dal contessere infinito. Ciò che è dato per primo è risultato di un processo astrattivo: l’intuizione non è originaria. Differenza tra teorica dei giudizi e teoresi del giudizio. Impostazione. L’interpretazione empirica dell’oggetto “come tale” quale “oggetto in generale”: trascrizione generalizzata degli oggetti. La sintesi precede ogni analisi e la condiziona. Il conoscere presenta un duplice livello: quello del suo fungere che costituisce l’oggetto, quello della consapevolezza di tale fungere. Il conoscere muove dalla fiducia nello essere in sé del conosciuto, con base esclusiva- mente pratica. Può venire formulata anche la contraddizione, dunque la forma proposizionale non è struttura del giudicare. L’analisi come pre- senza dell’incontraddittorietà formulata come “principio di non contraddizione”. Un giudizio media la posizione di altro giudizio: medialità posizionale o fe- nomenologica. Di volta in volta un giudizio può valere come analitico o come sintetico. Si intende di sapere con necessità. Se v’è un modo empirico di conoscere, v’è un modo non empirico di riconoscerlo. Kant conosce analiticamente che la conoscenza umana è sintetica. Nessun giudizio matematico è conoscitivo. La ragione dell’aritmetica è un fatto, perché le risulta possibile ciò che le risulta fattibile. Le categorie. Indice. Indice trovate dall’analitica sono usate dalla stessa analitica. L’esperienza è condizione del darsi delle sue condizioni. “Cosa” ha significato operativo. Il tempo è essenzialmente prassi. Spazio e tempo provengono dalla sintesi dell’intelletto, ma operano nella sensibilità. L’oggettivazione dell’esperienza è matematizzazione, di cui il trascendente è negazione. Il trascendentale è, ma non appare. La sintesi è negazione di se stessa come negarsi reciproco dei suoi termini. Tempo e durata. La presenza fungente dell’apriori è analiticamente reperibile nel dato e non lo eccede. La differenza tra conoscere e sapere è conosciuta e saputa. Conoscere non è sapere e l’oggetto è matematico perché è oggetto. Esemplificazione con Kant di ambiguità fra matematica e conoscenza. Il conoscere della matematica, essendo matematico come conoscere, non è conoscere. La volontà di potenza è l’impotenza dell’io nei confronti delle sue rappresentazioni. L’io si riferisce a se stesso come dato all’io. Non vi può essere una ragione pura. Teoresi e finitezza della ragione. Il senso teoretico dell’inconoscibilità dello “in sé” è quello dell’inoggettivabilità del vero. La ragione è strumentale per se stessa. Il carattere filosofico della pricerca.   Il carattere dialettico, o negatorio della filosofia.  La dialettica dell identico livello.  La dia-letticità della filosofia e il momento analitico della filosofia del linguaggio.  I limiti di validità dell analisi nella filosofia del linguaggio.  Limiti di validità e valore.  Come è possibile una filosofia del linguaggio.  Concetto di  "teoria" e sua riduzione. La riduzione del concetto di teoria e la radice pragmatica dell intellettualismo.  La nozione ateoretica dello  "in generale" come base della teoria. Riduzione del procedimento analitico all inde terminato, cioè al contraddittorio. Differenza ontologica tra il contraddittorio ed il negato.  La dialetticità come impossibilità di un procedimento analitico sulla totalità. La domanda totale e la totalità domandata. L intero della domanda totale e della totalità domandata. La conversione dialettica della totalità domandata nella esclusività del domandare.  La domanda come riferirsi in atto alla risposta.  La problematicità della  "definizione"  concettuale.  L intersoggettività come dimensione dialettica.  La struttura dialettica dell'implicazione.  L'insignificanza teoretica del disaccordo.  La preoccupazione di raggiungere un accordo effettivo è empirica e filosoficamente ingenua. Fittizietà del rapporto tra filosofia e senso comune.  La superfluità del problema del  "solipsismo". Presenza e coscienza.  La realtà come pensiero si risolve nel pensiero come atto. La realizzazione. L'attualismo come attualismo  puro. La realizzazione come negazione e come posizione. L'attualismo monistico come naturalismo. La presenza pura. La coscienza della presenza pura. Il rapporto tra atto ed oggettivazione tra presenza e pre-sentificazione.  Importo teoretico dell'espressione "Verum et esse convertuntur".  La metaforicità intrinseca delia parola. La "cosa stessa" come l'intero di se stessa. L identità pensare-essere.  Il riproporsi del pensiero su se stesso come origine della parola "cosa". La duplice funzione della parola  "cosa". Le condizioni ad un indagine critica. L atto critico o negatorio come atto di pensiero nella coscienza.  La ricerca del mezzo logico adeguato e l interrogazione. I limiti teoretici delle asserzioni condizionate da interessi. La riduzione pretesa del  "sapere" al  "potere" e il concetto ateoretico di  "teoria". L'interpretazione matematicistica nei suoi limiti.  La teoria come formulazione generale.  La radice dell'interpretazione matematicistica.  Le condizioni imposte dal concetto d interpretazione.  Il carattere teoretico del controllo sull esperienza.  Lo spostamento del limite come essenziale alle determinazioni.  La determinazione come ritorno dell atto: totalità di definizione e totalità di esaustione.  La totalità di definizione come "essenza". L' atteggiamento fondamentale umano operante nella definizione concettuale.  Il modo indiretto dì dire l'essenza. Originarietà e mediazione nel discorso metafisico (Il "Tema"; Svolgimento delle indicazioni teoretiche del "Tema". L'originario come implesso esperienza-discorso. L'"Esperito" e l'"Esperienza integrale". Il significato dell'"Implesso"; Il senso dell'"Originarietà" dell'"Implesso". Il concetto di meditazione e la teoresi del fondamento (L'impostazione; La "sospensione" degli enti dall'essere). Giovanni Romano Bacchin. Keywords: anypotheton, haploustaton; ovvero, i fondamenti della filosofia del linguaggio, il discorso metafisico – a new discourse on metaphysics, from genesis to revelations, etymologia di ‘autentico’, l’esperienza e il disscorso, implesso esperienza-discorso;  anypotheton, haploustaton, anypotheton hypotheton, supponibile, insupponibile, haplloustaton, superlative di haplous, simplex, simplicior, simplicissum, simplicissmo, complesso, simplice/complesso, simpliccismo, simplicissimo, complessissimo, complesso proposizionale, semplice sub-proposizionale – implesso, analisi del concetto d’impicazione – senso e significato – senso e segno – proposizione – funzione proposizionale – Whitehead. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacchin” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bacci – I bagni dei romani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Sant’Elpidio al Mare). Filosofo. Grice: “You’ve got to love Bacci; he was born in the Italian equivalent of Weston-super-Mare, and therefore, he dedicated his philosophy to swimming!” – Studia a Matelica, Siena, e Roma. Scrive “Del Tevere, della natura...”. Pubblica il “De Thermis”, un saggio sulle acque, la loro storia e le qualità terapeutiche che venne accolto con entusiasmo. Dopo aver ottenuto la cattedra alla Sapienza e l'iscrizione all'albo dei cittadini romani, e nominato Archiatra pontificio. I saggi “Delle acque albule di Tivoli”, “Delle acque acetose presso Roma e delle acque d'Anticoli”, “Delle acque della terra bergamasca”, “Tabula semplicim medicamentorum”, “De venenis et antidotis”, “Della gran bestia detta alce e delle sue proprietà e virtù”; “Delle dodici pietre preziose della loro forza ed uso”, “L'Alicorno”. Il monumentale trattato “De naturali vinorum historia”, un compendio in sette libri su tutti i vini conosciuti. Tratta temi relativi alla vinificazione e conservazione dei vini; Consumo dei vini in rapporto alle condizioni di salute; Caratteristiche peculiari dei vini; Uso dei vini nell'antichità classica, Vini delle varie parti d'Italia, Vini importati a Roma, Vini stranieri. Note  DBI.  Andrea Bacci la figura le opere, Atti della giornata di studi tenutasi il 25 novembre 2000 a Sant'Elpidio a Mare. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Andrea Bacci Collabora a Wikiquote Citazionio su Andrea Bacci  Mario Crespi, Andrea Bacci, in Dizionario biografico degli italiani,  5, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. De Naturali Vinorum Historia De Vinis ItalEae et de Conuiuijs Antiquorum Libri Septem Andreae BacciI Traduzione del libro Quinto nella parte dedicata ai vini delle Marche, Gianni Brandozzi, Associazione culturale Giovane Europa, Filosofi italiani del XVI secoloMedici italianiScrittori italiani Professore1524 1600 24 ottobre Sant'Elpidio a Mare Roma Enologi italiani. In quo agitur de balneis artificialibus, penes instituta recæperit, hoc tempus non esta deo compertum, nisi quantum legitur fuisse antiquissimum. Nam ex omnibus monumentis quæad notitiam hominum peruenerunt, vetustissima huncritum lavationum, perinde necessarium ad communem vitam commemorant. Balnearum enim mentionem invenio non modo ante ROMANORUM IMPERIUM. Sed ante asiaticos etiam et chaldæos extitisse. Imòsiiactatis, antequam ulla extitissetliterarumin ventio, dicterija credamus; extat apud Pisandrum id circo Calida balnea fuif fe natura bal. cognominata Herculea, quòd Minerva olim fesso Herculi calida parasset. Vel  veterum et Galeni in Thermis primus la tascoengerit quodammodo ad lauacra homines. Quippe ean ecessitas, quæ uationumv a primordio rerum monstrauerat mortalibus ex agresti vita victum quærere, sus. Tecta construere,abæstu& frigoresetueri:eadem & fordesabluere,mun ditiæquecultum monftrauit.primo quidem quantum vitæsatisfaceret,donec paulatima liqua industriaadhibita, laffata corpora mollia quarum foturecrea reedocuit. Verum quando id inftitutum locum aliquem in REPUBLICA HABE ROMANORUM, VANTA fuerit naturæ solertiaincumulandis gratijsaquarum spontemanantium et quæ differentiæsinttùm simplicis Elementi, tùm consequentes ex misturi. Et quisvsusearumin balneis. Hactenus proeoac potuimus explicauimus. Quis enim pro dignitate naturæ, speciales proprietatescunctarum aquarum sermonem consequi audeat? In hisautem quæ ad thermarum vsum dicendarestant, sirectèquis thermarum ARTIFICIALIUM magisteriaconsi dignitas. deret, summum artis cum natura certamen videri poterit. Ut tnesciam anadeo sciuerit natura elargiri mortalibus tota diumentorum materiam, torqueadeo diuinæ dispositionis ostentare miracula inaquis. Quanto maiora funt, quæ arsaddiditornamentain Thermissuis. Præsertimfubila ROMANI IMPERII maiestate. Inquarum monumentis,quæ exeispartimvidentur et partimle gunturapud varios authores, nons atisconstatapudme vtra fuerit maior, an magnificentia operis ad illorum temporum instituta, an commoditas popu. larisadvtilitatemlauationum.Principiononeftdubium fiprima quasiin cunabula cæterarum rerum coniectemus, quin ipsa vitæ, ac naturæ necessi quia   quia eidem (vtAthenæus est author)vulcanusmuneris vice feruida suppo fuisset. Etlivera credimusre tulisse Platonem tamspectatæfapientiæautho rem,superatomnium seculorummemoriam, quamipsetraditexantiquissi mis monumentis, de Atlantica maxim a olim insula n u n c Oceano ipso occupant aextram Columnas; quam Neptunimunere cùmomni delitiarum genere Thermar r o n clarssima, hab u i f f c (r e f e r t i pse) etiam balneas quæ omni cultu ornatæ partim usus, quidem subdiuopaterent,partim veròsubtectocalentiahaberentlauacrahy Είμαζα, τ'έξιμοιρα,λοιπάτε θερμα,καιανα CUS Sexcenti sautem post Homerum annis,Hippocratesprimusmedicinæau 4.derat. thor, Thermarumvsum curandarumægritudinumcaussa, tanquamreiiam in Græciacommunitervsitate commemorat, ac damnauit aliqua. Floruitau tem (ut ratio temporum habeatur) natusprimooctogesimæ Olympiadis (ut Hippocrates Soranustradidit)circàPeloponnesiacum bellum:quod(teftePlinio)gestu estàtricentesimovrbisRoniæannoexactisanteàRegibusannos circitersexa ginta,& ArtaxersePersarumRegemagnam Græciæ partem, & Hellespontú occupante. Poftquæ temporadum Græciaindies Sapientiffimorum virorú scriptis venirent illustrior, perpetua habemus de Balneis testimonia, Socratis, Platonis, Aristotelis, cæterorum quesuccessu temporum authorum,qui& Aliam, & PersiamnonfolùmGręciambalnearumvsumhabuissefamiliarem LaconesTber testantur. Laconesinter Græcos antiquiores, primamlaudem Thermarum marimiznitanquam suuminuentumsibivendicare videntur, Dioneauthore: ac abeis tores. pofteà huncmorem reliquas nations didicisse. Quod confirmatpartiumno 36 mina in Thermis Romanis,quæ omnes græcæ suntvoces,laconicum,Hypo cauftum,Miliarium,& Thermæ ipfæ, nedicam cætera. Ex quibusconstat vsumThermarumapudRomanos fuiseposteriorem,aceasinæmulationem Græcorum constructastestanturMarcus Varroin librode antiquis nomini bus,& itemVitruuius.VeruntamensubilaRomaniimperijmaiestate, sicut omnes artes floruere, ac inuenta prius ab alijs meliora cuasére, vnde meri to Roma QUASI ALTER A MVNDI PARENS dictaest: itaomnium maxi mè Thermarumi nftituta incredibiles, & supraquàm exprimivnquam pof sit,habuêreprogressus,eatamen obliterataferèad hancætatem,necliteris mandata, multisforsanèdoctishæcmeliusscientibus.Quamobrem nos, volentes ad noftrarum lauationum regulam, antiquum Thermarum vsum rcuocarein lucem; operæ precium eftRomanarum institutaprosequi:inqui bus quæ prima ipsarum introducendarum ratio fuerit, quisordopartium,& quisvsus,& quæ tandem ineis medicinæ pars extiterit,percurremus. In Critia, berno tempore, atque feorsumaliaregibuspriuata,alia viris,aliamulieri bus,aliaitem equis, cæterişúeiumentis.Posterisveròseculispater Home rus, cuiusscriptisnullumconstatapud Græcos testimonium antiquius,mul toties calidaruin lauationum mentionem fecit. Præcipuè verò in Odysseæ lib. 8.vbi Poëtaomnium fermèrituum memoriadignorum obseruátissimus, Thermas indeliciiscommemorat illisversibus. vic. Homeri lo Aid δωμϊνδαίς τεφίλη, κιθαρίςτε, χοροίτε, De  affiduis primùm venatibus deditos,necminusagrestibus operibusedu catos, nonaliaferè industriatùm amplificandæ Reipublicę, tùmdefen dendæquùm opusfuit, præualuiffe, quàmquoddurataiampacislaboribus corpora,facilèquodcunquemilitiæonussustineredidicerant.Inquo perce lebremhabemus Quintium Cincinnatum, abaratroaddictaturamvocatum. Itemque C. Fabritium et Curium Dentatum, qui rure ac militiæ laudatissimi, omni Spicula contorquent, cursuque, ictuquelacescunt, Abhisergoexercitijs, vterant frequentes, harena, puluereque conspersi, ac fudoreprofusiatqueoleo,vtseminudi acexertisbrachijs,cruribusque,vel liberosaltemhabitu, quo degebant, vt effent admunia propriores, necessario lauationes pofcebant. Qua dere, dum adhuc nouitiavrbs inhis studijs Patres campum Martium vicinum Tyberi, in quo iuventus post exercitium Lib.1. c.10 armorum, ludorem, pulueremque dilueret, aclassitudinem,cursusquela borem natandodeponeret. Qui mos vt paulatim èreipsa, & quasi nemine Lauationes instituentese in ciuitatem ingessit (quem ve plurimum soletese nouo rūrituum inTyberi, introductio)itatandem crescente indiesiuuentute,armorumquefimulac exercitiorumaffiduostudio,viamtamfrugiinstitutiaperuit. Sanèin ciuile videri nobilem ciuitatem in luculentis Auminis aquis quotidielauari;aclaua craid circo Asiaticorum, & Græcorum moreparandaesse,quæpostexercitia non ad munditiam facerentsolùm, verumetiam recrearent, maiusque robur laffatis membrisadiungerent.Quod tamenpropositumlongissimèdistulêre: nonquideminscitia,autvecordiatamgenerosæciuitatis, sed propter  Antevrbempueri, & priinęuofore iuventus. Exercenturequis, domitant que in puluerecurrus. Aut acres tendunt arcus, aut lenta lacertis 7. Aeneid. Lauationum Deprimis Thermarum institutis in vrbe Roma. Aris quidem constar Romanos illos Quirites,antiquosque Sabinos, satissuntexemplonobis,hæcfuisseilliusseculiftudia. Non pecuniapræua lere, non forma, nõ ambitiofo hominum comitatu, non stemmatis dignitate certare: fed totamvimin proprijanimiexcellentia,viribuscorporis,acexa etacura Rei pub. collocare. Feruebant honestælaudisemulatione ingenia,vt quosarma,& propria virtus ad prim s ciuitatis honores euexerant, studio, ac laboreæ quarent. Quare vbi militiæ in externosceffasset occasio, ROMANORUM quasi natiuo instinctu dediti ad labores, autrurese agrestibus exercebantope-studia. ribus, autaddisciplinamac roburcorporis, ciuilibus,ijsquevarijs exercita mentis vtebantur: cursu,disco,faltu, lucta,& pugilatu,natatione, atque armis. Quem more man t è urbem conditam fuiffe quoue. APUD LATINO antiquissimum, planèilis versibusrepresentauitVergilius. necessitas. 36 strenuè adolesceret, præclarum habemus Vegetij testimonium,constituisse gruentem,au&taque fpatio temporis,spectatævrbisinfinitimasterrasautho Aquaríper ducen.decre ritate; deaquistandem èvicinis montibus, Auuijsquein vrbem perducen- tum. 1 (vtegoreor) potissimascauffas:Tùm quiaprimiili Patresnontamfrugifu turumolimhuncritum existimauêre, quàm luxui, ac mollicieiforelenoci nium; id quod accidisse, posteà declarabitur. Deinde ob aquarum incom moditatem,quarum incolles,vbitunchabitabantdifficiliserat,& nonsine maximaimpensa,perductio. Verùmhoc laucitiædesideriovniuersimin dis, duas   dis, decreto S. P. Q. R. publico ftatutum est: quæ & potuum fimul,& laua tionumritui suppeterent.Quod factum est primùm M. Valerio Max. P. De cio Mure Coss. (authore Plinio) circa 444. Ab vrbe condita annum, aqua Tyberinarī Appia ex Tusculano per ducta, Censore Appio Claudio curante. Aquibusté. porusdimif. poribus, Tyberinarum aquarum vsus,adeam vsque ætatem tàm potu, quá sus. lauacrofrequentiffimus,exolescerepaulatimincepit:aclauationum simul, atque exercitationis gratia (ut tradit Festus Pompeius) Piscina publica ad cli Piscina Pub.uium Capitolinum iuxtàTyberimestconstituta.Pofteà Thermæconstructę. stitut& uationumduntaxat,conftitutæfuerant,haudmagnum habuêre progressum. Visicùm auctaciuitate, simul atquecrescenteindiesineisiuuentutisapplau. fu; semper maiorisearum capacitates ratiofuit habenda.& præsertim vbime dicorum consensu incurationem quoque ægritudinum suscipicæperunt.Ve rumtamenpostinitiadiuadmodum consuetum fuitangustasfieri,actenebri cosas;nonenimcalidævidebanturnisiobscuræ;quem admodum fcribitSe necaadLucillum,fuissebalneum Scipionis Aphricani ad Linternum. Causa verò amplificationis Thermarum præcipua, fuit Palæstrarum adiunctio. Quippe cùm apud Romanos veteres, ferèvfquead Augustum,nonadeo multa extiterit architecturæ dignitas, nec adeo fuerit consuetudinis Italicæ.20 (vt desuotemporescripsitVitruuius,& multoetiampost)cumPalęstrisLa uationes habere coniunctas;contentus quisque ruralibus exercitationibus, ThermeadvelCampo ipfoMartio,& harenaPlatearum;solasinThermisobibantla exercitia có uationes. Quo ritu ad imperium vsque Principum perseuerante (vnde planè stitute. constarepoteritThermas exercitiorum cauffa fuiffeinstructas)vbicunqueali qua fierent publica edificia, ac populi celebritas,iuxtà constituebantur & Thermæ.Exemplo primùm Agrippæ clarissimo;qui ob celebritatem admira bilistempli Pantheon,atqueCampi Martij;iuxtà,Thermas suas extruxit. SicNeroposteàNeronianassuasiuxtà Agonalem circum, ob Ludos,quiibi fiebantcelebres,constituit. Necfecus(authoreSuetonio)TitusVespasianus dedicatoAmphitheatro,Thermas celeriterextruiiussit:nimirùm ad Amphi Palestrari theatri,& exercitiorum,quæineofiebantcommoditatem.Donectandem cum Ther.illustratacuniImperijmaiestateArchitecturæperitia,moreGræcorum Palæ mis coniun-ftræcum Thermis fuêre coniunctæ,vbinimirùm generosa iuuentus,relictis iamruribus,atqueharenis,simul& exercitationesobirentomnisgeneris,ac lauarentur.AtquehincnonsolumoperaThermarum fueruntelegantiùsdi. sposita,atque admodum amplificata, sedtantam etiam promeruerunt o m niumgratiam,vttotaciuitaspaulatim hancsusceperitconsuetudinem,fre quentare singulis diebus Thermas, & tàm Senes,quàm consulares,atque amplissimiordinisviri,necnonartifices,& matronæ.Proveteriinstituto, acftudiovirium,promunditia,& prosanitate,atqueomnicuracorporum. Romanarum Thermarum cenfura, atque Magnificentia,  Quæ quoniamfrugiinprimis,obeam, quam dixi causam et ad ritum la.10 Etæ 40 čtio. Cap. 111. A e c ergo initia, atque hæc incrementa fuerunt thermaru m Romanorum. Primò quidem institutæob ritum laudabilem,quem exer citium,& vitæratioillorum temporum inuexerat. Deinde au 30 Therme con Therma auCtæobcommunemvtilitatem,& magnificatæcumpalestris. Eradfum mam tandem amplitudinem, acmagnificentiamperductęobdelicias.quem ad modum à nobis ex earum aliqua descriptionem on f trabitur. Quan quam id quidem, prorei, atq;vrbis magnitudine, haudnostroindigeret testimonio,descriptio quiMedicinęduntaxatineisinstitutaprofiteremur:nisiminusplenèomnes,curnecela quide Architecturaconscripserunt, earummaiestatemexpreffiffent. Nam ria. quiddeVitruuijlibriseliciemus,nisinudaquædam lineamenta,atqueeaqui Invitruvio dem nonadmodum explicata,paucaquelocabalnearumsuitemporis,quan-censura. doperangusta,& blactariafiebantbalnea(vtpauloantèexSenecætestimo 10 niodiximus)quæeiusætate,& poftcà maximè, locuminter primasædificio rum vrbismagnificentiashabuêre?Minusàiuniorum scriptis,quimutatis rebusposttotsecula,acminus concordibus, quifparfimdeeismeminerunt authoribus;fatissibi,atquelegentibus fecisseratisunt,sivastamduntaxat Thermarum dixerintmolem,acDedaleioperisinstaradmirarentur,cùm ta men Romanarum rerum magnitudo cunctarum nationum miracula supera- Medicorum. uerit, n o n in Thermis folum. Minimè o m n i u m à medicis. Quos turpe h o dieadrectam lauandiægros institutionem videri deberet hæcignorasse; indi gnissimumveròproea,quam profitenturGaleniimitationem,quæ vixvlla essepotestsinehorumrituum notitia, inquibus ferètotaeius doĉtrina versa 20tur. Quam obremoperæ preciumest, advniuersam instituti nostril rationé, Therme an aliquam ThermarumVrbanarum,partiumq;ipfarúcensuramfacere.Princi-publicę,an pioThermas fuissedecreto publico constitutas, (vt eftdictü)non eft dubitan priuata. dum.Nam idmultæ declarantauthoritatesscriptorum,acmarmoreæ tabu læ,inquibusvelSenatusconsultaleguntur,vellegespositæinThermis,ve! munera. Quę exmultispofteàritibusdeclarandavenient,vtpotè,inaliquo publicogaudiosinemercedepræstarisolitas;veloleum gratuitodari.incom muni veròluctupublicèThermarum vsum interdicisolitum. Imò in priua tispęnisexéplumlegimusapud Valerium Max.lib.2.Titio pręfectoobigno miniofam deditionem Calpurnium Cor. Conuictum hominum, & balnearu 30vsuminterdixisse. Verùm quinegantThermasoperafuiffepublica,memi sedinThermis:quarumhodieamplitudinem,accelebritatem,hac sancta religioneintroducta, templanostra, ac pia xenodochia immittantur. Quare & Thermæ Xeniædicte,quæitaapudgræco scognominarifolebant, quasi hospitales,& gratuitæ, quo cognomina Thermarum publicarum vtitur manı  Thermarum nissedebent magnificos in eis Imperatorum titulos, qui æternitate nomi- Thermarum nissui, tantioperismagnitudine affectassevidenturacRomanis suis,velPo- magnitudi Oo pulo gratuito constitutasindicant.Quo planum fitetiam,easfierioportuis secapacissimas. Non enim in templistuncconsueuit populus congregari, quæidcircoangustafiebant,acsuisquisqueindigetisacpenatibuseratcon tentus, Tuniorum, nis ratio. Therma xea 40.Vnde perperam inhistorijsretulit Volaterranus, quiblice. M.Tulliuspro Cælio legitproSenensibus,cùm nus Francisci Patritij imitatus, Senias primas verò scripta subSenarummenioria.Inter quam balneainantiquislegantur, quarummeminititem palatine.,credo fuiffe Palatinas, atquehas xenias per acpublicas,ademissaria Aque Claudiæ adeaspofteå Cicero,vbiSex.Rosciusoccisus,authoreeodemSene,earum cura erat publici muneris Max. ductæ. Necminus ætatem, quails & Cato, & Fabius ca, nobilissimos Aediles antesuam, acsuaetiam & alij, populum inthermis exigend imunditias gratia receptare niæ dop H. 2   manutemperare folitos. Balneatorestamenin Plautolegimus, & pofteain Balneatores M. Tulliopro Celio,quieiministerioaderant.EtIureconsulcus.Instru et Balneato me nto inquit balneatorio legato, balneatores continentur, quoniam sinerium lega ti. his balneæ vsum suum præber e non possunt. Producto autem seu t i s annis instituto ipso ad luxuriam Principum, non solùm capacitatitantæ vrbis con sultum eft, fed citrà vllam mensuram aut modum,& (vtAmmianus aflimi Thermarunlat)potiusprouinciaruminftar,quàmvlliusædificijforma Thermascæpe numerus Ther.Impe runtextruere.Extatinterprimamonumenta,M.Agrippam,inAedilitatis munere;quodpostconsulatum gessit,gratuitapræbuiffebalnea170.quæ'po steasub Nerone,vt testator Plinius, ad infinitum auxêre numerum. Sextus autem Aurelius victorin censu partium vrbis, Thermas, amplissima opera Imperatori axii. nominauit. Priuatarum verò balnearú, quasad priuatosvsus Ther. Priua qui lautè viuerētsibiinproprijs domibus compararunt, numerum exeodem ta. fubducimusferèdcccLx.quassuccinctèperregioneshicrecensebimus.Pri m a s ergo h a r u m duo deci m n o n eft dubitandum, fuisse Agrippę  Thermas, qui Ther. Agripeo dé authore Plinio, imperáte Augusto eiussocero, multa & egregiainvrbe perfecitopera, ac Thermas fuaslytostrato,acencaustopinxit,& pauimétaex Neroniana. vitropofuit. ErantautemvltràCampum Martium adfiniftram templiPan theon,vbinunclocusvulgòCiambelladicitur,vtquæinCampo & inAgo naliCircoexercitareturiuuentus,hincTyberisnaturalem aquam,hincverò calentiuminThermisaquarumhaberetcommoditatem,vbilauaretur.Ineis verocùm neque capacitati, nequeadeodelicijs consultumfuisset, eodem au. thore, successitquadragesimocirciterpofteàanno Nero profusiffimusImpe. rator, quiad Agonalem ipsum CircumsecundasThermassuonomineextru. xit.Inquibus,vtscribitLampridius,syluasdeputauit;& nonfolùmdulces, Alexandri.sedvelmarinasaquasinterdum,velalbulasperAquæductusAnienisadduci Hadriani Traiana. eum fecissememinitSuetonius.PonitidēLampridiusAlexandrinas,abAle xandro Seuero extructas in C a m p o Martio,quas quidam easdem esse N e r o nianas putant, quam tanto imperio fastuo- 30 sam,par erathacquoquenoncareresuperbia.InIli& SerapideMoneta Regione, c ù m Titus Amphitheatrum dedicasser, Thermas iuxtà celerite rex truxit, Suetonio;quæ tertiæfueruntImperatoriæ,nimirùm inAmphitheatri celebritatem& commode (vti diximus) & id circo breues. Quartæiuxtàhas Traianę, quas Traianusobhonorem Suræ, cuiusstudioad imperium perue nerat,erexit,acTitiThermismaiores,vbiquæextantmiraAquarum rece ptaculaseptemSalasvulgoappellant.PriuatæveròintotahacRegione Bal cömodianæneę xxx.In Regione ad Portam Capenam, quintæinordinefuerunt Com & Seueria-modianę,quarum &AlexandrumSeuerumaffectassenomenvidetur:etiamsi nę. Antoniana. interpriores,acnoftrosantiquarios,aliquafitdelocis,& temporibus,& cognominumassignationevarietas.Inquapræterhas,extantalicuiusnomi nisapud authoresciuium balnea,Torquati,VettijBolani,Mamertini,Aba s c antiani, Antiochiani, & priuatæ aliæ Balneæ Lxxxv. Sextæ in Circo Maximo Antonianæ, quasmaximas verè dixeris, Spartianoauthore,quieasm e minitadradicesAuentinicollisAntoninumImperatoremcognomento Ca racallaminchoasse,perfeciffeveròeundemSeuerum:mirahodie architectu ra,   ratoria. pa. na. Agrippina. Titi. instauratas. Adhæc P.Victor Hadriani Thermas. Et ex priuatis BalneisintotahacRegioneLxu11.Eodemtemporeerexitquoq;suasTher-: mas iuxtàExquilias Agrippina Neronismater ra,necimitabili,cumPalęstrisconiuncto.Inhac& Varianæ,& Decianępo sterioresnumeranturaP.Victore,necnonSyriacæaliæcognominatę,& Pri uatæaliæLXIIII. Seueriquoque nominef uêrein TranītyberinaRegione Scueriane. Thermæ, eode in Spartiano teste. Necnon Aurelianz,Vopisco. Balneuitem Aureliane. Ampelidis, Balneum Priscilianæ, & Priuatæ aliæ 1xxxvi. Inter Esquilias &Montem Celium, apud Titi & Traiani Thermas, PhilippiImp.Thermas Gordiani. amplifl. ac pofitum estadperpetuamreimemoriaminipsabasylicadistichuin,deAngelis. 20 quodlicànobisestrestitutum. QuæfuerantThermæ,nunctemplum estVirginis,auctor El Pivs ipsePater,cediteDeliciz. ruptèdicuntur,&PriuatæintotahacRegione 1xxv.Porròrecenseturinli. 30 EsquilijsRegioneOlimpiadisLauacrum,vbisummo colliculoSanctiLau Vltimæ Cæsarum nomine, Constantinæleguntur ThermæinCliuoMontis Quirinalis. Quas non reparatas, non d e integro ex tructas à Constantin o e x i ftimo, cùmvetuftofatis appareant opére. Necnonmarmoreæ tabulætestimo nio,quodlegitur:HAS CIVILI BELLO DEVAST ATAS QVANT VM PVBLICÆ PATIEBANTUR ANGVSTIÆ PETRONIVS PERPENNA RE STITVIT. Propèhas L.quoq; PauliBalnea,quæ vulgòBalncaNapolicor- BalneaPau rentijinPanisperna,monialium ecclesiahodiecelebratur.AdcliuumcollisàOlympiadis. SuburraAgrippinæNeronis,quod diximusBalneum, & infràNouati ciuis alix balneæ, vbi S. Pudentianæ est ecclesia. Et Priuatæ aliæ in totum lxxv. Subinde vede Priuatisreliquisbreuiteragam:erantinquartaRegione,vbi& Templum Pacis, Priuatæ BalnexLxxv.cum Daphnidisbalneo. InCeli montio xx. InviaLataLXXV. InForoRomano iXVI.InPiscinaPubli. caxlinn. InP alatioxxvi.PluresinMartialesparsimlegunturThermæ, Tuccæ,Hetrusci,Grilli,Lupi, Fortunati, Pontij, Seueri, Fausti, Peti,Ti ti, Tigillini, quarum locanon assignantur. PorròextraVrbem nonminor Thermarum cultusessedebuit,vtexquarundam preclariscolligimusm onu, Constantina. mentis. Erantad Hostiam P. Tacij Thermæ,centum Numidicis columnis Thermeer Ooij adscribit Pomponius Lçtus. Necprocul Gordianorum Domus, quam descri psitIul.Capitolinusadmirandam,ducentascolumnasvnostilohabentem,& cum Therinisadeolautis,vtprætervrbanas,vixaliæfimileshaberenturin toto orbe terraru m. In a lta Semita Regione, Viminali colle, Diocletianæ ex - Diocleti.1 1.. tant Thermæ, quasincçperatquidem Diocletianus Imp. cuni ordine exactif simo, atque amplissimoPalestrarú omnium generum,inquarum opus quadra gintamilliaChristianorumeum addixisseaccepimus. Ob magnitudinem tamen (v tin Marmorea tabula legitur)CONSTANTIVS ET MAXIMIANVS OMNICVLTV PERFECTASROMANIS SVIS DEDICAR.Hę,cùm in fermè ædificio admirandæ permanerent, hodieCartusiensium Mona tegro sterioSacræ, Pio Iu11.Pont. Max.subtitulo Sanctæ Mariæ de Angelis magnificèrestaurantur: Curante M. ANTONIO AMV110.S.R.E.CARD. S. Maria exornatæ. Arpini suas instituitThermas Cicero,scribens ex Asia ad Q. Fra trem.ErantinLucullano,quænuncFrascativulgòdicitur,LuculliThermæ, vbi nos integra vidimus Hypocausti vestigia. Ad Baias autem Thermæ Baians. erantprætervrbanas,supraquàm quisoptarepotuissetvoluptuofiffimæ,na turaipsaibiaquasvberriinèfuppeditante,gelidas,calidas,& plurifariâfalu bres,quasfatisinsuishistorijscelebrauimus.Quid verò hìc cęteras Italię pro sequar Philippi. Trarbem L.  haberet? Quinetiam Rusticanas, inquibusfamilia (vt inquit Columella,& Rusticana. exeoPalladius) ferijssaltemdiebuslauaretur: nequeenimfrequenteniearū vsum robori corporis operariorum conuenire. Similiterhunc morem acce Aquarum maris, & portuumcommoditate, aquarumduntaxatsustineretpe-': nuriam;hacinpartevenisseincertamenquodam modo cum naturavisaest, vtaquarum quoque essetabundantissima. Itaquecumhocdesiderio,crescen teindiesinstitutoThermarum,& modò aliaatquealiaadducta multo spatio temporis in tantam aquæ venêre copiam, vt Augustiætate, Strabone teste,pervrbem,atquecloacasomnesinundareviderentur,& vni uersæpropemodum ędessubterraneos meatus, syphones,acfistulasvndo sashaberent.Quo temporeM.AgrippaAugustiipliusgener,quem complura invrbefecisseconstatopera,cultu,atqueedificiomagnifica;aquarum Cu ratorperpetuus,authorePlinio,alijscorriuatisatqueemendatis,& alijs nouiter adductis,septingentos lacus fecit.Pręterea fontes c v,Castella cXXX. 40 Lacusintelligoex Frontino, alueosbreuimuro,inquibusaquæ reciperen tur,& aliaexalia,vtfiuntapudnos Fontane,Lauacra,Fullonum stagna, jumentorumaquagia,& huiusmodipublicacommoda. Fontes, quiprimas a c f y n c e r a s e x Castello funderent aquas, pauciores id circo quàm lacus. C a stella,certaAquæductuum receptacula, ad MęniaVitruuio,&inviarumdi uortijs, vbi aquarum facienda esset distributio.Quale etiam num visitur in E r quilijs Castellum aquæ Claudiæ, indiuortio ad portam Maiorein nunc dictá et adpisse reliquas Provincias, quibus Romani imperassent, in transcursu diversarum lectionum obseruauimus. Prætermultas, quaslegimus Romanis anti  Lacus in vr sequarThermas,cùmeatempestatevulgòvilaquælibetdiuitumfuasbalneas quiores,vtquasprimasinGreciadiximus,inAsia,inSicilia,& apudPersas Hebræorum DarijThermas,quasPlutarchusdescribitditiffimas, & lautiffimas. EtIose Hifpanorum phus Hebrçorum Thermas ad Ascalonem, ad Tripolim, ad Damascum, ad Ptolemaidam. Hispaniaqua calidalauari poftfecundum bellum Punicum à 10 Romanisdidicêre,anteànon consueueruntnisiinfrigidalauari,authorIu stinusHistoricus.Multæ occurrunt apud authores Thermarum memoriæ,in Germania,inGallia,inBritannia,aclongè pluraipfarumvestigiavisuntur in Italia, in quibus vidi sępius per inscitiam etiam doctos virosobstupescere, alij Theatra,alij Labirinthos, alijmemorandas moles alicuius sepulchri ia ctantes.Quarum tamenritumlegimusvenisseadeocommunem,vtnonco lonias, & municipia solum,sednemo dignè tùm Romanam militiam profi terivisusesset,quinon haberetsuabalnea,& gymnasia, inquibuscommi litonessuiexercerentur. Quod de CleandroTribuno equitum Commodi Cęs.meminitHerodianus.Indomesticisveròvsibusbalneum eratviainci-20 bum,vtnotauitArthemidorus.Cuiusreipassimhabentur exempla,quùm ex itinere,labore,acexercitio quopiam balneum primò ingredi consueue rint,& pofteamolliaquarumfotu recreatiaccumberent. De aquis vrbanisad vsum Thermarumadductis. Externe. aqua;haud copiaivrbe bequid. Fontes V Ros autemRoma,cùmprætercæterasgratias,quibuseamaltissi musdecorauit,salubritateaëris,situagriadimperium opportuno,zo adportamSanctiLaurentij,quod pofteàC.Marijtrophæisinsignitum, adhuc illius retinet n o m e n. Porrò fingulis castellis aquaruin erant propositi Trophça suiCastellarij,vtpræclaroquod Romæ legitur epitaphiocostat. D. M. Clemen Aquarum propria commoda. Mirariveròlicet inprimis ipsarum ductuum fabricam, duétuumma dignam planècùm magnitudine operis, tùm certè publicaipsavtilitate, quęgnitudo. Pluribus mundispectaculisproponendaessevideatur.Molesingens,àdimi dioferèItaliæquædam perducta,partimexcisisac perforatismontibus, par 30timascendens, partim abimis vallibus perimmensosarcussublata, quibus Aufeia,& 20 fue xit. Etanteà lib. 31. cap. 3. Clarissima inquit Aqua ruinomniumintotoorbefri goris, falubritatisquepalmapræconio vrbis Martiaest, inter reliquadeûn damlociscentum& nouempedesaltitudinismensurantur.Vniuersamverò omnium censuramitahabuitFrontinus.AltissimusAnioestnouus,Proxima Claudia,Tertiumlocum tenetIulia,quartum Tepula,dehinc Martia,quæ capiteetiam Claudiælibramæquat,deindeAppia,omnibus humiliorAllie tina. Primaverò,vtpropinquior,& maximècommoda,Appiaadducta co ftarexTusculano:Cenfore(vtfupradiximus)Appio Claudio,annovrbisAppiaaqua quæ perportam Capenam,nuncSanctiSebastiani,inocto vr munera vrbitributa.Vocabaturhæc quondam Aufeia.Fons autem ipfePico nia. OriturinvltimismontibusPelignorum.TransitMarsos,& Fucinum La piconia tempus addu tiCæsarum N.SeruoCASTELLARIO Aquæ Claudiæ fecit Claudia Saba tis& fibi& fuis.Extat Senatus consultum apud Iul. Frontinum,quoaquam non eratpermissum nisiexcastelloadducere,ne autriui, autfiftulæ publicæ lacerarentur. PublicisidcircoThermis,propriacastellavidenturfuissecon ftituta: qualiavidemusintegraadDiocletianasThermas,& adTraianas,mul tipliciopereconcameratas.In Priuatisautemprima Censorum,aut Aedi liumeratauthoritas,quorum arbitratupermodulos,digiti,velvncięnomi necertoannuosolutovectigaliconcedebatur. Legequecautum codem te fte,ne quispriuatus aliam duceret,quàm quæ exlacuredundaret,quam ca ducam vocabant: & hancipsam non in alium vsum quàm balnearum, aut fullonicarumdariessesolitam. Omnem aquaminpublicosvsuserogari debere.Cæterùmquotnumeroessenthæaquæ,quæ,quonomine,& quo tempore,& vnde adducerentur,breuiterpercurrendumest.ScribitPro copiusIustinianiCæs.fcriba,Romæ quatuordecim fuisse aquarum ductus, excocto latere,ealatitudine,acprofunditate, vtferèequesteripsocúequo pereosposseteuadere. Nos Frontinum imitati, qui Nerva imperante pręfuit hisceoperibus curator perpetuus,& fcriptis cuncta sid elitermandauit, octo aut nouem suo emissario per ductas dicimus. Quę fuerunt ex ordine, Appia, Anienisvetus, Martia,Tepula,Claudia,Anienisnouus,Iulia,Allietina,& virgo:etiamsipofteàduplici,acplurinomine,vtvsueuenit,fuerintcogno minatæ. Nam poft Frontiniætatem, non aliamlegitur, prętereasfuiss ead ductam, nisieasdem àdiuersis Imperatoribusautinstauratas, autseductasad bi sRegiones exviginti caftellis distribuebatur. Quadraginta veròannispo- tus. fteà, exmanubijs PyrrhiRegisEpiri,SpurioGarbilio,L.PapirioCoff.prima Anienisadductafuit,vtetiamcommodavrbi,& altæoriginissupraTybur.Martiaquę. Tertia fuit adducta Martia, dicente Plinio lib. 36.c.15.Q.Martius iussusà Se natu Aquarum Appiæ, & Anienistegulaductusreficere,nouamànomine suo appellatam, cuniculispermontes actis intràpræturæ cum, Marü. Anienis ve Oo i 1  Triana. cum, Romam non du biè p e t e n s. M o x specum e r s a in Tiburtina s e a p e r i t n o. uemmillibuspassuumfornicibusftructisperducta.Primuseam invrbem per ducereauspicatusestAncusMartius,vnus exregibus.Poftea Q.MartiusRex inprętura, rursus querestituit M. Agrippa. Hæc Plinius. Hancdemum& Traia namnuncupatam aseritFrontinus,àTraianoinAuentinumvsq;protracta. QuartafuitTepula,quaabagroLuculli,quéinTusculanoexvarrone legimus Tepula,. Gn. Seruilius Cepio,L.CasiusLonginusCollin Capitolium perduxêre, via, quæ PortaMaiorhodie appellatur,claristitulis Cæsarum, Claudij, Claudiaque VespasianiT, iti,& M.Aurelij. EamquidemdestinaueratpriusCaligula,per & Curiadaduxitveró Claudiusabvsquexxxvi.lapide, viaTiburtina, èfontibus Cæ Cerulean ruleo,Curtio,atque Albudinocollectam,quibusfæpènominibusscribitur. Adduxithiç & alteramAnienem,cuiductuiaddifferentiamveteris,Nouus Aniocognomentumfuitinditum,Frontinoauthore,qui& ipfumpofteàre Fons Albu ftituit.Concipiturautemperagrum Tyburtinumxx,milliario,operealtili-. moadPortamEsquilinamadducto.AquamveròIuliamadmiscuitcum Tepu laM.Agrippa,viaLatina,quæabAurelianoiterurmeftituta,eiuscognomen Juliaquęegassumplit.Ållietinam,quam& Augustam, miratur Frontinus Augustumpro Aureliana, uidentiffimum Principem per ducere curasse nullius gratiæ,imò & parum sa Alietina, lubrem,nisi fortecùm opusNaumachiæ aggredereturtransTyberim. Qui dam ob hoc eam intervrbanas aquas non numerant. DE AQVA VIRGIN E,QVAM duxitAgrippa,vtPlin,meminitlib.31.c.3.& deinde Claud.Cęs.Pri mum veròauthorêCaium Cęs. fuisseindicantmarmoreæinscriptiones,quarú 30 vnaineiusaquæductuitalegitur. Tit.CLAVDIVS DrusifiliusCesarAug. Nominisra-ductusaquæ Virginis destinatosper Cæs.àfundamétisrefecit, acrestituit.Vir ginis porrò nomen (vt Frontinus scribitnobilis author de aquis vrbanis ) ad cafum fuithuicaquæ inditum:nam quærentibusa quammilitibus, puellam vir g u n c u l a m quasdam venas præmonstrasse, ac il as sequu t o s in gentem a q u ç moduminueniffe.AediculaidcircoVirginisfontiapposita.Quod nomen posteavidenturadsciuiffe Dianæ, ac Triuiænuncupaffe, quasi Dianæfonsdi Fons Diane triplex habere dicebatur numen, celebrarisolita, necnon à triplicifonte,qui- 40 bushæcaquaconcipitur. Vel (vtquibusdamplacetantiquarijs) virginisno futurna menindicasseIuturnam,quam Nymphamsic dictam (testeVarrone) quòd Nympha. iuuaret,invotisfuisehabitaminfirmis,quiexeaaquabiberent,facramque in via. simulat que puteum, qui extat, dive Mariæ  Virgini fuisse consecratum, vt r a n In Triuia. libetquiseiusnominisinterpretationem accipiat,verumtamen eofitmagis verisimilisnoftrafententiahuncfontemfuissevirginéàDiana,& Triuianun Meuiæ,quæ dinus, Anio nouns 20 vocant Şaloniam, tio. Vel Triuię. & aqua Diançsacra,quęveteribusvirgohabitaest,& in Triuijs, vt AQVA autem Virgincquoniamsolahæcadnostramhancætatem Romam perducitur, altioraliquantosermohabendusest. Eam per cupa Primus aute D thor, ceretur, 10 Latina dextrorsus,longex1, milliapaff. subterraprius, deinde arcuato opere. Quinta, ac fausti nominis fuit aqua Claudia,vtinfrontispiciolegiturPortæ id circo hanc ædemei fuisse constitutamasseruntiuxtaipsum fontem,quam Sinct.Mar.posteàReligioneintroducta,insuperstitionempræteritiseculiabolendam,  JO est Herculaneus riuus, quem refugiens, virginis n o m e n obtinuit. Hactenus Ductus lon Plinius. HabetautemductuslongitudinesàcapiteadipsumTriuijfontem,girudo. spatio a bestàvia Prænestina,dicente Plinio.Marcus Agripa & virginéaddu ” xitaquamaboctauilapidisdiuerticuloduomilliapafsuú Prænestinavia:iuxtà (vt Frontinus dimensus est) milliariorum XIIII.n a m vbi fpecus subit montių, vbicircuitcolles,velvallesæquatarcuatoopere,multoshabetflexus. Pro greditur Anienemfuuium,acintersectaTyburtinavia, & exinde Nomenta na, & proximè Salariavia; tandeminter Collatinam Portamque estsalaria, & Puteus Po. Pincianam sub colle Hortulorú, qui est hodie Sanctæ Trinitatis, ad Trivium litianus vicum exilit fonte. Subitautemeum collempro fundiffimnospecu,cuiusho die puteus altissimus repertus estin medio viridario, quod magnifico, ac con spicuointotāvrbem ædificio ibi constituit Cardinalisamplish. POLITIA. 20NVS,& vtrinqueduæ eiusaquæ marmoreæ inscriptiones.Tı.CLAVDII nomine. Etquo digno tum fuit magnisilis Romanorum Architectis, erita; omni futuro seculo memorabile Camilli Agripæ Architecti inventum, salientemsuaptes ponte facit aqua (impulsam tamen in æreum tubum rotis ræ, primam fanèlaudem promerentur Sanctiffimi D.nostriPivs IIII.& qui - statim ei successit Pivs V. Pont. Max. quivirginem ipsam aquam ad Virginisper pristinamantiquorumformamperducerecurauêre.Quippe lapsu temporum hæcaqua varias subijt mutationes,& quodmirum eft, vsqueà Plinijtem lutem. Pofte àc raffantibus in Italiam,& invrbemipsamtotbellis,acvaria rumgentium incursionibus: plana in historijs monumenta habentur, quæ ductio. Refert Platina, Adrianum patria Romanum Pont. Max.d omitisiamaf. Adrianiin fi&isque Longobardis, anno falutisnoftræcirciter MCCLXXVI. Virginis Stauratio. Aquæductum dirutum, cumalijsvrbisaquæ ductibus restituisse. Donecite rumnonmulto poftdirutus, protantarerum,quæsuccessitcalamitate, nuf quam prætdr e a videtur fuisse restitutus. Nam quod i n i p s o Trivii fonte legi Nicolai. tur, Nicholaumv. annoabhinccxII. Virginem fontem restituiffe, planevi detur is Pontifex haud vllam antiqui ductus huius aquæ partem instauraffe; sedconfluentesduntaxatèviciniavenascitràpontem Salarium prorefugio vrbis collegiffe, quæeftminimapars; virgoigitur aqua octauo (vt diximus) est Salonia. Milliario concipitur,vbi nunc locusà Salone dicitur: Quæcunque fuerithu ius nominis significatio apud vulgus, quod,vt consueuit huiusinodi aqua run conceptaculafalasdicere,forsan & hoc obamplitudinem areę Salonem nunc uparit, dicente præsertimFrontino,hunclocumvnde virgo aqua con- Riuusnúad iicitur, palustrem fuiffe, & vt scaturigines contineret, lignin operecom-mititur.  40 cupatum, quod nomen ipsum ædis Sancta Maria invia, vulgari (vt videtur) vocem utila dicitur,  pro Sancta Maria in Trivia, vbi multa cum devotione Beatæ Mariæ Virginis etiam num ea aqua ab infirmis bibitur. De Fonte ergo ipso quia d huc in Triviæ vico celebris est, non est dubitandum. De origin e a u - Origo. tem, Pliniusa pertèdicit concipivia Prenestina. FrontinusautemCollatina ad milliariumoctauum, quæ vtquidam putant,duorumcircitermilliariorü pore(vtipsememinit )cæpithuius aquæ fimulatque Martiæpenuria: Ambitione (inquit) ac auaritia in vilas,acsuburbanadetorquentibus publicamsa Artificium per Usurpatio.  Herculews ipsam aquam volubilibus, & machinis) quæ eximo puteoads ummam planiciem. paffusexilitfonte, actantavbertate, vt non hortosfolùm,fed & totam quoque subiectam vrbis partem reddat irriguam. Cuiustam frugiope Agrippe. mu 4 OO 111)   munitum, quod nunc quoque visitur aliqua parte. Iuxtà estriuus Herculaneus. quemtamen non admittit, tùm quia locus palustris humilisque est, ac v l i g i n e totus obsitus; nec aquæ est satis vtilis: tùm qui a  satis fupe r q; adeam formam aquæductus Salonia est. Neceum riuum admisisse antiquos,satis apertè de clarantea Plinij verbaiam allegata. Iuxtàest Herculaneus riuusqué A Salinis refugiens Virginis nomen obtinuit. Nec secusdimittendaeorum sententia aqua. est,qui ad Salinas vocatas à Frontino aquas pro Salonia acceperint: cùm hæ longiusinfluantà Salone, sinistrorsusàvia Præneftina, vcidem Frontinus inquit,passuum septingentorumoctogintaquævelAppiaaqua,velAppix Appi&origo carestudeat, piètamen & public vtilitati consulens, opus tàm frugiprofequu Vltimaper tusest, aquamqueVirginem,adeototseculisdesideratam, hocanno,acmen se MDLxx. decimoseptimo Calen.Septembris, cummaximo totiusvrbis applausu, ac gaudio perduxit in totum. Consultistamen prius (vt Sapientissimum decet Principem) Medicis, àquibus & bonitatem aquæ, et vtilitatem, quam præbere posset huic almæ vrbì re latam comprobauit. Qua dere Naturaem hæc mea eft sententia: Sanè magnum argumentum bonitatis huius aquæ hoc Qualitates esseexistimo, quòd hæcaquafueritinvsu, vt nunc quoqueeft, longiffimis seculis. Quippe hæc primas sempermeruit laudes simulcum aqua Martiain tercæteras vrbisaquas. Authore Pliniolib.eodem 31.cap.3.d.Quantum vir gotactu(hocestfrigore)tantumpræstatMartia haustu:alternantehocbo tactusintfrigidæ, easnonperinde(laudabiles) & haustuesse. Hæcs uccinctè Plin. Hác aquam Martialis cognominatcrudam, ilisuerlibus. Ritussi placeanttibi Laconum, Contentus potesaridovapore 30 te influentium, & tepidarum, & frigidarum aquarum; hanc specialiter vsu Ab experi- balnei comprobat frigore, & profrigida, metri causa dixitcrudam. Velcru mentis. Dam intelligas eum dixisse in comparatione aquæ Martiæ, quæ (vt dictúest) vtilior haultuerat, virgo tactu. In experimentis, tardius hæccoquit legu mina, accibariareliquaque Tyberisaquęlimpidę,& Cisternalesaliquę.nimi rum quia fluuialeseiusmodi, inrespectu fontium, omni exutæsuntcrudita te,ac pluuiales magis aëreæ. Cæterùm hęcaquanullis fontium aquis vide- 40 turmeritò postponenda. Cætera veròquælegunturaquarumvrbisnomina, autvariæduntaxatipso nomin e sunt, sicut iam plura ali c u i a quę adduximus nomina:a u t externę sunt Crabra. Sabatina Lacus Saba saporem, inter vrbanas non adnumerant. Nec Crabram,quæ erataliaaqua, aquæ,nonvrbanæ. Quomodo quidam Alfietinam, itavocatamobingratū tis.Amnis Tusculanis,vndeaduehebatur,relicta.NecSabatinam,quamàLacuSa Larus. batis, qui hodie est amnis Larus, nouissima momnium aquarum breuimo. Io ductio. Martialis.  pars per Capenam portam, nunc Sancti Sebastiani ducebatur in vrbem. Tota ergo virgo aqua Saloniaeft, multisvenarum, & riuulorum acquisitionibus (vt Frontini verbisvtar) obitervsqueinviam Salariamaucta'. Quam Pivs IIII. Pont. Max. vt delectabatur vrbem suam æternis monumentis, publi cisq; idgenus operibus adornare,destinauerat.Pivs verò V. Pont. Max.cũ fanèprimùm orthodoxamfidemnoftramàtotseculihuiuserroribusvendi no, vtquæ CrudaVirgineMartiaquemergi. Quo nomine haud quidem cruditatisvitioeāhic Poëta damnare voluit. Sed mirisex tollens laudibus Hetrusci balneum, blandicie præsertim, & varieta dulo   20 qua q u a n ı diversæ à prædictis aquæ. Quod vsu c u e n i t in eternis id gen us operibus, perpetuams ibiquisque memoriamcomparare.ItaqueprimaTherma structuræ exemplo, nulloque integrèscriptoremandataliteris, nisi obiteràmultis,& controuersè. Etquæobfitaadeovetustissimisiacetruinis, vt quanquàm peritissimi multi hacętate antiquarij conquisitiffimè studuerint easinali quamlucem reuocare:nonminortamenadhucrelictafit, magnis etiamingenijsconfusio, vtquęsparsim dehislegunturauthoritatesscripto rum,cum paucisquæipsarumapparentreliquijs concordentur. Inprimis describendaessetixvoypapíce,basisquetantiedificij,quam noftriadverbúPlan tamrectè appellant: at hæc diuersissima habeturabe aquam tradit Vitruuius, neceadem dispositioin omnibus Thermis.Porrò, præterfpatiaplatearum, m i n a esse tantum aut instauratorum, aut insigniu m e o r u n d e m constat, h a u d ac additos lucos, hortosque immensos, ac Lacus, distinguenda effentloca exercitationum àbalneis.Acloca propriacuique exercitijgeneriassignanda, vbicominus, acbreuicirco, vbieminusfierent, sub Diuo, subtecto, in Xi stis. Et quæratio fuisset exercitiorum in Palestris, & quali aexercitia.Quis vsus præter e a totali a r ú partiu m: & quæ dispositio, Corycęi E, p h e b ç i, E l ç o thefij, Conisterij, Exhedrarum, Spheristerij, Xistorum. Etdebalneis, fi singulæ Thermæ plura habebant balnea, at dubiumnonest,quæ naniratio 30 distinctionis, ancommoditati, an loco, an ordini, vtcunctis legitur fuisse consultum. An omnibus vnum essetcommune hypocaustum:& feu vnum comm u n e o m n i b u s, se u c o m m u n e v n i p a r t i t i o n i, vt verisimile fit, q u o l o c o maximècommodo.Anbinæ& ternæ, quælegunturlauationes,eodem fie rentbalneo,andiuerso.Etsidiuerso,aneadem pluribusferuiebat,ansin gulisnouaaqua.Velquæ ratiotàmmiriartificijcalefaciendivna hora tantam aquæ quantitatem, quæ innumerabili populo sufficeret? Vnde & quo certo ductutantæ aquæ copia? Quæ ratio erat Pensilium Balnearum, quastantocú applause Vrbis, & totius Italiæ quosdamintroduxisselegitur? Quibusadid valibus, aut balneis, aut alueisvtebantur? Etsilabrislapideis(vt quidam pu 4 0 t a n t) quæ videmus per Vrbem maximis: q u æ e o r u m e r a n t i n balneis dispositiones, & quo situ ad aquas accipiendas? Etdebalnearijsrebus,quæ fanis expedirent,& quæęgris. Quiddicamdelauandirituperordines;perætates, perleges,peranni tempora,peripsaexercitia;acde innumerisdenique id genuscircunstantijs,quasvelnon scriptasabantiquarijs,velper coniectu ramduntax attentatasà iunioribus, merispotiùserroribus obscuratas, quàm explicatas invenimus? Quar e n o s d u m h e c aliqua ex parte revocare in lucem intendimus, & quævsuimaximè medico opportunasunt, exponere,nullam Fos Veneris  1 rum instituta, atquemomenta Aquarum ductuum habemus. is fchnographia Thermarum, &dehisquetractandafunt. Cap.v. Hermas verò per partesliterisinstaurare, haudquaquàm presentis muneris est. Nec facile esset, pro tantæ molis magnitudine,  n õ v n i u s dulorestituit  Hadrianus I. Pont. Max.quam & Ciminam interim appellariin uenio,àCiminoipsomonteinFaliscis, fonteVenerisdeducta.Drusaauté, Ciminaaqui Annia,Traiana,Antoniana,Seueriana,Alexandrina,& idgenusaliæ,no. ferè Dubia in Ther. 2 Oov   ferèiuniorum positionemfequemur:sedquátum exrationeillorumrituum,  Spacia Thersimulatque locorum ipsorum diligenti consideratione colligerepotuimus, percurremus. Spatia in primis Thermarum videmus amplissima: atque ad eo vt quasdam vndeciesmilliespedumtotaarea continere constet,authore Baptista Alberto in libris de Architectura. In Diocletianis, quæ inipsaareaappa rentvestigia,præterspatiavndiqueplatearum,& prætermembra,quæinfe riusacsuperiusvarijsThermarum ministerijsferuiebant,centum continent partitiones, vario ac nobiliffim oordine. Nec mirum, siconsidereturpublici çdificijmagnitudo,inquocommunis fueritratiomaximæciuitatisadexer 10 Magnitudo. c i t i a corporis, ad balneas, ad disciplinas. In  i s enim communia er nt  studia, tamanimi quàm corporis, necaliaerantartium gymnasia, vndefæpè apud authores Gymnasia legimus pro balneis. Necminus addelicias: Nam ratio Gymnasia acresipsaostendit, nonfolùmvsuiinpartibus Thermarumfuiffe consultum, verumetiamvtiuuentus faciliùsadea studiatraheretur, & delicijsmaximè, & ornamento cunctarum rerum. Propterea Thermæ neque digniores occupa bantvrbislocos,nequeintervilioresfiebantvicos,sedvbilocicapacitas,at Forma Ther marum,ac partitið. queoperismaiestasrequireret.Vitruuijtamenętatenon videturfuissecon suetudinis Italicæ (vtipsescribit)magnificareadeo palæstrasac Gymnasia in Thermis: vtquibus satisad exercitiafacerenttùm Campus ipfeMartius,tùm Agonalis,totCirci,totplatex,totaliaexercitationumlocapublica, & priuata. Sed per angustas fieri, & paruas quales Agrippæ Thermas m e m i n i t P l i nius.Pofteàveroperductoimperiovrbisad luxuriam Principum,non m o dò Græcorum more constitutæ,sed dilatatæfuêreamplius,distinctaquem e liuslocaexercitationum,acGynınaliaàbalneis.QualesAntonianæ,acDio cletianædemaioribusextant,acmeliusdispositis:quarum sinunc præsumná describeremagnitudinem,non tam describere, quàm maiorem partem di gnitatis earum mihi videbor minuere:sedharum m a x i m è,ad notitiam tanti ritus, fequarvestigia. In his edificationis eratvaria forma, ac varia dispositio partium: sed a r e a amplissima, q u æ i n q u a d r u m c l a u s a, tribu s v e l u t i perpetuis circuitionibusdiuisaesset. In primovndiq;ambitu,quæ męnioruminftar lib.s. 6. 11. totum edificium claudebant, errant gymnasia exercitationum, varioordine, quædicemus. In secundo, longèlat eque spatia platearum,Xista, acPlatano nes, ad exercitiasub diuo. In medio,totaipfamoles Thermarum,quæ sunt membra balnearum,Atria,simul atq; Xifti, & Palęstrarum amplissimæ porti cus,vbi (authoreVitruuio) Athletæ perhyberna tempora intectisstadijsexer cerentur, actranfirentstatim ad balneas, vtdelineataprimùmipfarumbasi, distinctèmagissingulaexplanabimus,  4marum. Thermæ. Ther.Diocl. 1 Oo vj   Hexedra Lalitudopal. 200 choricen Calidaria FO х NAT  MC) V R a THERMARVM DIOCLE Longitudo Platego Atriolum Die Scola riú BВ Spheriferti H Tostring 71 Apod TOD  Schola Longitudo Ρ Ι Α ΤΑ Laconica Hexedra Basilica Fngida Topida n uนี" Agaagiâetlume ORIINS Hexedma Hephebri ATRIVM nPoarttaitciuosnis la карэхэн Spheristerium 200 Hacera Lpatlitudo. 2  Hemicyclus Condste platego Porucus Tres Stadiate Theatric SET   VN M M HT NONES Hexedra A triolum sperifleriâ Laconicü Coniste Hephebell Hexedra pal. Kesedara LongituPdloa. odyterium Hypocau Dico Engda Hexedra 'Jių rium Porticus Staduatę Aquagiấetlume pal. OCCIDENS OS Tres salo ирэхэн ATIOTES TIANARVM ICON. ATRIVM n Paotrattiicounsis Spenfterum I O O O. Basilica Tepida Frigidai Calidariú Tõstrina A 5oC Hemicjclus sefala ridium PTENTRIO Scola 1    Departibus Thermarum, acexercitationumlocis. Cap.vi. N PRIMA ergo facie, quæestadmeridiem,tertiamferèpartemmediamoc cupabat Theatridium. Quæparseratprincipalis,& tanğcaputtotiushuius ædificij:vndeduplicem (vt quibusdam videtur) habebatvsum;alterum extrinsecus, alterum intrinsecus. Ambitum enim exterioré ponunt fuisse a r c u a t o opere distinctum,& apertum,quo exéplo patet, circūcolumnium poftbafilicam Posticã. ecclesiæ Lateranen.Vnde. f.ingrederenturquafiper Posticum, fiuedextrâverte rentur, fiuefiniftrâ per porticus, apertèvenirentinampliffimam plateam,ac exindè quò vellent, fiue in palæstras, fiue in balneas. In conspectu verò interiori ergaplateas,eratTheatrispeciedistinctumcũsedibus,vbi.f.populus,& maximè nobilessubvmbrameridieisederetadludorūspectacula, quiinplateisexercitij causa f i e r e n t. Partes verò quæ v t r i n q u e à Theatri d i o p l u r e s s u n t, a l i q u i b a l n e a putant.Ná quodrotundaformaestvtrinqueinversurisvnum,pinguntessecali darium,& consequenterponunt vnú Tepidarium,vnum Frigidarium,& vnum lib.5.c.1 Apodyterium. Nec equidem nega uerim debuisse quæ d ã balnea s e o r f u m, & q u a l i extra palestras constitui:partimmulieribus,partim artificibus,&hisquivenien tesàciuitate,statimintrarent,& quasiextràconspectumpopularemlauarétur, & abirent.Verütamenhæcnonfuiflebalnea,hauddubièvidetur:nam iuxtàeá ria Sacella. appictionem,nullus hicvidetur Hypocaufti locus:quoddebuiteffeinmedio, & communevtriqueordinibalnearum,tefteVitruuio,atinmediohiceftThea tridiummaximum.Nec eratconsentaneum,vtmébraspectaculieffentStuphæ. Deest & laconicum,nisifortasse hæc opinio confundat laconicum cũ calidario. Saterat& vnum Apodyterium comune,vtpotevnum vestibulum balnearum: hicduo ponuntur. EtprætereaTepidariaduo,cùm tamenidemfitTepidarium, quodApodyterium.Meliusergomihivideturdicendū,hæc fuiffepartimipfius Theatridij membra, & partimlocaadvsumAthletarum.i.eorum,quiexercendi essentcoram Theatridio, vtpoteConisteria,Elçotesia,& quædam apertè in pla team, forsanequorumcarceres. Duo pofthæc Peristiliaquadracaoblonga,hinc (vt scribit Plin. Lunior de villa sua) exercitationú generibus.Vel Sacella,vtnota turperædiculasæquisvndiquespatiisstaruarum.hæceratprimæfacieipartitio. Porròinalterafacie,quæabaquiloneeodemcomensuhuic refpondet, videntur Gymna fuiffe maiori ex parte Gymnasia, philofophis dicata, ac Rhetoribus, reliquisq; q studiis literarum de dissent operam.Vtpot epars magis remota àftrepituAthle tarum,& litucômodiffimo,tùm propteramenitatévnibrarum(erant.n.inhac plareaPlatanones,vtdicemus)tùm proptergratafontium murmuria, inNataa tionéipsamcadentiū. Quaproptervisum estpluribusantiquariis, inmediohoc Vestibulu. Spatioå Septétrione fuifleprincipale vestibule totius huiusæ dificij. Exquoper40 Hexedre medios Platanones patebat aditus ad Natationem, & hinc, & hinc in porticus, in & Hemi-basilicas, Diętas, & atria, quæ pofteà dicemus. Primùm verò àd extra vestibuli, cycli. & àsinistraerant Ex hedræ pluresclausæ ante plateam, &cusedibus Hemicycli forma, vt disputantes, & tam loquentes, quàm audientes sese omnes afpicerent: & aliquæpatentes, cellscholænoftræad leuiora studia. Maioremverò citer  10 Peristilia fia. atq; hincvnum àTheatridiq,quasipalestræbreues,veldeābulationes.Acinver Spheriste surisvtrinque,vnum Sphærifterium,quod diximus rotunda forma,cum plurib. 30 Schola. exercitationum. Gymnasticarum continebant partem duæ vtrinque facies laterales, hinc,atquehinchabebantpartitiones.Ac fuisseeasadexerci quæ conformes tiadicatasvidetur:tùmquiaplatexhælateraleserantliberæ,& amplæmillecir,  citer pedum spatio. T ù m quia membr a ipsa partim erant Hemicycli aperti cũ sedibus,acvarioornamento,quod apparet,lignorum,acpicturarum:& partimconisteria,Elæothesia,aliaquemembra advsumAthletarum oppor tuna. Totam hanc autem primam circunferentiam circundabant continua porticus,ducentiscolumnisvnostylo. Subinde erantPlatex,amplæ,&.Nam siædificiorumperfectioproportionibushumani corporisresponderedebet,vtVitruuiustradit,perfectisfimèresponder in Thermis Diocletianis, ac melius quàm constituat ex Græcis Vitruvius. Ex Lib. 3. 20 eniminhis Theatridium,vbieratvestibulum,tanquàmcaput: Apodyteriū, pectus: Hyppocaustum, Stomachus: vmbilicus, maxima, acregalisbasili-Diocletiana cainmedio: venter, Natatio. Membrorum veròvtrinque, quæfuntbalnea, rummirifica a t r i a, palæstræ, porticus, Diętæ, basilicæ; æ q u a r a t i o, a c m e n s u r a e f t, v t b r a a r s et de chiorum, acfæmorum. itavtquæ exvnatradeturparte,cadem ex alterapa basilicaameniffima,vbiconuenirentomnes, quivelinpalæstrasventuriBasilica. essent,velinbalneas. Idcircosatisampla,ornatuplastices,acpicturis adhucnitetantiquiflimis. Hinc rectâ in Diętam, quæerateadem capacitate, fed latiortamen basilica, duplici columnarum stylotripartita: nam media par teceuatriolum,erataditusinatriummaximum,& inpalestras: capitaverò hincatquehincdeunebantinhemicyclis,vbifortasseAthletarum ferrentur iudicia Circuncolí - liberæ, vt dixi, t à m q u æ a n t è Theatr i d i u m Stadium, nia.,erant xistum, Platanones, & autem,quæeratanteNatationem enim Xista (authoreVi maximè estiuas idonea. Fiebant adexercitationes Platani, virentesqueidgenusXista,&Syl )interduasporticusSylux,quæerant caperentre-ua. truuio situantèNatationem,vndeaquarum arboresconfitæ,aptissimo autemStadium,itafiguratum,inquit Vitruuius,vtpof frigeria. PoftXiftum, Athletarum cursus, variaque alia sent h o m i n u m copiæ fine impedimento hæ omneserantpartitionesquoquo latere,&  gym: spectarecertamina.Atque veròoperismaiestas,erattotamolesinme Stadium nasiorum,& platearum. Summa,acmultimodisearúmē dio,quæ communes habebatpalæstrascum balneis bris,acmiriartificij,quàm vtræquelaterales. Inea Porticus riterintelligendafit. Incipiemusautem àNatatione,quæpatentiffimapars aspiciebatAquilonem:& exeaàlatereperbasilicas,acdiệtasveniemusin atria,exindeinpalæstrasinteriores,acmaximam bafilicam,& demum ad balnearum membra. Erat i n q u a m Natatio in re c e s s u m e d i o a b a q u i l o n e, l o n Natatio. Gitudinedu centorum pedum, latitudinedimidiominus, ponte,acarcubus bipartitaadinterioresaditus, vbinunc factaestmaiorisaltaris basilica. Habe batautemàcastelloproximo Aquæ Martiæ emiffarium, quod per occultos tubos ferebatadNatationemipfamaquas.Habebat& supernèadlongitudi-Emissarium nem fontesvariaspecie,acMusxa,quæ teftePlinio,expumicibus, acero-aqua Mar fisvetustatefaxisextructa (vt hodie quoque Romæ sunt in vsu) specusima-tię. g i n e m referebant, ac fiftulis modò apertis, m o d ò clausis, vario, blandisli moque salientium aquarumlusu,recentessemperaquasinnatationéipfam Fontes,ac fundebant. Miriscircùmadhibitisornamentis,quorum etiamnumapparetMufaa ædiculæfignorum,& statuarum,fontiumquevestigia, & columnarum bases. A Natatione plura, ac nobilissimamembra: primùmabvtroquecapiteerantPorticusna amplissimæ porticus conformes, nimirùm & adspectaculaNatationum,& tationis. adrefrigeriaconstitutæ.Etaliæadaltiorem prospectumporticuspensiles,mi noristylo.Exeuntibusveròàporticu,tamdextrâ,quam sinistra,eratprimùm fcriptio. 30 Platanones. Dięta.  iudicia. I n Atriis era nt Peristilia, hoc est circü c o l u m n i a, quæ facie b a n t a t r i u m oblongum trecentis pedibus, latitudine dimidiominus. vbiin Porticu, orie simacum sedibus, quæ tertiaitem parte longior quàm lata, eratad exercitia Corticum. iuuenumdicata. Sub dextra Ephebei erat Corticeum,seu Coryceum à Co. Coryceum. ryco, quod videtur pilæ genus in Galeno 11. de San. tuenda. Seu Choriceum Choriceum dictum, Choreisnimirùm, ac saltationibus locus proprius. Proximè Frigidarium, locus ventis per flatus, feneftris amplis. Ab eoqueiterin Spheristeriú ro oblongum, & fimplex, ad pilæ ludum aptissimum. Adsinistram Elçothesium, Spherifleritquæeratad vnctiones faciendascellaolearia. SubhocConisterium, vbificcó Elçothelium.puluere, velharenaluctaturiseseconspergerent. Ab eoqueiterinPropni. Conisteriú. geum, vbi erat in ver  u r a porticus Laconicum, quod referemus suo loco p o Propnigeú. iteà. A Peristilioautem, atrioqueintrantibus ad interiores Palæstras, erant Talastre in Porticus tres stadiatæ,quas hodie occupat longitudo ecclesiæ.Ex quibus m e teriores. diaparsamplissima, centumpedumlatitudine, superingentescolumnas,al Porticusftatissima prominettestudine, cæterùmitafactasecundum Vitruuium, vtilate Frigidariit. diate. Xistus. ra, quæ suntvtrinqueadcolumnasmargineshaberent,& qualeshabethodie viaabHadrianimoleadVaticanumsemitas,nonminuspedum denûm,re liquaqueplaniciesoctogintapedúm.Itaquivestitiambularentcircùminmar 20 ginibus,non impediebanturàcunctisfeexercentibus.Hæc autemPorticus ziso'sapud Gręcos vocitatur,in quo Athletæ in tectis stadijs exercerentur.Quę quoniamexacteeratinmedio,& velutiincordetotiusedificij,vbimaximè conueniresolebatnobilitasadexercitiahyberna,adambulationes,& adspe ctacula;cæterasmeritòexceditpartes,tùm magnitudine, tùmregalimaie stateoperis, altiffimisfuperbiffimisqueprominenscolumnis,& patentissima vndiqueinperistilia, inbalneas,in Hypocaustum,inNatationein,acfuper nè feneftris illustrator latissimis. 30 præualereassuesceret: deinde ad sanitatemtuendam,quiduofuerant fines præcipui:& demumaddelicias.InquibusomnibusmutuaBalnearum,atq; Exercitationum errant beneficia. Nam quantum conferebant balnea lassatis rumque similiter coniunctaeratvtilitas, acmutuaerantinuicembe Thermarumneficia. Nempe Thermarum ratioduos,imòtreshabebatfines:primumad instituta,acdisciplinamiuuentutis,quæficviribuscorporis,honestisquevitæconatibus fines et Exercita exercitatione, aclaborecorporibusadroburviriumreparandum,& admun tionum muditiam. Tantundem rependebant vtilitatisexercitia,fine quibus balnea non tuo beneficia possuntessevtilia,maximèsanis.ItaqueGalenusinlibrisdetuendaSan.mo Non p i l a, non sollis, non t e p a g a n i c a Thermis Prz.   tali parte, eranthæcmembra,situaliquantifperdiuerfoabeo,quem assignat €phębeum Vitruuius.PrimòEphæbeum, in medio, hoc autem erat Hexædraamplif Balnearum 1 Bal. Recurel Atria. De exercitatio num generibus, ac preparationibus ad balnea. Cap. vir. CONSTAT ergo hactenus,balnearum locainThermis,atqueExer citationumfuisseconiuncta.Idqueoptimaratione,quoniam vtro dobalneaRecuratoriaviriumessedixit;modò Exercitia Præparatoriaadbal toria. Exerci nea.Quod frequenter inalijs authoribuslegimus,& succinctèeoEpigram tatio,Prapa ratoria. mate colligiturMartialis vnde dieta existimat D. Augustinusinconfessionibus,quòd Bénestaisdivíes,idestquòdan xietatestollat. Ergo vtpro veteriinstitutogenerosæ Ciuitatis,quam diximus inlaboribusnatam& educatam,magnaeratomniuminThermiscelebritas; itapro tempore, & proconditionibuspersonarum,Exercitationeserantva- Exercitatio riæ,& invarijslocis.QuippealiæinPalestrisfiebant,aliæinXistis,aliæinnumloca. Hexedris,subdioalię,instadio,& platearumliberofpatio;alięinpluribus fiebantlocis.Necsecusquædamerantcommunes exercitationes,pueris, senibus,& iuuenibus, vteo carminenotaturà Martiale. tereolusuum genera,quorum (vt cætera rumrerum viciffitudincs sunt) vix nomi. Iuuenum  1. De fatu.  Præparat, aut nudis tipitisictushebes. Vara nec iniecto ceromate brachia tendis, Folle decet pueros ludere, follesenes. Quædam propriæ.Iunioresautlucta,autcursu,autfaltu,autpilaludicriss;Personarum 20 idgenusexercitijscepissentafsuescereinEphebęis.Quemplanèmoremre exercitatio- presentauit Plautusin Bacchidibus, vbi in personam seuerisenisindicatpue-nes. Rosprimis vigintianniscum Pedagogo in Palestramantè Solem exorientem veniffefolitos, d. Βαλανέα Romanorum Puerorum Non harpaftamanu puluerulentarapis. Vidiffesigiturtum frequentem civitatem,nonfecusatq; hodienossolemus Vite ratio facrasEcclefiasfestissolennibus, frequentare Thermas. Alios quidem adho nestos, quos primo instituto proposuimus vitæ conatus.Alios ad sanitatem Ther. tuendam. Et alios ad oblectamenta tam animi,quàm corporis capienda, pro celebritate illa populi, pro variarum rerum, ac ludorum spectaculis. Et d e n i que pro amænitate loci deliciosissimi: vnde barevéesidcirco dictas græca voce Ibi cursu, luctando, hasta, disco, pugilatu, pila, Saliendo se exercebant, magis q uam scorto, aut f a u i j s. Fortiori autemiuuentaiis dem quidemexercebantur, velacrioribusetiáple runqueludis,halteribus,harpafto,& aliquandocęstu.Velarmorum varijs g e n e ribus in Palestris. Vel in Hippodromis cursu equì, vel agitatu. Athle - Caftus. t æ v e l s t a d i u m spectante populo de cusrrissent, vela c r i pugilatu dimicassent,  Halteres. cum cęstibusplumbeis,acbaltheis implicatismanibus,quo grauiùs percu terent. Alijsaltusimul et halteribus, item plumbeis globulis. Alijinsphę risterijslusifsent pila, vel foliinplateis, vel Harpasto, pilamaxima. Senio-Harpastum. resquidam, quorum erat ad sanitatem præcipuastudia,vtrecensuitGalenus, ambulationeduntaxatantèbalneumcontentierant. Alijclaralectione, vel Senumexer disputatione in Hemicyclis, velde clamatione oratoria, vel cantumusico. Alijcitationes. modòvnovtebantur, modòalioperoccasionem, exercitij genere. Id circos. Defa. tu. nec mirum septies quosdam aliquadielauari solitos, quod apud Plinium le gitur. Alexander Seuerus, vt  meminit Lampridiuspostlectionemoperam Palęftræ, aut Sphæristerio, aut cursui,aut luctaminibus mollioribus dabat, m o x venieba t in balneum. Aliis supplebant diurni operris labores, quia d r e Operari j. creandum lassatum viriumr oburvsuriessent balneo. Cæterùm lenis exercitationis modus erat ambulatio,quam Senes, & Virigraues,& imbecilles potiffimùmobibant. Dignioradlaudem,acdisciplinam,eratexercitatioin Palestris & armiseorum, quirobustisess entviribus. Etquam oriquazíar, hoc 2. Desa.cu. est vmbra t i l e m pugnam, vt interpretatur Gellius, Græci appellant, divodepce T e u Tirl, ob salubritatem a gymnasticis dictam,Galeno teste. Innumera præ Рp   nomina adposterasætatestransiêre.Necnostræprofessionisestexercitatio Nostrisecunum singulosmodos,aut genera:quibusiliveteresvterentur, recensê. livita dif ferensaban tiquis. re, quam partemà Hieronymo Mercuriali, Medico atque Philosopho scientissimo elucubratam, propediem in luce meditam videbimus.Verùm exco rum exercitiorum censu, quem fecimus, hanc præcipuam habebimus vtili tatem, considerantes quàm longè differathic præsens nostri seculi viuendi modus,& maximèPrincipum,necopportuno pofteros destituemusconfi lio. Sanèvbiillorumtemporum vitaaffiduisdeditaeratexercitijs,vtpote 10 quæ & fanitatem conseruarent,& promptiores redderentviresad singula, tàm animi, quam corporis munera o b e unda; è contra hodie in continuo ocio degitur. Età Principibus maximè, quiob decorum, ac ampliffimi ordinis maiestatem, semotam à communi consuetudine degentes vitam;aut curis animi grauibus iugiter tenentur. Aut siad ludicra aliqui tranfire foleant, ea Exercitianoinertiasunt, tabellæ, alex, vel Trochinouus modus hàc illuc supermensam stritemporisagitati: inquovitægeneretandemobdefidiain,& anxietatem,totam breui inertia, cursu vitædeficiant. Quapropter generalisfimum hoc ac saluberrimum sibi 20 Exercitijnequisqueproponeredebet institutum,exercitiumnecessariumessead susten cesitas ad vitationem vitæ: inquire omnes sapientes, variorum quenationum ritussum moconsensu conueniunt. Verùin quoniam hoc tempore non solùm pluri maveterum exercitiorum generanon funtinvsu, imòvelipsorum nomina (ut diximus) sunt obscura; necadeoilisvtiessetpoffibile,quinec Palestras habemus,necThermas,proptereàingratiamnoftrorunPrincipum,aliquot particularium exercitationumgeneraproponemusexGaleno, atq;alijsan tiquisauthoribus, quarum multas si non in campis et plateisobirepoterit; licebitfaltem et incameris et inatrijs,acviridarijsfuis,seruataetiainperso nægrauitate,percommodèexerceri.Exercitationum (inquitGalenus)com Exercitatio-pluresdifferentiæinueniuntur. Aliærobustæsunt, & violentę, fiuevehemen num dife-tes; aliæmediocres,&lenes. Aliæ singulares, aliæcumalio fiunt. Etaliæ rētiæex Gavni uersas simul corporis exercent partes, aliæ vnam magis,& aliæalteram. le.2.desan.Vehemens exercitatiodicitur,quę& robusta,& celerissit:atquehæcmul tergrauequoduistelum iaculari,& continuatisia&tibusoneremaximo subla  tame, pervertere temperaturam coguntur. Vnde non m i r u m est, q u i p r æ p r o p e r a m accelerentsenectam, incurrantque facileautinmorbosrenales,autinpoda gram,autinHemicraniam,aliosqueidgenus affectus,medioquevelutiin fum tuen to, tash abet differentias. Quædam enim fiuntocylimèagitatis, quædamrobore, acnixu, quædamfinehis, quædam cum roborepariter & celeritate,& quæ Exercitatio-damlente.Fodererobustaest,& singularis exercitatio,remigare,discum nugenera. mittere,mouericeleriter,saltare;idquefineintermissionemaximè. Simili et ac clivis ambulare.Grauiarmaturatectumceleriteragitari.Continua tusdiucursus.Et iterfacere.Perfunem manibus apprehensum scandere, modo in Palestris quo solitum erat puerosexerceri.Velèfune,velperticama nuapprehensa sublimenpendere,acdiutenere.Manibusinpugnum redu: &tis, iisdemqueprolatis, velinaltumsublatis. Halteribus,feuglobisplus minusgrauibusleorsumpositis,vtraqueseinflectensmanu attollere.Quæ robustior erit exercitatio, si qui ad sinistram manum fuerit dextrâ coneturat tollere, & sinistrà qui ad dexteram. Diuq;,acsępiusidentidem facere.Potest & foliscruribuserectusacvnolococõsistensceleriterexerceri, modò retrora suminsiliens, modóinanterioravicifsim crurumvtrunquereferens.Solus fimiliterexerceriest,summispedibusingredi,tensasqueinsublimemanus, hancantrorsum, illamretrorsumcelerrimèmouere.Sehumi celeritercir cumuoluere, velsolum,velcumalijs.Cum alijsverò& citràrobur, & violen tiammultæexercitationesperaguntur. Vtcursusadmetam constitutam.Vel vibratilisar morum meditatio. Summisinuicem manibusconcertare.Co nes cú alijs. ryco,& paruapilaludere. Stare, nec finereseloco dimoueri;quo exercitij genereMilo Crotoniatescelebratur.Velseerectum,& circumactum 10astantemmutare.Complecti quempiam manibus,digitisquepectinatimiun ctis,isque diuellere seadnitens. Medium appræhendere,ac sublatum ceù magnumonusprotendere,&reducere. Luctaytriusqueluctatorisrobur maximèvtipoteruntSeniores,& quiadmotumsuntimbecilles. Ambula.Vltimò Fri &tiones suppleant. His omnibus ex ercitationum generibus,imòinfinitis alijs (vtGalenusinquit)docebant Pædotribæexercendumesse:& velinPa læstris, velextrà, velinaltopuluere, velconculcato, & firmosolo, & omni noantèbalneum. Quibus & nosiuxtàpræsentemviuendimodum,siuepro præparatione, fiquis velit ad balneum,feusinebalneo,vtpleriquehodiefa tecdicere,quæ situborealifrigidas,acpurasstatimàfontibusadmittebat aquas.EratenimNatatio (vtidiximus) separataà partibus balnearum: citationes, le  cimus, percommodè vtipoterimus. Sed de exercitationum emolumentis 40 alio loco occurretdicere: nunc ad describendas balnearum partesin Thermis redibimụs, acaliaineisrequisitaexplicabimus. De Natatione. Ne i principes autemThermarum partes, primùm de Natatione opor Cap. vii. Рp ij nimi. Exercitatio. prope rium mem brorum.exercet. Luctaricum roboreest, ambobus cruribus alter alteriu scrus com plecti, minibus intersesecollatis, & collo. Manua lteratanquamfunecol loalteriusiniecta,ipsumqueretrorsumtrahere, acreuellere.Pectoribusex aduers o i n n i x i, magn o se co n a t u i n uicem retrudere. Ad singulares po r r ò universalis, attinet electionem, qua parte corporis quis vtivelit, aut indigeat exerci- particula tatione. Aliæ enim vniuersas simul exercent corporis partes;quo nomine ludusparuæpilæàGalenoprætercæteracommendatur. Aliæ vnam magis, aliæalteram exercentpartem, lumbos, crura,brachia, spinam,pulmonē, Deparuepi thoracem. Itatio, cursusquecrurum exercitationes sunt. Acrocorisini, hoclxludo. Est festiuæs altationes & Sciamachiæ, crurum, brachiorum,& manuum pro pria. Lumborum autem, affiduèse inclinare,autpondusaliquod àterra tollere,autassiduèmanibus sustinere, Spinam transuersim exercet, atollere (vt dictum est) alternatimhalteres. Thoracis vero et pulmonis suntpro priæ, maximæ Respirationes. Cor. Celsus inter exercitationes imbecillisto lib.2. c.8. macho conferentes,claramcommendatlectionem.Maximaveròvoxvocis quoque instrumentaomniapermouet, dilatatque:naturalemexcitatcalo-Clarale&tio. rem, & quomagisfitafsidua, eomagisvniuersis corporis partibus communicatur, vtinnostris concionatoribus experimur et in libro de voceà Gale noestproditum. Hoc genere exercitationum per vocem, quælenessunt, Lenesexer Lufta. Etio,& amo tioneetiam quimagis validi. Velequitationessufficiantur, gestationesquebulatio. seucurru, seuproægrotantibusin Scimpodio,& Sellaportatili Cap. 18.   Nimirùmquia singularis eiuserat, acpropriusvsus, non tàm quidemadlaua Varzac efttionem,quàm ad exercitium. Eftenim Natare laboriosum, quòd itaiacta quoddam e rerectèAristotelesinProbleumatibus,Natationem,oblaborem,cursuico parat, aquarum periculaexercerentur. Et Galenus testator de suo tempore, pue 1, Defa.tu,rosin aquis qumasina's Feudasfacere consueuiffe,idest, quòd prima fiebantin of Pifcina, Piscina P u aquis pueritiæ rudimenta. Itaque præter Tyberis commoditatem,propria adhuncritumlocaconstituta fuisseinvrbediximus,quæ diuersisexplicata nominibusinuenimus, Natationes, Piscinas, Stagna, atque etiam naumachias, Piscinædi&tæ, quòd & pisces hauddubiècontinerent, nontamenad vsum piscium, nam ad hoc propriaerantviuaria,sed ad munditiam seruanda aquarum,& amoenitatem. Videturautem exercitatio numhuiusmodi causa, primùm constituta fuiffe Piscina publica dieta sub cliuo Capitolino, ad veniebat populus. Exca& piscinæaliquandofuntdictæparticularesNata tiones,& labra lapidea, qualia Romæ videmus maxima, nec non portatilia, ac lignea advsum etiam calidarum aquarum. Quod authoritate constatM. 08 Tullijad Q.Fratrem desuisbalneis,Latiorem (inquit)piscinamvoluissem, vbiiactatabrachianonoffenderentur. Hasà Galeno,acalijsGræcisautho x a n u p u s o ' n ga ribus, modò x o d u a k r í z s a s, mod ò Bari i su p o e edicta s legimus. Parva autem Solia, Capesupulco peluesquequercus; quam differentiam planamfaciuot Galeni verba lib.7. Mé πυελοι. Stagna. thodi, vbi ad ventriculis iccitatem curandam, quæ Hecticamminetur, nata tioneminbalneo factam consulitivteīsnonumerisus, id eft in piscinis natandocó stitutis, quàmivtotspixpsīsavenoīs. Memorantur porrò & Neronis Stagna,vbi Amphitheatrumà Martiale poniturinprimis Epigrammatis d. Hic,vbiconspicuivenerabilisAmphitheatri Erigitur moles Stagna Neronis erant. Quod tamen stagnumnon plane constatanad natationis usum, anpro Nau stagno circumpofuit, conseuiffe. Stagnihuiusin Vaticano Naumachiæno Navale Sta minememinit Egelippus Græcus author, in D. Petri & Pauli martyrologijs. Cæterùm NaumachiapostNatationes& balneas,altiorisfuitinstitutiquàm Naumachia adnatationem,nec,nifipoftimperiaprincipuminuenta. Nempe inqua nautici certaminis fieret spectaculum, vel ad disciplinam militarem, q u ò faci of Finis duplex liùsmilites pericula Aluminum, vel naualis belli, cùın opus fuisset, possent Naumachię euadere. Sic Polybius refert Romanos primo bello Punico, quod aduersus Chartaginienses gesturierant, militessuosinnaualidisciplina exercuisse. Et SuetoniusAugustumcúm effetcótrà Pompeiumiturus, inportuIulioapud Baias milites in nauali exercitatione tota vna hieme detinuiffe. Vel erat N a u jucundunfpe Etaculum. machiævsusaddelectationempopuli,vtcæteraspectacula.Pluraenimerãt q u æ præberent animo delectationem:primò aluei magnitudo, ac Cyrci c u   1 vivarium. blica. Quam (ut Festus Pompeius est author) & natatum et exercitationis caussas duo. rat, gnum. xercitium, tismanibus, accruribusaffiduè, vniuerfæcorporis exercentur partes.Qua Et Oribasiuseaminteraliaexercitationum generaadnumerat. Imò Natationis in vrbe fuitprimus,acantiquissimus vsus ante balnea:quando scilicet conftitutæ fuerunt exercitationes in Campo Martio,vbiiuuenes (te ste Vegetio)  puluerem, sudoremque detergerent, simulatque a d o b e n n d a machiafuerità Nerone constitutum.Vsumtamen vtrunquepræftarepote Neronis no- sicut& de altero eius nominis meminit Tacitus,claufifle Neronem in m i n e stagna valle Vaticani spatium, in quo equos regeret, apud q u e n e m u s, quod navali iusdam OZ   jusdamamplissimiforma,editaadcommoditatem tantiludi,inconspectu maximæciuitatis. Deinde classisineam, etiammagnarumnauiumintrodu Etio, & ludusipsecertaminis. Etdemum populicelebritas, & velipsaaqua r u m copia, atque amænitas, m a r i s i n f t a r tranquillissimi. Et quæ apertis e u ripistantamvimaquarun vnohaustureciperet,laxaretquefinitospectaculo.Martialis inquo mouet admirationem aduenæ Martialis,dum sicadulatur Domitiano.locus. Cui lux primas acrimunerisipsafuit. Ne tedecipiatratibus naualis Enyo (Paruamora est) dices, hicmodò Pontuserat. Ex quo plane authoritate colligitur, in Cyrcotammarisquàm terræcelebra In Cyrco rispectaculadebuisse: vbimodòterra (inquit) modòPontuserat. Quod Naumachia. Cyrci MaximisitusconfirmatinterAuentinnm montem,& Palatinum de pressus,inquemGabiusæaquæriuus,quemMarianam posteridixerunt,perGabiusaa petuòinfluit na. na aqua,vtFrontinuseftauthor, quæ fapore,& crafficiemarinamaquam AugustiNa 2 0 æmulabatur, in q u a faciliùs natat r, t e f t e q u o q u e Aristotele in Problemati - u m achia: sub colle Hortulorum, ademiffarium aquæ Virginis. Authore Sueto Domitiani. nio,quiasseritDomitianum circunstructoiuxtà Tyberinilacu (inter Cain pum Martium scilicet& ipsum collem Hortulorum, vbi nunc iuxtà Sanctito pluresessentqui exercerentur et quifrequentarent Thermas adca,quă Bal spectaculaquàm quilauarentur.Eteodemtemporemagnahominum co-nearum. piaexercebatur,&quivno,&quialioexercitiigenere. Atadbalneasin trantiumcontinuaficbatsuccessio, nam cùm priores occupassentloca, reli qui (vt scribit Vitruuius) circunstabant,dum lauarentur. Pleriquesani,ac robusti, poftquàm in exercitijs incaluissent, nullisferè alijsvtebantur bal neis(vtinfràmonftrabitur)nisinatatione.Quæ parsidcircoeratamplissi ma,& exercitationibustamsubdialibus;quàm interniscommodissima. Ve lBalnearum transiffentdunt axat ad balneas calidas, atqueillicoegrelliinsiliebantinfrigisitus. dam. Summa ergo artificijin balneishæc fuissevidetur, vt in locoessentquả commodo omnibus seseexercentibus;acmirandiplanè artificijministerijs totaquarum,calidarum simul,& tepidarum,quæcontinụèexsefunderen turin balneas. Pro commoditate, ac ratione lauationum, erant omnes ad Рpij meri  Et parvndafreti, hic modò terrafuit. Non credis?spectes dum laxent æquora Martem. ropriè verò ad vsum naualis certaminis, duæ fuerunt certiffi-qua Maria inæNaumachiæ.PriinaAugustitransTyberim,adductâobidineamAlfieti Sylueftriædesapparentvestigia) naualespugnasineo, penè iustarum Claf fiume didisse. Luxuosissimus Heliogabalus, euripis vino plenis, naumachia Heliogabali. exhibuisse. Tradit Lampridius. Sed nuncad partes balnearum proprias acMilanius. De partibus balnearum, esde Milliariis vafisin Hyppocausto. BÀLNEARVM veròinThermisnoneamvidemuscopiam, quamde BВ exercitationum locis iam diximus. Ex quo planè videtur, quod m u l n u m pluralo Exercitatio Siquisades longis serus spectatoraboris, bus. Alteraverò et magis celebris, fuit naumachia, quam Domitianidixi. mus Apodyteriú seu Tepidarium. meridiem,vndefolissemperillustrarentur,acfouerenturaspectu. Nam tó: taeafaciesanteriorerat distincta in duos ordines balnearum, vnusàdextris Hypocausti,&alteràfiniftris. Etvterqueordo distinguebaturinquatuor Cameras, conformes vtrinque, ac ita collocatas, vt ex una in aliam Etuplatearum àsitumeridionaliproposuimus,progressuferèad media pla eratceùvestibulumregaleApodyterium,seu Tepidarium.Quem lo mirabilem, meritò alterum noftræ ætatis Trimegistum dixerim. Hinc fini Hypocaustús tror sumn modicus introitus in Hypocaustum. Sive (vt meliusdicam) super Hypocaustilocum,quirotundaforma,cumopportunishincatquehincmē Cryptoportibris, nuncprimisNouæEcclesiæfacelisdicatuseft.Totaeniminfràmoles res. Aftuaria. darum, aliæ frigidarum aquarum ductus, alię calorum æstuaria, aliægrandes tores (vt vocabulo vtar Iure consulti) curam succédendi ignem habebant in Thermis. Eratautem vnicum, teste etiam Vitruuio: collocatum tamenin medio,vtcommuniseiusessetvsusvtrisquecaldarijs,exvnapartevirilibus, 30 exalteramuliebribus.Idqueperopportunaæstuaria,quierantmeatus ab Hypocausto perpetui, vndecalores occulti in cameras caldariorumipsorum penetrabant. Quod tetigit in primo Syluarum Papinius Statiusd. Vbilanguidusignisinerrat dioplacet)æneatamenpatinasubiecta. Quorumidemeratnomencum ca meris prædictis,vnum caldarium, alterum tepidarium, tertium frigidarių. Legitur item Milliaria, a magna fortasse capacitate, quali plus millelibrarú aquæ caperent.Quippeidgenusvasa, teste Vitruuio,maximi aheni inftar, actestudinataadcircinum,itaerantcollocata, utex tepidarioin caldarium quantum quæ calidæ exisset, infueret, de frigidario in tepidarium adeundem modum. Atque hinc planum artificium est, in quot a n t opere laborauimus, quomodo ad communeinvsumtantaaquarum copia exvafisfuppedi tareturinbalneas. Quod restituoinlucem ex Seneca, quidum adLucillum miradeliciaruminuentasuitemporisdetrectat,hocafferitobiter. Construiteam, huiusædificij, concameratainuenitur,acdistinctaaddiuerfosvsus. Aliæ Fornacato. Criptoporticus erant patentes ad refrigeria in magnis caloribus. Aliä сali 40 IO CUS. 20 cum laxum, & hilaremdescribit PliniusadApollinarem, hocest,amænum, acmollisteporis, tùmsolaribusradijsàmeridie illustratum;tùm proximi Hypocausti vapore laxum:vbi nimirùm ingressuri ad balneas exuebát vestes. Qux quoniamprimaerat, acnobiliffima Thermarum pars,nobilissimietiá numapparetartificij. Figura inquadrumoblonga,achemicyclisquaquefa ciedistinctum,cum aditisvndiqueintercolumniorum,columnisquesuper nætestudinisaltissimis,quætàmauthoris,quàmoperissummam maiestate ostendunt. Vnde sapienter hæc pars, proposita est pro prima porticu Ecclesiæà Michaele Angelo Bonaroto, quem pictura, sculptura et rchitectura cloacæ vnde lauationes exonerarentur, & aliadenique Hypocaustum,atq; Lib.s.c.10 Hypocaustimembra.EratergoHypocaustum fornaxinferior,vbifornaca Aedibus,& tenuemvoluunthypocaustavaporem. Vasariatria SuperHypocaustotriaerant compositavasariaænea, velplumbea (ut Palla Mincepice Græcis hæc Mirsapíe, Latinis (vt apud Catonem, Senecam, atque Palladium folitum aditus.Inmedio quidemerat Hypocaustum, vtrinqueveròinversuris La conicum, deinde consequenter Calidarium,Frigidarium,& tepidarium,vt planèsingula explicabimus. Principio contram Theatridium, quodinprospe pateret solitumin ipsis milliarijs dracones, quæerant fistulatavasatubæ instarære tenui, perdecliuemilliariocircundata,vtaquadum ados draconis con lis canales occultos, q u o r u m aliquæ visæ sunt reliquię in eruendis ad nouam 2 0 ecclesiam m a c e r i j s: atque ex hinc aquas de duci s o l i t a s in N atationes, i n F o n sicis organis n o n absimiles. Q u i a d firmitatem quidem, ac robur faciebant Tubi etepi ipsis v a l ibus: simulatque artificio ferès i m i l i q u o n o s hodie Romæ nymph e i s s t o m i a. acviridarijsdamus velarcemusaquas,habebantfiftulasinfra parietes occul tas, q u æ in cameras balnearum,vbi opportunis locis essent epistomia, infun d e b a n t aquas. Quod ex eodem Seneca non est dubium, d u m n i m i æ l a u t i t i æ adscribit, quod continue aqua calida ex sefunderetur in balneas,acrecens semper, veluti ex calido fonte per cameras transcurreret. Et ex Galeno, vë iam decamerarum dispositionibus dicemus. De Laconico, esde Solis Balnearum. RDINES quidembalnearumin Thermisduosdiximus,vtrinque scilicetabhypocausto vnum testeVitruuio,alterumvirilium,alte Balnea viri. rum muliebrium. Nam vtscribit Gelliuslib.io.cap.3.authoritateVar ronis2.deAnalogia,Pudornon patiebaturvtrunquesexum simullauari,sed do liadoMu aquarкт epis t o m i j s, fundebantur. Vbi nota h a r u m ductuum in Balneas alterum arti 30fícium. Eranttubięne ierecti, tresàdextera et tresàsinistra milliarijs, m u 40 glomerati specie plurieseundem ignemambiret, pertantumfueretspatij,vasis. quantum acquirendocalorisatisesset. Quare triplex semper aqua invalis, acinfinitæcopiæ, calida, tepida,frigida, nam successiuas vasexvase Caldarium piebataquas.primum quidem,quod caldarium dicebatur,superprimavas. hypocaustistraturacollocatum, tanquam omnium vasorumvalis, calfa tes, Dracones i 10 са. Etasperdraconisinuo lucra fundebat aquas. Secundumsuperhoc erat tepidarium, quod a primi vasis vaporibus modicè incalescebat. Tertium Fri- Frigidariú. gidarium: vtpotequod frigidass tatimab emissario aquas capiebat et quan tum subiecta vasa vacuabantur, tantum hoc nouarum aquarum infunde- batfinefine. Emissarij verò huius obscura quoque ratio est. Nam vide-Emisariaa mus quidemad Thermas ipsas propria aquarum Castella constituta: qualequarum· extatin Diocletianis poft palestras orientali parte. Etin Antonianisàt ergo Theatridij admeridiein. Horum tamen altitude nullibi excedit planiciem bal nearum. Nec vllus est modus, neque artificij vllius vestigium, insummis Thermarum testudinibus, vndetam altè deduci potuissent aquæ.Videturita que mihià proximisiliscaftelliscóstructosfuiffeinfràpauimentatotiusm o Tepidarium lib.io.administris balnearijs veletiam iumento alligato, subleuatæ aquæinsu ipsihypocausto piscinam infundebantur, quæs ponteposteàinsubie pernamn rursusin Tepidarium,& conse ĉtumFrigidariumcaderent,& exFrigidario, quenterinCaldarium,velutidiximus. Vnde plenas emper vasa suis aquis imumcalida, medium temperata, supremum frigida, quæ per fistulasencas hinc atque hinc in quolibet vase compactas, versis ad vnum quenque actum Tympana Fistulę aqua ac alias piscinas. Hinc, tanquam a communi fonte, per rotas ac tymparo t e a c na, ac id genus alias machinas aquæ hau storias, quas describit Vitruuius commoditas coniungi desiderabat. Quanquam in hisque post Varronis et post Vitruvi j ętátem f a &t æ sunt, hæc distinctio non sit mihi ve risimili. Q a n rum. liebria.   do auctoritu exercitationum,ac lautitia inThermis,vix publicas potuisse virorum frequentiæ sufficere videtur.Itaquepromiscuas potius ex eo tempo refuissereor,achonestismulieribussatisfecissepriuatas,velquasprincipes Matronas constituisse iam scripsimus, Agrippinæ Neronis matris balneas, terke inbal Olympiadis,atquealias. Cameræ in quoque ordine quaternæ, Laconicum, Calidarium, Frigidarium et Tepidarium. Velternæ adminus:hoc enim non videturdubitandum,non fuisseThermas vno stylo vbique,nequevno ordinepartium et tam in publicis quam in priuatis. Et hinc in authoribus Celsus. Tanta earum inuenitur varietas. Quaternas point Celsus lib. 1. cap. 4. dum scribit, Sub veste primùm paululumin Tepidario sudare folitos: tùmtranfi- Galenus. re ad Calidarium, vbi sudabatur largiùs, quod ponitpro Laconico: tumque aut in calidamd efcendere,autinTepidam;deinde in Frigidam. Easdem C.i72ero qua λουτρόν Pyriateriit. Hypocaustü point Galenus lib.10..Methodi, a Laconico incipiens: Primùm enim inquit ingredientis inaë reversantur calido:hinc secundò in aquam Calidam defcé dunt,quod propriè aoutcovait appellari. Ab hac mox in tertiam Frigida ibár: & tandem in quarta sudoren detergebant, quod erat tepidarium, seu Apo dyterium græce dictum. Inquo& Celsusdicit,fenouissimèquiselauissent abstergere,& vngereconsueuisse. Quem planèordinem& inhis Thermis, quarum videmus vestigia, seruatum inuenimus. Extat Laconicum adsuda tiones inquoqueprimæfacieiangulo vnum, idquenonadeomagnum,hu- 200 iusenim partis noneratvsus communis, nequeadeo necessariusomnibus, vtquibus fatis ad sudandum exercitiafeciffent. Sed imbecillis proprius et quiminus validiadexercitia,sudoreshocloco excitabant:subindeintrabát adcæterasbalneas. Nomen autemdeduxità Laconibus: quos huncritum rium, Laconicum veròc ommuniter omnibus, & Ciceroni quodam loco ad Sphærifte- Atticum. Suetoniusin Vespasiani Cæs. Vita Sphærifterium hanc partemap- 30 rium. pellat à figuræ rotunditate. Locus quippe concameratus ac rotunda fpecie, Lib.5.c.10.habens,authore Vitruuio, inhemisphæriolumen,exeoqueclypeumæneú cathenispendens,percuiusreductiones,acdemissiones perficeretur Suda Clypeus Lationum temperatura, vaporibusnimirùm ficretentis,veldifflatis. Erat autem huius institutiratio, vtfcribit Dion in Annalibus, vtfus è intrantesinhac par vfus: t e sudaret et sub i n d e unctione ad hibita, statim descenderent in frigida. Quod planè clarius ex Galeno fiet pofteà, ac à Martiali obiter tangitur in Hetrusci Thermis, ad Oppianuin tribus versibus. tepidum tamen aquarum vaporem potuisse suscipere. Proinde Celsusineo, affus dixit sudationes lib.z. cap.27. alibi exiccari dixit corpora: Seneca exani tos  .primò instituise, Plutarchusin Alcybiadis Lacedemonijvitaeftteftis. Græ Calidarium. cialiquando Ilupice Supo's,& nonnullisuTorw50sdictum,ob igneum ineova Sudatorium.porem:Latinis modo Calidarium,inodò Cella calidaria,Senecæ Sudato Laconici coni, ncis. mari, ritus si placeant tibi Laconum Contentus potes arido vapore CrudaVirgine, Martiaquemergi. Vaporíqua Virginem dixit, & MartiaminhisbalneisRomanasaquas,blandissimifrigo litas in Laco ris. Videtur autem Laconici aërem,siccum quidem fuisse, atque igneum, Bico. Galenus & alijmediciinterdum elixari, Oribafius planè aëreferuidu dixit, ac præhumidum i n Laconico. Quod rationi consonum sit. Nam ex æstuarijs, partim quidem siccis, ex quibusiaindiximusabhypocaustooccul   10 su  tenui calore, diceba t Galenus x. Methodi, reservatis vniquem eatibus, liquatisque per totum corpus superfluis,sudores, vtilesquemadores clicere, quæ inęqualias untęquare, cutimlaxare et multa quæsubhac detenta erant, vacuare. Ex Laconico patet aditus i n Calidarium, quod proprie Calidum So aoutpór, hocestlauacruindicitur, eodemteste,& calidum Solium. Patetau-lium. tem hæc pars,duplex magnitudine ad cęteras cameras:vt cuius in balreis maior erat necessitas, longior in e o f i ebat mora, ac usus frequentior, præsertim minusvalidis ac imbecillis. Vbi meminisse oportetex Celli verbis, quæ pau Halat & immodicosextaNeronecalet. Mox tertiolocoeratFrigidarium,seuFrigidumSoliuminquo aquaexquisi. acviresdensatacutifirmarentur. Qui enim, subdit,hoc modo àcalidislaua- Vlus. tionibus, sudationibus que laconicis ftatim in frigidam non descendissent, Paulo post transpirato immoderatius calido innato,totum corpus frigidius euafiffesentiebant.Quodfanèfrigidælauatiofieriprohibebat,totum semel corpusconftringendo,&constipando,nonsecusatqueaccideresoletcalen tiferro,quod quùm infrigidammittitur, & refrigeratur,& induratur. Atque huius rei causa potissimum constatinuenta fuisse balna, pro imbecilliu vm i delicetcorporumrobore: hoceftvtimbecilla corporapræcalfacerent, itaque ad frigidum Soliumpræpararent. Adeoquepræualuitsemperfrigidarũvsus,Frigidarum 40vtvixquidam alijsbalneis vterentur. Carmis Maffiliensis Medicus, etate Neronis prerogativa, scribit Plinius lib. 29. cap. 1. damnatis prioribus Medicis, ac balneis, frigidalauarihybernis etiam algoribuspersuasit. Merficęgrosin Lacus.Vide bamussenes consularesin ostentationem vsquerigentes. Ex frigido tandem Solio erat exitus in Tepidarium, tepidiscilicetaëris,q uod diximus apodyterium, sive spoliatorium. Etcratfinisinbalnco.Ancè Tepidarium tamen Cella olearia in Diocletianis commodè est ut videtur Cella Olearia, eademque Tonstrinæ na.  tôs penetrare ignes in cameras, partim aqueis per suostubos ac spiracula, v a pores misti ad hemisperium Laconicipetentes,sub curuatura magni clypei intenuiffimasconuertebanturaspergines,quæimbrium modò super capita Facultates. corum,qui morabantur in Laconico depluebant. Potest autem hæc prima pars lo ante retulimus,vel in calidam fieridescensum, vel in tepidam, & quali ad uno, tenore vtentis arbitrium potuisse temperari. Et Galenus in 3. de  an, t u e n d a idem videtur asserere, nimirùmquòd in Calido Solioaqua, exvafisquæ diximus Miliariorum calidis, tepidis,ac frigidis, poteratadvsum trifariam tèfrigida, ad hunc videlicet vsu minquit Galenusx.Methodi;vtquæ fuerantFrigidum.So fòexcalfacta fiue'in lium., anterioribus Solijs, fiucin exercitijs, hicrefrigerarentur, An balnea calida. fieri, tepidam, aciusto calidiorem. Quam tamenva ri, nempè temperatam lauationibus, sed in priuatis,vel non videopotuissefieriinpublicis rietatem, parabatur à Balneatore aqua advsum pu adpriuatosvsus. Nam in Thermis compara LO Aeftiuo serues vbi piscem tempore quæris. fortas selocus,vbinimirùmoleaseruarentur,atquevnguenta do Tonstri,aliique odo blicum,vnotenorecalidaomnibus. Quod declarant authoritates scripto-frigidæ, alia rum, quialias Thermas appellant frigidas, alias blandas, alias fervidas. Vei frigidas significauit Martialisinprimo Epigrammatum. In Thermisferua Cecilianetuis. Idem inx. Neronianas indicat fuisse calidiffimas, eo epigrammate. Temperat hæc Termas nimios priorhoravapores res cal d a Therme alię   resad opportunosvsus,& quivellentbarbæ,& capillorum cultuivacarent. Unetiones in Eratautem hæc pars vn ade necessarijs, acessentialibus (ut ita loquuntur) in Thermis, toto ritu Thermarum, quandohiçmoseratcommunissimus,vtquisque lo tus,simplicis faltem oleivnctionevteretur,tùmvtsudoresinhiberet,tùm vtfeabextrinsecùsambientisiniuriavendicarepofset. Hunc enim tenorem in omnibus ferè,quę hùc sparsim adductæ sunt,authoritatibus obseruabis: primùmlegiturexercitium,deindebalneum,vbifrictiofiebat,& detersio, inoxstatim frigidæ lauatio, pofteavnctio,posteacibus& potus,vltimòso mnus. Proinderecolome legissepluriesinvitisPrincipum, ficuti ntermu..10 Oleimunus nerapublica erat Congiarium,erat Recta, erat Sportula,itaoleum aliquan publicum. do publicè donatum, quoin communi velutigaudio,quisque frueretur in balneis.Nimirùm vel Thermiscùmprimùmdicatis,velfaftualiquoPrinci pis.vnctionum verò,quasquisquesibipriuatimdeferebatadbalneum,luxus legiturinestimabilis.Quidelicatèviuerent,velimbecilles,odoratisvnguen Balnea con - t i s r e f o u e bant spiritus. Quosdam legimus iu f f i s s e s p a r g i p a r i e t e s unguento. spersa vn-Vtfimul (equidem puto) & lauarentur, proiectisinalueositaimbutosaquis ipfis, & vngerentur, fic penetrante exactiùs vnguento, & odorem, virtu temquesuam diutiusseruante in corpore. Atqueita Caium Principemsoli tum lauari, testisest Suetonius. Scribit Lampridius Heliogabalum nunquá inPiscinislauarisolitum,nisiillæcroco, aliisúepreciosisvnguentisperfusæ fuissent. Velplanè conspersiseo modoadluxum parietibus vtebantur,vedu quis se parieti confricaret (quod aliqui facere folebant, vt apud Spartianum in Hadrianoleginus)sineministris,acetiam proprijsmanibusperungilice Balneton ret. Neroautem profusissimus non folùm calidis balneass pargebatodorib. guentipre-sed& frigidis quoque vnguentislauabatur, fcribitPlinius.'Recensenturau ciosi. tem hoc in generepræciolamulta,quæ (Galeno teste) Romanorum lauritia Olea, etvn- inueniffevidetur: vt Mendelium, Cyprinum, Narcissinum, Susinum, M e guenta pre- galium factum ex balsamo, Regale apud Reges Parthos primò comparatum. ciofa. Nardinumquoque,quod& Foliatumdicebatur,Plinio:& alterum Spicatú, QuodidemNardipisticæpræciosivnguentum legiturinEuangelio.Etitem30 Iasminum oleum,quododoriscaufla(vtteftiseftDioscorides)non inbal neissolùm,verumetiaminterepulandum apud Persas,vsurpari consueue. Unguenta in r a t. Dono, e q u i d e m o p i n o r, et in Xenijs. Quem morem d i u Spartanos, at conuiuijs. Quelonasretin uiffe narrat Valerius quę, Plinio teste, Diapasmata,quasi conspersoria dixeris, Cyprini pulueris instar,quohodievtimurodoratissimi;dequoebriam,putidamq;Felceniam illuditMartialis in primo Epigrammatum, eo carmine. Quid?quod oletgrauiusmiftumdiapasmatevirus? Apodyterií Vt redeamus ergo ad cameras, Apodyteriumerat principium, & finisinbal gues. 40 M a x.lib.2. vnguenti, coronarumq uein conuiuio dandarum, secundismensis.Erat& Oenanthinuminter præciosa. Quorum similia aliqua apud Paul. Aeginetam legimusvnguenta,atqueolea. Multaquei d genu salia apud Plinium lib.13.inalabastrisferuarisolita:nunc omnia rarissima, aut que d a m sub dititi a, vel adulterata, tantæ verò e a tempestate copiæ, vevsuscorum ad vulgares quoquede fuxerit, quodserioarguit Iuuenalis. Moechis Foliataparantur. Diapasmara Ad sudores autem propri  c o hibendos, quæda m ficcis constab n t odoribu, neo;  eôdem nimirùm reuertentes, vbiantèbalnearum vestimentacõsignal sent.Idemqueex Galeniverbisplanèintelligiturx.Methodi:hicenim dum cunctarentur,actergerentur,corpusadhucpersudorem,innoxiè,accitrà refrigerationem vacuabatur,acinnaturalem redibatmediocritatem. Porrò vana quorundam controuersia est, ponereAuicen.trescasas(itaenim interpretantur) in balneo, easque long è aliter dispositas, quam diximus. C u i b i l. cnim dubium non fuisse balneas vnost ylovbiquenequevno ordine? Defijf setamen pariterapud Arabes hunc ritum, testator Auerroes in Canticis, acBalnearum nonmirùmimperfectastùmeoshabuiffebalneas, Nequeinantiquiffimisanidemsły 10exempliseadistinctioquærendaeft: quando Hippocratisætatenon adeori tè balneaparabantur, quod & ipseinnuit 3. De ratione victus in morbis acutis. Neque in priuatis multo minus, quas Galenus aliquando perinde damnat, acincommodas, Depensilibus balneis, ac balneariis rebus. Uenire potuirationem.Nam si Pensiles balncas intellexeris sublime salueos, Pensile quid & quæ fu per solario locatæessent, idmagnuninoneft: ficut & Hortospensi lesvidemus, atquehorrea, acmaiusopus, Thębas Aegyptias pensiles fcribit Plinius. Audiuiqui id artificiumattribuant Laconico, ècuiussuspensura  lusvbique. ENSILIVM veròbalnearum,celebreduntaxatnomenperuenitad nos, fuis se eas inter maiora illius seculi blandimenta: cæterùm Cap. xi. n a m e a r u m fuerit ratio, non facilè ex aut ho r i b u s colligitur. Ponit Valerius Max,interluxuriæexemplalib.9. CaiumSergium OratamPensiliabal quæ Auicenna neaprimum facereinstituiffe. Idquet radit Plinius lib.9.cap: Pensilibal 54.L. Crafsi Ora- neurum inui torisetate,parum anterempub.occupatam.Queminteraliasvoluptates,& torSergius Ostrearum afferitinueniffe viuaria, nec tamgulæ causaa, quàm auaritiæ, vt Orata. Quiitamangonizatas vendebat villas. Eadem testator Macrobius3. Saturna lium cap.15. Porrò venisse eas in gratiam popularem planè oftendit Plinius lib.26.cap.3.Asclepiadis NeronisMediciçtate:vrbe,inquit,imòveròtota Italiaimperatrice,tum primùm vsu balnearum pensiliadinfinitumblandien te. Extat & Annei Senecę censura ad Lucillum,dePensilibusbalneis:qua vaporesconuersosintenuesaspergines,imbriummodo Aqua pensi supercapitacorum, lis. q u i lauabantur, depluere diximu s. Vel quem ad modum Aqua Pensilis dicitur z Fluvius p e n & Auuius Pensilis, ita id balneum Pensile fortasse intelligendum, exquodi-filis. ximus (authore Seneca, atque Galeno) calidas perpetuò aquas, vel quales quisquevellet & tepidas & frigidas, velut ex calido fonte depluere, actran {currerepercameras. Verùm nihililliusblandimentivideoinhis,quam ob rem populus eascum tanto applausu receperit, & quæ ad authorem adscri: bantur voluptuosiffimum. Pensiles ergo balneę haud publici videntur fuisse vera balnea instituti, sed in priuatis extitiffe. Vtquæ priuatum habuêre authorem, & pri-rum Pensi uatamc aussam,nempèinuentæaddelicias. Necvllumvestigium,nulladeliurnrutio. Hisin Thermispublicismentiohabetur, Earumveròrationem, inquatanto. perehesitaui,elicioexeodem Plinio, cuidererumantiquarummemoriapri ma laussupercæterosscriptores,meritòtribuendaest.Pensileenim dicitur rum inqnit suspensura inuentaest,vtnequid deesset adlautitiam. Hæc ha 3 benturde inuentione, atquedelicijs Pensilium, quarum tamen non facilèin 40 P suspen   suspenfum,& mobile: qualesipfememinit lib. 19. cap. 5. Tyberij Cesaris hortos Pensilesmiræ voluptatis,quoshaudquaquam ponitsupersolariolocatos, sedsuspensos,& mobiles, quos(inquit)singulisdiebuspromouerentadso lemrotisolitores. Quod idemclarainbalneis authoritate exposuit lib.26. сар.3.dum Cleophantum Medicum commemorat, authore  M. Varrone, alia quoque blandimenta ex cogitaffe, iam (inquit )suspendendo lectulos, quo rum iactatuautmorbosextenuaret,autsomnosalliceret. Iambalneasaui disfimahominumcupiditateinstituendo:easdemscilicet,&suspensas,vtdi xitlectulos.Quam fententiam confirmantquæmoxpaulòsubiunxitverba, quæ allegauimus; Anxiam nimis fuisseAsclepiadis, & quorundam eum se." quentium curan,tum primùm Pensili balnearum vsu ad infinitum blandien te. Easdem & balnearum suspensurasdixitSeneca. Et ValeriusMax.impen faleuibusinitijscępta,suspensis calidæaquæ balneis. Vnde fiiam mente co cipiasvidere hominem inbalneo Pensili,velęgritudine debilem,vel volu ptuofævitæ,çuiusdulcitepore,acleniiactaræ,& nęnijs,& dulciconcentu tibiarum,somno& quietiindulgeretur,iamnihilpoterisexcogitaresuauius. Leftuli non Ex quibus intelligitur, neque lectulorum ritum in publicisextitisse:sed ho erấtin Therrumquoq;, vtPensiliumbalnearum,priuataratioeffedebuit,maximèegris. mis. Vtensilia in Neque particulariumquorundam vtensilium,quorum in balneisaliquando xandrinusPedagogij lib.3.cap.5.consueuiffenobilesanteferreadbalneasva sainnumerabilia, aurea,atqueargentea,quorum hęcquidem adlauandum, illa ad vescendum, alia ad propinandum. Quin etiam carbonum craticulas, Syndones. &cathedras.Syndonestergendosudoripræparatas,maximèægris,memi-. nusfitpedesdenos,vtgradusinferiorindeauferat,& puluinusduospedes. Labrainvr-Hactenus Vitruuius. Quare, vtarbitror, labraistalapidea,quæmultavide bemarmo-muspervrbemmaxima, vicenos& ampliuspedeslongitudine, erantfortaf-40 s e i n priuatis balne s. Vel aliqua fort af f e in Thermis ad magnificentiam potius operis, ac ornamentum, quàm advsum. Alioquia d publicum vsum nó videolocum,nequeadeofuiffevidenturcapaciapopulo. Pofteàvitroquæ dam extructafuiffeconftat. Pauimentorumautem, ac Lythoftrotorum, quibus alveos, atque ipsas cameras a d o r n a bant, luxus erat inæstimabilis. Quod certe inuentum Agrippæ tefte Plinio lib. 36. cap. 25. In Thermis, inquit, quas Romæ fecit Agrippa, figlinum opus encaustopinxit, in reliquis albarioador  Sufpenfabal nea, Thermis. mentio fit, quæ pueris voquisque domino ad balneum ante ferebant. Ut de strigili, quo sudore in detergebant;meminit Persius eocarmineIronico. Strigiles Ipuer,& Strigiles Crispiniadbalneadefer. Inęgristamen prostrigilibus,quierantvelofsei,velferrei,velargentei,spon giavtebantur,Galeno testex.Metho. Idgenuserat& Guttus,quodLe cythumquoquelegitur,inquoferuabanturoleuni,velaliavnguenta præ 20 30 rea, ciosa ad balneum. Hydriæ, pelues, alabastri, aliaqueid genusvasa, exau Vasaaurea.ro,argento, ferro, velinterdum lapidibusquibusdam. Refert Clemens Ale Labra, nit Galenusx. Methodi. Labraautem ex Vitruuio,& vestigijsipsorumal ueorum videntur fuiffe extructa in cameris signino opere, atque albario: sic enimlegiturlib.5.cap.1o. Labrumsubluminefaciendum videtur, nestan tes circumsuisvmbriso bscurentlucem. Scholasautem labrorumitafieri oportetspaciosas, vtcùm prioresoccupauerintloca, circumspectantes reli quirectèftare poffint. Aluei autem latitude inter parieten & pluteumnemi nauit.  O nauit. Non dubi èvitreas facturus cameras, fipriusi dinuentum fuisset. Libro autem3.cap.12.visasolimscribitBalineasgemmis,acargentostraras,vtnevitres ca vestigio quidem locus esset. Argento fæminas lauari solitas, argenteis folijs, meræge m Afiaticori sum missem perin delicijs fuisse apud omnes nationes oftenditur, hanc par mirans, hydrias, pelues, vnguentorum odores, & alabastros, cunctaauromaditißimg 20 lita, ac miro ornamento instructa; ad socios conuersus, & quasi nimiunı il DeritibusantiquisinThermisvrbis. Primis ergoThermarum,ac Palæstrarum institutis,jam partium earum principalium distinctiones,necnon requisitaad earum vsum magis necessaria tetigimus. De Ritibus verò in eis, atque ordine publicaemolumentum, quoniam per hæc oblectamenta, assiduafiebatin gymnasijs frequentia,acvarijs,quasdiximuscorporisexercitationibus af suefiebat iuuentusad armorum industriam,vnde faciliùs posset militiæ labo res,quando hæc erantprimailliusfeculiftudia, sustinere. Hûc accesserat& alia causa, quoniam qui tepidescere quodammodo ab honeftis conatibus cepiffent,perhas delicias retrahebaturà vitijsanimi, sicqueocium, quod eftomnium malorum fomes, tollebantur, feditionesarcebantur, & omnes populares corruptelæ. Ex quibus triainter communes ritus videnturesse manifesta. Primùm si vetustam illam verecundiam, ac Romanum decusrespicias, summam inThermishonestatemfuisseferuatam. Simaiestatempopu li,omnia ineis fuisse magnifica & splendida, velutidiximus, & quæ nolentes allicerent, atque etiam traherent. Sid enique communem causam. Communem, ac liberum earum vnicuique fuiffe usum. Erat autem hæc balnea- Thermecó. Rum condition communissima, vt singuli balneum ingressuri Quadrantem solmunes. Uerent balneatori. Quodplanèaliquæpræclarædeclarantauthoritates: pri Quadrantis mùm M. Tullii pro Cælio, vbi quadrantariam vocat permutationem balnea em concludam. Asiaticos durante suo imperio luxuofiflimos fuisse, acexeis Thermalu A Fines, etvti &, probrisseruisse. Pauper fibiquisquevide eandeinque materiam & cibis seexercentium,aclauationum,haudmirum esthæcinstitutasempermaioré mis,acar litatesprin habuisseprogressum;siconsideremus non folùm hincvitæ cip.ilesTher 30 seruare consueuiffe, fanitatem elegantiam eos, & roburcorporis;sedquod maius eftinre ز gëtostratę. Baturacsordidus (scribit Seneca ad Lucillum) nisiparietes balnearūmagnis, a c preciocis orbibus refulsissent. Alexandrina marmor a Numidicis crustis distincta, operose vndique, & picturæmodo variataçircunlitio, Vitroconditæ cameræ. Aquainper argenteaeffundebantepistomia, & adhuc (inquit) ple beiasfiftulasloquor. Relinquocum hisstatuasillicęternitatidestinatas, operatectoria,picturas, speculariorumlapidumluxus, quiantècameras præbe bantlumina, & columnarn mingentium numerum, alia quetantioperisor namentasinefine. Atque hocvnotantùmPlutarchiexemplo,quobalneas primùm ad Gręcos, & exindeadRomanos huncmorem balnearumema nafse,apud veterum historiarummonumenta clarum est. Cùm ergo Alexa der Magnusdeuicto Dariorerumtandem Persię, ac imperijeius potitusesset, balneumque, vt sudorem pugnæ leuaret, ingrederetur; aquarum ductusad-Darij Ther ludens luxum, Hoccine (inquit) imperare erat. Torifieri solitam. Indicat & cocarmine Horatius, folutio. 1. Saty.3. Qq dum xuofiffima.  Nuditas in Redde pilam,sonatæs Thermarum,luderepergis? Verecundi ase nudum quisque in balneas exhibere,& etiamin exercitationes. Cuiusreiinteraliafidem faciuntstatuæ, præsertimvirotum,inqui bus videtur minuere potuisse corporis gratiam, ac venustatem, si non pudenda etiam fimpliciterenudataessent. Nonnullitameninterexercitationes, autfuccinctafibulaprodiresolebant,autsubligaculis,quæ & subligariavo nihil foluiffe videntur:teste Iuuenali Satir.2.d. Nec pueri credunt, nisiquinondum ærelauantur. Quorum tamen priuatafieret lauatio, hora extraordinariaquæeratpoftde cimā, ij pluri precio lauabant, quod indicate o carmine Martialis lib. 10. Balneapostdecimanılafo, centumq; petuntur Quadrantes, &c. incommunitamen gaudio, erataliquandohocmunus interalia Principum, ut gratis lavaretur. Antonini Pij exemplo, quem balneum sinemercede prestitisse, meminitIul. Capitolinus. Sive ergo proveter iinstituto, fiueproso Sub ligaculo cabant. AuthoreM.Tullio1.offi.Scenicorum mostantamhabetveterisdi rumvfus. Sciplinæ verecundiam,vtinScenasinesubligaculoprodeatnemo. 40 Tecta tamen non hac,qua debes partelauaris..promi-Cæterùm cum haclicentiabalnei,videturdiuadmodum perdurassemulie. Eal. Mulierum verecundiam,quænon promiscuècumvirisintrarentinbalneas,nisi perabusum.Hinctotpriuatarumbalnearumnumerus.Etquædam viden  uerecunda. Subligar. E.. dum tuquadrante lauatum 14.annum, Lauari. Cædere Syluano porcum, & quadrantelauari. Pueri tamen antè Fibula. Bal Rexibis,&c. Vituperanseum Principem,quivtvnusdemultisqua drāte lauaretur. Idem Iuuen.authoritate confirmatur in 6.ybi mulieres quas d a m a r g u i t i m pudentiæ, q u æ c o m m uniter cum viris auderent, inquit ips e, lutamercede,hocmanifestumest,commune,acperpetuum fuissein Ther Locai Thermis indultum,vtlocus inbalneo, cuicunque tam primati,quàm plebeio co mis commu munis esset, atque indifferens. Ex quo intelligitur Tertulliani similitudo nia. aduersusMarchionem, QUASI LOCVS IN BALNEIS: quiavidelicetnul li e x merito datur, necto l l i t u r locus in balneis, iam gratuito constitutis, & T intinnabu - ad usum publicum. Erant autem tintinnabula in Thermis summo quo p i a m fasti g i o p o s i t a, fære factitio conflata, quorum s o n i t u populum, sicut i h o d i e adfacra; conuocari lauandihoraeratsolitum.Tintinnabuluminter Xenias exhibuit Martialis, eo disticho. Virgine visfolalotusabire domum? Facitadeandem licentiam Suetonijauthoritas, D. Titum Cæs. admissaple Secum plebebenonnunquamin Thermissuis lavisse. Et Aelij Spartianialia, Hadrianum Cæs.tamprobatævitæ,publicèfrequenterselauiconsueuiffecum multis, verecundia etiam priuatis. Inuafiffe enim consuetudo videtur,ex affiduis il lisexercitijs, inbalneis. vndefolutohabitu,acseminudiplerunquehominesdegebant,vtnonesset Idem affirmatquodamloco Clemens Alexandrinus de athletis et martialis si pudor est, transfer subl igar in faciem. 10 la. Reges lauif. invil. bres. uaret.d. Dum ludit media populospectantepalæstra Delapsa est misero fibula verpus erat. Et lib.3. Chionemnotat verecundiæ, quæmuliebriainbalneis contectala tur  publicæ fuisse muliebres, ut Agrippinæ Augustæ Neronis matris. Olym piadisitem balneæ in Suburra. EtquastransTyberim, quasiextràconspe čtum hominum habuisse Ampelidem,& Priscilianam ex P.Victorerecensui mus. Conqueritur hac de caussa insuis Amatorijs Propertiusnon eam esse tum Romanis virginibusin balneis libertatem, quibuscum more Spartano publice liceretcertare, & lauari, hisversibus. Sed magè virgine itot bona gymnasij. Quòd noninfamesexercetcorporelaudes cepsbeneinstitutę Reip.lapsus) totossingulisdiebuslauaricepisse.Invniuer 20sum, qui cunquein exercitijsfuis, autlaboribusdefatigatieffent,vixfanam vitam putassent, nisibalneasstatimintrarent, vbisudoré,fordespulueremq; detergerent,acintotum semolliaquarumfoturecrearent. Quoplanèfit,veSeptiesquos dam lauari. mirumessenondebeat,nequeluxuiadscribendum,quodquidamsepties eadem dietum lauari consueu erint, quod Plinius in primis refert. Ac posteri scriprores Commodum Cęf. et Gordianum idasseruntfactitasse. Sicenim intelle xêrequotienscunqueexercerentur,laffitudinisacrefrictionisvitarepericula, obstructionestollere,cutis afperitateinlenire,faciei,manuum,ac vniuersi corporis decorem conciliare. Erant tamen lauandi horæ constitutæ. Scribit Lauandiho I ul. Capitolinus antem Alexandri Severi tempora numquam Theri n a s an t è a u 30 roram apertas fuisse, & semper antè solis occasum claudi consueuiffe. Communiterv erò lauandihora erat a meridie ad vesperum, quando (inquit Vitruvius lib. 5. cap. 10)  maxime calidæ auræ a spirare incipiunt. Cu i o m n e s a l i æ authoritates consentiunt. Hadrianus Cęs. (inquit Aelius Spartianus) ante horam octauam inpublico neminem, nisiçgrum, lauaripassus est: quod erat duashoras poftmeridiem.Vbi operæ præciumest Horarum apudantiquosHorologiri rationemhabere,quidiemartificialem quolibetannitemporedistinguebanttusapudan horisduodecim,&no&tenipervigilias. Horæergoerantinęquales,maiorestiquos. estate,quialongiorestuncdies;minoreshieme,& proportionecæteristem poribus.Haud tamen intelligendumest cosà prandiovsosbalneis fuise: Prădijetcę Nam communiter vir Romanus impransus, autientaculo tantùm primoma-navfus. nerefectus,bonam dieipartemimpendissetnegocijs:mox àmeridie,àsexta nimirùm ad decimam horam,exercitijs & balneo;à balneo autem,circa vi gesimamscilicet& secundamhoram,cenabatopiparè.Quam dieiatqueho rarum partitionemconquisitèin eo Martialis epigrammate comprehensam habemus. Primasalutantes, atquealteracontinethora, Exercet raucos tertiacausidicos. Martialis  ma 10 CO, Multa tuæ Spartemiramur iura Palæstræ, Inter luctantes n u d a puella viros. Refert Plutarc husinterlaudabiles Catonisillius Cenforij mores,hocsum- verecundiă ma:laudiilicefliffe, quodcùmfilionunquàmlauisset. Imò Val. Max. fcribitinterafines. deinstitutisantiquis, necpatercum filiopubere, necsočercum generis lauabatur. Quia interista fancta Vincula, non magis quàm in aliquo sacra tolo nudaresenefasessecredebatur. Sedtranseamusiamadeosritus, qui com inunivsuretinebanturin Thermis. Perinitiainstitutihuius,narratSenecaad Lucillumconsueuifseveteresquotidiebrachia,& cruralauare, totosnundi nisfolùm. Cæterùm poft Magni Pompei ętatē (cuiusmemoria notatur præ ra. Qa ij Ad quintam variosextendit Roma labores, Sexta quieslafis,septimafiniserit. Sufficitinnonam nitidisoctaua palæstris, Imperat extructos frangerenonatoros. Hora libellorum decimaest Euphememeorum, Temperatambrosias cùm tuacuradapes. Octavam verò dieihoram fuisselauationibus propriam,tùm publica,tùm pri M. Tullius, uata t e s t a n t u r exempla. M. Tullius scrib i t a d Atticum d e Cesare: Ambulavit inquitinlittore,pofthoram octauamin balneum, vnctusest, accubuit,edit, bibitq;opiparè. Horam & distinctionem temporum aliquamadnotamusex Galenus, Galeno v.deSa.tuen.d. Antoninus Imp. cognomento Pius, ad curam corporis promptifsimus, subbrumabreuibus, f.diebus, sole Occidente in palestram ingressus, sub indeole operun & tus lauarierat solitus: in Solstitio autemhora Thermehie-nona, autfummumdecima. Porrò quod legitur apud aliquos authores,Ther males, eteftimasaliquasfuiseHiemales, aliquasAestiuas;hæcnoneratcommunisom niumdistinctio,sedquarundam àcertocoelisitu dispositio. QualesHiema lesfecissetraditVopiscusAurelianum Cæs.in Transtyberina regione; nimi rum ad meridiem expositæ,apertè solis fouebantur aspectu, itaq; ad hie males exercitationes aptissimæ. A e quaratione A estivas in Gordiano Iunior e meminitIul. Capitolinus, quæ in opaco fit uinter montem Celium & Esqui Bal.vfuspe-lias,gratas estate exercitationibus præftabant vmbras. Alioquî penes anni nesannitemtempora,vixvllaeratlauandidistinctio,sedbenèpersonarum. Nam qui cun que lavaban t u r a d exercitium, in different e r t a m h i e m e, quam estate lauissent, quandocunquescilicetexercerentur.Sanitatisverò& mundicieicauf sa:quandocunque opusfuisset,velad priuatamcuique consuetudinem, vt de Telep o Grammaticom e m i n i t Galen. v. de San. t u. qui lauari consueverat hieme bis mense, estate quater,medijs verò temporibus ter. Et de Primigene quodam philosopho, quiquadienonlauisset, febricitabatomnino. Adde liciasautemacvoluptates,velme tacente, priuataquoqueratio essedebuit, 30 &citràvllamaut regulam, autmensuram. Vnde Meridianælauaționes le Lychniinguntur, atqueetiam antemeridianę,& vespertinæ. Necnon Medicine introductio. xi,trimixi,polymixi, idestangulorum &luminum,vnius,duorum,trium, plurium, Devrilitatibus Balnearum esquandoprimum Dalnceinvfum Medicinavenêre. seruatur;nonaliam legimusfuiffeRome Medicinamsexcentisannis, quàm balnea. Quod teftatur Pliniuslib. 29.cap.1.Receptos primùm èGræcia Medicos L.Aemilio, M.Licinio Coff.vxxxv.VrbisRomæ anno. Quádoqui dempetrarierant, nisiquiob cæliinclementiam crassarenturmorbi.Nam quæ exmalovitæregimine, acextermis causiseuenirep. Andrea Baccius. Andrea Bacci. Keywords: i bagni dei romani, De thermis – thermal baths – philosophy of thermal baths – implicatura ginnastica – le xii pietro pretiose – storia naturale del vino, bacco – terme romane – il vino e la filosofia, bacco ed Apollo, le xii pietre pretiose per ordine di dio I sardio II topatio III smeraldo IV barconchio IV saphhiro VI diaspro VII lingurio VIII agata IX amethisto X berillo XI chrisolito XII onice – tevere, le tibre au louvre, i vini. Thermopolium romanum – illustrazione – incisione terme romanae – natatio – piscina – ginnasio, mercurial, arte ginnastica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bacci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790323713/in/dateposted-public/

 

Grice e Badaloni – colloquenza – filosofia italiana (Livorno). Filosofo. Grice: “I like Badaloni; he never took the ROMAN story of philosophy – I say story since history, as every Italian knows, is too pretentious! – seriously until he had to teach it! “Storia del pensiero filosofico – l’antichita’ is my favourite – because he does his best to understand Plato’s pragmatics of dialogue as misunderstood by Cicero!” --  Nicola Badaloni, Sindaco di Livorno Durata mandato19541966 PredecessoreFurio Diaz SuccessoreDino Raugi Nicola Badaloni (detto Marco) (Livorno). filosofo. Di spiccate convinzioni marxiste, è stato uno studioso di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giambattista Vico, Karl Marx, Antonio Gramsci.  All'attività di ricerca e di docenza presso l'Pisa, dove è stato Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha occupato dal 1966 e per molti lustri la cattedra di Storia della filosofia, Badaloni ha affiancato un'imponente attività politica nelle file del movimento operaio, ricoprendo per molti anni la carica di sindaco di Livorno (dal 1954 al 1966), di presidente dell'Istituto Gramsci, nonché di membro del Comitato centrale del PCI. I suoi contributi storiografici, salutati fin dall'esordio dall'apprezzamento di Benedetto Croce hanno messo in luce autori considerati minori e pensatori inattuali (Niccolò Franco, Gerolamo Fracastoro, Giovanni Battista Della Porta, Herbert di Cherbury, Antonio Conti) rinnovando radicalmente, attraverso una collocazione nel contesto storico, grandi figure viste dalla storiografia idealistica precedente come immerse in una «solitudine metastorica».  Storicismo e filosofia Nella presentazione dell'ultima pubblicazione di Badaloni nel 2005, Remo Bodei ha sostenuto che il marxismo, lontano da ogni vulgata, conserva, per lo storico della filosofia toscano, la sua capacità di strumento di comprensione del mondo, di erogatore di energie di cambiamento, di guida per lo sviluppo di una prassi razionale, ancora validi dopo le esperienze del cosiddetto "socialismo realizzato". Badaloni ha incessantemente ricercato un legame, nella storia, tra pensiero e azione sociale e sviluppato uno storicismo di impronta marxista che raccordasse autori lontani nel tempo (come Giordano Bruno, Gian Battista Vico, Antonio Labriola), ma accomunati dalla tensione al rinnovamento e alla trasformazione progressiva degli assetti sociali in una data situazione storica determinata. Così come c'è alterità profonda, ma non rottura senza legame, tra Hegel e Marx e similmente tra Croce e Gramsci.  Altre opere: “Retorica e storicità in Vico” -- “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano” (ETS, Pisa); “Appunti intorno alla fama del Bruno”; “Introduzione a Giambattista Vico, Feltrinelli); “Marxismo come storicismo, Feltrinelli); “Tommaso Campanella” (Feltrinelli, 'Istituto Poligrafico dello Stato); “Conti. Un abate libero pensatore tra Newton e Voltaire” (Feltrinelli); “Il marxismo italiano degli anni Sessanta” (Editori Riuniti); “Labriola politico e filosofo, sta in Critica marxista, Roma); “Per il comunismo. Questioni di teoria, Einaudi); “Fermenti di vita intellettuale a Napoli dal 1500 alla metà del 600, sta in  Storia di Napoli, Società Editrice Storia di Napoli); “Cultura e vita civile tra Riforma e Controriforma” (Laterza); “La storia della cultura, sta in Storia d'Italia, III -(Dal primo Settecento all'Unità), Einaudi); “Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Einaudi); “Libertà individuale e uomo collettivo in Gramsci, in Politica e storia in Gramsci, F. Ferri,  1, Roma, Editori Riuniti-Istituto Gramsci); “Labriola, Croce e Gentile” (Laterza); “Dialettica del capitale, Editori Riuniti); “Gramsci: la filosofia della prassi, sta in Antonio Gramsci. La filosofia della prassi come previsione, in Hobsbawm, E. H., Storia del marxismo” (Torino, Einaudi); “Teoria della società e dell'economia in A. Labriola, I e II, in Dimensioni”; Forme della politica e teorie del cambiamento. Scritti e polemiche” (ETS); Movimento operaio e lotta politica a Livorno”; “Democratici e socialisti in Livorno” (Nuova Fortezza); “Filosofia della praxis, sta in  Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Editrice l'Unità, 1987); “Labriola nella cultura europea dell'Ottocento, Lacaita); “Il problema dell'immanenza nella filosofia politica di Antonio Gramsci, Quaderni della Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Venezia, Arsenale); “Giordano Bruno. Tra cosmologia ed etica, De Donato); “Laici credenti all'alba del moderno. La linea Herbert-Vico, Le Monnier-Mondadori); “Inquietudini e fermenti di libertà nel Rinascimento italiano, Edizioni ETS, Pisa, 2005 Nicola Badaloni è inoltre coautore di due importanti manuali:  Storia della pedagogia, (Laterza); “Il pensiero filosofico. Storia. Testi. Per le Scuole superiori” (Signorelli Editore). Notizia della morte sul settimanale Macchianera, su macchianera.  Giuliano Campioni, Addio a Nicola Badaloni, uomo politico e maestro di filosofia, Athenet, n. 12, anno 2005. 16 agosto  (archiviato dall'url originale l'11 settembre )., nel sito del Sistema bibliotecario di ateneo, Pisa. La lezione di Nicola Badaloni di Giuliano Campioni, professore del Dipartimento di Filosofia dell'Pisa, 20 gennaio,, in Pisanotizie. Nicola Badaloni, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  PredecessoreSindaco di LivornoSuccessoreLivorno-Stemma.svg Furio Diazdal 1954 al 1966Dino Raugi90637957 Filosofia Politica  Politica Categorie: Politici italiani del XX secoloPolitici italiani del XXI secoloFilosofi italiani del XX secoloFilosofi. Nicola Badaloni. Keywords: colloquenza, la retorica di Vico. La storia di Vico, storia e storicita, campanella, lingua utopica. Bruno, Campanella, Gentile, Croce, Labriola, Gramsci. badaloni — implicatura vichiana — libero — biologia filosofica  telesio — vallisneri — lingua utopica di campanella — “retorica e storicità” — laico — bruno — comune — comunismo — marchetti — vignoli —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Badaloni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790260478/in/dateposted-public/

 

Grice e Baglietto – dialettica – filosofia italiana – filosofia ligure – Luigi Speranza (Varazze). Filosofo. Grice: “I like Baglietto; unlike me, he was a consceinious objector, but then we were fighting on different camps! I love the fact that his first tract is on ‘il problema del linguaggio’ in Mazzoni – but then he turned from ‘la bella lingua’ to Dutch! And specialized in Kant, but most notably Heidegger – ‘mitsein und sprache.’ But he also wrote on ‘eros’ and ‘love,’ – which is very Platonic of him! And of me, since the ground for my theory of conversation is on the balance between what I call a principle of conversational self-LOVE (or egoism, if you mustn’t) and a corresponding principle of conversational OTHER-love (or altruism, if you must, since I prefer tu-ism – ‘thou-ism’).” Claudio Baglietto (Varazze), filosofo.   Di origini modeste, dopo gli studi liceali presso il Liceo "Chiabrera"di Savona, studiò Filosofia all'Pisa e si perfezionò presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, allora diretta da Giovanni Gentile. Baglietto fu assistente del filosofo Armando Carlini. Negli anni pisani sviluppò idee di riforma religiosa e morale, in contrapposizione al Cattolicesimo e al Fascismo. Insieme ad Aldo Capitini, Baglietto organizzava riunioni serali in una camera della Normale, cui partecipavano giovani studenti, divenuti in seguito affermati intellettuali, come Walter Binni, Giuseppe Dessì, Carlo Ragghianti, Claudio Varese.  Così Capitini ricordava l'amico nel suo saggio Antifascismo tra i giovani (Trapani, 1966): "era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo Gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio. Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale [...]".  Ottenuta nel 1932 una borsa per perfezionarsi presso l'Friburgo in Germania, dove allora insegnava Heidegger, in coerenza con i suoi ideali di nonviolenza incompatibili col Fascismo, Baglietto decise di non rientrare più in Italia e rinunciò alla borsa, cosa che scandalizza Gentile (che aveva garantito per lui presso le autorità per il visto). Anche Delio Cantimori criticò animatamente la scelta di Baglietto, in particolare nel suo carteggio con Aldo Capitini e con Claudio Varese, accusando i colleghi normalisti dissidenti dal Fascismo di mancanza di senso di realismo politico, nonché di senso dello Stato (fu poi lo stesso Cantimori ad avvisare Gentile della morte di Baglietto).  Lasciata Friburgo, Baglietto si trasfere quindi a Basilea, dove visse da esule, proseguendo gli studi e dando lezioni private.  Morì nel 1940: è sepolto nel cimitero di Basilea.   Il cammino della filosofia tedesca dell'Ottocento, “Annali della Scuola Normale di Pisa”, Scritti religiosi. Antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); "Kant e l'antifascismo", in Claudio Fontanari e Maria Chiara Pievatolo, Bollettino italiano di filosofia politica, Pisa37,  1591-4305 (WC ACNP),  7181065539 (archiviato il 5 settembre ). Ospitato su archiviomarini.sp.unipi. (Saggio inedito di Baglietto, composto a Basilea e da anni depositato nell'Archivio Marini dell'Pisa) Note. A. Capitini, L'antifascismo tra i giovani, Celebres, Trapani); Chiantera Stutte, Delio Cantimori. Un intellettuale del Novecento, Carocci, Roma, che rinvia soprattutto a Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso; Franco Angeli, Milano); Scritto pubblicato postumo Aldo Capitini.  Aldo Capitini Mahatma Gandhi Nonviolenza  Claudio Baglietto e la questione morale --  "Phenomology Lab", 2 giugno,. Claudio Baglietto, Kant e l'antifascismo di Claudio Fontanari, nel sito "Archivio Marini". Filosofia Università  Università Filosofo Professore1908 1940 Varazze Basilea Nonviolenza Antifascisti italiani Studenti dell'Pisa. Claudio Baglietto. Keywords.  dialettica, filosofia ligure, baglietto — il kantismo di heidegger — manzoni — filosofia dell’amore — dialettica — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baglietto” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790229528/in/dateposted-public/

 

Grice e Baldini – il linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Greve). Filosofo. Grice: “I like Baldini, but more so does Austin! In his collection of ‘lessons’ (lezioni) on ‘filosofia del linguaggio’ (not just ‘sematnica’ or ‘semiotica’) for the distinguished Firenze-based publisher Nardini, he deals with Austin, but not me!” Grice: “Baldini fails to realise that I refuted Austdin – when Baldini opposes ‘filosofese,’ I am reminded of my non-conventional non-conversational implicata – and Austin’s less happy idea of a felicity condition for a perlocutionary effect!” Grice: “But what I like about Baldini is that being Italian, he refers to ‘amore’ in his ‘natural’ history of AMicizia – which is all that my conversational pragmatics is about: Achilles and Ayax must share a lot of common ground to be able to play the game of conversation, and they do!” -- Massimo Baldini (Greve in Chianti), filosofo. Si è dedicato in particolare alla filosofia della scienza e alla filosofia del linguaggio. Figlio dello storico Carlo Baldini, laureato in Pedagogia presso l'Università degli Studi di Firenze nel 1969, nel 1970 è stato nominato assistente incaricato di Filosofia; l'insegnamento era tenuto da Dario Antiseri) presso la Facoltà di Magistero dell'Università degli Studi di Siena. Nel 1975 è diventato professore incaricato di “Storia del pensiero scientifico” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Perugia. Nel 1980 ha vinto il concorso di professore di prima fascia di “Filosofia del linguaggio” ed è stato chiamato dall'Bari alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Ha insegnato anche presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nella Facoltà di Medicina. È stato direttore del Dipartimento di Filosofia e dell'Istituto di Filosofia presso la Facoltà di Scienze della formazione all'Università degli Studi di Perugia e direttore della sezione di Storia della medicina del Dipartimento di Patologia presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.  Nel 1999 è stato chiamato dalla Libera università internazionale degli studi sociali Guido Carli di Roma per coprire la cattedra di "Semiotica". Qui ha insegnato anche “Teoria e tecniche del linguaggio giornalistico e radiotelevisivo” (dal 2004), “Semiotica dei linguaggi specialistici” (che avrebbe dovuto iniziare nel 2009). Presso la LUISS ha inoltre rivestito numerosi incarichi accademici: preside della Facoltà di Scienze Politiche (da giugno 2007); coordinatore del corso di laurea magistrale in “Comunicazione politica, economica e istituzionale” (dal 2004), direttore della Scuola superiore di giornalismo (dal 2007) e direttore del Master di primo livello in “Economia, gestione e marketing dei turismi e dei beni culturali” (dal 2004). In precedenza, è stato vice preside della Facoltà di Scienze Politiche (2000-2006), direttore del Dipartimento di Scienze storiche e socio-politiche (2006-2007), direttore del Centro di ricerche sulla comunicazione (2003-2007).  Tre sono stati gli ambiti di ricerca che più di altri Massimo Baldini ha coltivato: la filosofia della scienza (con una particolare attenzione al pensiero dell'epistemologo Karl R. Popper, di cui ha curato anche alcune opere in edizione italiana), la filosofia del linguaggio, la semiotica della moda. A partire dagli anni Settanta, Massimo Baldini ha dedicato numerosi lavori all'epistemologia contemporanea, cogliendone le possibili applicazioni alla medicina, alla storia della scienza, alla pedagogia e, infine, alla filosofia politica. Parallelamente, ha rivolto i suoi interessi anche alla storia della scienza e, in particolare, alla storia della medicina. Un'attenzione particolare è stata dedicata ai nessi che intercorrono tra l'epistemologia e la filosofia della politica: sulla scorta delle riflessioni popperiane, ha riletto il pensiero utopico sia nella sua dimensione storica che in quella teorica.  L'altro grande interesse filosofico di Massimo Baldini è stata la filosofia del linguaggio. In particolare ha studiato le tesi dei semanticisti generali, un movimento nato negli Stati Uniti tra le due guerre mondiali e di cui si era occupato per primo in Italia negli anni Cinquanta Francesco Barone. L'interesse per la filosofia del linguaggio si è declinato anche in chiave storica: e alla storia della comunicazione Massimo Baldini ha dedicato numerose opere. Inoltre, gli studi sulla filosofia del linguaggio si sono incentrati sull'analisi di alcuni linguaggi specialistici: quello della pubblicità, quello dei mistici, quello della pubblica amministrazione, quello dei giornalisti, nonché il tema correlato del silenzio. Tutti questi linguaggi, sono stati studiati nelle prospettive dell'oscurità e della chiarezza, e dell'oggettività (soprattutto con riferimento al contesto dell'informazione).   La biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini" di Greve in Chianti A partire dalla fine degli anni Novanta, infine, gli interessi di Massimo Baldini si sono incentrati sul tema della moda, che egli ha studiato dal punto di vista storico e semiotico, e nelle diverse componenti della moda vestimentaria e della moda capelli. Tutta l'attività di ricerca di Massimo Baldini è confluita in numerose opere individuali e collettive, curatele, introduzioni e prefazioni a testi italiani e stranieri, traduzioni, nonché nella collaborazione stabile con alcune case editrici e riviste scientifiche. In particolare, presso l'editore Armando (Roma) ha diretto le collane Temi del nostro tempo, I maestri del liberalismo, Moda e mode, I linguaggi della comunicazione; presso l'editore Rubbettino (Soveria Mannelli) la collana Biblioteca austriaca (con Dario Antiseri, Lorenzo Infantino e Sergio Ricossa).  Menzione a parte merita poi il ricordare che Baldini è stato ed è rimasto nel corso dei decenni un grande estimatore e diffusore dell'opera del concittadino grevigiano Domenico Giuliotti, il "poeta-mistico" o "profeta" Giuliotti, del quale il nostro ha riedito alcune delle sue maggiori opere per lo più per conto delle edizioni Logos di Roma, oltre a dedicare al medesimo alcune raccolte di saggi come "Il più santo dei ribelli. Scritti su Domenico Giuliotti" (1981) oppure "Giuliotti. Cristiano controcorrente" (ed. EMP, 1996), senza contare i volumetti preparati per conto della preziosa casa editrice La Locusta di Vicenza, a partire dal 1977, in consonanza agli interessi espressisi e sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni ottanta, quelli che afferivano ai connotati e alle 'modalità' del linguaggio dei mistici, o alle relazioni intercorrenti fra le dimensioni del silenzio-parola-Parola di Dio-ascolto.  È stato altresì membro del Comitato Nazionale per la Bioetica; membro del comitato scientifico delle riviste L'Arco di Giano, 'Nuova civiltà delle macchine, Desk.  Morì a causa di un infarto mentre si trovava a cena con alcuni colleghi universitari. Nel  per la casa editrice Rubbettino è uscito il libro La responsabilità del filosofo. Studi in onore di Massimo Baldini Dario Antiseri con saggi di amici, colleghi, collaboratori e studenti per ricordare la figura intellettuale e morale di Massimo Baldini a quattro anni dalla scomparsa. Partecipano all'antologia Tullio De Mauro e Derrick de Kerckhove. Il primo maggio  è stata inaugurata a Greve in Chianti la Biblioteca comunale "Carlo e Massimo Baldini".  Sulla filosofia del linguaggio «È chiaro che devo preoccuparmi di essere inteso da tutti perché penso che la chiarezza sia la cortesia del filosofo»  (José Ortega y Gasset, Cos'è la filosofia?) Secondo Baldini scopo del filosofo e della sua filosofia è essere chiari: scrisse infatti «l'accusa che più frequentemente viene rivolta alle opere dei filosofi è quella dell'illegibilità». I filosofi come dimostra nel suo Contro il filosofese e nel Elogio dell'oscurità e della chiarezza non seguono sempre questa missione ed in alcuni casi sembra usino volutamente un linguaggio oscuro ed incomprensibile. Tre dei filosofi più oscuri secondo Baldini, che ricalca in questo anche il giudizio di Schopenhauer, sono stati Fichte, Hegel e Schelling. Parlando di Hegel, Baldini riporta il giudizio di uno scritto di Alexandre Koyré che definisce la lingua di Hegel "incomprensibile e intraducibile".  Citando inoltre il giudizio di Popper scrive: «Troppo spesso, secondo Popper, i filosofi vengono meno alla virtù della chiarezza. Con l'oscurità sovente mascherano le tautologie e le banalità che infiorettano i loro discorsi». Henri Bergson cita l'esempio di Cartesio, di Nicolas Malebranche e di molti altri filosofi francesi mostrando che idee molto raffinate e profonde possono essere espresse nel linguaggio ordinario anziché con circonlocuzioni e ridondanze e termini che sono causa di equivoci. Baldini afferma che «l'oscurità in filosofia è, dunque, il modo migliore per fingere di spacciare pensieri, mentre si sta solo spacciando parole, è una maschera che cela spesso il vuoto di pensiero o la banalità dei pensieri». Nonostante tutto secondo Baldini, non bisogna giudicare frettolosamente un filosofo, definendolo "oscuro", a volte può essere una carenza della nostra conoscenza che ci porta a respingere come vuoto suono, parole che invece, hanno il loro preciso significato.  Scrivere la filosofia in maniera chiara può avere le sue difficoltà, Nietzsche infatti afferma che «ci vuole meno tempo ad imparare a scrivere nobilmente che chiaramente» e Ludwig Wittgenstein che celebra a più riprese la chiarezza, fa autocritica ammettendo in una sua lettera a Russell che il suo Tractatus logico-philosophicus «è tremendamente oscuro». Quanti celebrano la chiarezza in filosofia, sanno bene che ogni lettore di testi filosofici deve fare proprio il consiglio che Wittgenstein dava a Bertrand Russell, quando questi si lamentava con lui dell'oscurità del trattato, gli scrisse: «Non credere che tutto ciò in cui tu sei capace di capire consista di stupidaggini». Invece, un personaggio che volutamente, secondo Baldini, tendeva a non farsi capire e a sopraffare linguisticamente («fra gli applausi di ammirazione») i suoi ascoltatori, è stato Armando Verdiglione.  Chi si avventurava nelle sue opere, fa rilevare il filosofo, si imbatteva in frasi tipo questa: «Sono tratto da un demone a dire, a fare, a scrivere sempre fra oriente e occidente e fra nord e sud. Senza luogo della parola. Questo demone è il colore del punto, dello specchio, dello sguardo, della voce: la moneta stessa. Punto, sembiante, oggetto scientifico, è indotto dalla pulsione, dall'instaurazione della domanda, dove l'offerta è il pleonasmo», ed ancora: «Ecco questo primo rinascimento. Primo in quanto procede dal secondo, ovvero dall'originario. Secondo dunque non in senso ordinale, non in nome del nome. Non è neppure nuovo, perché non parte dalla corruzione per arrivare all'utopia». "Oscuro superlinguaggio" e "gargarismi linguistici e semantici" sono secondo Baldini il risultato della "verdiglionite" ovvero di chi si muove "sui sentieri del filosofese". Secondo Baldini quindi la difficoltà di esprimere alcuni profondi pensieri filosofici non dovrebbe essere amplificata, è vero che ci sono pensieri filosofici difficili da esprimere in modo semplice, ma è pur vero che il filosofo che desidera trasmettere la propria filosofia, dovrebbe fare un onesto sforzo affinché essa sia quanto più possibile comprensibile al proprio uditorio.  Note  Sociologi: è morto Massimo Baldini, semiologo e filosofo, Adnkronos, 11 dicembre 2008  Contro il filosofeseI filosofi e l'abuso delle parolepag. 43-49  Contro il filosofeseFichte, Schelling, ed Hegel: i professionisti dell'oscuritàpag. 50-56  Alexandre Koyré, Note sulla lingua e la terminologia hegeliana, Interpretazioni hegeliane, La Nuova Italia, Firenze 1980, pag.43  Bertrand Russel. L'autobiografia 1914-1944, Longanesi, Milano 1969, II, pag. 208 (la lettera è datata 12 giugno 1919)  Armando Verdiglione, Manifesto del secondo rinascimento, Rizzoli, Milano 198323. Altre opere: “Epistemologia e storia della scienza” (Ed. Città di vita, Firenze); “Campanella ed il linguaggio dell’utopia” – “Utopia e ideologia: una rilettura epistemologica” Ed. Studium, Roma); “Epistemologia contemporanea e clinica medica” (Ed. Città di vita, Firenze); “Teoria e storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “I fondamenti epistemologici dell'educazione scientifica” (Armando Editore, Roma); “La semantica generale” (Ed. Città nuova, Roma); “Gli scienziati ipocriti sinceri: metodologia e storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “La tirannia e il potere delle parole: saggi sulla semantica generale” (Armando Editore, Roma); “Congetture sull'epistemologia e sulla storia della scienza” (Armando Editore, Roma); “Epistemologia e pedagogia dell'errore” (Ed. La Scuola, Brescia); “Il linguaggio dei mistici” (Ed.Queriniana, Brescia); “Il linguaggio della pubblicità” “La fantaparola” (Armando Editore, Roma); “Educare all'ascolto, Ed. La Scuola, Brescia); “Parlar chiaro, parlar oscuro” (Ed. Laterza, Roma Bari); “Lezioni di filosofia del linguaggio” (Ed. Nardini, Firenze); “Antologia filosofica, Ed. La Scuola, Brescia); “Contro il filosofese” (Ed. Laterza, Roma-Bari); “Storia della comunicazione, Newton & Compton, Roma); “La storia delle utopie, Armando Editore, Roma); “Il proverbi italiano” (Newton & Compton editori s.r.l., Milano); “Karl Popper e Sherlock Holmes: l'epistemologo, il detective, il medico, lo storico e lo scienziato” (Armando Editore, Roma); “La medicina: gli uomini e le teorie, Ed. CLUEB, Bologna); “Il liberalismo, Dio e il mercato” (Armando Editore, Roma); “L’amicizia” (Armando Editore, Roma); “Introduzione a Karl R. Popper, Armando Editore, Roma); “Capelli: moda, seduzione, simbologia” (Ed. Peliti, Roma); “Popper e Benetton: epistemologia per gli imprenditori e gli economisti” (Armando Editore, Roma); “Elogio dell'oscurità e della chiarezza, LUISS University Press e Armando Editore, Roma); “Elogio del silenzio e della parola: i filosofi, i mistici, i poeti, Rubettino Editore, Soveria Mannelli); “I filosofi, le bionde e le rosse, Armando Editore, Roma); “L'invenzione della moda: le teorie, gli stilisti, la storia. Armando Editore, Roma); “L'arte della coiffure: i parrucchieri, la moda e i pittori, Armando Editore, Roma); Popper, Ottone, Scalfari, LUISS University Press, Roma 2009. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Massimo Baldini  Scheda dell'Università LUISS, su docenti.luiss. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1947 2008 18 giugno 10 dicembre Greve in Chianti RomaProfessori della Libera università internazionale degli studi sociali Guido CarliProfessori della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PerugiaProfessori dell'Università degli Studi di SienaProfessori dell'BariStudenti dell'Università degli Studi di Firenze.  In questo contributo intendo concentrarmi su alcuni aspetti della teoria aristotelica dell’amicizia: il metodo di indagine attraverso cui è articolata e acquisita, e il suo significato dialettico e teorico.  Il processo conoscitivo, per Aristotele, è una transizione da ciò che è “primo per noi” a ciò che è “primo per sé”[1], e l’indagine sull’amicizia non fa eccezione. Il “primo per noi” contempla la nostra esperienza della cosa intesa in senso ampio, tale da includere: le prassi linguistiche e ascrittive diffuse[2], le opinioni notevoli (ἔνδοξα) condivise da tutti o dai più o dai sapienti o da alcuni di essi[3], i topoi o luoghi comuni consegnati dalla tradizione, i fenomeni intesi come “fatti della vita”, ovverosia le ordinarie prassi umane, i comportamenti concreti implicati nelle relazioni di amicizia[4]. Si tratta di un materiale eterogeneo, variegato, opaco, bisognoso di sintesi e di articolazione concettuale: il suo trattamento dialettico preliminare sarà orientato anzitutto a evidenziare le contraddizioni che tale materiale ospita, per poi cercare di superarle entro una sintesi superiore la quale, attraverso una teorizzazione positiva ˗ materiata di distinzioni semantiche e concettuali, argomenti, definizioni ˗ ne salvi gli elementi genuini nella misura del possibile, mostri l’apparenza delle contraddizioni, e produca così una sorta di “equilibrio riflettuto” fra il “primo per noi”, da cui pure si sono prese le mosse, e il “primo per sé”, punto d’arrivo dell’indagine. Una buona teoria dovrà fare giustizia dei caratteri manifesti dell’oggetto, renderli cioè intellegibili e inferibili[5]; invece una teoria che negasse questi caratteri, sarebbe ipso facto una teoria deficitaria, insoddisfacente: non ci riconcilierebbe coi φαινόμενα, che pure sono il suo originario explanandum.  Questa cifra metodologica va tenuta presente, se si vuole apprezzare in modo non superficiale la trattazione aristotelica dell’amicizia nelle due Etiche. Perciò è opportuno partire non da Aristotele, bensì dall’orizzonte teorico-culturale cui egli si rapporta dialetticamente, nonché dai suoi obbiettivi polemici. Il significato ordinario di «φιλία» ha un’estensione ben più ampia della nostra nozione di «amicizia»: oltre all’amicizia propriamente intesa, può denotare anche l’alleanza politica[6], la vasta gamma dei rapporti sociali, dalle relazioni parentali e matrimoniali a quelle commerciali, quelle cameratistiche, quelle amorose ed erotiche; insomma, qualunque interazione umana positiva e non ostile, fra individui o fra gruppi – ma anche fra uomini e dei[7] – è denotabile come φιλία. Nella caratterizzazione preliminare che ne offre, Aristotele attinge ai grandi modelli omerico ed esiodeo, così come ai Sette Savi, ai tragici, nonché al sapere filosofico dei predecessori (Empedocle, Eraclito, etc.); ma il punto di riferimento dialettico che, sottotraccia, orienta l’intera trattazione, è il Liside platonico, la prima indagine filosofica sistematica dedicata alla φιλία[8], nelle cui note aporie sono peraltro condensate e portate a tematizzazione le contraddizioni insite nelle istanze della tradizione pre-filosofica globalmente intesa. Il Liside dunque, fra gli ἔνδοξα e i λεγόμενα, riveste un ruolo dialettico-polemico primario, anche se non se ne fa alcun riferimento esplicito. È impossibile in questa sede tentarne anche solo una cursoria sintesi, ma è necessario individuare perlomeno quelle aporie di fondo intorno alla φιλία che Aristotele riprende in maniera puntuale[9].  Una importante aporia (210e-213c), radicata nella dicotomia attivo/passivo, è articolata intorno alla questione: chi dei due, in una relazione amicale, è l’amico? Chi ama o chi è amato[10]? Si sonda tutto lo spazio logico delle possibilità, producendo esiti paradossali (di qui, appunto, lo status di aporia): se 1) è chi ama, ad essere amico di chi è amato, allora nel caso che chi è amato odiasse chi lo ama, uno sarebbe amico di chi lo odia! 2) se è chi è amato, ad essere amico, sarà anche il caso che chi è odiato è nemico, dunque se qualcuno ama qualcuno che lo odia, allora sarà nemico di un suo amico! 3) se sono amici o chi ama o chi è amato, indifferentemente, resta fermo che uno potrebbe essere amico di chi lo odia 4) se sono amici necessariamente entrambi, allora non potremmo essere “amici” di entità che non ci amano, come la scienza, o il vino, o i cavalli. L’aporia presuppone l’ampia estensione semantica di φιλία e di φίλος, che da un lato può avere significato passivo (esser caro a qualcuno), attivo (essere amico di) o reciproco[11], dall’altro come prefisso (φίλο-) può comporre termini denotanti amore, passione o apprezzamento per entità impersonali, che non reciprocano. Ma l’aporia è filosofica, non meramente linguistica[12].  Una seconda aporia (213d-223b) muove dalla questione se l’amicizia si dia fra simili o fra dissimili. Se 1) si dà fra simili, allora anche i malvagi sarebbero amici, ma fra malvagi non si dà vera amicizia (assunzione qui data per vera)[13]; 2) se si dà non fra simili simpliciter ma fra simili nell’esser buoni, sorge il problema di come il buono – il quale basta a se stesso[14] – possa trarre utilità da un altro buono, e viceversa, quando si era precedentemente stabilito che nessun amico è inutile all’amico (210c6-8); 3) se si dà fra dissimili contrari, come povero/ricco, sapiente/ignorante etc., allora, daccapo, l’amico sarà amico del nemico, il malvagio del buono etc.: amico/nemico e malvagio/buono sono contrari; 4) forse si dà fra certi dissimili non contrari: chi è intermedio fra buono e cattivo può amare il buono in virtù della presenza in sé di un “male”, cioè della privazione di bene di cui è conscio e che lo rende intermedio[15]; così l’amicizia diventa un caso particolare del desiderio[16], volto strutturalmente a ciò di cui si è privi. Ma anche qui si ricadrebbe nel caso 1 della Prima aporia: pare che l’amare unidirezionale e non ricambiato non sia sufficiente all’amicizia, inoltre il buono sarebbe amato senza amare a sua volta (infatti l’altro gli è inutile giacché egli ha già il bene presso di sé).  A questo punto viene introdotta l’idea che, se noi cerchiamo nell’amico il bene ma nessun amico può avere il bene pienamente presso di sé, allora ciò che cerchiamo negli amici è il «Primo Amico», qualcosa che trascende sia noi che gli amici stessi, di cui questi ultimi sono apparenze (εἰδώλα)[17]. Le relazioni amicali sono da ultimo orientate verso qualcosa che trascende entrambi i relati, secondo una dinamica “ascensionale” segnatamente platonica: ma così l’amico in carne e ossa parrebbe ridotto a mero luogo di transito di una tensione desiderante che ascende in direzione di un assoluto ideale. Riesaminando poi la relazione “orizzontale”, si introduce la nozione di «affine» (οἰκεῖος): forse la φιλία è rapporto col simile in quanto affine, o familiare; ma l’affinità pare essere reciproca (se A è affine a B, B è affine ad A), dunque il buono risulta inservibile a chi è già affine al buono; inoltre, sono affini anche i malvagi.  Anche se la trattazione appare un poco schematica e talora verbalistica, essa tocca problemi speculativi genuini. Come ci si aspetta da un dialogo “socratico” di Platone, le aporie non trovano uno scioglimento, se non la paradossale acquisizione che né amanti né amati, né simili né dissimili né contrari, né affini, né buoni, possono essere amici[18]! Teniamo dunque a mente questi nodi problematici.     2. La tassonomia delle amicizie e il suo significato    L’amicizia è studiata nel libro VII dell’Etica Eudemia, e nei libri VIII-IX dell’Etica Nicomachea[19]. Mentre la trattazione dell’Etica Eudemia risulta più logica e astratta, quella dell’Etica Nicomachea è più orientata a salvare i fenomeni, è più empirica e inclusiva: per cogliere i nuclei teorici di fondo, è sensato muovere dalla prima, e valutare criticamente quando e perché la seconda propone integrazioni o discostamenti teorici da quella. Sia la Eudemia precedente alla Nicomachea o meno[20], in essa appare più nitidamente come la trattazione aristotelica costituisca una sorta di virtuale controcanto filosofico del Liside platonico[21].  Etica Eudemia VII introduce il soggetto come specialmente degno di essere indagato: gli ἔνδοξα universalmente diffusi pongono la φιλία come il fine stesso della politica, come antidoto all’ingiustizia, come habitus caratteriale rivolto ai buoni, pongono l’amico come il più grande dei beni esterni (anche in quanto volontariamente scelto) e l’assenza di amici come il male più terribile[22]. La φιλία è aspetto centrale dell’etica – soprattutto entro un’etica eudemonistica imperniata sul bene e sulla felicità – dunque non sorprende che la sua trattazione occupi quasi un quinto degli scritti etici aristotelici.  Ma altre opinioni notevoli non sono universalmente condivise: per alcuni il simile è amico del simile (Omero, Empedocle), per altri lo è il contrario del contrario (Esiodo, Euripide, Eraclito)[23]: sono le opzioni 1 e 3 della Seconda Aporia del Liside, che pure non viene citato. Si ricordano poi altre opinioni, topoi tradizionali già ripresi dal Liside: per alcuni non c’è amicizia fra malvagi ma solo fra buoni (cfr. opzione 1 della Prima Aporia), per altri solo chi è utile può essere amico (cfr. opzione 2 della Seconda Aporia).  Prima di passare alla pars construens, Aristotele enuncia candidamente il criterio metodologico e lo scopo dell’indagine:    Occorre trovare un’argomentazione che insieme renda conto (ἀποδώσει) al massimo grado delle opinioni (τά δοκοῦντα) intorno a queste cose, e anche che sciolga le aporie e le contraddizioni. Ciò avverrà qualora appaia che le opinioni contrarie sono sostenute con buone ragioni: una tale argomentazione sarà nel massimo accordo coi fenomeni. E le tesi in contraddizione risultano mantenersi, se quel che affermano è vero in un senso, ma in un altro no. (Et. Eud. VII 2, 1235b13-18).[24] Le opinioni diffuse e notevoli non vanno accolte in modo supino e acritico, ma comprese nelle loro buone ragioni e, nella misura del possibile, salvate entro una sintesi teorica che superi le aporie e mostri che le affermazioni apparentemente incompatibili possano essere vere entrambe, in sensi diversi; così vi sarà anche il massimo accordo coi φαινόμενα. Questi, i desiderata da soddisfare.  Se l’amicizia è desiderio (altra acquisizione del Liside[25]), il desiderio può essere del piacevole (appetito) o del buono (volontà)[26], dunque ciascuno di essi ci è «amico» o caro (φίλον); comunque il piacere si presenta come un bene (o appare tale o è creduto tale[27]): la prima distinzione da fare è perciò fra bene e bene apparente (φαινόμενον ἀγαθόν), oggetti del desiderio[28]. La seconda è quella fra bene incondizionato (ἁπλῶς) e bene per qualcuno[29]: ciò che è buono simpliciter lo è per l’essere umano in generale, ciò che è tale «per qualcuno» lo è per certi individui particolari in certe circostanze (per esempio, un’operazione per un malato); parimenti, vi è un piacevole incondizionato e un piacevole «per qualcuno» (per esempio, in condizioni fisiche o morali alterate); Aristotele sostiene che il piacevole incondizionato coincida col buono incondizionato[30]: ciò che è buono per l’uomo in generale, è anche piacevole per l’uomo in generale, invece un individuo malato o corrotto troverà piacevoli cose non oggettivamente buone; né coincideranno il piacevole «per lui» e il buono «per lui». Un uomo saggio e virtuoso troverà piacevole ciò che è buono, dunque nel suo caso si identificano bene apparente e bene reale (è buono ciò che gli appare tale), bene «per lui» e bene incondizionato (ciò che è bene per lui è buono in generale per l’uomo), nonché bene e piacere: egli è norma rispetto a ciò che per l’uomo in generale è e deve essere buono e piacevole, in quanto esprime l’eccellenza della stessa natura umana. A ogni modo, ciò che motiva un soggetto S deve apparire un bene a S (che lo sia o meno), e apparire a S un bene per lui (che sia o meno anche un bene in senso incondizionato)[31].  Ci sono cose per noi buone in quanto le riteniamo dotate di valore intrinseco, cose per noi buone in quanto le riteniamo utili, e cose per noi buone in quanto le troviamo piacevoli. Poiché l’amico è un bene scelto e desiderato ˗ il φιλεῖν è un caso particolare di desiderio ˗ potrà esserlo per questi tre motivi: come bene in sé, e cioè in quanto è ciò che è e «per la virtù», o in quanto è ci è utile, o in quanto sia piacevole, «per il piacere»[32]. Chiariremo successivamente perché il buono in quanto buono, quando il bene sia l’amico stesso, si identifichi con la sua virtù.  Colui che è amato in base a uno dei tre aspetti suddetti (bene-virtù, utilità, piacevolezza) diventa un amico ˗ si aggiunge ˗ quando contraccambia l’affetto: dunque la reciprocità diviene un tratto essenziale dell’amicizia, una sua condizione necessaria; Aristotele sceglie l’opzione 4 della Prima Aporia del Liside, ma replica all’obiezione ivi contenuta, secondo cui cose amate come il vino, i cavalli e la scienza non possono ricambiare, mediante la distinzione fra φιλία e φίλησις[33]: la seconda è un affetto/desiderio per le cose inanimate, la prima implica un simile affetto come componente, ma include necessariamente la reciprocità. Talvolta, una nozione vaga può essere disambiguata mediante una distinzione semantica, in modo da sciogliere apparenti contraddizioni e insieme “salvare i fenomeni”. Tuttavia, l’affetto reciproco sulla base di uno dei tre amabili non è ancora sufficiente perché ci sia φιλία; tale reciprocità deve essere esplicita, non celata, nota ai due amici: se amo qualcuno che non lo sa, non siamo amici, nemmeno nel caso lui ami me e io lo sappia; entrambi devono amarsi l’un l’altro, ed entrambi lo devono fare in modo manifesto, tale che sia noto all’uno e all’altro. La coscienza di essere amici è essenziale all’essere amici: qualcuno può credere di essere amico senza esserlo[34], però nessuno può essere amico di qualcuno senza credere di esserlo. Se manca la reciprocità, non si ha amicizia ma «benevolenza» (εὔνοια), cioè desiderio del bene dell’altro; quando quest’ultima è reciproca e non è celata, allora può divenire amicizia[35].  Le tre forme di amicizia, rispettivamente basate su virtù, utilità, piacere, secondo l’Eudemia intrattengono la relazione asimmetrica che Aristotele chiama πρὸς ἓν, in cui vi è un significato primario o focal meaning cui gli altri, secondari e derivati, rimandano[36]: l’amicizia a causa della virtù e fondata sul bene è posta come πρώτη φιλία, «prima amicizia», da cui le altre dipendono dal punto di vista definitorio. Quindi «φιλία» non denota tre specie di un unico genere, né è un termine equivoco che denota realtà completamente diverse; è termine “multivoco”, giacché l’amicizia si dice in molti modi ma in riferimento a un senso che illumina tutti gli altri, e a cui gli altri si rapportano necessariamente. Molti critici ritengono che, siccome l’amicizia “utilitaristica” e quella “edonistica” possono darsi indipendentemente da quella “virtuosa”, l’idea che esse rimandino necessariamente a quella “virtuosa” non sarebbe convincente, e proprio per questo sarebbe poi abbandonata nella Nicomachea[37]. Ma la gerarchizzazione πρὸς ἓν è anzitutto definitoria: il piacere è un bene apparente (dunque, una declinazione del bene), l’utile è tale in quanto foriero di bene[38] o di piacere (che, daccapo, è un bene apparente); dunque i tre amabili sono un bene, un modo di apparire del bene, una via che porta al bene. Al modo in cui il piacere e l’utilità si definiscono in rapporto al bene[39] (ma, per Aristotele, non viceversa), così le amicizie basate sul piacere e l’utile si definiscono in rapporto a quella basata sul bene come tale: e infatti, come vedremo, ne sono forme imperfette e difettive.  Si noti la pur generica assonanza fra la πρώτη φιλία e il πρῶτον φίλον, il Primo Amico del Liside: se Platone radica il senso delle relazioni amicali in un anelito a qualcosa che trascende le amicizie e gli amici stessi illuminandole, per così dire, dall’alto, Aristotele immanentizza il bene entro gli amici stessi e le loro relazioni; c’è una amicizia prima, ma non un Amico primo che si distingua dagli amici empirici e concreti. Il bene che è in gioco nell’amicizia è ubicato negli amici stessi, è immanente.  Qual è la ragione profonda di questa tripartizione? Si può mostrare in modo puntuale che si tratta di una risposta alle aporie platoniche: se i platonici pongono come amicizia solo quella virtuosa, «non riescono a dare conto dei fenomeni»[40], ove per fenomeni si devono intendere non solo le prassi umane, ma anche gli ἔνδοξα e i λεγόμενα. Se vi sono tre forme di amicizia, può darsi che alcune opinioni notevoli e intuizioni siano vere dell’una ma false dell’altra, altre siano vere dell’altra ma false dell’una, come afferma il passo metodologico succitato. Se poi a partire da ciascuna delle tre caratterizzazioni si potessero inferire o congetturare dei rispettivi propria, che coincidano coi rispettivi tratti manifesti dell’amicizia che parevano aporetici in quanto incompatibili, allora grazie a questa tassonomia tricotomica le aporie potrebbero essere sciolte, poiché alcuni di questi tratti caratterizzeranno un tipo di amicizia, alcuni altri un altro tipo di amicizia.  L’amicizia virtuosa, fondata sul bene, è fra simili in quanto buoni[41]: essa cattura l’opzione 2 della Seconda Aporia del Liside, nonché l’ideale arcaico, omerico ma anche teognideo e in generale aristocratico, della φιλία come sodalizio elettivo fra ἀγαθοί; a questo topos tradizionale, il Socrate del Liside replica che esso è incompatibile con un’altra idea ben radicata (basata su altri due topoi tradizionali): il buono è autosufficiente, e un amico gli sarebbe inutile, ma l’amicizia è fondata proprio sull’utilità reciproca; quest’ultima idea, di matrice esiodea[42] ma anche un luogo comune confermato dalle prassi umane, non può essere negata, per Aristotele: sono gli stessi φαινόμενα a mostrare che coloro che intrattengono relazioni continuative di utilità e soccorso reciproco, si chiamano amici  e si ritengono tali, e così sono dagli altri chiamati e ritenuti. La contraddizione è apparente, se si postula che l’utilità reciproca è un prerequisito di una forma di amicizia (quella basata sull’utile) e non dell’altra (quella basata sul bene). Le relazioni utilitaristiche sono amicizia, sebbene di un certo tipo; sia queste che quelle fondate sul piacere, possono sussistere anche fra individui non buoni, persino fra malvagi, sebbene in forma estremamente labile e instabile: l’opzione 1 della Seconda Aporia del Liside è anch’essa percorribile, in quanto due individui non “buoni” possono essere amici sulla base del piacere, e sono simili nella misura in cui condividono certi tipi di piacere; inoltre, l’intuizione per cui l’amicizia si dà fra contrari come povero/ricco, sapiente/ignorante etc. ˗ opzione 3 della Seconda Aporia del Liside ˗ è anch’essa fatta salva, in quanto viene posta come peculiare all’amicizia utilitaristica, che tipicamente è intrattenuta da individui in qualche senso contrari (l’uno ha qualcosa che l’altro non ha). Aristotele riesce a salvare i fenomeni attraverso una distinzione tassonomica fondamentale, che deve conciliare certe apparenti incompatibilità ma al tempo stesso preservare una certa unitarietà dell’oggetto: quella di amicizia è una nozione originariamente ospitale, plurale e polivoca, tanto internamente differenziata da implicare una demarcazione netta fra l’amicizia virtuosa e le altre, ma non tanto monolitica da implicare che si escludano dal novero delle amicizie quelle forme di relazione (utilitaria, edonistica) ordinariamente denominate così: altrimenti si farebbe violenza al linguaggio e alle “cose stesse”[43]: a quel “primo per noi” che è lo stesso explanandum originario.  Una delle ragioni per cui l’amicizia virtuosa è detta «prima» nella Eudemia e poi «perfetta» (τέλεια) nella Nicomachea[44], è che essa è costitutivamente piacevole, benché non sia fondata sul piacere, e implica la disposizione alla mutua utilità quando serva, benché non sia fondata sull’utile: dunque contiene in sé, in certo modo, le altre due. Tuttavia, il piacere che consegue al bene ed è persino costitutivo di esso, non è lo stesso piacere che fonda le amicizie edonistiche; il primo è inseparabile dal bene cui consegue[45], quindi l’integrazione di piacere e utilità nell’amicizia virtuosa non è da concepirsi come una somma estrinseca o giustapposizione di aspetti positivi (bene + utilità + piacere). La perfezione di questa amicizia non è una somma di amicizie imperfette, è originaria completezza.  Nella Nicomachea non vi è traccia della relazione πρὸς ἓν, e la πρώτη φιλία diventa τέλεια φιλία[46]. Le altre amicizie qui sono dette tali «secondo somiglianza» a quella perfetta[47]: a mio avviso, al netto della differenza di linguaggio, la posizione di Aristotele non muta in modo sensibile fra le due opere; la somiglianza delle amicizie edonistica e utilitaristica a quella perfetta consiste anche qui nel fatto che quest’ultima è, per entrambi gli amici, utile e piacevole, dunque contiene quegli aspetti che fondano le amicizie imperfette, ma non ne è simmetricamente contenuta. Infatti, ciò che è buono è anche utile e piacevole, mentre ciò che è utile può non essere piacevole e può non essere buono (né simpliciter, né per l’individuo) – per esempio, se l’individuo è corrotto e trova per sé utile qualcosa che lo approssima a ciò che non è il suo bene (anche se egli magari crede che sia il suo bene[48]) – e ciò che è piacevole può essere inutile o persino dannoso. Questo vale in generale, e a fortiori vale per gli amici buoni, utili, piacevoli. In realtà, lo stesso “compito” etico implicitamente affidato all’uomo, gli è affidato anche in rapporto all’amicizia: l’ideale umano, incarnato dal saggio che ne è norma ed esempio, è quello di far coincidere ciò che è bene per sé con ciò che è bene in generale, e ciò che è piacevole per sé con ciò che lo è in generale; si realizza così anche la coincidenza di bene e piacere, visto che il buono in generale e il piacevole in generale si identificano per natura[49]. Ciò importa che occorra anzitutto essere buoni (saggi e virtuosi) e, essendolo, prediligere le amicizie virtuose (che sono appannaggio dei buoni): esse non ospitano conflitti strutturali, soprattutto il bene e il piacere – il confliggere dei quali sopraffà l’acratico – sono adeguati ab origine, nell’amicizia perfetta, giacché essa è piacevole proprio in quanto buona. Ma ciò non esclude che i buoni possano intrattenere anche amicizie fondate sul piacere, o sull’utile[50]: esse però, nell’economia della loro vita, risulteranno marginali, sia nella quantità che nella qualità.  Può sorprenderci il fatto che alla forma di amicizia più rara e più “inarrivabile” delle tre (i buoni sono pochi, gli amici a causa del bene ancora meno) venga ascritta una priorità definitoria, sia essa del tipo πρὸς ἓν o «per somiglianza». Ma per Aristotele qualunque capacità umana – l’amicizia è una virtù, le virtù sono capacità acquisite – viene individuata e definita sulla base della sua eccellenza: è il caso eccellente, in cui un tratto umano è più pienamente realizzato, che funge da essenza normativa rispetto ai casi difettivi, deficitari, degradati, imperfetti; per definire, occorre guardare ai casi migliori, alla modalità in cui una potenzialità è dispiegata ed espressa più compiutamente, e che misura gli altri casi quasi costituendone un virtuale dover-essere rispetto a cui essi mostrano la loro manchevolezza. Perciò la teoria aristotelica presenta al contempo una dimensione descrittiva e una normativa, fra le quali sussiste una sorta di tensione dialettica. E in effetti le amicizie fondate sul piacere e sull’utile sono incomplete: vengono caratterizzate addirittura come amicizie per accidens[51], il che sembra sulle prime vanificare l’atteggiamento inclusivo adottato da Aristotele come cifra metodologica, non solo praticata ma persino esplicitata in modo programmatico[52]. È come se in sede di definizione generale Aristotele fosse interessato a preservare l’unità della nozione di amicizia nonostante le differenze, ma in sede di caratterizzazione sinottico-comparativa dei diversi tipi, ponesse invece l’enfasi sullo iato che separa l’amicizia prima o perfetta dalle altre, fino a trattare le altre come solo accidentalmente tali. Perché esse sono caratterizzate come «accidentali»?  Chi si ama per l’utile o per il piacere lo fa «non perché l’individuo amato sia quello che è, ma in quanto è utile o in quanto è piacevole»[53]: l’utilità e la piacevolezza sono proprietà relazionali esterne all’essenza dell’amico amato, determinate dagli effetti che esso ha su chi lo ama, «perché gli uni ne traggono un qualche bene, gli altri un piacere»[54]; invece l’amicizia basata sulla virtù e la bontà dell’amico amato, è basata su proprietà intrinseche all’amato, su ciò che da ultimo l’amato è[55]. Noi siamo il nostro carattere, il nostro carattere è l’insieme unificato delle nostre virtù, una seconda natura che è frutto prima dell’educazione e poi delle nostre scelte: noi siamo un sé che sceglie, e i nostri pensieri, discorsi e azioni manifestano il nostro “sé”. Pertanto, nell’amicizia perfetta il bene che è in gioco è l’amico stesso che è amato, per ciò che egli essenzialmente è, mentre il bene che è in gioco nelle altre amicizie è il bene – nella forma dell’utile o del piacevole – dell’amico che ama. Anche se l’amicizia è sempre reciproca, resta fermo che nell’amicizia perfetta il fondamento è, per ciascuno degli amici, l’altro come buono, nelle altre è invece il proprio bene in quanto utilità o piacere[56]. Nelle amicizie imperfette la ragione per cui si vuole e persegue il bene dell’altro, resta radicata nell’interesse proprio come diverso dal bene elargito all’altro e diverso dall’altro stesso come dotato di valore intrinseco. È questa differenza radicale a rendere le amicizie imperfette amicizie per accidens: ciò non implica, si badi, che non siano amicizie[57], bensì che lo sono solo in virtù del loro somigliare all’amicizia perfetta, seppure in modo difettivo.  Ma l’amicizia fondata sul bene dell’amico non rischia così di risultare “disinteressata” in un modo psicologicamente implausibile? Solo in apparenza, in quanto il bene di chi ama è in gioco, ma lo è in quanto coincide col bene dell’amico: se siamo amici perfetti, siamo entrambi buoni e virtuosi, e il nostro bene individuale coincide col bene simpliciter: noi, come amici perfetti, cooperiamo per realizzare il bene in generale[58]; il bene mio e dell’amico sono voluti – rispettivamente, dall’amico e da me – in conseguenza del fatto che anzitutto io e l’amico siamo dei beni: se lo siamo l’uno per l’altro, è perché siamo buoni, siamo dotati di valore intrinseco, e lo riconosciamo reciprocamente. Non si tratta di una implausibile relazione puramente altruistica e disinteressata, perché non si fonda – ribadiamolo – solo sul volere il bene dell’altro, ma anzitutto sull’altro come bene in sé: voglio e perseguo il bene dell’altro non per altruismo astratto, ma perché l’altro è un bene. Una nozione comune con cui forse potremmo rendere più chiaro questo aspetto, è quella di stima. L’amicizia perfetta è fondata sulla stima reciproca: un amico che stimo per ciò che è e per come è, esemplifica in sé ciò che è buono, a prescindere da ciò che io posso trarre da lei/lui: «se uno non gioisce perché l’altro è buono, non c’è la prima amicizia» (1237b4-5). La stima reciproca presuppone una consonanza di valori, un’intesa su ciò che vale e ciò che è degno: e visto che i due amici sono virtuosi e buoni, essi valgono e sanno di valere, per questo valgono anche l’uno per l’altro. Si tratta di una amicizia in cui coltivare il proprio bene coincide col coltivare l’altro e il suo bene, e questo coincidere non è accidentale – come accade nelle altre amicizie – bensì è costitutivo. Invece posso trarre vantaggio da un amico utile senza stimarlo affatto, così come posso trarre piacere – per esempio, divertendomici insieme – da qualcuno che non stimo, che non ritengo una persona buona, degna, valida.  L’accidentalità delle amicizie non perfette si rende perspicua nella loro strutturale instabilità: un rapporto fondato sull’utilità non avrà più ragion d’essere, qualora uno dei due amici smetta di essere utile all’altro; i bisogni umani sono cangianti, e tali sono le risorse altrui per farvi fronte, cosicché anche le relazioni utilitarie sono essenzialmente mutevoli; lo stesso accade per gli amici secondo il piacere: cambiano, nel tempo, le fonti del piacere, i “gusti”, e cambiano anche le capacità altrui di procurarci piacere; l’amicizia piacevole, poi, è precaria anche perché riguarda tipicamente i giovani, i quali sono di per sé in continuo cambiamento[59].  Invece la virtù del carattere è cosa stabile: le amicizie complete sono stabili perché sono fondate sul bene come virtù, che è costante e non facile a mutare[60]. Il tempo può rendere inutile un amico che prima era utile, o non più piacevole un amico che lo era, ma difficilmente può sottrarre a un carattere le virtù, far diventare malvagi i buoni, stolti i saggi, e dunque minare le basi su cui le relazioni virtuose fra buoni sono costruite. Per questo l’amicizia completa è specialmente solida, quasi incrollabile[61], e l’amico virtuoso è un amico «al massimo grado»[62], un amico «vero»[63]. Un tale amico si renderà utile se può e quando sia necessario, ma sarà utile perché è un amico, piuttosto che essere amico perché è utile; e sarà piacevole all’amico, giacché ci risulta tendenzialmente piacevole frequentare chi stimiamo[64].  Così Aristotele, forte della sua tassonomia tripartita, deriva dei propria (dei caratteri distintivi) di ciascuna amicizia, spiegando i fenomeni e riconciliandoci con le comuni pratiche ascrittive: alcune intuizioni, luoghi comuni e opinioni notevoli sono vere di un’amicizia, alcune dell’altra. Parlando coi giovani Liside e Menesseno, Socrate nel Liside si dice desideroso di amicizia più di ogni cosa al mondo – con una Priamel che restituisce in modo icastico l’idea dell’amicizia come il più grande dei beni esterni, fatta anch’essa propria da Aristotele – e invidia ironicamente la loro felicità, visto che sono giovani e sono diventati amici «in modo facile e rapido»[65]. Si tratta di caustica ironia, visto che la φιλία che ha a cuore Socrate non è né facile né rapida: ciò che è dissimulato, è che quella non è verace amicizia, ma altro. Qui c’è un’aporia in nuce, visto che i giovani che si frequentano, pur con una certa leggerezza e una conoscenza reciproca non profonda, paiono amici e sono detti tali, eppure non soddisfano i requisiti della “vera” amicizia non solo secondo l’idea socratica, ma anche secondo l’opinione diffusa per cui la vera amicizia è durevole, lenta e difficile a darsi. Aristotele distingue i soggetti delle attribuzioni incompatibili, salvando la verità di entrambe: l’amicizia giovanile (per esempio, quella di Liside e Menesseno) è fondata sul piacere, e ha certi tratti distintivi quali la facilità a prodursi e a decadere, l’intensità emotiva, e così via; l’amicizia perfetta, tipica degli uomini maturi (è quella per cui Socrate dice di ardere di desiderio), necessita di una lunga consuetudine e di una conoscenza reciproca profonda[66], è rara e appannaggio di pochi, è difficilissima a nascere ma altrettanto difficile a morire, fondandosi su ciò che in noi vi è di più stabile. Invece, quella utile caratterizza tipicamente gli anziani, particolarmente bisognosi d’aiuto e sensibili, per debolezza, al beneficio che può arrecare il mutuo soccorso[67]; inoltre, essa si riscontra nei più, nelle masse, le quali sono più preoccupate dei benefici personali che del bene e del bello. Fra le amicizie incomplete, Aristotele ascrive una superiore nobiltà a quella fondata sul piacere, mentre quella fondata sull’utile è «da bottegai»[68]. In effetti, la condivisione del piacere è qualcosa di meno strumentale rispetto al trarre vantaggi da qualcuno: perlomeno il piacere è un fine, non un mezzo; inoltre, il piacere appartiene alla frequentazione stessa dell’amico, mentre l’utile è a questa completamente estrinseco: dunque il fondamento dell’amicizia utile è più esteriore e più contingente di quello dell’amicizia piacevole.  Un altro aspetto problematico del Liside emerge in particolare nella Prima Aporia rispetto alla polarità attivo/passivo (amante/amato), ma soggiace implicitamente anche ad altre aporie: l’amicizia sembra implicare uguaglianza e comunanza da un lato, e differenza e asimmetria dall’altro; si mescolano aspetti tipici del rapporto pederastico-erotico (amante e amato non sono intercambiabili), aspetti del rapporto genitoriale, anch’essi per definizione asimmetrici, e relazioni “fra buoni” simili, potenzialmente simmetriche. Aristotele cerca di articolare queste istanze entro un quadro più sistematico: la tassonomia delle tre amicizie si arricchisce di una distinzione trasversale, fra amicizie simmetriche e amicizie asimmetriche in cui uno è superiore e l’altro inferiore[69]; la φιλία deve essere reciproca, ma tale reciprocità può essere simmetrica o asimmetrica (fra superiore e inferiore). I tipi di amicizia sono dunque sei, giacché si può essere superiori quanto a virtù, a utilità, e a piacevolezza.  La ulteriore distinzione fra amicizie simmetriche e asimmetriche consente ad Aristotele una esplorazione straordinariamente ricca dei legami sociali più eterogenei, che assimila alla φιλία e alle sue declinazioni i rapporti familiari (padre-figlio, marito-moglie, figlio-figlio), i rapporti politici fra città (in vista dell’utile)[70], gli stessi rapporti fra i cittadini in rapporto alla loro comunità, i rapporti fra governanti e governati, le relazioni commerciali, e così via, e indaga le relazioni profonde fra amicizia, giustizia, concordia, comunità. Non è possibile restituire nemmeno sommariamente la ricchezza di tali analisi in questo contributo, il quale si focalizza piuttosto sul significato filosofico e dialettico della tripartizione in generale: ma fa d’uopo rilevare che le applicazioni di questa teoria generale sono molteplici e fecondissime.     3. Amicizia e autosufficienza    La tripartizione (con ulteriore dicotomia trasversale) non scioglie di per sé un nodo aporetico concernente la stessa amicizia perfetta fra buoni: è l’idea espressa entro il punto 2 della Seconda Aporia del Liside, per cui chi ha il bene presso di sé è autosufficiente e non ha bisogno di nulla, dunque l’amicizia di chicchessia gli sarebbe inutile. È vero che Aristotele ha distinto l’amicizia perfetta da quella utile, ma resta il problema di comprendere come mai colui che è saggio, virtuoso e buono, bastando a sé stesso, abbia una qualche motivazione a coltivare un amico, foss’anche un amico perfetto: «se è felice chi ha la virtù, che bisogno avrà di un amico?»[71]. L’idea dell’autosufficienza di chi è saggio, virtuoso, felice e beato, ripresa dal Liside, è un topos tradizionale, quindi ha lo status di ἔνδοξον ben radicato, di cui va dato conto e di cui va mostrata la compatibilità con la teoria positiva proposta nonché con altri ἔνδοξα altrettanto ben attestati.  Il problema è affrontato in Etica Eudemia VII 12 e in Etica Nicomachea IX 9, in maniere parzialmente differenti. L’Eudemia muove dall’analogia con la condizione divina, paradigma dell’autosufficienza. Ma la condizione umana può assurgere all’autosufficienza solo nella misura in cui lo consente la natura dell’uomo, che è animale sociale-politico[72] e può/deve realizzare questa natura, non quella divina[73]: il bene umano contempla sempre il rapporto a un’alterità – è καθ’ ἕτερον[74] ˗ quello divino è assoluto rapporto a sé[75]. L’autosufficienza divina funge da “idea regolativa”, da norma ideale: l’uomo felice minimizzerà il numero degli amici e si limiterà a quelli virtuosi, degni di accompagnarsi a lui; proprio il caso di chi non è obnubilato da bisogni e mancanze, evidenzia il valore intrinseco dell’amicizia perfetta, perseguita non già per ricevere benefici bensì per fare, dare e condividere il bene che si possiede. Ma l’argomento successivo – che è molto complesso e possiamo solo sintetizzare[76] – chiarisce che non si tratta di un altruismo generico e astratto, in quanto l’amicizia è ingrediente essenziale, non accessorio, della felicità individuale.  Vivere, per l’uomo, è percepire e conoscere[77], e – prosegue Aristotele ˗ l’aspirazione massima di ciascuno di noi è, da ultimo, quella di conoscere noi stessi (tesi che rivisita il celebre monito delfico-socratico); la felicità è costituita dalla conoscenza di sé in quanto attivi come buoni e virtuosi[78], e la conoscenza di sé passa per la conoscenza reciproca fra amici: l’amico è «un altro sé»[79], «percepire l’amico necessariamente è percepire in certo modo sé stesso e conoscere in certo modo sé stesso»[80]. Condividendo con l’amico i beni, i piaceri e le attività della vita felice, incrementiamo dunque la conoscenza di noi stessi e della nostra stessa felicità. La Nicomachea chiarisce la relazione fra il riconoscimento reciproco degli amici virtuosi e la loro felicità, soprattutto in un passo speculativamente densissimo:    Se l’essere felici consiste nel vivere e nell’agire, e l’attività dell’uomo dabbene ed eccellente è per sé virtuosa [..], se poi anche ciò che è familiare/affine (οἰκεῖον) a qualcuno è tra le cose che lui trova piacevoli, se noi possiamo osservare il nostro prossimo meglio di noi stessi, e le sue azioni più che le nostre, se le azioni degli uomini superiori, che siano anche amici, sono fonte di piacere per i buoni, dato che hanno tutte e due le caratteristiche piacevoli per natura, allora l’uomo beato avrà bisogno di amici simili a lui, posto che davvero preferisca osservare azioni buone, e che gli sono proprie, come lo sono le azioni dell’amico, quando è buono. (Et. Nic. IX 9 1169b31-1170a4)[81] Le attività di un’esistenza virtuosa e felice sono obbiettivamente piacevoli agli occhi di un uomo buono, virtuoso e felice a sua volta: vi si rispecchia, sentendocisi “a casa propria”, e la familiarità determinata da affinità e prossimità, gli è in sé piacevole. Come si evincerà, la nozione platonica di οἰκεῖον, introdotta sul finire del Liside come cifra stessa della φιλία, trova una ripresa puntuale e una valorizzazione speculativa nella teoria aristotelica. Il prossimo si offre alla nostra conoscenza in modo più trasparente che noi stessi, giacché la sua distanza da noi lo rende meglio oggettivabile. I due tratti umani piacevoli per natura sono da un lato la felicità di cui la virtù è costitutiva, dall’altro la familiarità, che chi è felice è virtuoso riscontra ed esperisce nel contemplare e cooperare con un’altra esistenza felice e virtuosa. Le azioni di un nostro amico “perfetto” sono buone e nel contempo ci sono proprie, cosicché contemplarle è come trovare in esse lo stesso bene che noi siamo. Potrebbe stupire il riferimento reiterato al tema del piacevole, quasi che si trattasse di una delle due amicizie non perfette: ma occorre tenere a mente che il piacevole per natura o ἁπλῶς coincide col bene ἁπλῶς, e che si tratta di un piacere costitutivo del bene e inseparabile da esso, piuttosto che di un piacere addizionale ed esteriore rispetto al bene cui consegue. Se l’altro è sufficientemente prossimo a me, posso de-situarmi e oggettivarmi riconoscendomi nelle sue azioni, secondo una dialettica complessa e chiastica di riconoscimento reciproco. «Se l’uomo eccellente si comporta verso l’amico come si comporta verso di sé, dato che l’amico è un altro se stesso, allora, così come è desiderabile per ciascuno il suo proprio esserci, così è desiderabile l’esserci dell’amico, o quasi» (EN IX 9, 1170b5-8). In questo gioco speculare di identificazioni reciproche, il mio rapporto con l’altro è mediato del mio rapporto con me stesso[82], l’altro è un «altro me» e perseguo il suo bene in maniera pressoché equivalente a come perseguo il mio (quel «quasi» è una concessione al realismo empirico, da cui questa idealizzazione non vuole disancorarsi); ma è altrettanto vero che il mio rapporto con me stesso è a sua volta mediato dal mio rapporto con l’altro, giacché conosco genuinamente me stesso non già con un qualche misterioso atto introspettivo[83], bensì conoscendo persone simili a me che a loro volta mi riconoscono simili a sé: questa è la ragione perché v’è bisogno di amici buoni e virtuosi entro relazioni di amicizia “perfetta”; se la felicità implica autosufficienza, si tratta di un’autosufficienza umana e non divina, che passa per l’inclusione del prossimo nella nostra esistenza, e per la cooperazione con chi scegliamo come degno incarnare il bene e la virtù[84]. Come l’essere amici non si dà senza il sapere di esserlo anche se si può credere di essere amici senza esserlo, così l’essere felici (in quanto buoni e virtuosi in attività) non si dà senza la coscienza di essere felici (in quanto buoni e virtuosi), anche se è possibile credere di essere felici senza esserlo davvero. E per sapere chi sono, devo rispecchiarmi in amici simili a me[85]. Ciò importa che l’uomo beato non avrà bisogno di amici “meramente utili” e “meramente piacevoli”, invece dovrà avere amici buoni e virtuosi: il topos tradizionale è riscattato nella sua verità profonda, ma anche oltrepassato in virtù della tripartizione; in un senso è vero, in un altro no. Essere felici insieme è diverso dal semplice divertirsi insieme, anche se lo include, ed è diverso dal semplice aiutarsi l’un l’altro, anche se può includerlo.  L’amico perfetto ˗ come ogni altro autentico bene ˗ è oggetto di scelta razionale[86]. Anche per questo la teoria aristotelica si distanzia da quella platonica[87]: la φιλία erotica, già ben presente nel Liside sin dalla sua ambientazione scenica – una palestra, ove Liside è il «bello del momento» di cui Ippotale è innamorato – viene relegata da Aristotele a una delle tante forme di φιλία, degna di pochi accenni espliciti, mentre nel Simposio e nel Fedro, dialoghi ben più elaborati e costruttivi del Liside, l’eros è la forma di φιλία che viene eletta a oggetto di indagine paradigmatico. Ma le componenti mistico-estatiche della φιλία erotica come «follia divina» e frutto di invasamento[88], risultano completamente marginalizzate entro la teoria aristotelica. L’amicizia più degna e verace è attività derivante da scelta come desiderio razionale; se la felicità è attività e i beni che la materiano sono oggetto di scelta, allora anche l’amicizia, ingrediente costitutivo della vita felice, sarà espressione di attività, piuttosto che passivo invasamento consistente nell’esser “posseduti” da uomini o dèi. Il primato etico, fisico e metafisico dell’azione sulla passione, è anche il primato di un certo tipo d’amore su un cert’altro. L’amicizia è riportata fra gli amici, e la sua declinazione più eccellente, normante rispetto alle altre, è caratterizzata secondo la dimensione eticamente più elevata dell’umano: la ragione che sceglie e governa il desiderio, piuttosto che esserne governata. L’eros platonico, così bellamente ed enfaticamente rappresentato nel Simposio e nel Fedro, diventa per Aristotele solo una delle tante declinazioni possibili di un tipo di amicizia – quella fondata sul piacere – che è già di per sé incompleta e deficitaria[89].  Secondo l’aporetico excipit del Liside, né amanti né amati, né simili né dissimili, né contrari né affini, né buoni, possono essere amici[90]; le Etiche aristoteliche presentano una teoria la quale non solo consente ma anche prevede che amanti, amati, simili, dissimili, contrari, affini, buoni, e perfino malvagi possano essere amici; inoltre tale teoria offre le risorse concettuali per chiarire quali coppie di amici possano e/o debbano avere questo o quel carattere distintivo, e perché.  Spero di avere almeno approssimato il duplice obbiettivo prefissatomi: mostrare in modo dettagliato e sistematico la dipendenza polemico-dialettica della teoria aristotelica dal Liside platonico, e mettere in luce il significato filosofico generale della tripartizione della φιλία in Aristotele.       Bibliografia   Adkins, A.W.K. 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Sul valore epistemologico di questa differenza, resta decisivo Ruggiu (1965). [2] Per esempio: quando diciamo, tipicamente, qualcuno «amico» di qualcun altro? Sul rapporto costitutivo fra il primo-per-noi e il linguaggio, cfr. Wieland (1993). [3] Cfr. Top. I 1, 100 b 21-23; intendo questa definizione di ἔνδοξον come una disgiunzione inclusiva: se un’opinione è condivisa almeno da uno degli insiemi indicati (tutti, i più, i sapienti, qualcuno di essi), è un ἔνδοξον, e ciò che lo rende tale può essere quantitativo, o qualitativo, o entrambi: per esempio, se è condiviso da tutti, lo sarà anche dai sapienti. [4] Sulla intima connessione fra δοκοῦντα, λεγόμενα e φαινόμενα, cfr. Owen (1967), Nussbaum (1986b). [5] Cfr. De An. I 1, 402b 16-403a8. [6] Cfr. Herod. III 82, 35 e Tucid. I 137, 4, in cui si trova l’endiadi «συμμαχίᾳ καὶ φιλία». [7] Nei poemi omerici non vi è il termine φιλία – le prime occorrenze si trovano in Teognide (Teog. I, 31-38, 53-60, 323-28) – ma termini analoghi come φιλότης, φίλος sono utilizzati sia a proposito del rapporto fra uomini che di quello fra uomini e dèi. Sulla φιλία nel mondo antico, cfr. Pizzolato (1993), Fraisse (1974). [8] Nel Fedro platonico (228a-e), Socrate confuta un discorso di Lisia sulla φιλία, che Fedro custodiva sotto il mantello: quindi è verosimile che anche prima della data di composizione del Liside la φιλία fosse importante oggetto di dibattito e di riflessione critica. Del resto Giamblico (De Pythagorica Vita, 229-30) e Diogene Laerzio (Vitae Philosophorum, VIII, 10) attribuiscono già a Pitagora la prima trattazione filosofica della φιλία. [9] Anche il Fedro e il Simposio si occupano lungamente della φιλία – l’eros è una forma della φιλία, per Platone quella più significativa – ma, come cercherò di mostrare, l’indagine aristotelica dipende sistematicamente dal Liside: per così dire, essa articola una differente risposta a quelle aporie, rispetto a quella che propone Platone nel Simposio e nel Fedro. [10] Meglio: se qualcuno sia amico di qualcun altro in quanto ami o, piuttosto, in quanto sia amato. [11] φίλος + dativo significa “caro a qualcuno”, φίλος + genitivo indica colui a cui qualcuno è caro, due individui sono φίλοι, quando sono l’uno “caro” all’altro. [12] Alcuni interpreti leggono il Liside come un esercizio dialettico, filosoficamente debole [Versenyi (1975)] o più retorico-sofistico che filosofico [Bordt (1988)], o dal significato prolettico-introduttivo rispetto ai maturi Simposio e Fedro [Kahn (1996), ma già Gomperz (2013), Auslage 5, e Willamovitz (1959)]; benché questi due dialoghi successivi ne possano a buon diritto adombrare il valore intrinseco, tuttavia i temi sollevati dal Liside sono nodi aporetici sostanziali, e non deve fuorviare il fatto che Socrate mutui il linguaggio e lo stile argomentativo dal tipo di interlocutore che affronta (per esempio, “facendo” il sofista col sofista Menesseno, e così via). Per una interpretazione non riduttiva del Liside e del suo valore speculativo, è illuminante Trabattoni (2004). [13] Un altro topos tradizionale – per cui la vera amicizia è fra ἀγαθοί – ricorrente in Platone: per restare all’esempio più noto, in Resp. I, 351a-e Socrate replica a Trasimaco che fra malvagi e ingiusti non può esserci alcuna cooperazione né amicizia; era comunque un tema essenziale per Socrate (cfr. Senofonte, Mem., 2.6 1-7). [14] Sull’ascendenza omerica di questo topos tradizionale, e sulla sua importanza per Aristotele (cfr. infra: Par. III), cfr. Adkins (1963). [15] La coscienza del male come tale è sintomo del fatto che il male è relativo e non assoluto. [16] Qui nel Liside si tratta di ἐπιθυμία (cfr. 217c). [17] Tralascio qui la questione della possibile identificazione del Primo Amico col Bene: ciò che rileva, qui, è il fatto che esso trascenda gli amici concreti, i quali sono tali solo «a parole» e stanno al Primo amico – che è tale «in realtà» (τῷ ὄντι) – come i mezzi al fine (cfr. Lys. 220b1-4). [18] Lys 222e1-7. [19] La letteratura sull’amicizia in Aristotele è sterminata: in luogo di proporre una lunga lista di studi che comunque sarebbe tutt’altro che esaustiva, nel seguito mi limiterò a citare alcuni contributi che sono particolarmente pertinenti agli aspetti che tratterò. Un commento sintetico e preciso a Et. Nic. VIII e IX è Pakaluk (1998). [20] È il giudizio nettamente prevalente, anche se non unanime. [21] Sul rapporto fra il Liside e le Etiche aristoteliche riguardo l’amicizia, buoni spunti si trovano in Annas (1986). [22] Et. Eud. VII 1, 1234b18-1235a4; cfr. anche Et. Nic. VIII 1. [23] Et. Eud. VII 1, 1155a33-b7. [24] Trad. it. modificata. [25] Cfr. supra: nota 16. [26] Et. Eud. VII 2, 1235b22-23. [27] C’è chi crede che il piacere sia un bene, ma c’è anche chi crede che non lo sia eppure gli appare – porto dalla φαντασία – come se lo fosse. Nell’acratico la forza della φαντασία sopravanza, nelle scelte pratiche, quella della δόξα. [28] Il «bene apparente» è qualcosa che appare come bene; ma può anche non esserlo: tuttavia, anche il bene reale motiva il desiderio solo apparendo come bene. Dunque «apparente» qui non va affatto interpretato come falsa apparenza. [29] Et. Eud. VII 2, 1235b30-1236a1. [30] Il piacevole non è l’immediato, ma anche ciò che non procura dispiacere futuro; Aristotele sa bene che molte cose dannose possono procurare del piacere immediato. Ma chi non è acratico, conscio delle conseguenze negative, accorderà il suo desiderio con la sua ragione, e la motivazione data dall’ipotetico piacere immediato sarà soverchiata dalla motivazione a evitare danni futuri. [31] Questo punto è più chiaro per come è presentato in Et. Nic. VIII 2, 1155b23-27. [32]  Nelle espressioni δι’ ἀρετὴν, διὰ τὸ χρήσιμον, δι’ ἡδονήν, la preposizione significa a un tempo «in base a», «a causa di», «al fine di»: il rispettivo amabile è ciò che causa quell’amicizia, ciò che ne costituisce il fondamento o ragion d’essere, ciò che ne rappresenta il fine [su un’idea analoga, cfr. Nussbaum (1986a)]; nei termini della nota teoria delle quattro cause (dei quattro sensi del διὰ τί, cfr. Phys. II 3), potremmo plausibilmente intendere il tipo di amabile come causa efficiente, formale e finale della rispettiva relazione amicale. [33] Cfr. Et. Nic. VIII 2, 1155b26-31. Mentre la φίλησις è una passione o affezione (πάθος), la φιλία è uno stato abituale (ἕξις, 1557b28-29). [34] Cfr. Et. Eud. VII 2, 1237b17-23; Et. Nic. VIII 4, 1156b30-33. [35] Vi è discussione sul fatto che questa caratterizzazione definitoria offra condizioni sufficienti perché qualcosa sia amicizia, oppure solo condizioni necessarie; propenderei per la seconda opzione: per esempio, Aristotele ritiene che per diventare amici deve passare del tempo, e molti scambiano il desiderio di essere amici con l’amicizia stessa (Et. Eud. VII 2, 1237b12-22); ma se il desiderio è reciproco, sussiste già benevolenza reciproca non celata, che non è ancora amicizia. [36] Sul focal meaning cfr. Owen (1963), Ferejohn (1980). L’exemplum princeps è quello della Metafisica: la sostanza è il focal meaning dell’essere, tutto ciò che è o è sostanza o rimanda a una sostanza, al modo in cui tutto ciò che è «sano» rimanda alla salute e tutto ciò che è «medico» alla medicina (cfr. Met. IV 2, 1003a32-1003b11). [37] Cfr. Fortenbaugh (1975). [38] Può esserlo in modo mediato, come foriero di un altro utile, al modo in cui qualcosa è mezzo di un altro mezzo, ma in ultima istanza l’utile è tale perché porta al bene e i mezzi sono tali perché portano al fine. [39] Per esempio, in De An. III 7, 431a10-13 il piacere è definito come l’essere percettivamente attivi nei confronti del bene in quanto bene; l’utilità è indefinibile se non come capacità di avvicinarci a un qualche bene; l’utile sta al bene come il mezzo al fine, e non vi è modo di definire cosa sia un mezzo, senza chiamare in causa la nozione di fine. [40] Et. Eud. VII 2, 1236a25-26. [41] Et. Eud. VII 2, 1236b1-2; Et. Nic. VIII 4, 1156b7-8. [42] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 342-360; 707-723. [43] Chiamare amicizia solo quella prima, equivarrebbe a «violentare i fenomeni» (βιάζεσθαι τὰ φαινόμενα, Et. Eud. VII 2, 1236b 22). [44] Et. Nic. VIII 4, 1156b7. [45] La prima amicizia, infatti è quella «secondo virtù e a causa del piacere della virtù» (EE VII 1238a31-32). [46] Secondo Aspasio (164.3-11), Owen (1960) e Dirlmeier (1967) vi sarebbe comunque focal meaning e relazione πρὸς ἓν, ancorché non esplicitata. [47] Et. Nic. VIII 5, 1157a32. [48] Se poi l’individuo è acratico, potrebbe anche non credere che qualcosa sia il suo bene, ma perseguirlo perché gli “appare” bene e frequentare individui utili a qualcosa che egli cerca di procurarsi pur sapendo che non è il suo bene: come uno che frequentasse un pusher in modo costante per procurarsi della droga, sapendo di farsi del male ma perseverando nel suo comportamento autodistruttivo (e nelle frequentazioni relative) per debolezza. [49] Sulla rilevanza della distinzione fra «bene per qualcuno» e «bene incondizionato» in rapporto alla teoria delle tre amicizie, insiste doverosamente O’Connor (1990). [50] Et. Nic. IX 10,1170b20-29. [51] Così, nella Nicomachea (Et. Nic. VIII 2, 1156a17), non nella Eudemia. [52] Cfr. supra: Par. II, 3. [53] EN VIII 3, 1156 a 16-17. [54] EN VIII 3, 1156a18-19 [55] Cooper (1977) sostiene che le amicizie accidentali siano tali perché dipendano da tratti accidentali del carattere dell’amico amato; Payne (2000) replica che anche i tratti in virtù di cui qualcuno risulta piacevole o utile possono essere altrettanto essenziali di quelli che lo rendono virtuoso: gli amici perfetti sarebbero scelti «per sé stessi» in quanto i loro caratteri virtuosi sono scelti come fine e non come mezzo (per altro). Ma le letture sono forse componibili: l’esser utile o piacevole, anche se sopravviene a tratti essenziali del carattere altrui, restano esterni all’altro, in quanto relazionali in un senso diverso dalla virtù; l’esser buono è sia essenziale e intrinseco all’amico, che scelto per sé stesso e non per altro, e rende anche l’amico stesso, che ha quel carattere virtuoso, scelto per sé stesso e non per altro. Cfr. supra: nota 31. [56] In Et. Eud. VII 7, 1241a5-7 si afferma che «se uno vuole per un altro i beni perché costui gli è utile, li vorrebbe allora non per quello ma per sé stesso; mentre invece la benevolenza, proprio come l’amicizia, si ritiene che sia rivolta non a quello che la prova, ma a colui per il quale la si prova. Pertanto, è chiaro che la benevolenza è in relazione con l’amicizia etica». Qui pare che solo l’amicizia etica (=virtuosa) implichi la benevolenza, che però è un costituente della definizione generale di amicizia. Da passi di questo tenore pare che le amicizie incomplete non siano amicizie in senso proprio, visto che non soddisfano la definizione; Aristotele è oscillante, è innegabile che vi sia una tensione irrisolta fra la sua vocazione inclusiva e lo sforzo di enucleazione della “vera” amicizia come tipologia normante e assiologicamente sovraordinata, che non è semplicemente una delle tre amicizie ma quella par excellence, di cui le altre sono approssimazioni manchevoli. Si può accogliere la lettura di Walker (1979), per cui l’amicizia perfetta soddisfa criteri più severi, le altre criteri più laschi. [57] Si pensi alla percezione per accidente (De An. II 6, III 1): essa è comunque studiata come una modalità genuina di percezione: le ragioni per cui essa è percezione per accidente non inficiano il fatto di essere genuinamente un tipo di percezione. [58] I due amici perfetti, in quanto buoni e virtuosi, realizzano l’eccellenza della natura umana, sono esempi del bene incondizionato e del piacere incondizionato. [59] Et. Nic. VIII 3, 1156a31-1156b1. [60] Et. Eud. VII 2, 1238a11-30; Et. Nic. VIII 3, 1156b17-32. [61] Può succedere che l’altro cambi, peggiori, o impazzisca, ma non accade per lo più. Cfr. Et. Nic. IX 3. [62] Et. Nic. VIII 4, 1156b10. [63] Et. Eud. VII 2, 1236b31. [64] La sventura, poi, può rivelare che un’amicizia che pareva perfetta era in realtà in vista dell’utile (Et. Eud. VII 2, 1238a19-21). [65] Lys. 211e-212a. [66] Et. Eud. VII 2, 1237b13-27. [67] Et. Nic. VIII 3, 1156a24-31. [68] Et. Nic. VIII 7, 1158a21. [69] Et. Eud. VII 4; Et. Nic. VIII 8. [70] Et. Eud. VII 9-11, Et. Nic. VIII 12-14. [71] Et. Eud. VII 12, 1244b4-5. [72] Cfr. Pol. I 1, 1253a10-12; Et. Nic. IX 12, 1169b18-19. [73] Et. Eud. VII 12, 1245b15-16. [74] Et. Nic. 1245b18. [75] Et. Eud. VII 12, 1245b18-19. [76] Si tratta di una complessità anche filologica, dovuta a corruzioni del testo. Su ciò, cfr. Kosman (2004). [77] Delle tre anime – nutritivo-riproduttiva, percettiva, razionale – la percettiva e la razionale sono quelle che discriminano la realtà (cfr. De An. III 3, 427a17-23); la percettiva, poi, è intimamente connessa col desiderio e, quindi, con l’azione (cfr. De An. III 9-11). Vivere significa realizzare le proprie capacità naturali e acquisite, il che per l’uomo implica anzitutto l’esercizio di percezione e pensiero (ove entrambe vanno concepite come connesse all’azione, in quanto coinvolgono anche desiderio e intelletto pratico). Su ciò, mi permetto di rimandare a Zucca (2015), Capp. II e VI. [78] La felicità è «una certa attività dell’anima secondo virtù completa» (Et. Nic. II 13, 1102a5-6). [79] Et. Eud. VII 12, 1245a30; Et. Nic. IX 9, 1166 a 32, 1170 b 6. [80] Et. Eud. VII 12, 1245a35-7. [81] Trad. it. modificata. [82] In Et. Eud. VII 6 e in Et. Nic. IX 4 si argomenta che i tipi di relazione che si hanno con gli altri dipendono dal rapporto che si ha con sé stessi: chi è buono e virtuoso sarà anche amico di sé stesso in modo armonico e costante – sebbene si possa parlare di amicizia solo κατὰ ἀναλογίαν (1240a13), nel caso dell’auto-rapporto – chi è malvagio sarà incostante e in conflitto con sé stesso, e in senso analogico sarà nemico di sé stesso. Questa idea non contraddice l’idea per cui la conoscenza di sé passa per la conoscenza dell’altro (Et. Nic. IX 9), ma anzi la completa: il buono e virtuoso è felice anzitutto in quanto ha un “sano” rapporto con sé, ma si conosce e realizza come felice solo in quanto ha un rapporto di riconoscimento reciproco con amici che hanno, a loro volta, un altrettanto “sano” rapporto con sé stessi. [83] L’idea di un accesso introspettivo infallibile ed essenzialmente privato ai nostri propri atti mentali, così tipicamente moderna, è affatto estranea ad Aristotele. [84] Come è naturale porre l’enfasi sul valore speculativo intrinseco della teoria, così è altrettanto opportuno ricordare che l’amicizia perfetta aristotelica resta prerogativa di un sottoinsieme dei maschi adulti liberi; tuttavia, questa tara storica affetta la teoria dell’amicizia, per così dire, mediatamente: in quanto restringe a quel sottoinsieme la capacità di realizzare l’eccellenza morale, precondizione della relazione d’amicizia perfetta. [85] Non uso la locuzione «sapere chi sono», anacronisticamente, come il coglimento di me stesso in quanto individualità irriducibile, magari ineffabile e inaccessibile ad altri – non è certo questa sorta di soggettività “novecentesca”, che secondo Aristotele giungerebbe alla coscienza di sé nell’amicizia – bensì come il venire a conoscenza di che tipo di persona sono. [86] Come bene intrinseco che trascende il livello del piacevole, è un amabile oggetto di volontà piuttosto che di appetito (Et. Eud. VII 2, 1235b22-23), e la volontà è desiderio razionale di beni scelti. [87] Un’analisi sistematica e comparativa delle nozioni di amicizia e amore in Platone e Aristotele, è Price (1989). Cfr. anche Kahn (1981). [88] Cfr. Phaedr. 265b-c. [89] La relazione erotica amante/amato, peraltro, è anche meno significativa e più instabile di altre relazioni fondate sul piacere – dunque, già di per sé instabili – in quanto in questo caso il piacere «non deriva dalla stessa fonte» (l’uno gode nell’esser corteggiato, l’altro nel contemplare l’altro, Et. Nic. VIII 5, 1157a2-10). [90] Lys. 222a3-7. Proverbi, impicatura proverbiale. A Errare humanum est.jpg Ab amico reconciliato cave. Guardati da un amico riconciliato.[1] Absit reverentia vero. Bando ai pudori di fronte alla verità. (Ovidio) Abusus non tollit usum. L'abuso non esclude l'uso.[2] Accidere ex una scintilla incendia passim. A volte da una sola scintilla scoppia un incendio.[3] Ad impossibilia nemo tenetur. Nessuno è obbligato a fare l'impossibile.[4] Adulator propriis commodis tantum suadet L'adulatore tiene di mira solo i suoi interessi.[5] (Giulio Cesare) Amantis ius iurandum poenam non habet. Il giuramento dell'innamorato non si può punire.[6] Amicus certus in re incerta cernitur. Il vero amico si rivela nelle situazioni difficili.[7] (Quinto Ennio) Amicus omnibus, amicus nemini. Amico di tutti, amico di nessuno.[8] Amicus Plato, sed magis amica veritas. Amo Platone, ma amo di più la verità.[9] (Aristotele) Amor arma ministrat. L'amore procura le armi [agli amanti perché possano essere grati alla persona amata].[10] (proverbio medievale) Amor caecus. L'amore è cieco.[11] Amor gignit amorem.[10] Amore genera amore. Amor tussisque non celatur. L'amore e la tosse non si possono nascondere.[12] Amoris vulnus sanat idem qui facit. La ferita d'amore la risana chi la fa.[12] Anceps fortuna belli. Le sorti della guerra sono incerte.[9] (Cicerone) Aquila non captat muscas. L'aquila non prende mosche.[13] Athenas noctuas mittere.[14] Mandare nottole ad Atene. Fare cosa inutile e superflua. Ars est celare artem.[15] La perfezione dell'arte sta nel celarla. Audi, vide, tace, si vis vivere in pace.[16] Ascolta, guarda e taci, se vuoi vivere in pace. B Barba virile decus, et sine barba pecus.[17] La barba è decoro dell'uomo e chi è senza barba è pecoro. Bene qui latuit, bene vixit. Ben visse chi seppe vivere nell'oscurità.[18] (Ovidio) Beati monoculi in terra caecorum. Beati i monòcoli nel paese dei ciechi. Bis dat qui cito dat. Dà due volte chi dà presto.[19] Bis peccat qui crimen negat.[20] È due volte colpevole chi nega la propria colpa. Bis pueris senes.[21] Il vecchio è due volte fanciullo. Bonis nocet qui malis parcet. Chi risparmia i malvagi danneggia i buoni.[22] Bonum nomen, bonum omen.[23] Buon nome, buon augurio. C Caecus non judicat de colore.[24] Il cieco non giudica i colori. Non si può giudicare ciò che si sottrae alle nostre attitudini. Caesar non supra grammaticos.[25] Cesare non (ha autorità) sopra i grammatici. Le persone più altolocate non possono avere autorità se non su quelle cose di cui s'intendono. Canis caninam non est.[26] Cane non mangia cane. Carpe diem. Cogli il giorno. (Quinto Orazio Flacco) Caseus est sanus, quem dat avara manus. Fa bene quel formaggio servito da una mano avara.[27] Causa patrocinio non bona peior erit. La causa cattiva diventa peggiore col volerla difendere.[28] (Ovidio) Causa perit iusta, si dextera non sit onusta.[29] La giusta causa soccombe se la destra non è piena [di denaro]. Cave a signatis. Guàrdati dai segnati.[28] Antico adagio in odio a coloro che sono affetti da qualche imperfezione fisica: guerci, zoppi, ecc. Cave tibi ab acquis silentibus. Guàrdati dalle acque chete.[28] Cavendo tutus.[30] Se sarai cauto, sarai sicuro. Cogito ergo sum. Penso dunque sono. (Cartesio) Commendatoria verba non obligant.[31] Le parole di raccomandazione non obbligano. Commune periculum concordiam paret.[32] Il comune pericolo prepari la concordia. Consuetudo est altera natura. L'abitudine è una seconda natura.[33] D De gustibus non est disputandum. Sui gusti non si discute.[34] Difficilis in otio quies. È difficile esser tranquilli nell'ozio.[35] Dulce bellum inexpertis, expertus metuit. La guerra è dolce per chi non ne ha esperienza, l'esperto la teme.[36] (proverbio medievale) Dum caput dolet, caetera membra languent. Quando duole il capo, tutte le membra languono.[37] Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Mentre a Roma si delibera, Sagunto è espugnata.[38] Dum vinum intrat exit sapientia.[39] Mentre il vino entra, esce la sapienza. Duo cum faciunt idem, non est idem.[35] Quando due fanno la stessa cosa, non è più la stessa cosa. E Errare humanum est, perseverare autem diabolicum.[40] L'errare è cosa umana, il perseverare nella colpa invece è diabolico. Error hesternus sit tibi doctor hodiernus.[41] L'errore di ieri ti sia maestro oggi. Est in canitie ridicula Venus. È ridicolo l'amore di un vecchio.[42] (Proverbio medievale) Est modus in rebus, sunt certi denique fines | quos ultra citraque nequit consistere rectum. C'è una giusta misura nelle cose, ci sono giusti confini | al di qua e al di là dei quali non può sussistere la cosa giusta. (Quinto Orazio Flacco) Ex ungue leonem.[43] Dall'unghia si conosce il leone. Da un atto compiuto si rivela la forza dell'autore, morale o materiale. Excusatio non petita fit accusatio manifesta (proverbio medievale)[44] Chi si scusa senza esserne richiesto s'accusa. F Fabas indulcat fames.[45] La fame addolcisce le fave. Facile est inventis addere.[46] È facile aggiungere a ciò che è stato inventato. Facile perit amicitia coacta.[47] Facilmente muore un'amicizia forzata. Facit experientia cautos.[48] L'esperienza rende cauti. Fac sapias et liber eris.[49] Fa' di sapere e sarai libero. Felicium omnes sunt cognati. Tutti sono parenti dei fortunati.[8] Fiat iustitia et pereat mundus. Sia fatta giustizia e perisca pure il mondo. Frangitur ira gravis cum sit responsio suavis.[50] Una dolce risposta infrange l'ira. Frustra sapiens qui sibi non sapet.[51] Inutilmente sa chi non sa per sé. G Gutta cavat lapidem. La goccia scava la pietra. H Homo longus raro sapiens; sed si sapiens, sapientissimus. Un uomo lungo (ossia alto) di rado è sapiente; ma se è sapiente, è sapientissimo.[52] Homo sine pecunia, imago mortis. L'uomo senza danaro è l'immagine della morte.[53] I Ianuensis ergo mercator. Genovese quindi mercante.[54] Imperare sibi maximum imperium est. Comandare a sé stessi è la forma più grande di comando. (Seneca, Lettere a Lucilio, CXIII.30) In magno mari capiuntur flumine pisces.[55] Nei grandi fiumi si pescano i grandi pesci. Nei grandi affari si fanno i grossi guadagni. In medio stat virtus. La virtù sta nel mezzo. (Orazio) In vino veritas. Nel vino c'è la verità. L M Magnum vectigal parsimonia.[56] La parsimonia è un gran capitale. (Cicerone) Major e longiquo reverentia.[56] La riverenza è maggiore da lontano. (Tacito) Mala gallina, malum ovum.[57] Gallina cattiva, uovo cattivo. Mea mihi conscientia pluris est quam omnium sermo.[58] Per me val più la mia coscienza che il discorso di tutti. (Cicerone) Medicus curat, natura sanat. Il medico cura ma è la natura che guarisce.[59] Melius est abundare quam deficere. Meglio abbondare che trovarsi in scarsezza.[60] Mors tua vita mea.[56] La tua morte è la mia vita. Mortui non mordent. I morti non mordono[61] [truismo] Mortuo leoni et lepores insultant. Anche le lepri insultano un leone morto.[62] Multi multa, nemo omnia novit. Molti sanno molto, nessuno sa tutto.[63] N Natura non facit saltus. La natura non procede per salti.[64] Naturalia non sunt turpia.[65] Le cose naturali non sono turpi. Nemo non formosus filius matri. Nessun figlio non è bello per sua madre.[66] Ne pulsato portam alterius, nisi velis pulsetur et tua.[67] Non bussare alla porta altrui se non vuoi che bussino alla tua. Nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu. Nulla è nell'intelligenza che prima non fosse nel senso[68] Non omne quod licet honestum est.[69] Non tutto ciò che è lecito è onesto. Non omnibus dormio. Non dormo per tutti.[70] Nomen omen Il nome è un presagio (v. anche nomina sunt consequentia rerum e conveniunt rebus nomina saepe suis) (Plauto, Persa, 625) Nomina sunt consequentia rerum. I nomi sono corrispondenti alle cose. (Giustiniano, Institutiones, 2, 7, 3) O Omne animal post coitum triste. Tutti gli animali sono mesti dopo il coito.[71] Omne ignotum pro terribili.[72] Tutto ciò che è ignoto incute paura. Omnia munda mundis. Per chi è puro tutto è puro. (Paolo di Tarso) Omnia vincit amor. L'amore vince ogni cosa. (Virgilio, Bucoliche X, 69) Omnia fert aetas. Il tempo porta via tutte le cose. (Virgilio) Omnis festinatio ex parte diaboli est.[73] Ogni fretta viene dal diavolo. P Panem et circenses. Pane e giochi [per distrarre il popolo]. (Giovenale, X 81) Patere quam ipse fecisti legem.[74] Subisci la legge che tu stesso hai fatta. Pectus est enim quod disertos facit È infatti il cuore che rende eloquenti (Quintiliano, 10,7,15) Pecunia non olet Il denaro non puzza (Vespasiano) Per aspera ad astra. Alle stelle [si giunge] attraverso aspri sentieri.[75] Periculum in mora. Vi è pericolo nel ritardo. (Tito Livio, Ab urbe condita; XXXVIII, 25) Philosophum non facit barbam.[76] La barba non fa il filosofo. Primum vivere deinde philosophari (Thomas Hobbes) Prima vivere, poi fare della filosofia. Q Quando Sol est in Leone, bibe vinum cum pistone. Quando il sole è in Leone [segno zodiacale], bevi il vino col pistone [a garganella].[77] Qui aquam Nili bibit rursus bibet.[78] Chi beve l'acqua del Nilo la berrà di nuovo. È destinato a ritornarvi. Qui asinum non potest, stratum caedit.[79] Chi non può bastonare l'asino bastona la bardatura. Qui gladio ferit gladio perit. Chi di spada ferisce di spada perisce.[80] Qui in pergula natus est, aedes non somniatur. Chi è nato in una capanna, i palazzi non li vede neanche in sogno. (Petronio, 74,14) Qui jacet in terra non habet unde cadat. Per chi giace in terra non c'è pericolo di cadere.[81] [truismo] Qui medice vivit, misere vivit. Chi vive sotto la guida del medico, vive miseramente.[81] Qui scribit, bis legit. Chi scrive, legge due volte.[82] Quisque faber fortunae suae. Ognuno è artefice del proprio destino. (Appio Claudio Cieco) Quod differtur non aufertur Ciò che si dilaziona non lo si perde[83] Quod non potest diabolus mulier evincit. Ciò che non può il diavolo, l'ottiene la donna.[84] (proverbio medievale) Quot homines tot sententiae. Tanti uomini, altrettante opinioni.[85] Quot servi tot hostes. Tanti servi, tanti nemici.[85] R Re opitulandum, non verbis.[86] L'aiuto va dato con i fatti, non con le parole. Rem tene, verba sequentur Possiedi l'argomento e le parole seguiranno. (Marco Porcio Catone) Res satis est nota, plus foetent stercora mota.[87] È cosa nota: lo sterco più è stuzzicato e più puzza. S Salus extra Ecclesiam non est[88] Al di fuori della Chiesa non v'è salvezza (Tascio Cecilio Cipriano, Lettera, 73, 21) Sapiens nihil affirmat quod non probet.[89] Il saggio nulla afferma che non possa provare. Satis quod sufficit.[90] Ciò che è sufficiente al bisogno, basta. Semel abas, semper abas.[91] Una volta abate, sempre abate. Proverbio medioevale, affermante che chi ha vestito una volta l'abito sacerdotale non può spogliarsi più delle idee e delle abitudini ecclesiastiche. Significa anche, per estensione, che si conservano sempre le idee una volta acquistate. Semel in anno licet insanire. Una volta all'anno è lecito fare follie. (Seneca) Senatores boni viri: senatus autem mala bestia.[92] I senatori sono brava gente; ma il senato è una cattiva bestia. Sero venientibus ossa.[93] Per chi viene troppo tardi restano le ossa. Si vis pacem, para bellum. Se vuoi la pace prepara la guerra. (Vegezio) Sicut mater, ita et filia eius. Quale la madre, tale anche la figlia.[94] Simia simia est, etiamsi aurea gestet insignia.[95] La scimmia resta sempre scimmia, anche se indossa ornamenti d'oro. Sol lucet omnibus.[96] Il sole splende per tutti. Vi sono delle cose di cui tutti gli uomini possono godere. Sorex suo perit indicio.[97] Il topo perisce per essersi rivelato da sé. Sublata causa, tollitur effectum.[98] Soppressa la causa, scompare l'effetto. T Timeo Danaos et dona ferentes. Io temo comunque i Greci, anche se recano doni. (Publio Virgilio Marone) U Ubi maior, minor cessat. Dinanzi al più forte, il debole scompare.[8] Ubi opes, ibi amici. Dove sono le ricchezze, lì sono anche gli amici.[8] Ubi uber, ibi tuber.[99] Dove è la mammella, ivi è il tumore. Dove c'è abbondanza, ivi si forma il marciume, la corruzione. V Verba movent, exempla trahunt.[100] Le parole commuovono, ma gli esempi trascinano. Verba volant, scripta manent.[101] Le parole volano, gli scritti restano. Vigilantibus, non dormientibus, jura succurunt.[102] Le leggi forniscono aiuto ai vigilanti, non ai dormienti. Vinum lac senum.[103] Il vino è il latte dei vecchi. Vulgus vult decipi, ergo decipiatur. Il popolo (il mondo) vuole essere ingannato, e allora sia ingannato.[104] Note  Citato in Mastellaro, p. 21.  Citato in Tosi 2017, n. 1408.  Citato in Tosi 2017, n. 1010.  Citato in 2005, p. 6.  Citato in Mastellaro, p. 11.  Citato in Mastellaro, p. 25.  Citato in Mastellaro, p. 18.  Citato in Mastellaro, p. 20.  Citato e tradotto in 2005, p. 15.  Citato in De Mauri, p. 27.  Citato in Mastellaro, p. 24.  Citato in Mastellaro, p. 23.  Citato in Tosi 2017, n. 2265.  Citato, con spiegazione, in Umberto Bosco, Lessico universale italiano, vol. XV, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1968, p. 59.  Citato e tradotto in 2005, § 169.  Citato e tradotto in 2005, § 188.  Citato e tradotto in 2005, § 215.  Citato con traduzione in 2005, p. 28.  Citato in 1921, p. 43, § 161.  Citato e tradotto in 2005, § 243.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 148.  Citato con traduzione in 2005, p. 30.  Citato e tradotto in 2005, § 256.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 154.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 155.  Citato e tradotto in 2005, § 280.  Citato in Andrea Perin e Francesca Tasso (a cura di), Il sapore dell'arte, Skira, Milano, 2010, p. 41.  Citato e tradotto in 2005, p. 37.  Citato e tradotto in 2005, § 305.  Citato e tradotto in 2005, § 312.  Citato e tradotto in 2005, § 343.  Citato e tradotto in 2005, § 344.  Citato in Mastellaro, p. 9.  Citato in 2005, p. 57.  Citato in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza nella vita, traduzione di Oscar Chilesotti, Dumolard, Milano, 1885.  Citato in Marco Costa, Psicologia militare, FrancoAngeli, Milano, 2006, p. 645. ISBN 88-464-7966-1  Citato in 1876, p. 66.  Citato in 1921, p. 496.  (ES) Citato in Jesús Cantera Ortiz de Urbina, Refranero Latino, Ediciones Akal, Madrid, p. 68 § 773. ISBN 9788446012962  Citato e tradotto in 2005, § 645.  Citato e tradotto in 2005, § 650.  Citato in De Mauri, p. 29.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 366.  Citato in Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Milano, 1975, p. 82  Citato e tradotto in 2005, § 732.  Citato e tradotto in 2005, § 739.  Citato e tradotto in 2005, § 741.  Citato e tradotto in 2005, § 744.  Citato e tradotto in 2005, § 747.  Citato e tradotto in 2005, § 829.  Citato e tradotto in 2005, § 835.  Citato in 2005, p. 108.  Citato in 2005, p. 109, § 941.  Citato in Filippo Ruschi, Questioni di spazio: la terra, il mare, il diritto secondo Carl Schmitt, G. Giappichelli Editore, 2012, p. 140. ISBN 9788834896839  Citato e tradotto in 2005, § 1072.  Citato in 2005, p. 152.  Citato e tradotto in 2005, § 1313.  Citato con traduzione in Jean Louis Burnouf, Metodo per studiare la lingua latina adottato dall'Università di Francia, presso Ricordi e Jouhaud, Firenze 1850, p. 276.  Citato in 2005, p. 158.  Citato in 2005, p. 159.  Citato in AA. VV., Dizionario delle sentenze latine e greche, § 1509, Rizzoli, Milano, 2017.  Citato in 2005, p. 166.  Citato in 2005, p. 168.  Citato in 1921, p. 88, § 319.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 733.  Citato in 2017, § 664.  Citato in 1876, p. 58.  Citato in 1921, p. 556.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 788.  Citato in 1921, p. 536.  Citato in Paul-Augustin-Olivier Mahon, Medicina legale e Polizia medica, vol. 4, a cura di Giuseppe Chiappari, Pirotta, Milano, 1820, p. 295.  Citato in Guillaume Musso, Central Park, traduzione di Sergio Arecco, Bompiani, 2016, p. 195.  Citato in Ann Casement, Who Owns Jung?, Karnac Books, 2007, Londra, p.176 Anteprima Google  Citato in L. De Mauri, Angelo Paredi e Gabriele Nepi, p. 95.  Citato in Peter Olman, Zwei Mädchen suchen ihr Glück: Caleidoscopio berlinese, Edizioni Mediterranee, Roma, 1966, p. 265.  Citato e tradotto in 2005, § 1970.  Citato in 2005, p. 248.  (DE) Citato in Friedrich Otto Bittrich, Ägypten und Libyen, Safari-Verlag, Berlino, 1953, p. 7.  Citato e tradotto in 2005, § 2167.  Dal Vangelo:... tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada (Mt 26:52).  Citato in 2005, p. 256.  Citato in 2005, p. 258.  Citato in Tosi 2017, n. 1174.  Citato in De Mauri, p. 171.  Citato in 2005, p. 266.  Citato e tradotto in 2005, § 2342.  Citato e tradotto in 2005, § 2363.  Spesso la frase viene attribuita a Cipriano in una forma diversa: Extra Ecclesiam nulla salus.  Citato e tradotto in 2005, § 2415.  Citato e tradotto in 2005, § 2421.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1034.  Citato e tradotto in 2005, § 2457.  Citato e tradotto in 2005, § 2472.  Citato in 1921, p. 138, § 465.  Citato e tradotto in 2005, § 2528.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1079.  Citato e tradotto in 2005, § 2606.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1097.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1169.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1203.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1204.  Citato e tradotto in Lo Forte, § 1216.  Citato in Proverbi siciliani raccolti e confrontati con quelli degli altri dialetti d'Italia da Giuseppe Pitrè, Luigi Pedone Lauriel, Palermo, 1880, vol. IV, p. 140.  Traduzione in voce su Wikipedia. Bibliografia L. De Mauri, 5000 proverbi e motti latini, seconda edizione, Hoepli, Milano, 2006. ISBN 978-88-203-0992-0 Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, Milano, 1921. Giuseppe Fumagalli, L'ape latina, Hoepli, Milano, 2005. ISBN 88-203-0033-8 Giacomo Lo Forte, Ad hoc, Sandron, 1921. Paola Mastellaro, Il libro delle citazioni latine e greche, Mondadori, Milano, 2012. ISBN 978-88-04-47133-2. Gustavo Benelli, Raccolta di proverbi, massime morali, aneddoti, ed altro, Carnesecchi, Firenze, 1876. Renzo Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Rizzoli, 2017. Voci correlate Modi di dire latini Lingua latina Palindromi latini Categorie: Lingua latinaProverbi per nazione. Proverbi Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi: Proverbi toscani. A A brigante brigante e mezzo.[fonte 1] A buon cavalier non manca lancia.[fonte 2] A buon cavallo non manca sella.[fonte 2] A buon cavallo non occorre dir trotta.[fonte 3] A buon intenditor poche parole.[1][fonte 2] A caldo autunno segue lungo inverno.[fonte 4] A cane scottato l'acqua fredda par calda.[fonte 5] A cane vecchio non dargli cuccia.[fonte 2] A carnevale ogni scherzo vale, ma che sia uno scherzo che sa di sale.[fonte 6] A caval che corre, non abbisognano speroni.[fonte 3] A caval donato non si guarda in bocca.[2][fonte 2] A cavalier novizio, cavallo senza vizio.[fonte 3] A cavallo d'altri non si dice zoppo.[fonte 3] A cavallo di fuoco, uomo di paglia, a uomo di paglia, cavallo di fuoco.[fonte 3] A cavallo giovane, cavalier vecchio.[fonte 3] A caval nuovo cavaliere vecchio.[fonte 2] A chi batte forte, si apron le porte.[fonte 7] A chi Dio vuole aiutare, niente gli può nuocere.[fonte 4] A chi fortuna zufola, ha un bel ballare.[fonte 4] A chi ha abbastanza, non manca nulla.[fonte 4] A chi mangia sempre polli vien voglia di polenta.[fonte 8] A chi non piace il vino, il Signore faccia mancar l'acqua.[fonte 8] A chi non può imparare l'abbicì, non si può dare in mano la Bibbia.[fonte 4] A chi non vuol credere, poco valgono mille testimoni.[fonte 8] A chi non vuol credere sono inutili tutte le prove.[fonte 8] A chi non vuol far fatiche, il terreno produce ortiche.[fonte 9] A chi prende moglie ci vogliono due cervelli.[fonte 4] A chi tanto e a chi niente.[fonte 2] A chi troppo e a chi niente.[fonte 10] A chi ti dà il cappone, dagli la coscia e l'alone.[fonte 8] A chi ti porge un dito non prendere la mano.[fonte 2] A chi vuole fare del male non manca l'occasione.[fonte 4] A ciascun giorno basta la sua pena.[3][fonte 2] A ciascuno sta bene il proprio abito.[fonte 4] A donna di gran bellezza, dalla poca larghezza.[fonte 4] A duro ceppo, dura accetta.[fonte 4] A goccia a goccia si scava la pietra.[4][fonte 11] A goccia a goccia s'incava la pietra.[fonte 2] A gran salita, gran discesa.[fonte 4] A granello a granello si riempie lo staio e si fa il monte.[fonte 4] A grassa cucina povertà vicina.[fonte 4] A lavar la testa all'asino si perde il ranno e il sapone.[fonte 12] A lume spento è pari ogni bellezza.[fonte 4] A mali estremi estremi rimedi.[fonte 1] A muro basso ognuno ci si appoggia.[fonte 1] A nemico che fugge ponti d'oro.[fonte 1] A ogni uccello suo nido è bello.[fonte 1] A padre avaro figliuol prodigo.[fonte 13] A pancia piena si ragiona meglio.[fonte 8] A pagare e a morire c'è sempre tempo.[fonte 14] A paragone del molto che ignoriamo, è meno di niente quanto noi sappiamo.[fonte 4] A pazzo relatore, savio ascoltatore.[fonte 8] A pensar male, s'indovina sempre.[fonte 15] A pensar male ci s'indovina.[fonte 2] A pentola che bolle, gatta non s'accosta.[fonte 8] A rubar poco si va in galera, a rubar tanto si fa carriera.[fonte 1] A san Lorenzo il dente la noce già sente.[fonte 2] A san Martino [11 novembre], apri la botte e assaggia il vino.[fonte 8] A San Martino ogni mosto è vino.[fonte 16] A san Mattia la neve va via.[fonte 4] A scherzar con la fiamma, ci si scotta.[fonte 17] A tal fortezza, tal trincea.[fonte 4] A torto si lagna del mare chi due volte ci vuole tornare.[fonte 4] A tutto c'è rimedio fuorché alla morte.[fonte 1] A usanza nuova non correre.[fonte 2] Abbattuto l'albero scompare l'ombra.[fonte 8] Accasa il figlio quando vuoi, e la figlia quando puoi.[fonte 18] Acquista buona fama e mettiti a dormire.[fonte 4] Ai bugiardi e agli spacconi non è creduto.[fonte 8] Ai voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini.[fonte 19] A voli troppo alti e repentini sogliono i precipizi esser vicini.[fonte 2] Abate cupido, per un'offerta ne perde cento.[fonte 4] Abate rigoroso rende i frati penitenti.[fonte 4] Abbi piuttosto il piccolo per amico, che il grande per nemico.[fonte 8] Abiti stranieri, costumi stranieri; costumi stranieri, gente straniera; la gente straniera sloggia gli antichi abitanti.[fonte 4] Abito troppo portato e donna troppo vista vengono presto a noia.[fonte 4] Abbondanza genera baldanza.[fonte 4] Accade in un'ora quel che non avviene in mill'anni.[fonte 2] Accade in un'ora quel che non avviene in cent'anni.[fonte 2] Accendere una candela ai Santi e una al diavolo.[fonte 4] Accendere una fiaccola per far lume al sole.[fonte 4] Acqua che corre non porta veleno.[fonte 4] Acqua cheta rompe i ponti.[fonte 16] Acqua di san Lorenzo [10 agosto] venuta per tempo; se alla Madonna viene va ancora bene; tardiva sempre buona quando arriva.[fonte 2] Acqua e chiacchiere non fanno frittelle.[fonte 20] Acqua lontana non spegne il fuoco.[fonte 21] Acqua passata, non macina più.[fonte 22] Ad albero vecchio ed a muro cadente, non manca mai edera.[fonte 4] Ad ogni primavera segue un autunno.[fonte 4] Ad ognuno la sua croce.[fonte 23] Ad ognuno pare bello il suo.[fonte 4] Ad un grasso mezzogiorno spesso tien dietro una cena magra.[fonte 4] Agosto ci matura il grano e il mosto[fonte 16]. Agosto: moglie mia non ti conosco.[5][6][fonte 1] Ai macelli van più bovi che vitelli.[fonte 2] Ai pazzi ed ai fanciulli, non si deve prometter nulla.[fonte 8] Ai pazzi si dà sempre ragione.[fonte 8] Aiutati che Dio t'aiuta.[fonte 24] Aiutati che il ciel t'aiuta.[fonte 25] Aiutati che io ti aiuto.[fonte 16] Al baciarsi presto tien dietro il coricarsi.[fonte 4] Al bisogno si conosce l'amico.[fonte 1] Al buio la villana è bella quanto la dama.[fonte 2] Al buio, le donne sono tutte uguali.[fonte 8] Al buio tutti i gatti sono bigi.[fonte 16] Al confessor, medico e avvocato, non tenere il ver celato.[fonte 26] Al confessore, al medico e all'avvocato non si tiene il ver celato.[fonte 2] Al contadin non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere.[fonte 1] Al cuore non si comanda.[fonte 1] Al cuor non si comanda.[fonte 27] Al cazzo non si comanda.[fonte 2] Al culo non si comanda.[fonte 28] Al destino non si comanda.[fonte 2] Al tempo non si comanda.[fonte 2] Al tempo e al culo non si comanda.[fonte 2] Al debole il forte sovente fa torto.[fonte 8] Al fratello piace più veder la sorella ricca, che farla tale.[fonte 8] Al levar le tende si conosce il guadagno.[fonte 4] Al gatto che lecca lo spiedo non affidar arrosto.[fonte 8] Al genio non si danno le ali, ma le si tagliano.[fonte 4] Al medico, al confessore e all'avvocato, bisogna dire ogni peccato.[fonte 8] Al povero manca il pane, al ricco l'appetito.[fonte 8] Al primo colpo non cade l'albero.[fonte 2] Al primo colpo non cade un albero.[fonte 2] Al suono si riconosce la pignata.[fonte 29] Al villano, se gli porgi il dito, si prende la mano.[fonte 30] All'A tien dietro il B nel nostro abbicì.[fonte 4] All'eco spetta l'ultima parola.[fonte 4] All'orsa paion belli i suoi orsacchiotti.[fonte 8] All'uccello ingordo crepa il gozzo.[fonte 2] All'ultimo si contano le pecore.[fonte 1] All'umiltà felicità, all'orgoglio calamità.[fonte 8] Alla fame è presto ridotto chi s'imbarca senza biscotto.[fonte 4] Alla fine anche le pernici allo spiedo vengono a noia.[fonte 8] Alla fine loda la vita e alla sera loda il giorno.[7][fonte 4] Alla fine loda la vita e alla sera il giorno.[fonte 2] Alla guerra si va pieno di denari e si torna pieni di vizi e di pidocchi.[fonte 4] Alle barbe dei pazzi, il barbiere impara a radere.[fonte 8] Alle volte si crede di trovare il sole d'agosto e si trova la luna di marzo.[fonte 8] Altri tempi, altri costumi.[fonte 2] Alzati presto al mattino se vuoi gabbare il tuo vicino.[fonte 8] Ambasciator non porta pena.[fonte 2] Amare e non essere amato è tempo perso.[fonte 4] Ambasciatore che tarda notizia buona che porta.[fonte 2] Amicizia che cessa, non fu mai vera.[fonte 4] Amico beneficato, nemico dichiarato.[fonte 4] Amico di buon tempo mutasi col vento.[fonte 4] Amico di ventura, molto briga e poco dura.[fonte 31] Ammogliarsi è un piacere che costa caro.[fonte 4] Amor che nasce di malattia, quando si guarisce passa via.[fonte 8] Amor di nostra vita ultimo inganno.[8][fonte 32] Amor, dispetto, rabbia e gelosia, sul cuore della donna han signoria.[fonte 8] Amor nuovo va e viene, amor vecchio si mantiene.[fonte 8] Amor regge il suo regno senza spada.[fonte 32] Amore con amor si paga.[fonte 2] Amore di parentato, amore interessato.[fonte 4] Amore di villeggiatura poco vale e poco dura.[fonte 2] Amore di fratello, amore di coltello.[fonte 8] Amore è il vero prezzo con che si compra amore.[fonte 33] Amore non si compra né si vende.[fonte 33] Amore onorato, né vergogna né peccato.[fonte 8] Amore scaccia amore.[fonte 4] Anche fra le spine nascono le rose.[fonte 34] Anche i fanciulli diventano uomini.[fonte 4] Anche il più verde diventa fieno.[fonte 4] Anche il sole ha le sue macchie.[fonte 4] Anche l'abate fu prima frate.[fonte 4] Anche l'ambizione è una fame.[fonte 4] Anche la legna storta dà il fuoco diritto.[fonte 4] Anche la regina Margherita mangia il pollo con le dita.[fonte 35] Anche le bestie le ha fatte il Signore.[fonte 8] Anche le colombe hanno il fiele.[fonte 4] Anche le pulci hanno la tosse.[fonte 2] Anche le uova della gallina nera sono bianche; ma staremo a vedere se anche i suoi pulcini sono bianchi.[fonte 4] Anche un giogo dorato pesa.[fonte 8] Andar presto a dormire e alzarsi presto chiude la porta a molte malattie.[fonte 8] Andar bestia, e tornar bestia, dice il moro.[fonte 36] Anno nevoso anno fruttuoso.[fonte 16] Anno nuovo vita nuova.[fonte 1] Approfitta degli errori degli altri, piuttosto che censurarli.[fonte 4] Aprile dolce dormire.[9][fonte 2] Aprile e maggio sono la chiave di tutto l'anno.[fonte 4] Aprile ogni goccia un barile.[10][fonte 2] Aprile piovoso, maggio ventoso, anno fruttuoso.[fonte 4] Ara nel mare e nella rena semina, chi crede alle parole della femmina.[fonte 8] Arcobaleno porta il sereno.[fonte 2] Aria rossa o piscia o soffia.[fonte 2] Asino che ha fame mangia d'ogni strame.[fonte 2] Assai bene balla a chi fortuna suona.[fonte 4] Assai digiuna chi mal mangia.[fonte 8] Assai domanda chi ben serve e tace.[fonte 37] Assai domanda chi si lamenta.[fonte 8] Assalto francese e ritirata spagnola.[fonte 2] Attacca l'asino dove vuole il padrone e, se si rompe il collo, suo danno.[fonte 1] Avuta la grazia, gabbato lo santo.[fonte 8] B Bacco, tabacco e Venere riducon l'uomo in cenere.[fonte 2] Ballaremo secondo che voi suonerete.[fonte 4] Bandiera rotta onor di capitano. Bandiera vecchia onor di capitano.[fonte 2] Basta un matto per casa.[fonte 8] Batti il ferro finché è caldo. Batti il ferro quando è caldo.[fonte 1] Bei gatti e grossi letamai mostrano il buon agricoltore.[fonte 38] Bella cosa presto è rapita.[fonte 4] Bella in vista, dentro è trista.[fonte 4] Bella ostessa, conti traditori.[fonte 2] Bella ostessa, brutti conti.[fonte 39] Bell'ostessa, conto caro.[fonte 40] Bella vigna poca uva.[fonte 2] Bellezza di corpo non è eredità.[fonte 4] Bellezza e follia vanno spesso in compagnia.[fonte 41] Bello in fasce brutto in piazza.[fonte 1] Ben sa la botte di qual vino è piena.[fonte 4] Ben si caccia il diavolo, ma Satana ritorna.[fonte 4] Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.[fonte 8] Bene educato, non mentì mai.[fonte 4] Bene perduto è conosciuto.[fonte 4] Beni di fortuna passano come la luna.[fonte 2] Bevi il vino e lascia andar l'acqua al mulino.[fonte 8] Bisogna dire pane al pane e vino al vino.[fonte 2] Bisogna far buon viso a cattivo gioco.[fonte 1] Bisogna fare di necessità virtù.[fonte 2] Bisogna fare il pane con la farina che si ha.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando cade, e prendere il tempo come viene.[fonte 4] Bisogna fare la festa quando è il santo.[fonte 4] Bisogna mangiare per vivere e non vivere per mangiare.[fonte 2] Bisogna prendere gli avvenimenti quando Dio li manda.[fonte 4] Bocca che tace nessuno l'aiuta.[fonte 2] Bocca che tace mal si può aiutare.[fonte 42] Bocca chiusa ed occhio aperto non fecero mai male a nessuno.[fonte 4] Botte buona fa buon vino.[fonte 2] Brutta cosa è il povero superbo e il ricco avaro.[fonte 8] Brutta di viso ha sotto il paradiso.[fonte 2] Brutto in fasce bello in piazza.[fonte 1] Buca il marmo fin d'acqua una goccia.[fonte 8] Bue sciolto lecca per tutto.[fonte 8] Bue fiacco stampa più forte il piede in terra.[fonte 4] Bue vecchio, solco diritto.[fonte 4] Buon fuoco e buon vino, scaldano il mio camino.[fonte 8] Buon sangue non mente.[fonte 2] Buon tempo e mal tempo non dura tutto il tempo.[fonte 1] Buon vino e bravura, poco dura.[fonte 8] Buon vino fa buon sangue.[fonte 1][fonte 8] Buon vino, favola lunga.[fonte 8] Buona fama presto è perduta.[fonte 4] Buona greppia, buona bestia.[fonte 8] Buona guardia giova a molte cose.[fonte 4] Buona la forza, migliore l'ingegno.[fonte 4] Buone parole e pere marce non rompono la testa a nessuno.[fonte 31] Burlando si dice il vero.[fonte 4] C Cader non può, chi ha la virtù per guida.[fonte 4] Cambiano i suonatori ma la musica è sempre quella.[fonte 1] Cambiare e migliorare sono due cose; molto si cambia nel mondo, ma poco si migliora.[fonte 4] Campa cavallo che l'erba cresce.[fonte 2] Campa, cavallo mio, che l'erba cresce.[fonte 1] Can che abbaia non morde.[fonte 1] Cane affamato non teme bastone.[11][fonte 2] Cane e gatta tre ne porta e tre ne allatta.[fonte 8] Cane non mangia cane.[fonte 43] Cane ringhioso e non forzoso, guai alla sua pelle![fonte 4] Capelli lunghi, cervello corto.[fonte 4] Carta canta e villan dorme.[fonte 1] Casa fatta e vigna posta, non si sa quello che costa.[fonte 44] Casa mia, casa mia, per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 45] Casa mia, casa mia, benché piccola tu sia, tu mi sembri una badia.[fonte 2] Casa mia, casa mia, pur piccina che tu sia mi sembri una badia.[fonte 9] Castiga il buono e si emenderà; castiga il cattivo e peggiorerà.[fonte 4] Cattivo cominciamento, fine peggiore.[fonte 8] Cavallo da vettura, poco costa e poco dura.[fonte 46] Cavallo vecchio, tardi muta ambiatura.[fonte 47] Cavolo riscaldato non fu mai buono.[fonte 2] Cavolo riscaldato, frate sfratato e serva ritornata non furon mai buoni.[fonte 2] Cento teste, cento cappelli.[fonte 48] Certe macchie ben si possono grattare ma non togliere.[fonte 4] Cessato il guadagno, cessata l'amicizia.[fonte 49] Chi a tutti facilmente crede, ingannato si vede.[fonte 4] Chi accarezza la mula rimedia calci.[fonte 2] Chi accarezza la mula buscherà calci.[fonte 2] Chi accetta l'eredità accetti anche i debiti.[fonte 4] Chi ad altri inganni tesse, poco bene per sé ordisce.[fonte 4] Chi alza il piede per ogni paglia, si può rompere facilmente una gamba.[fonte 8] Chi ama me, ama il mio cane.[fonte 50] Chi ara terra bagnata, per tre anni l'ha dissipata.[fonte 51] Chi asino nasce, asino muore.[fonte 4] Chi balla senza suono, come asino si ritrova.[fonte 52] Chi ben coltiva il moro, coltiva nel suo campo un gran tesoro.[fonte 47] Chi ben comincia è a metà dell'opera.[fonte 53] Chi ben comincia è alla metà dell'opera.[fonte 2] Chi ben comincia è alla metà dell'opra.[fonte 1] Chi bene semina, bene raccoglie.[fonte 4] Chi beve vin, campa cent'anni.[fonte 54] Chi beve birra campa cent'anni.[12][fonte 2] Chi biasima il suo prossimo che è morto, dica il vero, dica il falso, ha sempre torto.[fonte 4] Chi caccia volentieri trova presto la lepre.[fonte 4] Chi cade in povertà, perde ogni amico.[fonte 4] Chi cava e non mette, le possessioni si disfanno.[fonte 55] Chi cavalca o trotta alla china, o non è sua la bestia, o non la stima.[fonte 8] Chi cento ne fa una ne aspetta.[fonte 1] Chi cerca di sapere ciò che bolle nella pentola d'altri, ha leccate le sue.[fonte 8] Chi cerca lealtà e fedeltà nel mondo, non trova che ipocrisia.[fonte 4] Chi cerca, trova.[13][fonte 2] Chi cerca trova e chi domanda intende.[fonte 2] Chi coglie acerbo il senno, maturo ha sempre d'ignoranza il frutto.[fonte 8] Chi comincia in alto, finisce in basso.[fonte 8] Chi compra il superfluo, si prepara a vendere il necessario.[fonte 56] Chi compra sprezza e chi ha comprato apprezza.[fonte 2] Chi conserva per l'indomani, conserva per il cane.[fonte 8] Chi contro Dio getta la pietra, in capo gli torna.[fonte 8] Chi d'estate secca serpi, nell'inverno mangia anguille.[fonte 4] Chi d'estate vuole stare al fresco, ci starà anche d'inverno.[fonte 4] Chi da gallina nasce, convien che razzoli.[fonte 8] Chi da savio operare vuole, pensi al fine.[fonte 4] Chi dà ghiande non può riavere confetti.[fonte 4] Chi di gallina nasce convien che razzoli.[fonte 2] Chi dal lotto spera soccorso, mette il pelo come un orso.[fonte 8] Chi dà per ricevere, non dà nulla.[fonte 8] Chi del vino è amico, di se stesso è nemico.[fonte 8] Chi di spada ferisce di spada perisce.[14][fonte 1] Chi di speranza vive disperato muore.[fonte 1] Chi di una donna brutta s'innamora, lieto con essa invecchia e l'ama ancora.[fonte 8] Chi di coltel ferisce, di coltel perisce.[fonte 4] Chi di spirito e di talenti è pieno domina su quelli che ne hanno meno.[fonte 4] Chi dice A arrivi fino alla Z.[fonte 4] Chi dice A deve dire anche B.[fonte 4] Chi dice donna dice danno.[fonte 1] Chi dice donna dice guai, chi dice uomo peggio che mai.[fonte 8] Chi dice male, l'indovina quasi sempre.[fonte 4] Chi dice quel che vuole sente quel che non vorrebbe.[fonte 1] Chi disprezza compra.[fonte 1] Chi disprezza vuol comprare e chi loda vuol lasciare.[fonte 2] Chi domanda ciò che non dovrebbe, ode quel che non vorrebbe.[fonte 2] Chi domanda non erra.[fonte 2] Chi domanda non fa errore.[fonte 57] Chi dopo la polenta beve acqua, alza la gamba e la polenta scappa.[fonte 8] Chi dorme d'agosto dorme a suo costo.[fonte 2] Chi dorme non piglia pesci.[15][fonte 1] Chi è causa del suo mal pianga se stesso.[16][fonte 1] Chi è bugiardo è ladro.[fonte 4] Chi è destinato alla forca non annega.[fonte 58] Chi è generoso con la bocca, è avaro col sacco.[fonte 4] Chi è in difetto è in sospetto.[fonte 1] Chi è mandato dai farisei è ingannato dai farisei.[fonte 4] Chi è morso dalla serpe, teme la lucertola.[fonte 8] Chi non è savio, paziente e forte si lamenti di sé, non della sorte.[fonte 8] Chi è schiavo delle ambizioni ha mille padroni.[fonte 4] Chi è stato trovato una volta in frode, si presume vi sia sempre.[fonte 4] Chi è svelto a mangiare è svelto a lavorare.[fonte 1] Chi è tosato da un usuraio, non mette più pelo.[fonte 8] Chi è uso all'impiccare, non teme la forca.[fonte 4] Chi fa da sé fa per tre.[17][fonte 1] Chi fa come il prete dice, va in Paradiso: ma chi fa come il prete fa, a casa del diavolo se ne va.[18] Chi fa del bene agli ingrati, Dio lo considera per male.[fonte 4] Chi fa il male odia la luce.[fonte 4] Chi fa l'altrui mestiere, fa la zuppa nel paniere.[fonte 59] Chi fa la legge, deve conservarla.[fonte 4] Chi fa una legge, deve anche preoccuparsi che sia eseguita.[fonte 4] Chi fa le fave senza concime le raccoglie senza baccelli.[fonte 2] Chi fa falla e chi non fa sfarfalla.[fonte 1] Chi fa un'ingiustizia, la dimentica; chi la riceve, se ne ricorda.[fonte 4] Chi fosse indovino, sarebbe ricco.[fonte 4] Chi fugge il giudizio, si condanna.[fonte 4] Chi fugge un matto, ha fatto buona giornata.[fonte 8] Chi getta un seme lo deve coltivare, se vuol vederlo con il tempo germogliare.[fonte 60] Chi gioca al lotto, è un gran merlotto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di botto.[fonte 8] Chi gioca al lotto, in rovina va di trotto.[fonte 8] Chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato.[fonte 16]. Chi ha avuto il beneficio, se lo dimentica.[fonte 4] Chi ha da far con un incostante, tien l'anguilla per la coda.[fonte 4] Chi ha denti non ha pane e chi ha pane non ha denti.[fonte 1] Chi ha farina non ha la sacca.[fonte 1] Chi ha fatto ingiuria ad altri, da altri convien che la sopporti.[fonte 4] Chi ha il capo di cera, non vada al sole.[fonte 61] Chi ha imbarcato il diavolo, deve stare in sua compagnia.[fonte 4] Chi ha ingegno, lo mostri.[fonte 62] Chi ha per letto la terra, deve coprirsi col cielo.[fonte 8] Chi ha polvere spara.[fonte 1] Chi ha portato la tonaca puzza sempre di frate.[fonte 2] Chi ha prete, o parente in corte, fontana gli risorge.[fonte 63] Chi ha tempo, ha vita.[fonte 64] Chi ha tempo non aspetti tempo.[fonte 1] Chi ha terra, ha guerra.[fonte 56] Chi ha tutto il suo in un loco l'ha nel fuoco.[fonte 2] Chi ha un mestiere in mano, dappertutto trova pane.[fonte 4] Chi il vasto mare intrepido ha solcato, talvolta in piccol rio muore annegato.[fonte 65] Chi la dura la vince.[fonte 1] Chi la fa l'aspetti.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova sa quel che lascia ma non sa quel che trova.[fonte 1] Chi lascia la via vecchia per la nuova peggio si trova.[fonte 16] Chi lavora con diligenza, prega due volte.[fonte 4] Chi lavora, Dio gli dona.[fonte 4] Chi mal semina mal raccoglie.[fonte 1] Chi male una volta si marita, ne risente tutta la vita.[fonte 4] Chi male vive, male muore.[fonte 2] Chi maltratta le bestie, non la fa mai bene.[fonte 8] Chi mangia sempre pan bianco, spesso desidera il nero.[fonte 8] Chi mangia sempre torta se ne sazia.[fonte 8] Chi mena per primo mena due volte.[fonte 1] Chi molto parla, spesso falla.[fonte 66] Chi mordere non può non mostri i denti.[fonte 40] Chi muore giace e chi vive si dà pace.[fonte 1] Chi nasce afflitto muore sconsolato.[fonte 1] Chi nasce è bello, chi si sposa è buono e chi muore è santo.[fonte 1] Chi nasce matto non guarisce mai.[fonte 8] Chi nasce tondo non può morir quadrato.[fonte 57] Chi non ama le bestie, non ama i cristiani.[fonte 8] Chi non apre la bocca, non le piove dentro.[fonte 4] Chi non beve in compagnia o è un ladro o è una spia.[fonte 1] Chi non caccia non prende.[fonte 4] Chi non comincia non finisce.[fonte 1] Chi non crede di esser matto, è matto davvero.[fonte 8] Chi non crede in Dio, non crede nel diavolo.[fonte 67] Chi non dà a Cristo, dà al fisco.[fonte 8] Chi non è con me è contro di me.[fonte 2] Chi non è volpe, dal lupo si guardi, perché ne sarà preda presto o tardi.[fonte 4] Chi non fu buon soldato, non sarà buon capitano.[fonte 68] Chi non ha fede, non ne può dare.[fonte 8] Chi non ha il gatto mantiene i topi e chi ce l'ha li mantiene tutti e due.[fonte 8] Chi non ha imparato a ubbidire, non saprà mai comandare.[fonte 8] Chi non ha testa abbia gambe.[fonte 57] Chi non lavora non mangia.[fonte 2] Chi non mangia ha già mangiato.[fonte 2] Chi non muore si rivede.[fonte 2] Chi non naufragò in mare, può naufragare in porto.[fonte 8] Chi non può bastonare il cavallo, bastona la sella.[fonte 4] Chi non risica, non rosica.[fonte 1] Chi non sa adulare non sa regnare.[fonte 4] Chi non sa fare non sa comandare.[fonte 68] Chi non sa leggere la sua scrittura è asino di natura.[fonte 69] Chi non sa niente non è buono a niente.[fonte 4] Chi non sa tacere non sa parlare.[fonte 2] Chi non sa ubbidire, non sa comandare.[fonte 68] Chi non segue il consiglio dei genitori, tardi se ne pente.[fonte 4] Chi non semina non raccoglie.[fonte 2] Chi non si innamora da giovane, si innamora da vecchio.[fonte 8] Chi non trovò ombra nell'estate, la troverà nell'inverno.[fonte 4] Chi non vuol essere consigliato, non può essere aiutato.[fonte 4] Chi parla due lingue è doppio uomo.[fonte 70] Chi pecca in segreto fa la penitenza pubblica.[fonte 8] Chi pecora si fa, il lupo se la mangia.[fonte 1] Chi per grazia prega, non ha mai bene.[fonte 4] Chi perde ha sempre torto.[fonte 1] Chi perdona senza dimenticare, non perdona che metà.[fonte 4] Chi pesca con l'amo d'oro, qualcosa piglia sempr e.[fonte 8] Chi piglia leone in assenza, teme la talpa in presenza.[fonte 8] Chi più ha più vuole.[fonte 1] Chi più ha più ne vorrebbe.[fonte 2] Chi più lavora, meno mangia.[fonte 4] Chi più ne fa è fatto papa.[fonte 4] Chi più ne ha più ne metta.[fonte 2] Chi più sa meno crede.[fonte 1] Chi più spende meno spende.[fonte 2] Chi poco sa presto parla.[fonte 2] Chi porta fiori, porta amore.[fonte 8] Chi predica al deserto, perde il sermone.[fonte 71] Chi prende l'anguilla per la coda, può dire di non tenere nulla.[fonte 4] Chi prima arriva meglio alloggia.[fonte 2] Chi prima nasce prima pasce.[fonte 1] Chi prima non pensa dopo sospira.[fonte 2] Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.[fonte 8] Chi ricorda un beneficio, lo rinfaccia.[fonte 4] Chi ride il venerdì piange la domenica.[fonte 1] Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta.[fonte 8] Chi ringrazia non vuol obblighi.[fonte 8] Chi ringrazia per una spiga, riceve una manna.[fonte 8] Chi Roma non vede, nulla crede.[fonte 8] Chi ruba poco, ruba assai.[fonte 72] Chi rompe paga e i cocci sono suoi.[fonte 1] Chi ruba un regno è un ladro glorificato, e chi un fazzoletto, un ladro castigato.[fonte 4] Chi ruba una volta è sempre ladro.[fonte 4] Chi s'accapiglia si piglia.[19] Chi s'aiuta Iddio l'aiuta.[fonte 1] Chi sa fa e chi non sa insegna.[fonte 1] Chi sa fare fa e chi non sa fare insegna.[20] Chi sa il gioco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa il trucco non l'insegni.[fonte 1] Chi sa senza Cristo non sa nulla.[fonte 8] Chi scopre il segreto perde la fede.[fonte 1] Chi semina buon grano avrà buon pane; chi semina lupino non avrà né pan né vino.[fonte 2] Chi semina con l'acqua raccoglie col paniere.[fonte 2] Chi semina raccoglie.[fonte 2] Chi semina vento raccoglie tempesta.[21][22][fonte 1] Chi serba serba al gatto.[fonte 1] Chi si contenta gode.[fonte 1] Chi si diletta di frodare gli altri, non si deve lamentare se gli altri lo ingannano.[fonte 4] Chi si fa i fatti suoi campa cent'anni.[fonte 57] Chi si fa un idolo del suo interesse, si fa un martire della sua integrità.[fonte 73] Chi si fida nel lotto, non mangia di cotto.[fonte 8] Chi si fida di greco, non ha il cervel seco.[fonte 74] Chi si guarda dal calcio della mosca, gli tocca quello del cavallo.[fonte 4] Chi si immagina di essere più di quello che è, si guardi nello specchio.[fonte 4] Chi si loda si sbroda.[fonte 4] Chi si prende d'amore, si lascia di rabbia.[fonte 8] Chi si scusa si accusa.[fonte 1] Chi si somiglia si piglia.[fonte 2] Chi si sposa in fretta, stenta adagio.[fonte 75] Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato.[fonte 8] Chi si vanta da solo non vale un fagiolo.[fonte 2] Chi si vanta del delitto è due volte delinquente.[fonte 4] Chi siede in basso, siede bene.[fonte 8] Chi sta tra due selle si trova col culo in terra.[fonte 2] Chi tace acconsente.[fonte 1][23] Chi tace davanti alla forza, perde il suo diritto.[fonte 4] Chi tanto e chi niente.[fonte 1] Chi troppo e chi niente.[fonte 1] Chi tardi arriva male alloggia.[fonte 1] Chi ti dà un osso non ti vorrebbe morto.[fonte 4] Chi ti vuol male, ti liscia il pelo.[fonte 8] Chi tiene il letame nel suo letamaio, fa triste il suo pagliaio.[fonte 8] Chi tiene la scala non è meno reo del ladro.[fonte 76] Chi troppo comincia, poco finisce.[fonte 77] Chi troppo vuole nulla stringe.[24][fonte 1] Chi trova un amico trova un tesoro.[fonte 1] Chi uccide i gatti fa male i suoi fatti.[fonte 38] Chi va a caccia non deve lasciare a casa il fucile.[fonte 4] Chi va a Roma perde la poltrona.[fonte 2] Chi va all'acqua d'agosto, non beve o non vuol bere il mosto.[fonte 8] Chi va all'osto, perde il posto.[fonte 78] Chi va al mulino s'infarina.[fonte 1] Chi va con lo zoppo, impara a zoppicare.[fonte 79] Chi va piano va sano e va lontano. Chi va forte va alla morte.[25][fonte 80] Chi ha più fretta, più tardi finisce.[fonte 4] Chi fa in fretta fa due volte.[fonte 4] Chi pesca e ha fretta, spesse volte prende dei granchi.[fonte 4] Chi va via perde il posto all'osteria.[fonte 81] Chi vanta se stesso e abbassa gli altri, gli altri abbasseranno lui.[fonte 4] Chi vende a credenza spaccia assai: perde gli amici e i quattrin non ha mai.[26][fonte 2] Chi dà a credito spaccia assai perde gli amici e danar non ha mai.[fonte 2] Chi va alla festa e non è invitato, ben gli sta se ne è scacciato.[fonte 4] Chi vien di raro, gli si fa festa.[fonte 8] Chi vince ha sempre ragione.[fonte 82] Chi vive in libertà non tenti il fato.[fonte 4] Chi vive sei giorni nell'oasi, il settimo anela il deserto.[fonte 8] Chi vivrà vedrà.[fonte 2] Chi vuol d'avena un granaio la semini di febbraio.[fonte 2] Chi vuol dell'acqua chiara vada alla fonte.[fonte 4] Chi vuol udir novelle, dal barbier si dicon belle.[fonte 8] Chi vuol esser libero, non metta il collo sotto il giogo.[fonte 8] Chi vuol essere pagato, non dev'essere ringraziato.[fonte 8] Chi vuol guarire deve soffrire.[fonte 4] Chi vuol impetrare, la vergogna ha da levare.[fonte 83] Chi vuol lavoro degno assai ferro e poco legno.[fonte 2] Chi vuol pane, meni letame.[fonte 84] Chi vuol presto impoverire, chieda prestito all'usuraio.[fonte 8] Chi vuol provar le pene dell'inferno, la stia in Puglia e all'Aquila d'inverno.[fonte 8] Chi vuol saper cos'è l'inferno faccia il cuoco d'estate e il carrettiere d'inverno.[fonte 8] Chi vuol un bel pagliaio lo pianti di febbraio.[fonte 8] Chi vuol vedere Pisa vada a Genova.[fonte 85] Chi vuole arricchire in un anno, è impiccato in sei mesi.[fonte 4] Chi vuole assai, non domandi poco.[fonte 86] Chi vuole essere amato, divenga amabile.[fonte 9] Chi vuole essere sicuro della sua farina, deve portare egli stesso il sacco al mulino.[fonte 4] Chi vuole i santi se li preghi.[fonte 1] Chi vuole la figlia accarezzi la madre.[fonte 4] Chi vuole vada e chi non vuole mandi.[fonte 1] Chiara notte di capodanno, dà slancio a un buon anno.[fonte 8] Chiodo scaccia chiodo.[fonte 2] Chiodo schiaccia chiodo.[fonte 9] Chitarra e schioppo fanno andare la casa a galoppo.[fonte 8] Ci vuole altro che un'accozzaglia di gente per fare un esercito.[fonte 4] Ci vuole ingegno per governare i pazzi.[fonte 4] Ciascuno è artefice della sua fortuna.[fonte 2][27] Ciascuno è artefice della propria fortuna.[fonte 2] Ciascuno porta il suo ingegno al mercato.[fonte 4] Cielo a pecorelle acqua a catinelle.[fonte 1] Ciò che è male per uno, è bene per un altro.[fonte 4] Ciò che lo stolto fa in fine, il savio fa in principio.[fonte 87] Ciò che non si può cambiare bisogna saperlo sopportare.[fonte 4] Col fuoco non si scherza.[fonte 1] Col latino, con un ronzino e con un fiorino si gira il mondo.[fonte 4] Col nulla non si fa nulla.[fonte 1] Col pane tutti i guai sono dolci.[fonte 1] Col tempo e con la paglia maturano le nespole.[28][fonte 2] Col tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia.[fonte 2] Colla sola lealtà, non si pagano i merletti della cuffia.[fonte 4] Come farai, così avrai.[fonte 4] Come i piedi portano il corpo, così la benevolenza porta l'anima.[fonte 4] Comincia, che Dio provvede al resto.[fonte 4] Compar di Puglia, l'un tiene e l'altro spoglia.[fonte 8] Comun servizio ingratitudine rende.[fonte 8] Con arte e con ingegno, si acquista mezzo regno; e con ingegno ed arte, si acquista l'altra parte.[fonte 4] Con gli anni crescono gli affanni.[fonte 8] Con i matti non ci son patti.[fonte 8] Con l'inchiostro, una mano può innalzare un furfante ed abbassare un galantuomo.[fonte 8] Con la pazienza la foglia di gelso diventa seta.[fonte 88] Con la pietra si prova l'oro, con l'oro la donna e con la donna l'uomo.[fonte 8] Con la più alta libertà, abita la più bassa servitù.[fonte 4] Con le buone maniere si ottiene tutto.[fonte 89] Con un bicchier di vino si fa un amico.[fonte 8] Con un occhio si frigge il pesce e con l'altro si guarda il gatto.[fonte 8] Conchiuder lega è facile, difficile il mantenerla.[fonte 4] Confidenza toglie riverenza.[fonte 4] Conserva le monete bianche per le giornate nere.[fonte 8] Contadini, scarpe grosse e cervelli fini.[fonte 1] Contano più i fatti che le parole.[fonte 90] Contro due donne neanche il diavolo può metterci il becco.[fonte 8] Contro due non la potrebbe Orlando.[fonte 91] Contro la forza la ragion non vale.[fonte 1] Contro la nebbia forza no vale.[fonte 4] Coricarsi presto, alzarsi presto, danno salute, ricchezza e sapienza.[fonte 8] Corpo satollo anima consolata.[fonte 1] Corpo sazio non crede a digiuno.[fonte 1] Cortesia schietta, domanda non aspetta.[fonte 92] Corre un pezzo la lepre, un pezzo il cane; così s'alternano le vicende umane.[fonte 8] Cosa fatta capo ha.[29][fonte 2] Cosa di rado veduta, più cara è tenuta.[fonte 8] Cosa rara, cosa cara.[fonte 8] Cucina grassa, magra eredità.[fonte 4] Cuor contento gran talento.[fonte 93] Cuor contento il ciel l'aiuta.[fonte 94] Cuor contento il ciel lo guarda.[fonte 2] Cuor contento non sente stento.[fonte 2] D D'aprile ogni goccia val mille lire.[fonte 2] D'aquila non nasce colomba.[fonte 4] Da colpa nasce colpa.[fonte 4] Da cosa nasce cosa.[fonte 95] Da falsa lingua, cattiva arringa.[fonte 8] Da Lodi, tutti passan volentieri.[fonte 8] Da un disordine nasce un ordine.[fonte 8] Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io.[fonte 2] Dàgli, dàgli, le cipolle diventano agli.[fonte 96] Riferito alle insidie che l'amore riserva alle virtù delle fanciulle. Dai giudici siciliani, vacci coi polli nelle mani.[fonte 8] Dall'asino non cercar lana.[fonte 4] Dall'opera si conosce il maestro.[fonte 4] Dall'immagine si conosce il pittore.[fonte 4] Dalla mano si riconosce l'artista.[fonte 4] Dal canto si conosce l'uccello.[fonte 4] Dal passato è facile predire il futuro.[fonte 4] Dalla casa si conosce il padrone.[fonte 4] Danaro e santità, metà della metà.[fonte 8] Denari e santità metà della metà.[fonte 97] Date a Cesare quel che è di Cesare.[30][fonte 2] Davanti al cameriere non vi è Eccellenza.[fonte 4] Davanti l'abisso e dietro i denti di un lupo.[fonte 4] Debole catena muover può gran peso.[fonte 8] Dei vizi è regina l'avarizia.[fonte 98] Del senno di poi son piene le fosse.[fonte 1] Delle calende non me ne curo purché a san Paolo non faccia scuro.[31][fonte 2] Detto senza fatto, ad ognuno pare un misfatto.[fonte 4] Di buone intenzioni è lastricato l'inferno.[fonte 99] Di chi è l'asino, lo pigli per la coda.[fonte 4] Di dolore non si muore, ma d'allegrezza sì.[fonte 8] Di maggio si dorme per assaggio.[32][fonte 2] Di malerba non si fa buon fieno.[fonte 4] Di notte si ritirano i galantuomini ed escono i birbanti.[fonte 8] Di quello che non ti interessa, non dire né bene né male.[fonte 4] Di tutte le arti maestro è l'amore.[fonte 8] Dice la serpe: non mi toccar che non ti tocco.[fonte 8] Dicembre favaio.[fonte 16] Dicono che è mercante anche chi perde, ma questo presto ridurrassi al verde.[fonte 100] Dieci ne pensa il topo e cento il gatto.[fonte 101] Dietro il monte c'è la china.[fonte 2] Dietro il riso viene il pianto.[fonte 8] Dimmi con chi vai, e ti dirò che fai.[fonte 73] Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei.[fonte 102] Dio aiuti il povero, perché il ricco può aiutar se stesso.[fonte 8] Dio dà la piaga e dà anche la medicina.[fonte 4] Dio guarisce e il medico è ringraziato.[fonte 4] Dio li fa e poi li accoppia.[fonte 1] Dio manda il freddo secondo i panni.[fonte 1] Dio mi guardi da chi studia un libro solo.[fonte 4] Dio misura il vento all'agnello tosato.[fonte 4] Dio vede e provvede.[fonte 2] Disse la volpe ai figli: "Quando a tordi, quando a grilli".[fonte 4] Dolore comunicato è subito scemato.[fonte 4] Domandando si va a Roma.[fonte 2] Domandare è lecito, rispondere è cortesia.[fonte 2] Donna al volante, pericolo costante.[fonte 103] Donna adorna, tardi esce e tardi torna.[fonte 8] Donna baffuta sempre piaciuta.[fonte 2] Donna barbuta, sempre piaciuta.[fonte 103] Donna barbuta coi sassi si saluta.[fonte 2] Donna bianca, poco gli manca.[fonte 8] Donna rossa coscia grossa.[fonte 8] Donna che canti dolcemente in scena, pei giovani inesperti è una sirena.[fonte 8] Donna che dona, di rado è buona.[fonte 8] Donna che piange, ovver che dolce canti, son due diversi, ambo possenti incanti.[fonte 8] Donna che sa il latino è rara cosa, ma guardati dal prenderla in isposa.[fonte 8] Donna e fuoco, toccali poco.[fonte 8] Donne e motori gioie e dolori.[fonte 104] Donna e vino ubriaca il grande e il piccolino.[fonte 8] Donna giovane e uomo anziano possono riempire la casa di figli.[fonte 8] Donna io conosco, ch'è una santa a messa e che in casa è un'orribil diavolessa.[fonte 8] Donna nana tutta tana.[fonte 2] Donna nobil per natura è un tesor cheonna savia e bella è preziosa ancsempre dura.[fonte 8] Donna pelosa, donna virtuosa.[fonte 2] Donna pregata nega, trascurata prega.[fonte 8] Donna prudente, gioia eccellente.[fonte 8] Dhe in gonnella.[fonte 8] Donna si lagna, donna si duole, donna s'ammala quando lo vuole.[fonte 8] Donne e sardine, son buone piccoline.[fonte 8] Donne, danno, fanno gli uomini e li disfanno.[fonte 8] Dopo desinare non camminare; dopo cena, con dolce lena.[fonte 4] Dopo e poi son parenti del mai.[fonte 2] Dopo il dolce vien l'amaro.[fonte 8] Dopo il fatto il consiglio non vale.[fonte 4] Dopo il fatto viene troppo tardi il pentimento.[fonte 4] Dopo il giorno vien la notte.[fonte 8] Dopo la grazia di Dio, la miglior cosa è la libertà.[fonte 8] Dopo la tempesta, il sole.[fonte 8] Dopo le fosche nuvole il sol splende più fulgido.[fonte 8] Dopo vendemmia, imbuto.[fonte 105] Non bisogna lasciarsi sfuggire le occasioni favorevoli, chi ha tempo non aspetti tempo. Dove c'è l'amore, la gamba trascina il piede.[fonte 8] Dove è castigo è disciplina, dove è pace è gioia.[fonte 4] Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.[fonte 8] Dove l'accidia attecchisce ogni cosa deperisce.[fonte 4] Dove la fedeltà mette le radici, Dio fa crescere un albero.[fonte 4] Dove non c'è amore, non c'è umanità.[fonte 8] Dove non c'è fieno, i cavalli mangiano paglia.[fonte 8] Dove non c'è ordine, c'è disordine.[fonte 8] Dove non si crede né all'inferno né al paradiso, il diavolo intasca tutte le entrate.[fonte 8] Dove non vi è educazione, non vi è onore.[fonte 4] Dove non vi sono capelli, male si pettina.[fonte 4] Dove può il vino non può il silenzio.[fonte 8] Dove regna Bacco e Amore, Minerva non si lascia vedere.[fonte 4] Dove regna il vino, non regna il silenzio.[fonte 8] Dove son carogne son corvi.[fonte 8] Dove sono i pulcini, ivi è l'occhio della chioccia.[fonte 8] Dove vola il cuore, striscia la ragione.[fonte 8] Due cani che un solo osso hanno, difficilmente in pace stanno.[fonte 4] Due noci in un sacco e due donne in casa fanno un bel fracasso.[fonte 8] Due polente insieme non furon mai viste.[fonte 8] Dura più un carro rotto che uno nuovo.[fonte 4] Duro con duro non fa buon muro.[fonte 106] E È cattivo sparviero quel che non torna al richiamo.[fonte 8] È difficile far diventare bianco un moro.[fonte 4] È difficile guardarsi dai ladri di casa.[fonte 4] È difficile piegare un albero vecchio.[fonte 4] È difficile zoppicare bene davanti allo sciancato.[fonte 8] È facile lamentarsi quando c'è chi ascolta.[fonte 8] È impossibile come cavalcare un raggio di sole.[fonte 4] È impossibile volare senza ali.[fonte 4] È inutile piangere sul latte versato.[fonte 98] [truismo] È l'acqua che fa l'orto.[fonte 98] L'acqua fa l'orto.[fonte 98] È la donna che fa l'uomo.[fonte 57] È lieve astuzia ingannar gelosia, che tutto crede quando è in frenesia.[fonte 4] È meglio avere la cura di un sacco di pulci che una donna.[fonte 4] È meglio contentarsi che lamentarsi.[fonte 8] È meglio correggere i propri difetti, che riprendere quelli degli altri.[fonte 4] È meglio esser digiuno fuori, che satollo in prigione.[fonte 8] È meglio essere testa d'anguilla che coda di storione.[fonte 8] È meglio essere uccel di bosco, che uccel di gabbia.[fonte 8] È meglio essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.[fonte 8] È meglio gelare nella nuda cameretta della verità, che crogiolarsi nella pelliccia della menzogna.[fonte 4] È meglio mangiarsi l'eredità, che conservarla per il convento.[fonte 4] È meglio meritar la lode che ottenerla.[fonte 4] È meglio sentir cantare l'usignolo, che rodere il topo.[fonte 8] È meglio testa di lucertola che coda di drago.[fonte 8] È meglio un esercito di cervi sotto il comando di un leone, che un esercito di leoni sotto il comando di un cervo.[fonte 4] È meglio un leone che mille mosche.[fonte 8] È più facile biasimare, che migliorare.[fonte 4] È più facile lagnarsi, che rimuovere gl'impedimenti.[fonte 8] È più facile prevenire una malattia che guarirla.[fonte 8] È più facile trovar dolce l'assenzio, che in mezzo a poche donne il silenzio.[fonte 8] È un bel predicare il digiuno a corpo pieno.[fonte 4] È una bella risposta quella che si attaglia ad ogni domanda.[fonte 8] Ebrei e rigattieri, spendono poco e gabbano volentieri.[fonte 4] Ecco il rimedio per l'ipocondria: mangiare e bere in buona compagnia.[fonte 8] Errare è umano, perseverare è diabolico.[fonte 107] Errare è umano, perseverare diabolico.[fonte 2] Sbagliare è umano, perseverare è diabolico.[fonte 108] Errore non è inganno.[fonte 4] Errore non paga debito.[fonte 4] Errore riconosciuto conduce alla verità.[fonte 4] Esser dotto poco vale, quando gli altri non lo sanno.[fonte 8] Èssere più torbo che non è l'acqua dei maccheroni.[fonte 8] F Fa quel che il prete dice, non quel che il prete fa.[fonte 1] Fa quello che fanno gli altri, e nessuno si farà beffe di te.[fonte 4] Faccia bella, anima bella.[fonte 4] Facile è criticare, difficile è l'arte.[33][fonte 109] Fare debiti non è vergogna, ma pagarli è questione d'onore.[fonte 4] Fare e disfare, è tutto un lavorare.[fonte 110] Fare l'amore fa bene all'amore.[fonte 111] Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.[fonte 8] Fatta la legge trovato l'inganno.[34][fonte 1] Fatti asino e tutti ti metteranno la soma.[fonte 4] Fatti di miele e ti mangieranno le mosche.[fonte 4] Fatti le ali e poi vola.[fonte 4] Febbraio, febbraietto mese corto e maledetto.[35][fonte 2] Felice non è, chi d'esserlo non sa.[fonte 64] Femmine e galline, se giran troppo si perdono.[fonte 8] Ferita d'amore non uccide.[fonte 8] Finché c'è vita c'è speranza.[fonte 1] Fino alla morte non si sa qual è la sorte.[fonte 8] Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.[fonte 1] Fidati dell'arte, ma non dell'artigiano.[fonte 4] Fino alla bara sempre s'impara.[fonte 112] Fortezza che parlamenta, è prossima ad arrendersi.[fonte 4] Fortuna cieca, i suoi acceca.[fonte 4] Fortuna instupidisce colui ch'ella favorisce.[fonte 4] Fortunato al gioco, sfortunato in amore.[fonte 4] Fra Modesto non fu mai priore.[fonte 8] Fra sepolto tesoro e occulta scienza, non vi conosco alcuna differenza.[fonte 8] Fra un usuraio e un assassino poco ci corre.[fonte 8] Frutto precoce facilmente si guasta.[fonte 8] Fuggire l'acqua sotto la grondaia.[fonte 4] Funghi e poeti: per uno buono dieci cattivi.[fonte 8] G Gallina che non razzola ha già razzolato.[fonte 113] Gallina vecchia fa buon brodo.[fonte 114] Gallo senza cresta è un cappone, uomo senza barba è un minchione.[fonte 4] Gatta inguantata non prese mai topo.[fonte 8] Gattini sventati, fanno gatti posati.[fonte 115] Gatto e donna in casa, cane e uomo fuori.[fonte 38] Gatto rinchiuso diventa leone.[fonte 8] Gatto scottato dall'acqua calda, ha paura della fredda.[fonte 4] Gelosia non mette ruga.[fonte 4] Gioco di mano gioco di villano.[fonte 1] Gioia e sciagura sempre non dura.[fonte 8] Giovani di buon cuore, indoli buone, crescono cattivi per poca educazione.[fonte 4] Giugno la falce in pugno.[36][fonte 2] Gli abiti e gli uomini presto invecchiano.[fonte 4] Gli abiti e i costumi sono mutabili.[fonte 4] Gli abiti sono freddi, ma ricevono il calore da chi li porta.[fonte 4] Gli amori nuovi fanno dimenticare i vecchi.[fonte 4] Gli eredi dell'avaro sono onnipotenti, perché possono risuscitare i morti.[fonte 4] Gli eretici rubano la parola di Dio.[fonte 4] Gli errori degli altri sono i nostri migliori maestri.[fonte 4] Gli errori non si conoscono finché non siano commessi.[fonte 4] Gli errori si pagano.[fonte 8] Gli estremi si toccano.[fonte 4] Gli idoli separano papa e imperatore.[fonte 4] Gli occhi s'hanno a toccare con le gomita.[fonte 91] Gli stolti fanno le feste e gli accorti se le godono.[fonte 116] Gli uccelli dalle stesse piume devono stare nello stesso nido.[fonte 8] Gli uomini onesti non temono né la luce, né il buio.[fonte 8] Gobba a ponente luna crescente, gobba a levante luna calante.[fonte 2] Gola degli adulatori, sepolcro aperto.[fonte 117] Gotta inossota, mai fi sanata.[fonte 118] Gran giustizia, grande offesa.[fonte 4] Grande amore, gran dolore.[fonte 8] Greco in mare, Greco in tavola, Greco non aver a far seco.[fonte 74] Gru e donne fan volentieri il nido in alto.[fonte 8] Guardalo, figlia, guardalo tutto, l'uomo senza denari com'è brutto.[fonte 4] Guardare e non toccare è una cosa da imparare.[fonte 2] Guardati da chi accende il fuoco e grida poi contro le fiamme.[fonte 4] Guardati da cane rabbioso e da uomo sospettoso.[fonte 8] Guardati da chi giura in coscienza.[fonte 8] Guardati da chi non ha cura della sua reputazione.[fonte 8] Guardati da chi ride e guarda da un'altra parte.[fonte 8] Guardati da tre cose: da cavallo focoso, da uomo infido e da donna svergognata.[fonte 8] Guardati da tutte quelle cose che possono nuocere all'anima e al corpo.[fonte 8] Guardati dai fanciulli che ascoltano: anche i piccoli vasi hanno orecchie.[fonte 8] Guardati dai matti, dagli ubriachi, dagli ipocriti e dai minchioni.[fonte 8] Guardati dai tumulti, e non sarai né testimonio né parte.[fonte 8] Guardati dal diffamare, perché le prove sono difficili.[fonte 8] Guardati dal vecchio turco e dal giovane serbo.[fonte 119] Guardati dall'ipocrisia, perché è una cattiva malattia.[fonte 8] Guardati dalla primavera di gennaio.[fonte 8] Guardati in tua vita di non dare a niun smentita.[fonte 8] Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia.[fonte 120] H Ha cento volte un uomo flemma e giudizio, alla centuna corre al precipizio.[fonte 65] Ha bel mentir chi vien da lontano.[fonte 76] Ha la giustizia in mano bilancia e spada, perché il giusto s'innalza e l'empio cada.[fonte 4] Ha più il ricco in un angolo, che il povero in tutta la casa.[fonte 8] Ha un buon sapore l'odore del guadagno.[fonte 4] Ha un coraggio da leone, quello che non fa violenza ai deboli.[fonte 8] Ho veduto assai volte un piccol male non rispettato, divenir mortale.[fonte 65] I I baci sono come le ciliegie: uno tira l'altro.[fonte 2] I cani abbaiano come sono nutriti.[fonte 4] I capponi sono buoni in tutte le stagioni.[fonte 8] I cattivi esempi si imitano facilmente, meno i buoni.[fonte 4] I debiti sono gli eredi più prossimi.[fonte 4] I denari del lotto se ne van di galoppo.[fonte 8] I denari servono al povero di beneficio, ed all'avaro di gran supplizio.[fonte 4] I desideri non riempiono il sacco.[fonte 4] I docili non hanno bisogno della verga.[fonte 8] I doni dei nemici sono pericolosi.[fonte 4] I fanciulli diventano uomini e le ragazze spose.[fonte 4] I fanciulli e gli ubriachi cadono nelle mani di Dio.[fonte 4] I figli dei gatti mangiano i topi.[fonte 8] I figli sono la ricchezza dei poveri.[fonte 18] I figli sono pezzi di cuore.[fonte 2] I fiori tanto profumano per i poveri come per i ricchi.[fonte 8] I frati non s'inchinano all'abate, ma al mazzo delle sue chiavi.[fonte 4] I gamberi son buoni nei mesi della erre.[fonte 8] I gatti e i veri uomini cadono sempre in piedi.[fonte 121] I genii si incontrano.[fonte 4] I genitori amano i figli, più che i figli i genitori.[fonte 4] I genovesi risparmiano anche sui numeri: li usano due volte.[37][fonte 122] I giovani vogliono essere più accorti dei vecchi.[fonte 4] I giuramenti degli innamorati sono come quelli dei marinai.[fonte 4] I granchi son pieni quando la luna è tonda.[fonte 8] I guai della pentola li sa il mestolo che li rimescola.[fonte 8] I ladri grandi fanno impiccare i piccoli.[fonte 4] I loquaci e i vantatori son mal veduti da tutti.[fonte 8] I matti ed i fanciulli hanno un angelo dalla loro.[fonte 8] I matti fanno le feste ed i savi le godono.[fonte 4] I medici vogliono essere vecchi, i farmacisti ricchi ed i barbieri giovani.[fonte 4] "I miei datteri sono più dolci", dice il vischio che cresce sulla palma.[fonte 8] [wellerismo] I panni sporchi si lavano in casa.[fonte 123] I paperi vogliono portare a bere le oche.[fonte 4] I parenti sono come le scarpe: più sono stretti, più fanno male.[fonte 2] I pazzi crescono senza innaffiarli.[fonte 8] I pazzi e i fanciulli possono dire quello che vogliono.[fonte 8] I pazzi per lettera sono i maggiori pazzi.[fonte 124] I pazzi si conoscono dai gesti.[fonte 8] I peccati di gioventù si piangono in vecchiaia.[fonte 8] I poeti nascono, e gli oratori si formano.[fonte 8] I poveri cercano il mangiare per lo stomaco; e i ricchi lo stomaco per mangiare.[fonte 8] I poveri hanno la salute e i ricchi le medicine.[fonte 8] I pulci di vendemmia li tiene l'uomo e non le femmine.[fonte 125] I ricchi devono consolare i poveri.[fonte 8] I rimproveri del padre fanno più che le legnate della madre.[fonte 8] I soldi non fanno la felicità.[fonte 2] I veri amici sono come le mosche bianche.[fonte 4] Il bel tempo non viene mai a noia.[fonte 9] Il ben di un anno se ne va in una bestemmia.[fonte 4] Il ben fare non è mai tardo.[fonte 4] Il bisognino fa trottar la vecchia.[fonte 2] Il bue dice cornuto all'asino.[fonte 126] Il bue mangia il fieno perché si ricorda che è stato erba.[fonte 2] Il buon ordine è figlio del disordine.[fonte 8] Il buon nocchiero muta vela, ma non tramontana.[fonte 8] Il caffè deve essere caldo come l'inferno, nero come il diavolo, puro come un angelo e dolce come l'amore.[38][fonte 127] Il caldo delle lenzuola non fa bollire la pentola.[fonte 128] Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.[fonte 8] Il cane è il miglior amico dell'uomo.[fonte 2] Il cane pauroso abbaia più forte.[fonte 4] Il cane rode l'osso perché non può inghiottirlo.[fonte 4] Il coccodrillo mangia l'uomo e poi lo piange.[fonte 8] Il colombo che rimane in colombaia è al sicuro dal falco.[fonte 8] Il colore più caro agli ebrei è il giallo.[fonte 4] Il coraggio copre l'eroe meglio che lo scudo il codardo.[fonte 8] Il corpo e l'anima ridono a chi si alza di buon mattino.[fonte 8] Il corvo piange la pecora e poi la mangia.[fonte 117] Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.[fonte 8] Il cuor magnanimo si piglia con poco amore, e il cuore dello stolto con poca adulazione.[fonte 8] Il cuore ha le sue ragioni e non intende ragione.[39][fonte 129] Il dare è onore, il chiedere è dolore.[fonte 8] Il delitto non si deve tollerare, ma anche meno si deve approvare.[fonte 4] Il denaro è il nervo della guerra.[fonte 4] Il denaro può molto, ma l'amore può tutto.[fonte 4] Il diavolo ben si lascia pigliare per la coda, ma non se la lascia strappare.[fonte 4] Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.[fonte 1] Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge.[fonte 130] Il diavolo vuol farsi cappuccino.[fonte 2] Il diavolo vuol farsi santo.[fonte 2] Il domandare è senno, il rispondere è obbligo.[fonte 8] Il dono del cattivo è simile al suo padrone.[fonte 56] Il dubbio è padre del sapere.[fonte 4] Il fare insegna a fare.[fonte 4] Il fatto non si può disfare.[fonte 4] Il ferro di cavallo che risuona, ha bisogno di un chiodo.[fonte 8] Il ferro è duro, ma il fuoco lo rende morbido.[fonte 4] Il figlio al padre s'assomiglia, alla madre la figlia.[fonte 4] Il filo sottile facilmente si strappa.[fonte 4] Il fuoco che non mi scalda, non voglio che mi scotti.[fonte 4] Il fuoco che non mi brucia, non lo spengo.[fonte 4] Il gatto ama i pesci, ma non vuole bagnarsi le zampe.[fonte 131] Il gatto brontola sempre, anche quando gode.[fonte 8] Il gatto che si è bruciato, ha paura anche dell'acqua fredda.[fonte 121] Il gatto è una tigre domestica.[fonte 8] Il gatto lecca oggi, domani graffia.[fonte 132] Il gatto non è gatto se non è ladro.[fonte 133] Il gatto non ti accarezza, si accarezza vicino a te.[fonte 134] Il generoso non ha mai abbastanza denaro.[fonte 4] Il gentiluomo chiede solo il miele, ma la gentildonna vuol anche la cera.[fonte 8] Il gioco è bello quando dura poco.[fonte 2] Il gioco, il lotto, la donna e il fuoco non si contentan mai di poco.[fonte 8] Il giudizio è opera di Dio.[fonte 4] Il grano rado non fa vergogna all'aia.[fonte 135] Il Greco dice la verità solo una volta all'anno.[fonte 4] Il lamentarsi non riempie camera vuota.[fonte 8] Il lavorare senza pregare, è una botte senza vino, e oro senza splendore.[fonte 4] Il lavoro nobilita l'uomo.[fonte 136] Il letto si chiama rosa, se non si dorme si riposa.[fonte 137] Il lotto è la tassa degli imbecilli.[fonte 8] Il lotto è un inganno continuo.[fonte 8] Il lupo non caca agnelli.[fonte 2] Il lupo perde il pelo ma non il vizio.[40][fonte 1] Il lupo quando acciuffa una pecora, ne guarda già un'altra.[fonte 4] Il magnanimo è superiore all'ingiuria, all'ingiustizia, al dolore.[fonte 8] Il magnanimo non ricorre all'astuzia.[fonte 8] Il male che non ha riparo è bene tenerlo nascosto.[fonte 4] Il male peggiore dei mali è il timore.[fonte 8] Il male viene in grandi quantità, e se ne va via a poco a poco.[fonte 4] Il matrimonio è la tomba dell'amore.[fonte 2] Il mattino ha l'oro in bocca.[fonte 138] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 139] Il medico pietoso fa la piaga puzzolente.[fonte 140] Il medico pietoso fa la piaga verminosa.[fonte 140] Il meglio è nemico del bene.[fonte 1] Il merlo ingrassa in gabbia, il leone muore di rabbia.[fonte 8] Il miele non è fatto per gli asini.[fonte 4] Il miglior tiro ai dadi è non giocarli.[fonte 4] Il molto ringraziare significa chieder dell'altro.[fonte 8] Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.[fonte 8] Il mulino di Dio macina piano ma sottile.[fonte 141] Il nano è piccolo anche se è sul campanile.[fonte 8] Il passato deve essere maestro dell'oggi.[fonte 4] Il passato non deve prendere a prestito dall'oggi.[fonte 4] Il peggior passo è quello dell'uscio.[fonte 2] Il pesce puzza dalla testa.[fonte 1] Il Piemonte è la sepoltura dei francesi.[fonte 8] Il poeta ben trova le palme, ma non i datteri.[fonte 8] Il politico bacia con la bocca, e tira calci con i piedi.[fonte 8] Il Portogallo[41] è piccolo, ma è un pezzo di zucchero.[fonte 8] Il povero non può e il ricco non vuole.[fonte 8] Il prete, dove mangia, vi canta.[fonte 142] Il prete vien cantando e va via zufolando.[fonte 143] Il prete vive ancor un anno dopo morte.[fonte 142] I suoi familiari continuano ad incassar per un anno i suoi redditi.[42] Il primo amore non si arrugginisce.[fonte 8] Il primo amore non si scorda mai.[fonte 8] Il primo anno ci si abbraccia, il secondo si fascia, il terzo anno si ha la malattia e la cattiva Pasqua.[fonte 4] Il puledro non va all'ambio, se la cavalla trotta.[fonte 144] Il ramo assomiglia al tronco.[fonte 4] Il ricco ha tanto bisogno del povero, quanto il povero del ricco.[fonte 8] Il ricco vive, il povero vivacchia.[fonte 8] Il ringraziare non fa male alla bocca.[fonte 8] Il ringraziare non paga debito.[fonte 8] Il riso abbonda sulla bocca degli stolti.[fonte 2] Il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi.[fonte 145] Il riso nasce nell'acqua ma deve morire nel vino.[fonte 8] Il sapere è di tutti.[fonte 2] Il «se» e il «ma» sono due corbellerie da Adamo in qua.[fonte 4] Il silenzio è d'oro e la parola d'argento.[fonte 1] Il sospirar non vale.[fonte 8] Il superfluo del ricco è il necessario del povero.[fonte 8] Il tatto è tattica.[fonte 8] Il tatto è tutto.[fonte 8] Il tempo è denaro.[fonte 146] Il tempo è un gran medico.[fonte 147] Il tempo scopre tutto, perché è galantuomo.[fonte 147] Il tempo vola.[fonte 147] Il termine della notte è l'inizio del giorno.[fonte 8] Il timore fa trottare anche lo zoppo.[fonte 8] Il troppo gestire è da pazzi.[fonte 8] Il troppo tirare, l'arco fa spezzare.[fonte 4] Il turco ben può divenir un dotto, ma un uomo giammai.[fonte 119] Il ventre non ha orecchie.[fonte 2] Il vero infermo è quello che non vuol esser guarito.[fonte 8] Il vino al sapore, il pane al colore.[fonte 8] Il vino è buono per chi lo sa bere.[fonte 8] Il vino è forte ma il sonno lo vince, ma più forte d'ogni cosa è la donna.[fonte 8] Il vino è il latte dei vecchi.[fonte 8] Il vino è mezzo vitto.[fonte 8] Il vino fa ballare i vecchi.[fonte 8] Il vino la mattina è piombo, a mezzodì argento, la sera oro.[fonte 8] Impara a vivere lo sciocco a sue spese, il savio a quelle altrui.[fonte 4] Impara l'arte e mettila da parte.[fonte 1] In amore e in guerra niente regole.[fonte 8] In bocca chiusa non entran mosche.[fonte 2] In Campania si inganna persino il diavolo.[fonte 8] In casa del calzolaio non si hanno scarpe.[fonte 4] In cento libbre di legge, non v'è un'oncia di amore.[fonte 148] In chiesa coi santi e in taverna coi ghiottoni.[fonte 1] In compagnia prese moglie un frate.[fonte 1] In febbraio la beccaccia fa il nido.[fonte 8] In Lazio si nasce coi sassi in mano.[fonte 8] In lunghi viaggi anche la paglia pesa.[fonte 8] In paradiso non ci si va in carrozza.[fonte 141] In Sardegna non vi son serpenti, né in Piemonte bestemmie.[fonte 8] In tanta incostanza e quantità delle cose umane, nulla, se non quello che è passato, è sicuro.[fonte 4] In terra di ciechi, beato chi ha un occhio.[fonte 36] In terra di ladri, la valigia dinanzi.[fonte 8] In vaso mal lavato, il vino è tosto guastato.[fonte 8] Ingegno e capelli, crescono soltanto con gli anni.[fonte 4] Insieme non vanno la pudicizia e la beltà.[fonte 4] Inventare è poco, diffondere l'invenzione è tutto.[fonte 4] L L'abbaiare dei cani non arriva in cielo.[fonte 4] L'abbondanza non lascia dormire il ricco.[fonte 4] L'abete che fa ombra crede di fare frutti.[fonte 4] L'abete cresce in altezza, ma la felce cresce in larghezza.[fonte 4] L'abito non fa il monaco.[43][fonte 2] L'abuso insegna il vero uso.[fonte 4] L'acqua cheta rovina i ponti.[fonte 2] L'acqua corre al mare.[fonte 149] L'acqua e il fuoco sono buoni servitori, ma cattivi padroni.[fonte 4] L'acqua fa male e il vino fa cantare.[fonte 8] L'acqua fa marcire i pali.[fonte 5] L'acqua fa venire i ranocchi in corpo.[fonte 150] L'acqua di maggio inganna il villano: par che non piova e si bagna il gabbano[44].[fonte 2] L'acqua non è fatta per sposarsi.[fonte 9] L'allegria dei cattivi dura poco.[fonte 8] L'allegria è di ogni male il rimedio universale.[fonte 4] L'allegria è il balsamo della vita.[fonte 8] L'allegria fa campare, la passione fa crepare.[fonte 8] L'allegria piace anche a Dio.[fonte 8] L'allegria scaccia ogni male.[fonte 8] L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.[fonte 8] L'altezza è mezza bellezza.[45][fonte 2] L'ambizione e la vendetta muoiono sempre di fame.[fonte 4] L'ambizione è nemica della ragione.[fonte 4] L'amore di carnevale muore in quaresima.[fonte 8] L'amore è cieco.[fonte 2] L'amore è cieco, ma vede lontano.[fonte 8] L'amore fa passare il tempo e il tempo fa passare l'amore.[fonte 8] L'amore non è bello se non è litigarello.[fonte 103] L'amore non si misura a metri.[fonte 8] L'amore passa dentro la cruna di un ago.[fonte 8] L'amore quanto più è bestia, tanto più sublime.[fonte 32] L'amore scalda il cuore e l'ira fa il poeta.[fonte 8] L'amore senza baci è pane senza sale.[fonte 8] L'animo fa il nobile e non il sangue.[fonte 8] L'anno produce il raccolto, non il campo.[fonte 4] L'apparenza inganna.[fonte 1] L'appetito non vuol salsa.[fonte 151] L'appetito vien mangiando.[fonte 1] L'arancia la mattina è oro, il giorno argento, la sera è piombo.[fonte 2] Con riferimento a chi fa fatica a digerire le arance. L'arcobaleno la mattina bagna il becco della gallina; l'arcobaleno la sera buon tempo mena.[fonte 1] L'arte non ha maggior nemico dell'ignorante.[fonte 4] L'asino e il mulattiere non hanno lo stesso pensiero.[fonte 4] L'asino non conosce la coda, se non quando non l'ha più.[fonte 4] L'assai basta e il troppo guasta.[fonte 1] L'avaro in punto di morte rimpiange i soldi spesi per la bara.[fonte 8] L'avaro lascia eredi ridenti.[fonte 4] L'avaro non dorme.[fonte 4] L'avaro non vive, vegeta.[fonte 4] L'avversità che fiacca i cuori deboli, ingagliardisce le anime forti.[fonte 8] L'eccesso degli obblighi può fare perdere un amico.[fonte 4] L'eccesso della gioia divien tristezza, e l'eccesso del vino ubriachezza.[fonte 8] L'eccezione conferma la regola.[46][fonte 1] L'eclissi di sole avviene di giorno e non di notte.[fonte 4] L'edera taciturna si arrampica in cima alla quercia.[fonte 4] L'elefante non cura il morso delle pulci.[fonte 8] L'elemosina non fa impoverire.[fonte 4] L'eloquenza del cattivo è falso acume.[fonte 8] L'Epifania tutte le feste porta via.[47][fonte 1] L'erba del vicino è sempre più verde.[48][fonte 152] L'erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re.[fonte 2] L'erba che non voglio, cresce nell'orto.[fonte 4] L'erba non cresce sulla strada maestra.[fonte 4] L'eredità paterna ai paterni, la materna ai materni.[fonte 4] L'errore che si confessa è mezzo rimediato.[fonte 4] L'errore è un cocchiere che conduce sopra una falsa strada.[fonte 4] L'errore è umano, il perdono divino.[fonte 153] L'esercizio è buon maestro.[fonte 4] L'esperienza nel mondo conduce alla diffidenza, la diffidenza conduce al sospetto, il sospetto all'astuzia, l'astuzia alla malvagità e la malvagità a tutto.[fonte 4] L'esperienza senza il sapere è meglio che il sapere senza sapienza.[fonte 70] L'estate ce la porta sant'Urbano e l'autunno san Bartolomeo.[fonte 4] L'estate davanti e l'inverno dietro.[fonte 4] L'estate di San Martino dura tre giorni e un pochinino.[49][fonte 2] L'estate per chi lavora, l'inverno per chi dorme.[fonte 4] L'estate è una schiava, l'inverno un padrone.[fonte 4] L'estate per il povero è migliore dell'inverno.[fonte 4] L'eternità è una compera lunga.[fonte 4] L'eternità non ha capelli grigi.[fonte 4] L'eterno parlatore né ode né impara.[fonte 4] L'idolo si adora finché non è infranto.[fonte 4] L'ignorante ha le ali di un'aquila e gli occhi di un gufo.[fonte 4] L'inchiostro è il mio campo, su cui posso scrivere valorosamente; la penna, il mio aratro; le parole, la mia semente.[fonte 8] L'inchiostro è nero, e tinge le dita e la reputazione.[fonte 8] L'inferno e i tribunali son sempre aperti.[fonte 4] L'ingegno viene con gli anni, e se ne va con gli anni.[fonte 4] L'ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.[fonte 8] L'ingratitudine è la mano sinistra dell'egoismo.[fonte 8] L'ingratitudine è un'amara radice da cui crescono amari frutti.[fonte 8] L'ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.[fonte 8] L'ingratitudine taglia i nervi al beneficio.[fonte 8] L'intelletto è nella testa e non negli anni.[fonte 4] L'intelletto non viene mai prima degli anni.[fonte 4] L'interesse acceca anche i galantuomini.[fonte 8] L'inverno al fuoco e l'estate all'ombra.[fonte 4] L'invidia è annessa alla felicità.[fonte 4] L'invidia è un gufo che non può sopportare la luce della prosperità degli altri.[fonte 4] L'invidia è una bestia che rode le proprie gambe, quando non ha altro da rodere.[fonte 4] L'invidia somiglia alla gramigna, che mai non muore, e da per tutto alligna.[fonte 4] L'ipocrisia intasca il denaro, e la verità va mendica.[fonte 4] L'ira senza forza, non vale una scorza.[fonte 4] L'ira turba la mente e acceca la ragione.[fonte 4] L'Italia è il paese dove corre latte e miele.[fonte 4] L'Italia è un paradiso abitato da demoni.[fonte 4] L'Italia per nascervi, la Francia per viverci e la Spagna per morirvi.[fonte 4] L'occasione fa l'uomo ladro.[fonte 1] L'occhio del padrone ingrassa il cavallo.[fonte 1] L'oggi non deve calunniare il passato.[fonte 4] L'olivo benedetto vuol trovar pulito e netto.[50][fonte 2] L'ombra di un principe dev'essere la liberalità.[fonte 4] L'ordine caccia il disordine.[fonte 8] L'ordine è pane, il disordine è fame.[fonte 8] L'orgoglio crede che il suo uovo abbia due tuorli.[fonte 8] L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.[fonte 8] L'orgoglio fa colazione con l'abbondanza, pranza con la povertà e cena con la vergogna.[fonte 154] L'orologio dell'amore ritarda sempre.[fonte 8] L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza.[fonte 2] L'ospite e il pesce dopo tre dì rincresce.[fonte 1] L'ozio è il padre di tutti i vizi.[fonte 1] L'ozio in gioventù non è la via della virtù.[fonte 4] L'uguaglianza e misurar tutti con la stessa spanna, è la legge della morte.[fonte 8] L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da bestia.[fonte 8] L'umiliazione va dietro al superbo.[fonte 8] L'umiltà è il miglior modo di evitare l'umiliazione.[fonte 8] L'umiltà è la corona di tutte le virtù.[fonte 8] L'umiltà è la madre dell'onore.[fonte 8] L'umiltà è una virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.[fonte 8] L'umiltà ottiene spesso più dell'alterigia.[fonte 8] L'umiltà sta bene a tutti.[fonte 8] L'umiltà sta bene con la castità.[fonte 8] L'unione fa la forza.[fonte 1] L'uomo avaro e l'occhio sono insaziabili.[fonte 4] L'uomo deve tenere aperta la bocca a lungo prima che c'entri un colombo arrostito.[fonte 4] L'uomo fu creato per lavorare, come l'uccello per volare.[fonte 4] L'uomo ordisce e la fortuna tesse.[fonte 1] L'uomo politico accende una candela a Dio e un'altra al diavolo.[fonte 8] L'uomo per la parola e il bue per le corna.[fonte 1] L'uomo propone e Dio dispone.[fonte 1] L'uomo propone e la donna dispone.[fonte 2] L'uomo si conosce al bicchiere.[fonte 4] L'uomo si giudica male dall'aspetto.[fonte 4] L'usura arricchisce, ma non dura.[fonte 8] L'usura è il miglior apostolo del diavolo.[fonte 8] L'usura è la figlia primogenita dell'avarizia.[fonte 8] L'usura è un assassinio.[fonte 8] L'usura è vietata da Dio.[fonte 8] L'usura veglia quando l'uomo dorme.[fonte 8] L'usuraio arricchisce col sudor dei poveri.[fonte 8] L'usuraio ha un torchio a sangue.[fonte 8] L'usuraio ingrassa andando a spasso.[fonte 8] La bestemmia gira gira torna addosso a chi la tira.[fonte 4] La buona cantina fa il buon vino.[fonte 8] La buona mamma fa la buona figlia.[fonte 4] La buona sorte ogni vile cuore fa forte.[fonte 8] La calma è la virtù dei forti.[fonte 2] La capacità si vede nelle difficoltà.[fonte 4] La carestia è il pane dell'usuraio.[fonte 4] La carne migliore è quella intorno all'osso.[fonte 4] La carne senz'osso non fa brodo.[fonte 4] La carrucola non frulla, se non è unta.[fonte 4] La cattiva sorte porta spesso buona sorte.[fonte 8] La cicala prima canta e poi muore.[fonte 8] La coda è la più lunga da scorticare.[fonte 1] La comodità fa l'uomo cattivo.[fonte 8] La compassione è la figlia dell'amore.[fonte 4] La concordia rende forti i deboli.[fonte 8] La contentezza viene dalle budella.[fonte 1] La corda troppo tesa si spezza.[fonte 1] La cupidigia rompe il sacco.[fonte 4] La dieta ogni mal quieta.[fonte 155] La difficoltà sta nell'iniziare.[fonte 4] La diffidenza aguzza gli occhi.[fonte 4] La diffidenza è la morte dell'amore.[fonte 4] La diffidenza porta più avanti della fiducia.[fonte 4] La donna a 15 anni scherza, a 20 brilla, a 25 ama, a 30 brama, a 35 sente, a 40 vuole e a 50 paga.[fonte 8] La donna bisogna praticarla un giorno, un mese e un'estate per sapere che odore sa.[fonte 8] La donna buona vale una corona.[fonte 8] La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta in chiesa, massaia in casa.[fonte 8] La donna e l'orto vogliono un sol padrone.[fonte 8] La donna ha più capricci che ricci.[fonte 8] La donna oziosa non può essere virtuosa.[fonte 8] La donna per piccola che sia, vince il diavolo in furberia.[fonte 8] La donna più sciocca vale due uomini.[fonte 8] La donna troppo in vista, è di facile conquista.[fonte 8] La fame caccia il lupo dal bosco.[fonte 1] La fame caccia il lupo dalla tana.[fonte 4] La fame spinge il lupo nel villaggio.[fonte 4] La fame condisce tutte le vivande.[fonte 4] La fame non vede la muffa nel pane.[fonte 4] La fame è cattiva consigliera.[fonte 1] La fame, gran maestra, anche le bestie addestra.[fonte 4] La fame muta le fave in mandorle.[fonte 4] La farina del diavolo va tutta in crusca.[fonte 1] La fedeltà non è mai rimeritata abbastanza, e l'infedeltà mai abbastanza.[fonte 4] La femmina è cosa mobile per natura.[fonte 4] La fine della passione è il principio del pentimento.[fonte 129] La fortuna aiuta gli audaci.[fonte 2] La fortuna del savio ha per figliola la modestia.[fonte 8] La fortuna è cieca.[fonte 2] La fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.[fonte 108] La fretta fa rompere la pentola.[fonte 8] La fretta è una cattiva consigliera.[fonte 108] La furia non fu mai buona.[fonte 4] La gallina del vicino sembra un fagiano.[fonte 152] La gatta frettolosa fece i gattini ciechi.[fonte 1] La gatta grassa fa onore alla casa.[fonte 121] La gatta, mette il piede davanti alla vacca.[fonte 156] La gatta non s'accosta alla pentola che bolle.[fonte 38] La gatta vorrebbe mangiar pesci, ma non pescare.[fonte 157] La gelosia della moglie è la via al suo divorzio.[fonte 4] La gelosia è il peggiore di tutti i mali.[fonte 4] La gelosia è una passione che cerca avidamente quel che tormenta.[fonte 4] La generosità è un muro che non si può alzare più alto di quello che arrivano i materiali.[fonte 4] La gente ricca alleva male i suoi cani, e la gente povera i suoi figlioli.[fonte 8] La gente savia non si cura di quel che non può avere.[fonte 87] La gioventù fugge, e la bellezza sfiorisce.[fonte 4] La gioventù vuol fare il suo corso.[fonte 4] La lealtà se ne è andata dal mondo e la dirittura si è messa a dormire.[fonte 4] La lega fa forte i deboli.[fonte 4] La liberalità è un muro che non si deve rizzare più alto di quello che comportino i materiali.[fonte 4] La liberalità non sta nel dare molto, ma saggiamente.[fonte 4] La libertà del povero è di lasciarlo mendicare.[fonte 4] La libertà è da Dio; le libertà, dal diavolo.[fonte 4] La libertà è più cara degli occhi e della vita.[fonte 4] La libertà fila con le sue mani il filo della sua tenda.[fonte 4] La lingua batte dove il dente duole.[fonte 1] La lingua non ha osso e sa rompere il dosso.[fonte 4] La lingua spagnola è la più amabile; quando il diavolo tentò Eva, le parlo in spagnolo.[fonte 8] La lode propria puzza, quella degli amici zoppica.[fonte 4] La luna di gennaio è la luna del vino.[fonte 2] La luna è bugiarda: quando fa la C diminuisce, e quando fa la D cresce[fonte 158] La luna non cura l'abbaiar dei cani.[fonte 2] La luna regge il lume ai ladri.[fonte 158] La luna, se non riscalda, illumina.[fonte 158] La Lombardia è il giardino del mondo.[fonte 8] La madre del peggio è sempre incinta.[fonte 159] La madre degli imbecilli è sempre incinta.[fonte 160] La madre dei fessi è sempre incinta.[fonte 160] La magnificenza spesso copre la povertà.[fonte 4] La mala erba non muore mai.[fonte 1] La mala nuova la porta il vento.[fonte 1] La malerba cresce presto.[fonte 2] La malinconia e le cure fanno invecchiare anzitempo.[fonte 4] La mercanzia rara è meglio che buona.[fonte 8] La miglior difesa è l'attacco.[fonte 1] La minestra lunga sa di fumo.[fonte 8] La modestia è il dattero che matura raramente sull'albero della ricchezza.[fonte 8] La modestia è madre d'ogni creanza.[fonte 8] La moglie è la chiave di casa.[fonte 8] La morte ci rende uguali nella sepoltura, disuguali nell'eternità.[fonte 8] La necessità aguzza l'ingegno.[fonte 2] La necessità fa più ladri che galantuomini.[fonte 8] La notte è fatta per gli allocchi.[fonte 8] La notte porta consiglio.[fonte 1] La novella non è bella, se non c'è la giuntarella.[fonte 8] La pancia del buongustaio è il cimitero dei cibi buoni.[fonte 8] La parola del ricco è simile al sole, e quella del povero è simile al vapore.[fonte 8] La pazienza è la virtù dei forti.[fonte 9] La pazienza è una buon'erba, ma non nasce in tutti gli orti.[fonte 88] La pecora che se ne va sola, il lupo la mangia.[fonte 91] La peggio ruota è quella che stride.[fonte 8] La peggior carne da conoscere è quella dell'uomo.[fonte 4] La penitenza corre dietro al peccato.[fonte 8] La pentola vuota è quella che suona.[fonte 8] La pianta si conosce dal frutto.[fonte 1] La pigrizia e l'impudicizia sono sorelle.[fonte 8] La pittura è una poesia tacita, e la poesia una pittura loquace.[fonte 8] La più bell'ora per il mangiare è quella in cui si ha fame.[fonte 8] La polenta è utile per quattro cose: serve da minestra, serve da pane, sazia e scalda le mani.[fonte 8] La povertà è priva di molte cose, l'avarizia è priva di tutto.[fonte 56] La prima acqua è quella che bagna.[fonte 1] La prima gallina che canta ha fatto l'uovo.[fonte 108] La prima eredità al primo figlio, l'ultima eredità all'ultimo figlio.[fonte 4] La provvidenza quel che toglie rende.[fonte 4] La pulce che esce di dietro l'orecchio con il diavolo si consiglia.[fonte 8] La puttana e la lattuga una stagione dura.[fonte 8] La rana è usa ai pantani, se non ci va oggi ci andrà domani.[fonte 8] La rana non morde, perché non ha denti.[fonte 8] La rana, o salta o piscia, ma mai non sbrana.[fonte 8] La razza comincia dalla bocca.[fonte 8] La roba dei pazzi è la prima ad andarsene.[fonte 8] La ruota della fortuna gira.[fonte 4] La ruota della fortuna non è sempre una.[fonte 4] La scorza fa bella la castagna.[fonte 4] La scimmia è sempre scimmia, anche vestita di seta.[fonte 8] La semplicità senza accortezza è pura pazzia.[fonte 8] La sera leoni e la mattina coglioni.[fonte 2] La sorte è come ognuno se la fa.[fonte 8] La speranza è cattivo denaro.[fonte 161] La speranza è il pane dei poveri.[fonte 2] La speranza è il patrimonio dei poveri.[fonte 2] La speranza è il sogno dell'uomo desto.[fonte 2] La speranza è l'ultima a morire.[fonte 2] La speranza è la miglior consolazione nella miseria.[fonte 161] La speranza è la miglior musica del dolore.[fonte 161] La speranza è la ricchezza dei poveri.[fonte 2] La speranza è sempre verde.[fonte 2] La speranza è un balsamo per i cuor piagati.[fonte 161] La speranza è un sogno nella veglia.[fonte 2] La speranza infonde coraggio anche al codardo.[fonte 161] La speranza ingrandisce, l'esperienza rimpicciolisce.[fonte 57] La superbia è figlia dell'ignoranza.[fonte 1] La superbia mostra l'ignoranza.[fonte 162] La superbia va a cavallo e torna a piedi.[fonte 1] La terra è madre di tutti gli uomini ed anche sepoltura.[fonte 8] La troppa umiltà vien dalla superbia.[fonte 8] La vanagloria è un fiore che mai non porta frutta.[fonte 163] La vera libertà è non servire al vizio.[fonte 4] La verità è nel vino.[fonte 8] La verità viene sempre a galla.[fonte 2] La veste copre gran difetti.[fonte 55] La via dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.[fonte 1] La vipera morta non morde seno, ma pure fa male coll'odor del veleno.[fonte 8] La virtù sta nel mezzo.[51][fonte 164] La vita è breve e l'arte è lunga.[52][fonte 55] La vita è già mezzo trascorsa anziché si sappia che cosa sia.[fonte 165] La volpe si conosce dalla coda.[fonte 4] Lamentarsi, supplicare e bere acqua è lecito a tutti.[fonte 8] Latte e vino, tossico fino.[fonte 8] Lavora come se avessi a campare ognora, adora come avessi a morire allora.[fonte 4] Lavoro non ingrassò mai bue.[fonte 4] Le allegrezze non durano.[fonte 8] Le belle penne rendono bello l'uccello.[fonte 4] Le bellezze durano fino alle porte, la bontà fino alla morte.[fonte 4] Le braccia e le mani del povero appartengono al ricco.[fonte 8] Le bugie hanno le gambe corte.[fonte 1] Le bugie sono lo scudo degli uomini dappoco.[fonte 4] Le chiacchiere non fanno farina.[fonte 1] Le colombe che rimangono in colombaia, sono sicure dal nibbio.[fonte 8] Le cose lunghe diventano serpi.[fonte 1] Le cose lunghe prendono vizio.[fonte 1] Le dita della mano sono disuguali.[fonte 8] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 4] Le donne hanno quattro malattie all'anno, e tre mesi dura ogni malanno.[fonte 8] Le bestie vanno trattate da bestie.[fonte 8] Le cattive nuove sono le prime ad arrivare.[fonte 8] Le cattive nuove volano.[fonte 1] Le chiavi ed i lucchetti non si fanno per le dita fidate.[fonte 8] Le disgrazie non vengono mai sole.[fonte 1] Le disgrazie sono come le ciliegie: una tira l'altra.[53] Le donne hanno lunghi i capelli e corti i cervelli.[fonte 166] Le donne hanno sette anime... e mezza.[fonte 8] Le donne ne sanno una più del diavolo.[fonte 2] Le donne piglian bene le pulci.[fonte 8] Le lacrime sono le armi delle donne.[fonte 4] Le leghe e le corde fradice non durano a lungo.[fonte 4] Le malattie ci dicono quel che siamo.[fonte 88] Le montagne stanno ferme, gli uomini s'incontrano.[fonte 167] Le ore del mattino hanno l'oro in bocca.[fonte 1] Le parole sono femmine e i fatti sono maschi.[fonte 1] Le piante che fruttano troppo presto, si seccano.[fonte 8] Le querce non fanno limoni.[fonte 2] Le ragazze sono d'oro, le sposate d'argento, le vedove di rame e le vecchie di latta.[fonte 8] Le rane han perso la coda perché non seppero chiedere aiuto.[fonte 8] Le rose cascano, le spine restano.[fonte 168] Le teste di legno fan sempre del chiasso.[fonte 55] Le Trentine vengono giù pollastre e se ne vanno sù galline.[fonte 8] Le vie della provvidenza sono infinite.[fonte 1] Le vie del Signore sono infinite.[fonte 1] Leggi, rileggi e pondera.[fonte 8] Lingua cheta e fatti parlanti.[fonte 4] Lo sbadiglio non vuol mentire: o che ha sonno o che vorrebbe dormire, o che ha qualche cosa che non può dire.[fonte 8] Lo scarafaggio corre sempre allo sterco.[fonte 8] Lo scimunito parla col dito.[fonte 8] Lo scorpione dorme sotto ogni lastra.[fonte 8] Lo smargiasso ciancia in guerra, il valente combatte muto.[fonte 8] Loda il gran campo e il piccolo coltiva.[fonte 169] Loda il monte e tieniti al piano.[fonte 2] Loda il pazzo e fallo saltare, se non è pazzo lo farai diventare.[fonte 8] Lontano dagli occhi, lontano dal cuore.[fonte 170] Lontan dagli occhi, lontan dal cuore.[fonte 2] Luna di grappoli a gennaio luna di racimoli a febbraio.[54][fonte 2] Lunga lingua, corta mano.[fonte 8] Lungo come la quaresima.[55][fonte 2] Luglio dal gran caldo, bevi bene e batti saldo.[fonte 16] Lungo digiuno caccia la fame.[fonte 4] Lupo non mangia lupo.[fonte 2] M Ma in premio d'amore amor si rende.[fonte 33] Maggio ortolano, molta paglia e poco grano.[fonte 16] Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà.[fonte 8] Mai gli uomini sanno essere abbastanza riconoscenti verso gli inventori.[fonte 4] Mal comune mezzo gaudio.[fonte 2] Mal può rendere ragion del proprio fatto chi lardo o pesce lascia in guardia al gatto.[fonte 65] Mal si giudica il cavallo dalla sella.[fonte 3] Male che si vuole non duole.[fonte 9] Male ignoto si teme doppiamente.[fonte 8] Male non fare, paura non avere.[fonte 2] Male voluto non fu mai troppo.[fonte 57] Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.[fonte 8] Manca tanto la pazienza ai poveri, quanto la compassione ai ricchi.[fonte 8] Mangiar molto e far buona digestione, è un privilegio che han poche persone.[fonte 8] Mano dritta e bocca monda possono andare per tutto il mondo.[fonte 4] Marinaio genovese, mercante fiorentino.[fonte 8] Martello d'oro non rompe le porte del cielo.[fonte 47] Marzo è pazzo.[fonte 16] Marzo pazzerello guarda il sole e prendi l'ombrello.[fonte 2] Marzo molle, gran per le zolle.[fonte 16] Mazza e pane fanno i figli belli; pane senza mazza fa i figli pazzi.[fonte 171] Medico vecchio e chirurgo giovane.[fonte 172] Medico vecchio e medicina nuova.[fonte 2] Chirurgo giovane e medico anziano.[56] Mediocre bestiame ben pasciuto è di maggior vantaggio che molto bestiame mal mantenuto.[fonte 173] Meglio andare a letto senza cena, che alzarsi con debiti.[fonte 4] Meglio aperto rimprovero, che odio segreto.[fonte 8] Meglio dietro agli uccelli, che dietro ai signori.[fonte 8] Meglio essere ben educato, che nascere nobile.[fonte 4] Meglio essere invidiati che compatiti.[fonte 174] Meglio fare la serva in casa propria, che la padrona in casa altrui.[fonte 4] Meglio fave in libertà, che capponi in schiavitù.[fonte 8] Meglio fringuello in man che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio fringuello in tasca che tordo in frasca.[fonte 2] Meglio il marito senz'amore, che con gelosia.[fonte 75] Meglio l'uovo oggi che la gallina domani.[fonte 1] Meglio mangiar carote in pace che molte pietanze in disunione.[fonte 8] Meglio mendicante che ignorante.[fonte 124] Meglio pane con amore, che gallina con dolore.[fonte 4] Meglio poco che niente.[fonte 1] Meglio soli che male accompagnati.[fonte 1] Meglio tardi che mai.[fonte 1] Meglio un asino vivo che un dottore morto.[fonte 1] Meglio un fiorino guadagnato, che cento ereditati.[fonte 4] Meglio un magro accordo che una grassa sentenza.[fonte 2] Meglio un morto in casa che un pisano all'uscio.[fonte 2] Meglio una festa che cento festicciole.[fonte 1] Meglio una volta arrossire che mille impallidire.[fonte 8] Meglio vivere ben che vivere a lungo.[fonte 64] Meno siamo meglio stiamo.[fonte 57] Mente lieta, vita quieta e moderata dieta.[fonte 2] Merito non conosciuto poco vale.[fonte 8] Milan può far, Milan può dir, ma non può far dell'acqua vin.[fonte 8] Mille errori sono più facilmente pronunciati che una verità.[fonte 4] Moglie e buoi dei paesi tuoi.[fonte 1] Donne e buoi dei paesi tuoi.[fonte 2] Mogli che non contraddicono e galline che facciano le uova d'oro, sono uccelli rari.[fonte 8] Moglie maglio.[fonte 1] Molte cose si giudicano impossibili a farsi prima che siano fatte.[fonte 4] Molte mani fanno l'opera leggera.[fonte 4] Molte paglie unite possono legare un elefante.[fonte 8] Molte volte la belleza più adorabile si unisce alla stupidaggine più insopportabile.[fonte 4] Molte volte si perde per negligenza quello che si è guadagnato con giustizia.[fonte 4] Molti hanno buone carte in mano, ma non le sanno giocare.[fonte 4] Molti inventano oro con la bocca ed hanno piombo alle mani e ai piedi.[fonte 4] Molti parlano d'Orlando anche se non videro mai il suo brando.[fonte 8] Molti sfuggono alla pena, ma non ai rimorsi della coscienza.[fonte 8] Molti si immaginano di avere il pulcino, che non hanno ancora l'uovo.[fonte 4] Molti si lamentano del buon tempo.[fonte 8] Molti sono i verseggiatori, pochi i poeti.[fonte 8] Molti squartano un gatto e giurano che era un leone.[fonte 8] Molti voti fanno l'abate.[fonte 4] Molto denaro, molti amici.[fonte 4] Molto fumo e poco arrosto.[fonte 1] Molto può nuocere una piccola negligenza.[fonte 8] Morire di fame in una madia di pane.[fonte 4] Morta la serpe, spento il veleno.[fonte 8] Morto un papa se ne fa un altro.[fonte 1] Mulo buon mulo, ma cattiva bestia.[fonte 8] Muore il ricco, gli fanno il funerale; muore il povero, nessuno gli dice: vale.[fonte 8] Muove la coda il cane non per te, ma per il pane.[fonte 4] N Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi.[fonte 2] Né col capretto né con l'agnello, si adopera il coltello.[fonte 8] Né di venere, né di marte non si sposa né si parte, né si dà principio all'arte.[fonte 2] Né donna né tela al lume di candela.[fonte 8] Ne uccide più la lingua che la spada.[fonte 2] Ne uccide più la gola che la spada.[fonte 2] Necessità fa legge e tribunale.[fonte 2] Negli ordini pari, i pareri sono dispari.[fonte 8] Nel bere e nel camminare si conoscono le donne.[fonte 8] Nel bosco tagliato non ci stanno assassini.[fonte 8] Nel dubbio astieniti.[fonte 2] Nel monte di Brianza, senza vin non si danza.[fonte 8] Nel paese degli zoppi, zoppicar non è vergogna.[fonte 8] Nel regno dei ciechi anche un orbo è re.[fonte 175] Nel regno dei ciechi anche un guercio è re.[fonte 175] Nel regno di Dio, poveri e ricchi sono uguali.[fonte 8] Nell'autunno non bisogna più sognare di rose e tulipani.[fonte 4] Nell'estate si deve pensare all'inverno, e nella gioventù alla vecchiaia.[fonte 4] Nell'eternità si arriva sempre in tempo.[fonte 4] Nell'inverno il pazzo sogna rose, e nell'estate il savio le raccoglie.[fonte 4] Nella botte piccola c'è il buon vino.[fonte 8] Nella felicità ragione, nell'infelicità pazienza.[fonte 8] Nella gotta, il medico non vede gotta.[fonte 176] Nelle sventure si conosce l'amico.[fonte 1] Nessuna corona è più bella di quella dell'umiltà.[fonte 8] Nessuna fortezza è così salda che non si lasci conquistare dall'oro.[fonte 4] Nessuna ingiustizia rimane impunita.[fonte 4] Nessuna mela è così bella che non abbia qualche difetto.[fonte 4] Nessuna nuova, buona nuova.[fonte 1] Nessuno è profeta in patria.[57][fonte 177] Nessuno può dare quello che non ha.[fonte 4] Nessuno può difendersi dalla beffa.[fonte 4] Ne uccide più Bacco che Marte.[fonte 4] Neve di Dicembre dura fin che dura la brina.[fonte 8] Niente è più bello di una faccia allegra.[fonte 8] Niuna guardia è migliore di quella che una donna fa a se stessa.[fonte 4] Non accettare i rimproveri o consigli da chi educare non seppe i propri figli.[fonte 4] Non aspettar che l'abete porti pomi.[fonte 4] Non basta esser galantuomo, bisogna anche esser conosciuto per tale.[fonte 8] Non bisogna fare il diavolo più nero di quello che è.[fonte 8] Non bisogna fasciarsi il capo prima di romperselo.[fonte 8] Non bisogna mai usare due pesi e due misure.[fonte 8] Non bisogna scuotere l'orzo dal sacco prima di avere il frumento.[fonte 8] Non c'è alcuno così povero che non possa aiutare, né alcuno così ricco che non abbia bisogno d'aiuto.[fonte 8] Non c'è cosa più triste sulla terra dell'uomo ingrato.[fonte 8] Non si muove foglia che Dio non voglia.[fonte 1] Non c'è affanno senza danno.[fonte 4] Non c'è Carnevale senza luna di febbraio.[fonte 2] Non c'è due senza tre.[fonte 1] Non c'è due senza tre e il quarto vien da sé.[fonte 2] Non c'è cosa così cattiva che non sia buona a qualche cosa.[fonte 4] Non c'è eretico che non abbia la sua credenza.[fonte 4] Non c'è fumo senza arrosto.[fonte 1] Non c'è gallina né gallinaccia che di gennaio l'uova non faccia.[fonte 2] Non c'è intoppo per avere, più che chiedere e temere.[fonte 178] Non c'è male senza bene.[fonte 4] Non c'è miglior cieco di quello che non vuole vedere.[fonte 4] Non c'è pane senza pena.[fonte 1] Non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire.[fonte 2] Non c'è regola senza eccezioni.[fonte 1] Non c'è rosa senza spine.[fonte 2] Non cade foglia che Dio non voglia.[fonte 1] Non ci fu mai frettoloso che non fosse pazzo.[fonte 8] Non ci rimane nessuna vigna da vendemmiare, e né meno nessuna donna da maritare.[fonte 179] Non credere a donna, quand'anche sia morta.[fonte 4] Non destare il can che dorme.[fonte 1] Non dire quattro se non l'hai nel sacco.[fonte 2] Non dire gatto se non ce l'hai nel sacco.[fonte 180] Non è arte il giocare, ma lo smettere.[fonte 4] Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.[fonte 181] Non è bene esser poeta nel villaggio.[fonte 8] Non è bene riporre denaro in una cassa di cui non si ha la chiave.[fonte 4] Non è col dire "miel, miel," che la dolcezza viene in bocca.[fonte 117] Non è contento quel che si lamenta.[fonte 8] Non è in nessun luogo chi è in ogni luogo.[fonte 4] Non è mai gran gagliardia, senza un ramo di pazzia.[fonte 8] Non è povero, se non chi si crede tale.[fonte 8] Non è sempre savio chi non sa esser qualche volta pazzo.[fonte 8] Non è sì tristo cane, che non meni la coda.[fonte 182] Non è tutto oro quel che luccica.[fonte 183] Non è tutto oro quel che riluce.[fonte 183] Non esiste amore senza gelosia.[fonte 8] Non fa la stessa viva sensazione il solletico a tutte le persone.[fonte 8] Non facendo niente, più pena si sente.[fonte 4] Non far mai bene, non avrai mai male.[fonte 8] Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.[58][fonte 2] Non fare il male ch'è peccato, non fare il bene ch'è sprecato.[fonte 1] Non fare il passo più lungo della gamba.[fonte 2] Non gira il corvo che non sia vicina la carogna.[fonte 8] Non lodare il bel giorno prima di sera.[fonte 4] Non mettere il carro davanti ai buoi.[fonte 184] Non mettere il rasoio in mano a un pazzo.[fonte 8] Non mettere un rasoio in mano a un pazzo.[fonte 185] Non mi morse mai scorpione, ch'io non mi medicassi col suo olio.[fonte 8] Non nominar la corda in casa dell'impiccato.[fonte 1] Non ogni abisso ha un parapetto.[fonte 4] Non ogni lettera va alla posta, non ogni domanda vuole risposta.[fonte 8] Non pensa il cuore quel che dice la bocca.[fonte 4] Non perde il cervello se non chi l'ha.[fonte 8] Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi.[fonte 1] Non sempre va d'accordo la campana dell'orologio con la meridiana.[fonte 8] Non serve dire «Di tal acqua non berrò».[fonte 4] Non si campa d'aria.[fonte 4] Non si comincia bene se non dal cielo.[fonte 4] Non si dà fumo senza fuoco.[fonte 4] Non si entra in Paradiso a dispetto dei Santi.[fonte 1] Non si fa niente per niente.[fonte 1] Non si fan nozze coi fichi secchi.[fonte 186] Non si finisce mai di imparare.[fonte 4] Non si insegna a nuotare ai pesci.[fonte 4] Non si legge mai libro senza imparare qualcosa.[fonte 4] Non si possono cavar le castagne dal fuoco colla zampa del gatto.[fonte 187] Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.[fonte 1] Non si può bere e fischiare.[fonte 77] Non si sa mai per chi si lavora.[fonte 4] Non si sta mai tanto bene che non si possa star meglio, né tanto male che non si possa star meglio.[fonte 8] Non sono cacciatori tutti quelli che portano il fucile.[fonte 4] Non sono uguali tutti i giorni.[fonte 4] Non ti far povero a chi non ha da farti ricco.[fonte 8] Non ti fidar d'un tratto, di grazia o di bontà.[fonte 8] Non ti vantar farfalla, tuo padre era un bruco.[fonte 8] Non tutte le ciambelle riescono col buco.[fonte 1] Non tutte le lacrime vengono dal cuor.[fonte 4] Non tutti i matti rompono i piatti.[fonte 8] Non tutti i pazzi stanno al manicomio.[fonte 8] Non tutti possiamo abitare in piazza.[fonte 8] Non tutti sono ammalati quelli che sono in letto.[fonte 8] Non tutti sono infelici come credono.[fonte 8] Non tutti sono infermi quelli che gridano ahi![fonte 8] Non tutti vedono la serpe che sta nascosta sotto l'erba.[fonte 4] Non tutto il male vien per nuocere.[fonte 2] Non v'è mai tanta pace in convento, come quando i frati portano tonache uguali.[fonte 8] Non vi è donna senza amore.[fonte 8] Non vi è inganno che non si vinca con l'inganno.[fonte 4] Non vi è lino senza resca, né donna senza pecca.[fonte 4] Non vi è nulla che ricercando non si possa penetrare.[fonte 4] Non vi è peggior burla che la vera.[fonte 4] Non vi fu mai gatta che non corresse ai topi.[fonte 8] Non vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso.[fonte 1] Non vo' dormire né fare la guardia.[fonte 4] Notte, amore e vino fanno spesso l'uomo meschino.[fonte 8] Novembre vinaio.[fonte 16] Nulla è così buono che a lungo andare non venga a noia.[fonte 8] Nuovo padrone, nuova legge.[fonte 58] Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.[fonte 8] Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.[fonte 8] O O taci, o di' cosa migliore del silenzio.[59][fonte 8] Occhio che piange cuore che duole.[fonte 2] Occhio che piange cuore che sente.[fonte 2] Occhio non vede, cuore non duole.[fonte 2] Occhio per occhio, dente per dente.[60][fonte 2] Olio di lucerna ogni mal governa.[fonte 2] Oggi a me domani a te.[fonte 2] Oggi allegria, domani malinconia.[fonte 8] Oggi creditore, domani debitore.[fonte 8] Oggi fresco e forte, domani nella morte.[fonte 8] Oggi in figura, domani in sepoltura.[fonte 8] Oggi in pace, domani in guerra.[fonte 8] Oggi mercante, domani mendicante.[fonte 8] Oggi pioggia e doman vento, tutto cambia in un momento.[fonte 8] Ogni Abele ha il suo Caino.[fonte 4] Ogni animale per non morir s'aiuta.[fonte 188] Ogni bel gioco dura poco.[fonte 1] Ogni bella scarpa diventa ciabatta, ogni bella donna diventa nonna.[fonte 8] Ogni bene infine svanisce, ma la fama non perisce.[fonte 4] Ogni cosa ch'è rara, suol essere più cara.[fonte 8] Ogni disuguaglianza, l'amore uguaglia.[fonte 4] Ogni erba si conosce dal seme.[fonte 4] Ogni fatica merita ricompensa.[fonte 4] Ogni gatta ha il suo febbraio.[fonte 8] Ogni giorno non è festa.[fonte 4] Ogni giorno non si fanno nozze.[fonte 4] Ogni grillo si crede cavallo.[fonte 8] Ogni lasciata è persa.[fonte 1] Ogni legno ha il suo tarlo.[fonte 1] Ogni lucciola non è un fuoco.[fonte 8] Ogni lumaca vede le corna delle altre.[fonte 189] Ogni matto fa il suo atto.[fonte 8] Ogni medaglia ha il suo rovescio.[fonte 1] Ogni pazzo vuol dar consiglio.[fonte 8] Ogni pelo ha la sua ombra.[fonte 4] Ogni popolo ha il governo che si merita.[fonte 190] Ogni promessa è debito.[fonte 1] Ogni rana si crede gran dama.[fonte 8] Ogni rana si crede una Diana.[fonte 8] Ogni scimmia trova belli i suoi scimmiotti.[fonte 8] Ogni serpe ha il suo veleno.[fonte 8] Ogni simile ama il suo simile.[fonte 1] Ogni uccello fa il suo verso.[fonte 8] Ogni uccello canta il suo verso.[fonte 191] Ognun patisce del suo mestiere.[fonte 192] Ognuno trascura per sé i godimenti dell'arte sua, quasi venutigli a noia perché ci ha guardato dentro: il cuoco non è mai ghiotto, il calzolaio va colle scarpe rotte. Ognun per sé e Dio per tutti.[fonte 1] Ognun vede le proprie oche come cigni.[fonte 8] Ognuno all'arte sua e il lupo alle pecore.[fonte 2] Ognuno ama sentirsi lodare.[fonte 4] Ognuno che ha un gran coltello, non è un boia.[fonte 4] Ognuno fa degli errori.[fonte 4] Ognuno faccia il suo mestiere.[fonte 2] Ognuno ha i suoi gusti.[fonte 193] Ognuno ha il suo affanno.[fonte 8] Ognuno ha la sua croce.[fonte 1] Ognuno tira l'acqua al suo mulino.[fonte 2] Orto, uomo morto.[fonte 169] Orzo e paglia fanno il caval da battaglia.[fonte 8] Ospite raro ospite caro.[fonte 1] Ottobre mostaio.[fonte 16] P Paese che vai usanza che trovi.[fonte 1] Paga il giusto per il peccatore.[fonte 1] Pancia affamata, vita disperata.[fonte 4] Pancia piena non crede a digiuno.[fonte 1] Pancia vuota non sente ragioni.[fonte 1] Parla all'amico come se ti avesse a diventar nemico.[fonte 8] Pane finché dura, vino con misura.[fonte 194] Parenti, amici, pioggia, dopo tre giorni vengono a noia.[fonte 8] Parenti serpenti.[fonte 1] Parenti serpenti, cugini assassini, fratelli coltelli.[fonte 2] Parere e non essere è come filare e non tessere.[fonte 2] Parlare francese come una vacca spagnola.[fonte 4] Passata la festa gabbato lo santo.[fonte 1] Passato il fiume scordato il santo.[fonte 4] Patti chiari, amici cari.[fonte 2] Patti chiari amicizia lunga.[fonte 2] Pazzi e buffoni hanno pari libertà.[fonte 8] Pazzo è colui che bada ai fatti altrui.[fonte 8] Pazzo è quel prete che biasima le sue reliquie.[fonte 195] Pazzo per natura, savio per scrittura.[fonte 8] Peccati vecchi, penitenza nuova.[fonte 8] Peccato celato è mezzo perdonato.[61][fonte 196] Peccato confessato è mezzo perdonato.[fonte 8] Per amore anche una donna onesta, può perdere la testa.[fonte 8] Per chi vuol esser libero, non c'è catena che tenga.[fonte 8] Per essere amabili, bisogna amare.[fonte 9] Per fare l'elemosina non manca mai la borsa.[fonte 4] Per il galantuomo non ci sono leggi.[fonte 8] Per il saggio le lacrime delle donne sono come gocce salate.[fonte 4] Per imparare qualche cosa, non è mai troppo tardi.[fonte 4] Per l'abbondanza del cuore la bocca parla.[fonte 4] Per l'oro, l'abate vende il convento.[fonte 4] Per la santa Candelora[62] dell'inverno siamo fora, ma se piove o tira vento, dell'inverno siamo dentro.[fonte 2] Per la santa Candelora se tempesta o se gragnola dell'inverno siamo fora; ma se è sole o solicello siamo solo a mezzo inverno.[fonte 2] Per natura tutti gli uomini sono simili; per l'educazione diventano interamente diversi.[fonte 4] Per ogni civetta che si sente cantare sul tetto, non bisogna metter lutto.[fonte 8] Per quanto alletti la bellezza di un fiore, nessuno lo coglie se ha cattivo odore.[fonte 4] Per san Lorenzo la noce è fatta.[fonte 2] Per San Lorenzo la noce si spacca nel mezzo.[fonte 197] Per san Lorenzo piove dal cielo carbone ardente.[fonte 2] Per Santa Caterina [25 novembre], le bestie fuori dalla cascina.[fonte 198] Per trovare ingiustizie non occorrono lanterne.[fonte 4] Per un chiodo si perde un ferro, e per un ferro un cavallo.[fonte 8] Per un punto Martin perse la cappa.[63][fonte 2] Per una scopa formano un mercato tre donne e assordan tutto il vicinato.[fonte 8] Perde le lacrime chi piange davanti al giudice.[fonte 4] Perdona a tutti, ma non a te.[fonte 199] Perdonare è da uomini, scordare è da bestie.[fonte 199] Pesce che va all'amo, cerca d'esser gramo.[fonte 8] Pianta a cui spesso si muta luogo, non prende vigore.[fonte 4] Piccola fiamma non fa gran luce.[fonte 8] Piccola pietra rovesciar può il carro.[fonte 8] Piccola scintilla può bruciar la villa.[fonte 8] Piccole ruote portano gran pesi.[fonte 8] Piccolo ago scioglie stretto nodo.[fonte 8] Piglia il bene quando viene, ed il male quando conviene.[fonte 8] Piove sempre sul bagnato.[fonte 2] Pisa, pesa per chi posa.[fonte 8] Più alta la condizione, più si deve essere umili.[fonte 8] Più briccone, più fortunato.[fonte 4] Più il fiume è profondo, più scorre il silenzio.[fonte 4] Più si chiacchiera, meno si ama.[fonte 8] Piuttosto un asino che porti, che un cavallo che butti in terra.[fonte 87] Poca brigata vita beata.[fonte 1] Poeta si nasce, oratori si diventa.[fonte 200] Poeti e Santi campano tutti quanti.[fonte 201] Poeti, pittori e pellegrini a fare e a dire sono indovini.[fonte 8] Polenta e latte bollito, in quattro salti è digerito.[fonte 8] Portare frasconi a Vallombrosa.[fonte 4] Prendi la bruna per amante e la bionda per moglie.[fonte 8] Preghiera di gatto e brontolio di pulce non arrivano in cielo.[fonte 131] Preghiera umile entra in cielo.[fonte 8] Presto e bene, raro avviene.[fonte 8] Prete spretato e cavolo riscaldato, non fu mai buono.[64] Prevedere per provvedere e prevenire.[fonte 202] Prima della morte non chiamare nessuno felice.[fonte 4] Prima di ammogliarsi bisogna fare il nido.[fonte 4] Prima di andare alla pesca esamina ben bene la tua rete.[fonte 8] Prima di domandare, pensa alla risposta.[fonte 203] Prima lusingare e poi graffiare, è arte dei gatti.[fonte 8] Prodigo e bevitor di vino, non fa né forno né mulino.[fonte 8] Pugliesi, cento per forca e un per paese.[fonte 8] Puoi ben drizzare il tenero virgulto, non l'albero già fatto adulto.[fonte 4] Putto in vino e donna in latino non fecero mai buon fine.[fonte 4] Q Qual proposta tal risposta.[fonte 1] Qualche intervallo il pazzo ha di saviezza, qualche intervallo il savio ha di stoltezza.[fonte 8] Qualche volta anche Omero sonnecchia.[fonte 204] Quale uccello, tale il nido.[fonte 205] Quand'anche si trapiantassero in paradiso, i cardi non porterebbero mai rose.[fonte 8] Quando arriva la gloria svanisce la memoria.[fonte 2] Quando c'è l'esercito, si trova anche il generale.[fonte 4] Quando c'è la salute c'è tutto.[fonte 57] Quando canta la rana, la pioggia non è lontana.[fonte 8] Quando ci sono molti galli a cantare non si fa mai giorno.[fonte 16] Quando è alta la passione, è bassa la ragione.[fonte 206] Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.[fonte 8] Quando fischia l'orecchio dritto, il cuore è afflitto; quando il manco, il cuore è franco.[fonte 8] Quando gli eretici si accapigliano, la chiesa ha pace.[fonte 4] Quando il colombo ha il gozzo pieno, le vecce gli sembrano amare.[fonte 8] Quando il culo è avvezzo al peto non si può tenerlo cheto.[fonte 2] Quando il fanciullo è satollo anche il miele non ha più gusto.[fonte 4] Quando il fanciullo ha sette anni, la ragione spunta in lui.[fonte 207] Quando il gatto lecca il pelo viene acqua giù dal cielo.[fonte 38] Quando il gatto non c'è i topi ballano.[fonte 1] Quando il gatto non può arrivare al lardo dice che è rancido.[fonte 8] Quando il gatto si lecca e si sfrega le orecchie con la zampina, pioverà prima che sia mattina.[fonte 8] Quando il gozzo è pieno, le ciliegie sono acerbe.[fonte 8] Quando il grano ricasca, il contadino si rizza.[fonte 57] Quando il grano va a male, bisogna ringraziare Dio per la paglia.[fonte 8] Quando il lardo è divorato, poco val cacciare il gatto.[fonte 8] Quando il mandorlo non frutta, la semente ci va tutta.[fonte 8] Quando il padrone zoppica, il servo non va diritto.[fonte 8] Quando il sole splende, non ti curar della luna.[fonte 8] Quando il tempo è chiaro in autunno, vento nell'inverno.[fonte 4] Quando in autunno sono grassi i tassi e le lepri, l'inverno è rigoroso.[fonte 4] Quando l'amore è a pezzi non c'è alcuna colla che lo riappiccichi.[fonte 8] Quando l'angelo diventa diavolo, non c'è peggior diavolo.[fonte 4] Quando l'avaro muore, il danaro respira.[fonte 4] Quando l'Italia suona la chitarra, la Spagna le nacchere, la Francia il liuto, l'Irlanda l'arpa, la Germania la tromba, l'Inghilterra il violino, l'Olanda il tamburo, nulla è uguale ad esse.[fonte 8] Quando la barba fa bianchino, lascia la donna e tienti al vino.[fonte 208] Quando la cicala canta in settembre, non comprare gran da vendere.[fonte 8] Quando la fame entra dalla porta, l'amore esce dalla finestra.[fonte 8] Quando la grazia di Dio è nel cuore, gli occhi nuotano nell'allegria.[fonte 4] Quando la guerra comincia s'apre l'inferno.[fonte 4] Quando la neve si scioglie si scopre la mondezza.[fonte 1] Quando la pera è matura casca da sé.[fonte 1] Quando la pera è matura bisogna che caschi.[fonte 16] Quando la radice è tagliata, le foglie se ne vanno.[fonte 8] Quando la ragione dorme, il cuore scappuccia.[fonte 8] Quando la luna è bianca il tempo è bello; se è rossa, vuole dire vento; se pallida, pioggia.[fonte 4] Quando la rana canta il tempo cambia.[fonte 8] Quando non dice niente, non è dal savio il pazzo differente.[fonte 8] Quando non sai, frequenta in domandare.[fonte 209] Quando piove col sole le vecchie fanno l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole il diavolo fa l'amore.[fonte 1] Quando piove col sole le streghe fanno l'amore.[fonte 2] Quando piove col sole si marita la volpe.[65][fonte 2] Quando piove d'agosto, piove miele e mosto.[fonte 8] Quando si è in ballo bisogna ballare.[fonte 1] Quando si è patito si è inclini a compatire.[fonte 4] Quando si mangia non si parla.[fonte 57] Quando sono fidanzate hanno sette mani e una lingua, quando sono sposate hanno sette lingue e una mano.[fonte 8] Quando un amico chiede, non v'è domani.[fonte 210] Quando un povero dà al ricco, Dio ride in cielo.[fonte 8] Quando una cosa è accaduta, poco vale lamentarsi.[fonte 8] Quando viene la forza, il diritto è morto.[fonte 4] Quanto più è alto il monte, tanto più profonda la valle.[fonte 4] Quanto più la rana si gonfia, più presto crepa.[fonte 8] Quanto più se n'ha, tanto più se ne vorrebbe.[fonte 4] Quattro lumi non s'accendono.[fonte 2] Quattro nuove invenzioni vanta il mondo: scorticare senza coltello, arrostire senza fuoco, lavare senza sapone, e invece degli occhiali vedere attraverso le dita.[fonte 4] Quel ch'è innato per natura, si porta alla sepoltura.[fonte 8] Quel ch'è raro, è stimato.[fonte 8] Quel che con l'acqua mischia e guasta il vino, merita di bere il mare a capo chino.[fonte 8] Quel che è disposto in cielo, conviene che sia.[fonte 4] Quel, che è fatto, è fatto, e non si può fare, che fatto non sia.[fonte 211] Quel che è fatto è reso.[fonte 2] Quel che non può l'ìngegno, può spesso la fortuna.[fonte 4] Quel che non puoi pagare col denaro, pagalo almeno col ringraziamento.[fonte 8] Quel che è gioco per il forte per il debole è morte.[fonte 8] Quel che si dà al ricco, si ruba al povero.[fonte 8] Quel che si fa a fin di bene, non dispiace mai a Dio.[fonte 4] Quel che si fa all'oscuro, appare al sole.[fonte 4] Quel che supera il mio intelletto, lo lascio stare.[fonte 4] Quella bellezza l'uomo saggio apprezza che dura sempre, fino alla vecchiaia.[fonte 4] Quelli che hanno meno ingegno, ne hanno da vendere più degli altri.[fonte 4] Quello che abbaia è il cane sdentato.[fonte 4] Quello che deve durare per l'eternità non si deve scrivere con l'acqua.[fonte 4] Quello che è accaduto ieri, può accadere oggi.[fonte 4] Quello che è passato, è scordato.[fonte 4] Quello che ha da essere, sarà.[fonte 4] Quello che non avviene oggi, può avvenire domani.[fonte 4] Quello che non è stato può essere.[fonte 4] Quello che non può l'intelletto, può spesso il caso.[fonte 4] Quello che puoi fare oggi, non rimandarlo a domani.[fonte 4] Quello che si dice all'eco nel bosco, il bosco lo ripete.[fonte 4] Quello che si impara in gioventù, non si dimentica mai più.[fonte 4] Quello che si usa non si scusa.[fonte 212] Quello è mio zio, che vuole il bene mio.[fonte 4] Quello è un fanciullo accorto che conosce suo padre.[fonte 4] Questo devi sapere che la gelosia di un Arabo è la stessa gelosia.[fonte 4] Quieta non muovere.[fonte 16] R Raglio d'asino non giunse mai al cielo.[fonte 2] Rana di palude sempre si salva.[fonte 8] Rane, malsane.[fonte 8] Render nuovi benefici all'ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.[fonte 8] Ricchezza mal disposta a povertà s'accosta.[fonte 8] Ricchezze nell'India, sapere in Europa, e pompa fra gli ottomani.[fonte 8] Ricchi e poveri non portano che un lenzuolo all'altro mondo.[fonte 8] Ricco e grande fortuna potrà farti, ma mai il comune senso potrà darti.[fonte 4] Ricorda che il nemico può diventarti amico.[fonte 8] Ride ben chi ride ultimo.[fonte 2] Ride ben chi ride l'ultimo.[fonte 2] Roba calda il corpo non salda.[fonte 213] Roba d'altri, tutti scaltri.[fonte 4] Roma, a chi nulla in cent'anni, a chi molto in tre dì.[fonte 8] Roma non fu fatta in un giorno.[fonte 2] Roma santa, Aquila bella, Napoli galante.[fonte 214] Rosso di mattina, pioggia vicina.[fonte 215] Rosso di sera bel tempo si spera; rosso di mattina acqua vicina.[fonte 2] Rosso di sera, buon tempo si spera; rosso di mattina mal tempo si avvicina.[fonte 1] Rosso e giallaccio pare bello ad ogni faccia, verde e turchino si deve essere più che bellino.[fonte 216] Rovo, in buona terra covo.[fonte 169] S Salta chi può.[fonte 1] San Benedetto[66] la rondine sotto il tetto.[fonte 2] San Lorenzo dalla gran calura.[fonte 2] San Pietro abbracciato, Cristo negato.[fonte 4] San Silvestro [31 dicembre] l'oliva nel canestro.[fonte 2] Sangue giovane sempre spavaldo.[fonte 8] Sasso che rotola non fa muschio.[fonte 47] Pietra che rotola non fa muschio.[fonte 2] Sbagliando s'impara.[fonte 1] Scalda più l'amore che mille fuochi.[fonte 8] Scherza coi fanti e lascia stare i Santi.[fonte 1] Scherzando intorno al lume che t'invita, farfalla perderai l'ali e la vita.[fonte 65] Scherzo di mano, scherzo di villano.[fonte 1] Gioco di mano, gioco di villano.[fonte 1] Schiena di mulo, corso di barca, buon per chi n'accatta.[fonte 8] Scusa non richiesta, accusa manifesta.[67][fonte 217] Se ari male, peggio mieterai.[fonte 47] Se fossero buoni i nipoti non si leverebbero dalla vigna.[fonte 218] Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse.[fonte 167] Se i gatti sapessero volare, le beccacce sarebbero rare.[fonte 131] Se il coltivatore non è più forte della su' terra questa finisce per divorarlo.[fonte 47] Se il ladro lasciasse il suo rubare, non ci sarebbero più forche.[fonte 4] Se il giovane sapesse di quanto ha bisogno la vecchiaia, chiuderebbe spesso la borsa.[fonte 4] Se il padre di famiglia è miope, i servi sono ciechi.[fonte 8] Se il piede destro è zoppo, Dio rafforza il sinistro.[fonte 8] Se il poeta s'erige a oratore predicherà agli orecchi e non al cuore.[fonte 8] Se il primo bottone hai fatto essere secondo, tutti sbagliati saranno da cima a fondo.[fonte 4] Se il re sputa sopra un abete si chiama subito abete reale.[fonte 4] Se il ricco conoscesse la fame del povero, gli darebbe del suo pane.[fonte 8] Se il ringraziare costasse denaro, molti se lo terrebbero in tasca.[fonte 8] Se il tuo gatto è ladro non scacciarlo di casa.[fonte 8] Se il virtuoso è povero, il lodarlo non basta; il dovere primo è d'aiutarlo.[fonte 8] Se la pazzia fosse dolore, in ogni casa si sentirebbe stridere.[fonte 8] Se le lattughe lasci in guardia alle oche, al ritorno ne troverai ben poche.[fonte 219] Se ne vanno gli amori e restano i dolori.[fonte 4] Se nessuno sa quel che sai, a nulla serve il tuo sapere.[fonte 8] Se non è zuppa è pan bagnato.[fonte 1] Se non hai mai rubato, la parola ladro non è per te un'ingiuria.[fonte 4] Se occhio non mira, cuor non sospira.[fonte 8] Se ognun spazzasse da casa sua, tutta la città sarebbe netta.[fonte 220] Se piovesse oro, la gente si stancherebbe a raccoglierlo.[fonte 8] Se son rose fioriranno.[fonte 1] Se ti vuoi nutrire bene, fai ballare i trentadue.[fonte 8] Se un fratello compie un omicidio, gli altri non sono responsabili.[fonte 4] Se vuoi che t'ami, fa' che ti brami.[fonte 8] Se vuoi portare l'uomo a incretinire, fallo ingelosire.[fonte 4] Segui il filo e troverai il gomitolo.[fonte 4] Senza denari non canta un cieco.[fonte 1] Senza denari non si canta messa.[fonte 1] Senza umiltà tutte le virtù sono vizi.[fonte 8] Sempre ti graffierà chi nacque gatto.[fonte 8] Senza umanità non vi è né virtù, né vero coraggio, né gloria durevole.[fonte 8] Seren d'inverno e nuvolo d'estate, non ti fidare.[fonte 4] Sette in un colpo! disse quel sarto che aveva ammazzato sette mosche.[fonte 8] [wellerismo] Settembre, l'uva è fatta e il fico pende.[fonte 16] Si bacia il fanciullo a causa della madre, e la madre a causa del fanciullo.[fonte 4] Si deve alzare di buon'ora chi vuol contentare i suoi vicini.[fonte 8] Si dice il peccato, ma non il peccatore.[fonte 2] Si mantiene un esercito per mille giorni, e non se ne fa uso che per un momento.[fonte 4] Si parla del diavolo e spuntano le corna.[fonte 130] Si può conoscere la tua opinione dal tuo sbadigliare.[fonte 8] Si può vivere senza fratelli ma non senza amici.[68] Si stava meglio quando si stava peggio.[69][fonte 2] Sia l'astrologo che l'indovina ti portano alla rovina.[fonte 4] Sicuro come il pane.[fonte 4] Sin che si vive, s'impara sempre.[fonte 4] Sol gente di mal'affare, bestie e botte, van fuori di notte.[fonte 221] Son padrone del mondo oggi le donne e cedon toghe e spade a cuffie e gonne.[fonte 8] Sono meglio cento beffe che un danno.[fonte 4] Sono sempre gli stracci che vanno all'aria.[fonte 1] Sopra l'albero caduto ognuno corre a fare legna.[fonte 4] Sopra ogni vino, il greco è divino.[fonte 8] Sotto la neve pane, sotto l'acqua fame.[fonte 1] Spesso a chiaro mattino, v'è torbida sera.[fonte 222] Spesso chi commette un'ingiustizia, ne subisce una peggiore.[fonte 4] Spesso vince più l'umiltà che il ferro.[fonte 8] Sposa bagnata sposa fortunata.[fonte 223] Stretta la foglia, larga la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Larga la foglia, stretta la via dite la vostra che ho detto la mia.[fonte 2] Stringe più la camicia che la gonnella.[fonte 4] Studia non per sapere di più, ma per sapere meglio degli altri.[fonte 224] Studio in gioventù, onore alla vecchiaia.[fonte 4] Sulla pelle della serpe nessuno guarda alle macchie.[fonte 8] Superbia povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio.[fonte 8] T T'annoia il tuo vicino? Prestagli uno zecchino.[fonte 4] Tagliare i capelli con la pentola.[fonte 225] Tagliarli male. Tal lascia l'arrosto che poi brama il fumo.[fonte 4] Tale padre, tale figlio.[70][fonte 2] Tanti galli a cantar non fa mai giorno.[fonte 1] Tanti idoli, tanti templi.[fonte 4] Tanti pochi fanno un assai.[fonte 226] Tanto fumo e poco arrosto.[fonte 2] Tanto l'amore quanto il fuoco devono essere attizzati.[fonte 8] Tanto l'amore quanto la minestra di fagioli vogliono uno sfogo.[fonte 8] Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.[fonte 1] Tempo chiaro e dolce a capodanno, assicura bel tempo tutto l'anno.[fonte 8] Tenga bene a mente un bugiardo quando mente.[fonte 4] Tentar non nuoce.[fonte 1] Terra assai, terra poca.[fonte 169] Terra bianca, tosto stanca.[fonte 227] Terra coltivata raccolta sperata.[fonte 2] Terra nera buon grano mena.[fonte 2] Testa di lucertola, collo di gru, gambe di ragno, pancia di vacca, groppa di baldracca.[fonte 8] Testa di pazzo non incanutisce mai.[fonte 8] Tinca di maggio e luccio di settembre.[fonte 8] Tinca in camicia, luccio in pelliccia.[fonte 8] Tira più un pelo di fica che cento paia di buoi.[fonte 2] Tira più un capello di donna che cento paia di buoi.[fonte 8] Tolta la causa, cessato l'effetto.[fonte 8] Tondi l'agnello e lascia il porcello.[fonte 8] Torinesi e Monferrini, pane, vino e tamburini.[fonte 8] Tra cani non si mordono.[fonte 1] Tra i due litiganti il terzo gode.[fonte 1] Tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare.[fonte 1] Tra l'incudine e il martello, mano non metta chi ha cervello.[fonte 4] Tra moglie e marito non mettere il dito.[fonte 1] Tradimento piace assai, traditor non piace mai.[fonte 148] Trattar male il povero è il disonor del ricco.[fonte 8] Tre cose cacciano l'uomo di casa: fumo, goccia e femmina arrabbiata.[fonte 4] Tre cose fanno l'uomo ammalato: amore, vino e bagno.[fonte 8] Tre cose simili: prete, avvocato e morte. Il prete toglie dal vivo e dal morto; l'avvocato vuol del diritto e del torto; e la morte vuole il debole e il forte.[fonte 142] Tre cose sono rare: un buon melone, un buon amico e una buona moglie.[fonte 8] Tre sono le meraviglie, Napoli, Roma e la faccia tua.[fonte 228] Trenta monaci e un abate non farebbero bere un asino per forza.[fonte 4] Triste e guai, chi crede troppo e chi non crede mai.[fonte 8] Triste quel cane che si lascia prendere la coda in mano.[fonte 8] Triste quell'estate, che ha saggina e rape.[fonte 8] Tromba di culo, sanità di corpo.[fonte 213] Troppa manna, nausea.[fonte 8] Troppa modestia è orgoglio mascherato.[fonte 8] Troppe soddisfazioni tolgono ogni voglia.[fonte 8] Troppi cuochi guastano la cucina.[fonte 1] Troppo povero e troppo ricco fa ugual disgrazia.[fonte 8] Tu scherzi col tuo gatto e l'accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi.[fonte 8] Turchi e Tartari, flagelli dei popoli.[fonte 229] Tutta la strada non fallisce il saggio che, accortosi a metà, corregge il viaggio.[fonte 4] Tutte le cose sono difficili prima di diventar facili.[fonte 70] Tutte le strade portano a Roma.[fonte 1] Tutte le volpi si ritrovano in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volpi si rivedono in pellicceria.[fonte 2] Tutte le volte che si ride si toglie un chiodo dalla cassa.[fonte 230] Tutti del pazzo tronco abbiamo un ramo.[fonte 8] Tutti i fiumi vanno al mare.[fonte 1] Tutti i giorni sono buoni per andare a caccia. ma non per prendere uccelli.[fonte 4] Tutti i guai son guai, ma il guaio senza pane è il più grosso.[fonte 1] Tutti i gusti son gusti.[fonte 1] Tutti i mestieri danno il pane.[fonte 231] Tutti i nodi vengono al pettine.[fonte 1] Tutti i peccati mortali sono femmine.[fonte 8] Tutti i salmi finiscono in gloria.[fonte 1] Tutti siamo figli di Adamo ed Eva.[fonte 190] Tutto ciò che dura a lungo annoia.[fonte 8] Tutto è bene quel che finisce bene.[71][fonte 1] Tutto il cervello non è in una testa.[fonte 4] Tutto il mondo è paese.[72][fonte 1] Tutto quello che è bianco non è farina.[fonte 4] Tutto s'accomoda fuorché l'osso del collo.[fonte 31] U Uccellin che mette coda vuol mangiare a tutte l'ore.[fonte 2] Uccello raro ha nido raro.[fonte 8] Ucci ucci, sento odor di cristianucci.[fonte 2] Umiltà e cortesia adornano più di una veste tessuta d'oro.[fonte 8] Un bel tacer non fu mai scritto.[73][fonte 2] Un'anima magnanima consulta le altre; un'anima volgare disprezza i consigli.[fonte 8] Un'oncia di allegria vale più di una libbra di tristezza.[fonte 232] Un'ora di contento sconta cent'anni di tormento.[fonte 233] Un abete non fa foresta.[fonte 4] Un bell'abito è una lettera di raccomandazione.[fonte 4] Un buon abate loda sempre il suo convento.[fonte 4] Un buon principio va sempre a buon fine.[fonte 4] Un cattivo libro ha spesso un buon titolo, ed una fronte onesta, un cervello ribaldo.[fonte 4] Un cuor magnanimo vuol sempre il bene, anche se il premio mai non ottiene.[fonte 8] Un esercito senza generale è come un corpo senz'anima.[fonte 4] Un fido amico, e ricchezze ben acquistate son due cose rare.[fonte 8] Un fratello aiuta l'altro.[fonte 4] Un granello fa traboccare la bilancia.[fonte 4] Un granello di polvere fa scoppiare tutta la bomba.[fonte 4] Un ladro non ruba sempre, ma bisogna guardarsi da lui.[fonte 4] Un lume è più presto spento che acceso.[fonte 4] Un male tira l'altro.[fonte 4] Un padre campa cento figli e cento figli non campano un padre.[fonte 2] Un pazzo ne fa cento.[fonte 8] Un piccolo buco fa affondare un gran bastimento.[fonte 8] Un povero virtuoso val più di un ricco vizioso.[fonte 8] Una bella barba e un cuor valente adornano l'uomo.[fonte 4] Una bella giornata non fa estate.[fonte 4] Una bella lacrima trova facilmente un fazzoletto che la asciughi.[fonte 4] Una bugia ha bisogno di sette bugie.[fonte 4] Una buona risata si trasforma tutta in buon sangue.[fonte 232] Una ciliegia tira l'altra.[fonte 2] Una cosa tira l'altra.[fonte 16] Una estate vale più di dieci inverni.[fonte 4] Una parola tira l'altra.[fonte 2] Una e buona.[fonte 16] Una ma buona.[fonte 16] Una fa, due stentano, ma a tre ci vuol la serva.[fonte 8] Una Fenice fra le donne è quella, che altra donna confessa essere bella.[fonte 8] Una mano lava l'altra e tutte e due lavano il viso.[fonte 1] Una mela al giorno leva il medico di torno.[fonte 2] Una ne paga cento.[fonte 1] Una ne paga tutte.[fonte 1] Una rondine non fa primavera.[fonte 1] Un fiore non fa giardino.[fonte 4] Un fiore non fa primavera.[fonte 4] Una volta corre il cane e una volta la lepre.[fonte 1] Una volta per uno non fa male a nessuno.[fonte 1] Uno semina, l'altro raccoglie.[fonte 72] Uno si fa la sorte da sé, l'altro la riceve bell'e fatta.[fonte 8] Uomo a cavallo, sepoltura aperta.[fonte 2] Uomo avvisato mezzo salvato.[fonte 1] Uomo da nessuno invidiato, è uomo non fortunato.[fonte 4] Uomo di vino, non vale un quattrino.[fonte 8] Uomo morto non fa più guerra.[fonte 234] Uomo senza quattrini è un morto che cammina.[fonte 2] Uomo solitario, o angelo o demone.[fonte 235] Uomo zelante, uomo amante.[fonte 4] L'uomo misero è un morto che cammina.[fonte 2] Uovo di un'ora, pane di un giorno, vino di un anno, donna di quindici e amici di trent'anni.[fonte 8] V Va' in piazza vedi e odi, torna a casa bevi e godi.[fonte 236] Va più di un asino al mercato.[fonte 4] Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.[fonte 8] Val più una messa in vita che cento in morte.[fonte 4] Vale più la pratica che la grammatica.[fonte 1] Vale più un fatto che cento parole.[fonte 237] Vale più un gusto che un casale.[fonte 1] Vale più un testimone di vista che cento d'udito.[fonte 2] Vale più uno a fare.[fonte 16] Vanga e zappa non vuol digiuno.[fonte 47] Vanga piatta poco attacca, vanga ritta terra ricca, vanga sotto ricca il doppio.[fonte 2] Vecchi doni vogliono nuovi ringraziamenti.[fonte 8] Vecchiaia d'aquila, giovinezza d'allodola.[fonte 4] Vedere e non toccare è una cosa da crepare.[fonte 2] Vedere per credere.[fonte 238] Vento fresco mare crespo.[fonte 239] Ventre pieno non crede a digiuno.[fonte 16] Ventre vuoto non sente ragioni.[fonte 16] Vesti un legno, pare un regno.[fonte 41] Vi sono dei matti savi, e dei savi matti.[fonte 8] Vicino alla chiesa lontano da Dio.[fonte 2] Vicino alla serpe c'è il biacco.[fonte 8] Vigna nel sasso e orto in terren grasso.[fonte 240] Vincere un ambo al lotto è un malefizio, che più accresce la speranza al vizio.[fonte 8] Vino amaro, tienilo caro.[fonte 8] Vino battezzato non vale un fiato.[fonte 8] Vino battezzato, non va al palato.[fonte 8] Vino dentro, senno fuori.[fonte 8] Vino di fiasco la sera buono e la mattina guasto.[fonte 8] Vino e sdegno fan palese ogni disegno.[fonte 8] Vino non è buono che non rallegra l'uomo.[fonte 8] Violenza non dura a lungo.[fonte 241] Vivi e lascia vivere.[fonte 1] Vizio di natura fino alla fossa dura.[fonte 2] Vizio di natura, fino alla morte dura.[fonte 242] Voglia di lavorar saltami addosso, lavora tu per me che io non posso.[fonte 243] Voglio piuttosto un asino che mi porti, che un cavallo che mi getti in terra.[fonte 4] Volpe che dorme, ebreo che giura, donna che piange, malizie sopraffine colle frange.[fonte 4] Note  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Matteo, 6, 34.  La locuzione latina gutta cavat lapidem (letteralmente "la goccia perfora la pietra") venne utilizzata da Tito Lucrezio Caro, Publio Ovidio Nasone e Albio Tibullo. Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Titolo di un'opera di Achille Campanile del 1930, passato a proverbio e modo di dire comune.  Cfr. Petrarca: «La vita el fin, e 'l dí loda la sera».  Cfr. Giacomo Leopardi: «Amore, | amor, di nostra vita ultimo inganno, | t'abbandonava».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Giovanni Verga, I Malavoglia.  Slogan pubblicitario degli anni Ottanta.  Cfr. Gesù, Discorso della Montagna: «Cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rimetti la spada nel fodero, perché tutti quelli che mettono mano alla spada periranno di spada».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Giovanni Battista Rossi, Conferenze popolari per gli uomini nel tempo degli esercizi spirituali, Tappi, Torino, 1896, p. 164.  Citato nel film Riso amaro.  Citato in Dizionario Italiano Olivetti, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Libro di Osea: «E poiché hanno seminato vento | raccoglieranno tempesta».  Cfr. attribuite a Papa Bonifacio VIII: «Qui tacet, consentire videtur».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Cristoforo Poggiali, Proverbj, motti e sentenze ad uso ed istruzione del popolo, 1821: «Chi dà a credenza, molte merci spaccia; | Ma un presto fallimento si procaccia».  Cfr. Appio Claudio Cieco, Sententiae: «Quisque faber fortunae suae.»  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  La frase è attribuita (Niccolò Machiavelli, Istorie fiorentine, II, 3; Giovanni Villani, Nuova Cronica, VI, 38) a Mosca dei Lamberti che, nel 1215, a Firenze, convinse così gli Amidei a uccidere Buondelmonte de' Buondelmonti; dal delitto nacquero le fazioni dei guelfi e dei ghibellini. Citato anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri (Inferno, 28, 106-108): Gridò: "Ricordera' ti anche del Mosca, | che disse, lasso!, 'Capo ha cosa fatta', | che fu mal seme per la gente tosca". È possibile che Mosca dei Lamberti adattò al momento un proverbio già noto ai suoi tempi (Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921); secondo l'Accademia della Crusca (Dizionario della lingua italiana, 1827) corrisponderebbe al latino «Factum infectum fieri nequit».  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Matteo: «Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Philippe Néricault Destouches, Le Glorieux, atto II, scena V: «La critique est aisée, et l'art est difficile.».  Cfr. «Facta lex inventa fraus.»  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Riferito all'uso di numeri civici di colore nero per le abitazioni e rosso per gli esercizi commerciali.  Cfr. Michail Aleksandrovič Bakunin: «Il caffè, per esser buono, deve essere nero come la notte, dolce come l'amore e caldo come l'inferno».  Cfr. Blaise Pascal: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Nei dialetti siciliani e nel napoletano l'arancia viene chiamata portogallo.  La spiegazione è in Strafforello, vol. III, p. 329.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Veste da lavoro usata, specialmente in Toscana, da contadini e operai.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. Ippocrate: «La vita è breve, l'arte è lunga, l'occasione è fugace, l'esperienza è fallace, il giudizio è difficile».  Citato in Dizionario Italiano, dizionario-italiano.it.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  itato in Dizionario Italiano Olivetti.  Cfr. Gesù, Vangelo secondo Luca: «Nessun profeta è ben accetto in patria».  Cfr. Etica della reciprocità.  Cfr. anche Salvator Rosa, iscrizione riportato su un autoritratto: «Aut tace | aut loquere meliora | silentio.».  Questo detto, ripreso dal Libro dell'Esodo («occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido»), è chiamato Legge del taglione.  Il proverbio compare in una novella del Decameron di Giovanni Boccaccio (la quarta della prima giornata). Cfr. Focus storia n. 49, novembre 2010, p. 74.  2 febbraio: in tale giorno la Chiesa cattolica celebra la presentazione al Tempio di Gesù (Luca 2,22-39), popolarmente chiamata festa della Candelora, perché in questo giorno si benedicono le candele, simbolo di Cristo. La festa è anche detta della Purificazione di Maria, perché, secondo l'usanza ebraica, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva andare al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre.  Cfr. voce dedicata su Wikipedia.  Citato in Vocabolario degli accademici della Crusca, vol II, parte 2, Tipografia Galileiana di M. Cellini e c., Firenze, 1863, p. 726.  Una leggenda simile esiste anche in Giappone: i demoni-volpe (le kitsune) preferirebbero celebrare i loro matrimoni sotto la pioggia mentre splende il sole; il regista Akira Kurosawa ne prese spunto per il primo episodio (Raggi di sole nella pioggia) del film Sogni (1990).  21 marzo, prima della riforma del calendario liturgico del 1969.  Cfr. Proverbio latino medievale: Excusatio non petita, accusatio manifesta.  Citato in Macfarlane, p. 256.  Attribuita a Francesco Domenico Guerrazzi.  Cfr. Libro di Ezechiele: «Ecco, ogni esperto di proverbi dovrà dire questo proverbio a tuo riguardo: Quale la madre, tale la figlia».  Titolo di una commedia di William Shakespeare, scritta fra il 1602 e il 1603.  Cfr. Petronio Arbitro, Satyricon, 45, 4.  Cfr. Iacopo Badoer: «Un bel tacer | mai scritto fu». Fonti  Citato ne Il nuovo Zingarelli.  Citato in Lapucci.  Citato in Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Cisalpino-Goliardica, 1984.  Citato in Donato.  Citato in Max Pfister, Lessico etimologico italiano, vol. 3, Reichert, 1987.  Citato in Schwamenthal, § 14.  Citato in Schwamenthal, § 29.  Citato in Selene.  Citato in Marino Ferrini, I proverbi dei nonni, Il Leccio, 2002³.  Citato in Schwamenthal, § 52.  Citato in Schwamenthal, § 78.  Citato in Schwamenthal, § 85.  Citato in Schwamenthal, § 122.  Citato in Schwamenthal, § 123.  Citato in Schwamenthal, § 131.  Citato in Vocabolario della lingua italiana.  Citato in Schwamenthal, § 170.  Citato in Macfarlane, p. 118.  Citato in Schwamenthal, § 278.  Citato in Schwamenthal, § 235.  Citato in Schwamenthal, § 242.  Citato in Schwamenthal, § 243.  Citato in Schwamenthal, § 255.  Citato in Schwamenthal, § 281.  Citato in Schwamenthal, § 281.  Citato in Schwamenthal, § 288.  Citato in Schwamenthal, § 290.  Citato in Schwamenthal, § 290.  Citato in Castagna 1866, p. 137.  Citato in Schwamenthal, § 317.  Citato in Vezio Melegari, Manuale della barzelletta, Mondadori, Milano, 1976, p. 35.  Citato in Macfarlane, p. 352.  Citato in Francesco Protonotari, Nuova antologia di scienze, lettere ed arti, volume settimo, Direzione della nuova antologia, Firenze, 1868, p. 454.  Citato in Grisi, p. 34.  Citato in Daniela Schembri Volpe, 101 perché sulla storia di Torino che non puoi non sapere, Newton Compton Editori, 2018, p. 121. ISBN 978-88-227-2521-9  Citato in Pescetti, p. 123.  Citato in Grisi, p. 254.  Citato in Paronuzzi, p. 68.  Citato in Schwamenthal, § 585.  Citato in Giulio Franceschi, Proverbi e modi proverbiali italiani, Hoepli, 1908.  Citato in Macfarlane, p. 83.  Citato in Grisi, p. 24.  Citato in Schwamenthal, § 768.  Citato in Schwamenthal, § 804.  Citato in Schwamenthal, § 805.  Citato in Volpini, p. 137.  Citato in Francesco Picchianti, Proverbi italiani, A. Salani, 1886.  Citato in Schwamenthal, § 848.  Citato in Schwamenthal, § 854.  Citato in Schwamenthal, § 878.  Citato in Schwamenthal, § 886.  Citato in Castagna 1866, p. 172.  Citato in Grisi, p. 113.  Citato in Schwamenthal, § 906.  Citato in Augusto Arthaber, Dizionario comparato di proverbi e modi proverbiali, Hoepli, 1972.  Citato in Macfarlane, p. 276.  Citato in Temistocle Franceschi, Atlante paremiologico italiano, Edizioni dell'Orso, 2000.  Citato in Macfarlane, p. 214.  Citato in Schwamenthal, § 1066.  Citato in Grisi, p. 11.  Citato in Macfarlane, p. 171.  Citato in Amadeus Voldben, Il giardino della saggezza, Amedeo Rotondi, 1967.  Citato in Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini, Dizionario della lingua italiana, 1872, Unione Tipografico-Editrice Torinese, vol. IV, p. 369.  Citato in Macfarlane, p. 281.  Citato in Grisi, p. 106.  Citato in Schwamenthal, § 1324.  Citato in Schwamenthal, § 1365.  Citato in Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 583.  Citato in Grisi, p. 247.  Citato in Macfarlane, p. 194.  Citato in Schwamenthal, § 1541.  Citato in Emanuel Strauss, Concise Dictionary of European Proverbs, Routledge, 2013.  Citato in Macfarlane, p. 112.  Citato in Giuseppe Giusti, Dizionario dei proverbi italiani.  Citato in Macfarlane, p. 364.  Citato in Macfarlane, p. 299.  Citato in Macfarlane, p. 122.  Citato in Schwamenthal, § 1742.  Citato in Schwamenthal, § 1744.  Citato in Schwamenthal, § 1753.  Citato in Schwamenthal, § 1754.  Citato in Schwamenthal, § 1762.  Citato in Schwamenthal, § 1788.  Citato in Schwamenthal, § 1796.  Citato in Filippo Moisè, Storia della Toscana dalla fondazione di Firenze fino ai nostri giorni, V. Batelli e compagni, 1848, p. 73  Citato in Schwamenthal, § 1821.  Citato in Macfarlane, p. 476.  Citato in Macfarlane, p. 399.  Citato in Schwamenthal, § 1933.  Citato in Alfani, p. 75.  Citato in Macfarlane, p. 103.  Citato in Schwamenthal, § 1994.  Citato in Schwamenthal, § 2034.  Citato in Schwamenthal, § 2035.  Citato in Schwamenthal, § 2047.  Citato in Castagna 1866, p. 56.  Citato in Schwamenthal, § 2142.  Citato in Paola Guazzotti e Maria Federica Oddera, Il Grande dizionario dei proverbi italiani, Zanichelli, 2006.  Citato in Schwamenthal, § 2168.  Citato in Grisi, p. 145.  Citato in Schwamenthal, § 2245.  Citato in Schwamenthal, § 2253.  Citato in Valter Boggione, Chi dice donna, POMBA, 2005.  Citato in Schwamenthal, § 2357.  Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, VII Grav - Ing, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1972, p. 331.  Citato in Macfarlane, p. 144.  Citato in Grisi, p. 62.  Citato in Donalda Feroldi, Elena Dal Pra, Dizionario analogico della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2011. 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ISBN 8883530527  Citato in Schwamenthal, § 2555.  Citato in Macfarlane, p. 411.  Citato in Schwamenthal, § 2248.  Citato in Schwamenthal, § 2779.  Citato in Schwamenthal, § 2780.  Citato in Grisi, p. 130.  Citato in Luigi Pozzoli, Sul respiro di Dio. Commento alle letture festive. Anno B, Paoline, Milano, 1999, p. 14.  Citato in Schwamenthal, § 3129.  Citato in Grisi, p. 265.  Citato in Grisi, p. 270.  Citato in Macfarlane, p. 412.  Citato in Grisi, p. 303.  Citato in Macfarlane, p. 311.  Citato in Schwamenthal, § 2350.  Citato in Ann H. Swenson, Proverbi e modi proverbiali, Nerbini, 1931.  Citato in Grisi, p. 109.  Citato in Ugo Rossi-Ferrini, Proverbi agricoli, I Fermenti, 1931.  Citato in Grisi, p. 39.  Citato in Schwamenthal, § 3271.  Citato in Castagna 1866, p. 18.  Citato in Carlo Giuseppe Sisti, Agricoltura pratica della Lombardia, Milano, 1828, p. 99.  Citato in Schwamenthal, § 3296.  Citato in Schwamenthal, § 3528.  Citato in Florio, lettera N.  Citato in Schwamenthal, § 3566.  Citato in Schwamenthal, § 3630.  Citato in Castagna 1866, p. 75.  Citato in Paronuzzi, p. 66.  Citato in Schwamenthal, § 3674.  Citato in Pescetti, p. 105. Anche in Arthur Schopenhauer, Aforismi sulla saggezza della vita, Parenesi e massime, 29.  Citato in Schwamenthal, § 3691.  Citato in Schwamenthal, § 3723.  Citato in Grisi, p. 191.  Citato in Schwamenthal, § 3761.  Citato in Schwamenthal, § 3770.  Citato in Grisi, p. 270.  Citato in Schwamenthal, § 3952.  Citato in Macfarlane, p. 310.  Citato in Schwamenthal, § 3992.  Citato in Alfani, p. 102.  Citato in Schwamenthal, § 4019.  Citato in Schwamenthal, § 4130.  Citato in La scienza pratica: dizionario di proverbi e sentenze che a utile sociale raccolse il padre Lorenzo da Volturino, Quaracchi: Tipografia del Collegio di S.Bonaventura, Firenze, 1894, p. 457.  Citato in Focus storia n. 49, novembre 2010, p. 74.  Citato in Schwamenthal, § 4306.  Citato in Schwamenthal, § 4352.  Citato in Grisi, p. 197.  Citato in Schwamenthal, § 4498.  Citato in Schwamenthal, § 4499.  Citato in Piero Angela, A cosa serve la politica?, Mondadori, Milano, 2011, p. 145. ISBN 978-88-04-60776-2  Citato in Schwamenthal, § 4568.  Citato in Macfarlane, p. 95.  Citato in Schwamenthal, § 4615.  Citato in Macfarlane, p. 390.  Citato in Grisi, p. 224.  Citato in Schwamenthal, § 4698.  Citato in Schwamenthal, § 4757.  Citato in Macfarlane, p. 255.  Citato in Pescetti, p. 98.  Citato in Schwamenthal, § 4850.  Citato in Augusta Forconi, Le parole del corpo. Modi di dire, frasi proverbiali, proverbi antichi e moderni del corpo umano, SugarCo, 1987.  Citato in Castagna 1866, p. 136.  Citato in Castagna 1866, p. 35.  Citato in Castagna 1866, p. 24.  Citato in Schwamenthal, § 5051.  Citato in Castagna 1866, p. 8.  Citato in Grisi, p. 78.  Citato in Schwamenthal, § 5147.  Citato in Schwamenthal, § 5314.  Citato in Grisi, p. 254.  Citato in Schwamenthal, § 5385.  Citato in Grisi, p. 269.  Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, XII Orad - Pere, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1984, p. 1065.  Citato in Schwamenthal, § 5454.  Citato in Schwamenthal, § 5513.  Citato in Castagna 1866, p. 73.  Citato in Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo, ovvero, Dizionario universale dei proverbi, Volume III, A. F. Negro, 1883, p. 701.  Citato in Schwamenthal, § 5620.  Citato in Schwamenthal, § 5630.  Citato in Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi. Dall'antica saggezza popolare detti e massime per ogni occasione, Piemme, 1997, p. 12.  (EN) Citato in Jerzy Gluski, Proverbs. Proverbes. Sprichworter. Proverbi. Proverbios. Poslovitsy. A comparative book of English, French, German, Italian, Spanish and Russian proverbs with a Latin appendix, Elsevier Pub. Co., 1971, p. 114.  Citato in Schwamenthal, § 5721.  Citato in Macfarlane, p. 267.  Citato in Novo vocabolario della lingua italiana, vol. I-II, coi tipi di M. Cellini e C., 1870, p. 312.  Citato in Schwamenthal, § 5765.  Citato in Schwamenthal, § 5795.  Citato in Schwamenthal, § 5817.  Citato in Castagna 1866, p. 39.  Citato in Macfarlane, p. 138.  Citato in Schwamenthal, § 5924.  Citato in Schwamenthal, § 5932. Bibliografia Augusto Alfani, Proverbi e modi proverbiali, Tipografia e Libreria Salesiana, Torino, 1882. Niccola Castagna, Proverbi italiani, Antonio Metitiero, Napoli, 1866. Niccola Castagna, Proverbi italiani, pe' tipi del Commend. Gaetano Nobile, Napoli, 1869. Elena Donato, Gianni Palitta, Dizionario dei proverbi, L.I.BER. progetti editoriali, Genova, 1998. John Florio, Giardino di ricreatione, appresso Thomaso Woodcock, Londra, 1591. Francesco Grisi, Il grande libro dei proverbi, Piemme, 1997. ISBN 88-384-2710-0 Carlo Lapucci, Dizionario dei proverbi italiani, Mondadori, 2007. David Macfarlane, The Little Giant Encyclopedia of Proverbs, Sterling, New York, 2001. ISBN 0-08069-7489-3 Alessandro Paronuzzi, José e Renzo Kollmann, Non dire gatto..., Àncora Editrice, Milano, 2004. ISBN 88-514-0219-1 Orlando Pescetti, Proverbi italiani. Raccolti, e ridotti sotto a certi capi, e luoghi comuni per ordine d'alfabeto, Compagnia degli Aspiranti, Verona, 1603. Riccardo Schwamenthal e Michele L. Straniero, Dizionario dei proverbi italiani e dialettali, BUR, 2005. ISBN 978-88-58-65738-6 Annarosa Selene, Dizionario dei proverbi, Pan libri, 2004. ISBN 8872171903 Carlo Volpini, 516 proverbi sul cavallo, Ulrico Hoepli, Milano, 1896. Aa. Vv., Il nuovo Zingarelli, Zanichelli, 1983. Nicola Zingarelli, Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli Editore, Bologna, 1973. Gustavo Strafforello, La sapienza del mondo: ovvero, Dizionario universale dei proverbi di tutti i popoli,, vol. III, Augusto Federico Negro, Torino, stampa 1883. Voci correlate Modi di dire italiani Scioglilingua italiani Categoria: Proverbi dell'Italia. Massimo Baldini. Keywords: linguaggio, Campanellese, lingua utopica, fantaparola – phanta-parabola, il proverbio italiano, amici, implicatura proverbiale, proverbi romani, proverbi italiani, lezioni di filosofia del linguaggio, con D. Antiseri, indice, grice – filosofia analica, parte I: filosofia analitica Austin e Grice, parte II tipi di linguaggio.  baldini — implicatura proverbiale — i amici — das mystisch — filosofia italiana della moda maschile italiana — haircuts — journalese — journal of the Royal Association of Philosophy — lingua utopica — Campanellese — Empedocle filosofo poeta — Lucrezio filosofo poeta — Parmenide filosofo poeta — Eraclito l’oscuro — vallisneri — fantaparola — gargarismo — trabocchetta — rumore — ingorgo — aforismo — Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldini” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790817480/in/dateposted-public/

 

Grice e Baldinotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I like Baldinotti; Speranza thinks he is a Griceian, just to oppose to the Italian received view that he is Lockeian! But I say, he is MORE than either! Baldinotti can quote from  Rousseau, and the French authors that Locke never cared about! And most importantly, he can SIMPLIFY and need not appeal to Anglo-Saxonisms as Locke does (what does it mean that a ‘word’ STANDS for ‘an idea’?” --.” Grice: “In fact, as Speranza showed at Oxford, one can organize a tutorial on the philosophy of language (he won’t though – he hardly organises!)  just using Balidonotti’s rough Latin of first chapter of ‘De vocibus’!”  “All the material I rely on in my Oxford 1948 talk on ‘meaning’ for the Philosophical Society can be found there: ‘vox’ significat affectus animae artificialiter, lachrymal significat affectum animae naturaliter --.” Grice: “Unless she is a crocodile, as Speranza remarks!” --  Tutore di metafisica nel ginnasio di Mantova, pavia, padova. -- Altre opere: “De recta humanae mentis institutione”;  Historiae philosphica prima, et expeditissima adumbratio -- Operationum mentis analysis -- De elementis humanarum cognitionum -- de perceptione et ideas, earumque adnexis -- de idearum affectionibus, et in primis de realitate, abstractione, universalitate earumdem -- de simplicitate, compositione, relatione idearum -- de idearum clartitate, et distinctione, veritate, et perfectione -- DE VOCIBUS -- DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS -- DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM, ET IDEARUM IFLUXU -- DE USU, ET ABUSU VERBORUM -- DE VERBORUM INTERPRETATIONE -- DE MULTIPLICITI SCRIBENDI RATIONE. -- De humana cognitione -- Humana cognitionis analysis -- de PROPOSITIONIBUS -- de gradibus humana cognitionis -- De cognitione probabili -- De cognitionum realitate -- De extensione humanarum cognitionum -- De impedimentis humanarum cognitionum -- de humanarum cognitionum instrumentis --  De mentis magnitudine, et perspicacitate augenda -- De analysi, et definitione -- de ratiocinio et demonstratione -- De nonnullis argumentorum generibus -- De inductione et analogia -- De methodo generatim -- De methodo analytica -- De methodo synthetica -- De principiis -- De hypothesibus -- De ratione coniectandi probabilia -- De fontibus humanarum cognitionum -- de conscientia -- de ratione -- De concursu rationis, et revelationis -- De sensibus, deque recto eorum usu -- De cognitionibus, et erroribus sensuum -- De observatione, et experientia -- de auctoritate -- De testibus oculatis, et auritis -- De traditione et monumentis -- De historia -- De librorum authenticitate,sinceritate, suppositione, interpolatione, corruptione, et de interpretationibus -- de arte hermeneutica -- “Tentamen”; “De metaphysca generali liber unicum” De existente et possibili, et deiis, quae qua tenus tale est, ad utrumque pertinent -- De identitate, similitudine, distinctione -- De composito, simplici, uno -- De infinito -- De spatio -- De tempore -- De causa -- De non nullis impropriis causarum generibus -- APPENDIX: De Kantii philosophandi ratione et placitis, ut ad metaphysicam generalem referuntur. S. Gori Savellini, Cesare Baldinotti in "Dizionario Biografico degli Italiani", Istituto dell'Enciclpopedia Italiana, Roma. E. Troilo, Un maestro di Rosmini a Padova, Cesare Baldinotti in: "Memorie e documenti per la storia della Padova", Padova, 1922, v. 1,  427–441.  Cesare Baldinotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. DE VOCIBUS. Voces nostrum studium,et operam expostulare,fuit iam suo loco (V. Introd.) observatum.Quae cum sint idearum nostrarum signa, horum tradenda prima divisio est', qua in naturalia, et artifi cialia distinguuntur. Signum naturale cum re significata habet nexum ex eius natura derivatum; artificiale vero ex hominum institutione, et arbitrio aliquam rem significat: lacrymae sunt doloris signum naturale, voces signum idearum artificiale. Non erit porro alienum de naturalibus signis advertere, homines non raro ad errorem trahi, dum ex illisrem significatam inferunt: sunt enim haec signa, vel effectus, qui caussas, vel caussae quae effectus indicant,ut in signis rerum futurarum. Iidem autem effectus nunc ab una,nunc ab alia caussa oriun tur;neceadem caussa eosdem semper effectusgignit; sed multa sunt, quae causarum actionem determinant, suspendunt, et etiam omnino mutant. Non igitur necessario, et semper SIGNUM NATURALE rem certam innuit; sed a multi spendet, quod eo una potius,quam alia ostendatur. SIGNA AFFECTUUM ANIMI SUNT NATURALIA. Eos tamen non semper denotant,et ille in perpetuo errore versaretur, qui de affectibus ex eorum signis statueret. Sed ad voces revertamur, quarum origo, indoles, vis, in ideas et mentis operationes, influxus, usus, abusus, interpretatio leviter attingenda. Quin imo Reid Rech. sur. l'Entend. tom. I. p.147. arbitratur, eas, quas dicimus causas, esse tantum RERUM SIGNA.Videmus dumtaxat, quae dam hunc inter se nexum habere, ut si unum praecedat, aliud illico subsequatur. Id tantum statuere possumus; non vero in eo, quod prae cedit respectu illius, quod subsequitur, causalitatem, ut aiunt, inesse, cum haec nullaratione ostendatur. Inter eas quae non prorsus inutiliter attinguntur, commemorari possunt potissimum nominum divisiones, ad quarum normam nomen in enunciatione, vel est subiectum de quo aliquid effertur, vel est praedicatum quod effertur, vel est concretum, remque significat cum sua forma, vel est ab. Voces INSTITUTIONIS esse signa nempe ARTIFICIALIA, nec necessarium habere NEXUM CUM REBUS, ad evidentiam probantmuti, et linguarum varietas. Nam si haberent, organo tantum vocis impedito, sermonis nullus esset usus, et quae apud omnes eadem sunt, iis demetiam nominibus appellarentum. Mira autem est non rerum, sed verborum diversitas; et muti sunt ii, qui surditat elaborant. Nunc vero videamus, an facultates humanae vocibus AD RES SIGNIFICANDAS INSTITUENDIS sint pares. An videlicet possint homines linguam aliquam condere. Animi affectus, sensusque vividi doloris et voluptatis naturalibus quibusdam signis coniunguntur, iisdemque manifestantur: homines haec facile possunt artificialia reddere, sinempe observent affectus, quos indicant, nec ea tantum edant impellente natura, sed consulto, ut quae experiuntur, ceteris manifestent. Quae signa clamoribus non articulatis, habitu vultus, et gestibus continentur, atque actionis, quam vocant, linguam conficiunt. Usu autem constat facilem, expeditam secretam idearum COMMUNICATIONEM hac lingua non obtineri, distantia, et interposito corpore impediri. Sensim igitur ab ea recedere coguntur homines, ad eamque feruntur, quae vocis distinctionibus pititur. Hanc ut instituant clamores naturales in primis pro stractum solamque formam exprimit, vel est categorematicum quod solum et per se aliquid notat, vel est syncatagorematicum quod ab alio avulsum nihil certi repraesentat, vel categoricum quod rem categoria comprehensam obiicit. Sed de his satis, sapiens est non qui multa, sed qui utilia novit. Negat P. Lamy in Trat. de Ar. log.; et Rousseau disc. sur. l’ineg. parmi les Hom. parum abesse censet, quin demonstratum sit, fieri numquam posse, ut lingua ulla suam ab hominibus originem habeat. Ita etiam A. Encycl. A. lang. His e diametro se se oppouunt Epicurei, quorum hac super re doctrinam Lucretius l.5. de Nat. rerum exposuit. Diodorus Siculus lib. I. Bibl. quod nobis possibile, et hypotheticum est, factum habet, omnesque linguas humanum fuisse inventum putat. Nuperrime in Diss. de ling. orig. ab A. Berol. an. praemio donata Herder contendit linguas in universum non divinae, sed humanae prorsus esse institutionis. De hac lingua V. Condil. Gram. part. 1. lib. 1. Sinensium lingua hanc videtur originem habuisse, ea constat ex monosyllabis 328., quae pronunciationo variata otficiunt SIGNA, (V. Condil.    100 -- trahunt, et simul iungunt, rerum etiam externarum sonos referunt, et imitantur (1), unde voces oriuntur, quae elevatione et depressione multum distantes aliquo modo gestuum et clamorum vim exprimunt (2). Atque ita verborum dstinctioni consultum, quantum patitur vocis et auditus organum rude adhuc et inexercitatum. Subtilius, qui haec disputant, quorum etiam aures delicatiores, similitudinem quamdam inveniunt inter impressionem a rebus, et a verbis excitatam. Eamque prolatis ex. gr. vocibus "crux", "mel",  "vepres", "furens", "turbidus", "languidus" distincte sentiunt. Hinc multae voces (3). Multae etiam facultate, qua pollemus, per metaphoras sive transferentiam omnia explicandi, et associandi insensibiles ideas sensibilibus. Revera verba, quae res insensibiles referunt, metaphorica sive transrelata omnino sunt. Perpetuo autem usu nomina propria evasere, et vetustate multorum etymologia sensibilis ita evanuit, ut res pror sus in sua SPIRITUALITATE relinquant (4). Quin immo eadem verba solum confugiendo ad metaphoras sive transferentiam poterant fabricari. Externa namque forma carent, etsono res insensibiles, unde earum no mina desumantur. Ac certe per imagines solum et similitudines id, quod experimur, aliis, qui illud ipsum non experiuntur, possumus explicare. Traité des connois. hum. t. II.) Alii monosyllaba Sinensium numerant 330. Freret sur la lang, des Chin. 214., et signa inde componunt 54509. et 80000. Haec loquendi ratio supponit iudicium aurium subtilissimum.V. Soave Compendio di Lock. l. III. Ap. al c.I. Hoc facile sibi suadeat quisquis rerum, quae sonorae sunt, nomina advertat ex gr. "ululare", "hinnire", "sibilus", "tonitrus", "stridor", "murmur". Observat Warburthon Ess. sus les Hierogl. actionis lingua, inventis iam vocibus, homines usos fuisse, Orientales praesertim, quorum alacritas, et imaginatio vehemens hunc exitum etiam requirit. Atque exempla permulta ex historia tum sacra, tum profana hanc in rem profert. Ut recte nomina rebus IMPOSITA sint, quamdam esse debere rerum, et nominum convenientiam ex ipsa earumdem rerum natura ortam in Cratylo contendit Plato. Sunt enim, ait ipse, nomina IMITAMENTUM, quemadmodum etiam pictura, et qui rei speciem in litieras, ac syllabas referre nonnovit, is ineptus nominum opifexest. Erecentioribus Ioannes Baptista Vico, principii d'una scienza ec., de similitudine verborum cum forma rerum multis disseruit. Horum nominum exempla sint cogitatio, voluntas, desiderium, aliaque huiusmodi. V. Traité de la Formation mechan. etc. Ch.XII.  Quod vero homines, ut boc aliisque modis ad sermonem formandum aptisutantur, fortius incitat, indigentia est, maxima rerum omnium magistra. Sermonis etiam utilitas, atque necessitas vix paucis inventis vocibus sub oculos posita. Hinc multi conatus, ut verborum numerus augeatur, quos felices reddit cognitionum, et idearum COMMERCIUM homines inter initum. Haec enim se mutuo fovent, et,ut verba commercium illud amplificant, ita ex commercio novae vires additae, et nova suppeditata istrumenta, quibus ars faciendorum et deligendorum verborum perficiatur. Nec vero sunt verba hominum opus, in quo ipsi nihil aliud, quam arbitrium recte sequantur. Est enim illa analogia im pressionis, et soni imitatio, quam pulcherrime in fingendis vocibus sequimur. Est forma, et affectio orgaai vo eis, a qua earumdem elementa, literae praesertim vocales determinantnr. Sunt denique derivata, et voces artium, et technicae in hominum libertate haud repositae, cum illae derivationis naturam imitentur. Hac vero vim, et EFFECTUS RERUM SIGNIFICENT significent. Duo sunt, quae videntur iam asserta impugnare. Primum scilicet sermonis institutionem requirere, ut de significatu verborum conveniatur. Conveniri autem inter eos non posse, qui omni sermone destituti sunt. Quasi vero nulla alia praeter voces ratio suppetat. Qua explicetur quid ipsae SIGNIFICENT Percipi enim id. Modum transferendi verba necessitas genuit inopia coactaet augustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. Cic. de Orat. III. 38. Notat et illuminat marime orationem tamquem stellis qui. busdam verbum translatum Idem ib. 48. Huc faciunt quae de linguarum analogia subtiliter disserunt Valcke naerius in observatt. academicis, Lennep inpraelett. academicis et Scheidius in orat. de linguarum analogia ex analogicis mentis actionibus probata. Sed est etiam unde moveantur homines ad res alias per multas metaphorice appellandas, eas scilicet quas primum obscure, et confuse percipiunt. Et enim has meditando earum quamdam similitudinem cum aliis distincte perceptis intelligunt, quorum proinde nomina ad illa transferunt. Atque in hoc mirifice dele ctantur luce, quae ex rebus claris, et distinctis in alias obscuras, et confusas diffunditur. potest ex circumstantiis, in quibus adhibentur, et ex gestibus, qui pronunciatis nominibus res indicarent. In eamdem etiam rem conferet illa imitatio, atque similitudo. Aliud vero erat huiusmodi. Summis viris difficultas maxima se semper obiecit in linguis ornandis, et perficiendis. Qui ergo fieri potuit, ut homines plane rudes, atque ferini, communione scilicet cum aliis non exculti ex integro sermonem con dant? Fieri istud quidem non posset, si de perfecto sermone contenderetur, in quo non tantum apte expressa, quae ad necessitatem pertinent, sed etiam, quae ad cultum vitae, et oblectationem. In quo multae orationis partes, multae leges syntaxis, et inflexionum, multa denique, ut numerus, et varietas obtineatur. Haec sermoni non absolute necessaria sunt, et vix nomina, utaiunt, substantiva, et signum aliquod numquam variatum ad verbum auxiliare sum exprimendum. Quae quidem hominis licet sylvestris facultates non superant. DE SYNONIMIS, ET INVERSIONIBUS. Multa in qualibet lingua videntur esse synonima, voces scilicet, quae unam, eamdemque ideam referunt. Dubitari autem iure potest, an revera sint. Quin potius statuerem ea, quae di cuntur synonima, eamdem ideam principalem reddere, accessoria vero differre plerumque. Atque hoc modo inter se differunt "amo", et "diligo"; "peto", et "postulo", "timeo", et "vereor" V. Condill. Gram. P. I. Ch. XIV. V. Traité de la form. mechan. du langage V. II. Ch. IX. et suiv. Condillac Traité des connois. hum. T. II. Grammaire P. I. Ch. I. II., Maupertuis Diss.sur les moyens etc. pour exprimer leurs idées; Sulzer de l'influence recipr. de la raison, etc. extat in Ac. Ber. et Vol. IV. opusc. Select. Mediol. Soave Comp. etc. L. III. Ap. al C.I. Receptum apud logicos novimus, ut nomina tribuant in synonima, quae secundum unam eamdem que rationem de pluribus usurpantur, et in homonyma quae rationem naturamque diversam in iis SIGNIFICANT, de quibus adhibentur, Iam vero homonyma alia dicuntur casu et citra rationem ac temere im. Synonima stricto sensu accepta, quae nulla idea accessoria differrent, linguae vitium indicarent. D'Alemb. Elem. de Phil. XIII. Hac de re notandum est, vocibus duplicem illam ideam  subesse. Et, ut praeteream exempla, quis est, qui non noverit, vocabula quaeque loco, et tempori, et generi s u scepto orationis non convenire? Quod profecto maxime oritur ex idea accessoria, quae non solum verba eamdem principalem exprimentia distinguit, sed eorum etiam opportunitatem deter minat. Quae ergo synonima habentur, ea profecto non iure; namque discrepant accessoriis illis ideis, quae rerum diversos aspectus, gradus, et relationes, et adiuncta exprimunt. Imperiti haec apprime synonima reputant, quorum levia discrimina lin guarum cultores notant. In eo frequenter peccant ex lexicis pene omnia, quae adolescentes, misere decipiunt. Duplex distinguitur ordo verborum, et conformatio, naturalis, et artificialis; seu inversa. Porro quem ordinem habent ideae, idem etiam verborum est: ordo autem idearum, fertur ad modum, quo in mente sibi succedunt, vel ad earum dependentiam mutuam,ex qua fit, utaliaealias regant, et explicent, aliae explicentur, atque regantur. Si primum, ordo, quo exprimuntur ideae, naturalis erit, quando idem, ac ille, qui in earum successione servatur. Qui quidem in singulis diversus est. Si secundum, ut ordo sit naturalis, quae alias regunt, vel ab aliis explicantur praemittendae sunt. Quae reguntur, et alias explicant postponendae. Secus erit artificialis, seu inversus. Sed unde oritur, quod ordo inversus orationi vim addat,et siteius quasi lumen quoddam nosque voluptate perfundat? Scilicet posita, et alia dicuntur ratione, quod rebus tribuantur aliqua inter se similitudine cohaerentibus. Posteriora haec aptius vocantur analoga, sive attributionis, quum uni quidem rei primario conveniunt, reliquis secun dario,sive proportionis,quae pluribus rebus propter proportionem aliquam accommodantur. Ex  hoc fonte methaphorae pleraeque omnesdimanant. Nonnullarum rerum, atque actionum voces quaedam ex ideis hisce accessoriis inhonestae, et turpes evadunt; quae ideae si in aliis vocibus omittantur, vel mutentur,nulla amplius est turpitudo. Unde fit, quod eae. dem res, etverecunde, etobscoene dicifpossint,etquod ea,quae turpia re non sunt, nominibus, ac verbis flagitiosa ducamus. vel re. D'Alembert loc. cit. Traité de la form. mech. du lang. ch. IX n.161.  quia eum, quem Rethores MODUM appellant, et numerum parit; quia imaginationem exercet;quia ideas nimis disiunctas coniungit. Revera voces ordine inverso positas ad se mutuo referi m u s, ut postulat idearum ratio. Atque si in periodo multae sint ideae, quae a quadam principalipendeant, et exiis aliquaehuic praeponantur, postponantur vero aliae, arctius omnes cum ea coniunguntur. In quo nexu illud praesertim admirabile,quod uno verbo ad integram sententiam animus revocetur. ET IDEARUM INFLUXU. Varietatem linguarum,et nos ad confusionem Babylonicam referimus: simul autem liceat statuere,ex diverso hominum ingenio, et indole,eorumque externis circumstantiis oriri potuisse, et magna ex parte ortum esse,ut singulae suum -co lorem habeant. Ac ex confusione illa vocum origines potius, quam ipsaelinguae;quae perfici sensim debuerunt,etaugeri verborum copia, atque syntaxi, et inflexionibus moderari. Non una autem in hoc fuit omnium gentium ratio, quod multis causis tum physicis, cum moralibus tribuendum est. Atque inter eas recenserem caeli temperiem, non eamdem ubique faciem naturae, rerum aspectus multiplices, diversas opiniones sive ad civitatem sive ad religionem pertinentes, regiminis formam, educationem, mores denique et studia. Revera sermonis vis, copia,et harmonia, et inflexio nationum exprimit characterem,ingenium,atque culturam;ac eadem linguarum, et gentium fuere semper fata, et vicissitu dines. QUOD IN ROMANI IMPERII, ET LINGUAE LATINAE ORTU, progressu, et occasu velut sub oculos positum est. Iunctam, cohaerentem, levem, et aequabiliter fluentem orationem facit verborum collocatio. de Orat. II. 43. V. D'Alembert Eclair cis. S. X. Condill. Gram. P. II. ch. XXIV. Art.d'Ecrire L. I. Ch. I. II. V. Traité de la form. mechan. etc. Ch. IX.  INSTITUTIONE DE VARIETATE LINGUARUM, ET DE MUTUO VOCUM. Sed ex iisdem quoque caussis fit, ut nationes singulae suas habeant idearum compositiones, et vocibus, quibus aliae carent, utantur. Inde in interpretando necessitas verborum circuitum saepius adhibendi, cum non semper verbum e verbo exprimi possit. Indeadeo difficile, libros ex una in aliam linguam convertere. Atque in hoc lice tomnis cura, et studium ponatur, adeo singulis linguis suum quoddam inest ingenium, ut nullae fere sint interpretationes, quae authographi vim, et elegantiam, et nativum splendorem nequaquam desiderent. Quae quidem eo nos adducunt, ut intelligamus, quem dam esse posse sermonem, edisci, et percipi omnino facilem. Quem si universalem veluti linguam cunctae gentes amplecterentur, eo possent mutuum idearum, et cognitionum commercium inire. Ac difficultas, qua ab hoc impediuntur, ex lin guarum varietate, et multitudine orta, alia etiam ratione vinci posset, characteristicam nempe aliquam linguam adhibendo, quae res ipsas, non rerum voces exprimeret. De bac sermo erit inferius. Interim cum nullus ex hisce modis adhuc suppetat. Nec ulla spes sit, ut in unum, V. Clericum Art. Crit. tom. I. part. II. cap. II JII.IV.  Linguarum varietas non leve incommodum affert societati, et progressui scientiarum. Nec enim consultum, ut facile edisci possent, sed casu magna ex parte conditae, et procurata copia, et ornatus. Sublatis declinationibus, coniugationibus, et generibus, si substantiva unam immutabilem terminationem haberent, suam adiectiva, et verba pariter, quae adverbiorum ope temporibus, et modis distinguerentur. Pullae superessent regulae grammaticorum, et solius lexici auxilio linguam quam libet perciperemus. Cumque insuper esset prima illa lingua absurda, et egestate, atque uniformitatis squalore sordesceret. Maxime erit optandum, ut LATINI SERMONIS USU conservetur. Locupletissimus namque est hic sermo, electissimis, et praeclaris verbis abundat, communis hactenus fere fuit omnium eruditorum; qui eo abiecto, si suam singuli linguam in scribendo usurparent, iam, vel aliena omnia nescirent, vel in omnium gentium, quae doctrinae laude vel alium conveniant omnes. Splendescunt, perdiscendis linguis curam, et operam compellerentur insumere, quam ad rerum cognitionem adipiscendam con tulissent. Quae hactenus de vocibus dicta sunt, satis ostendunt, easabideis, et cogitandi modo non parum pendere. Sed magnus etiam est verborum in ideas, et mentis operationes influxus. Atque in psychologia, si fortasse ad veritatem plane non sua detur, nullas fere absque verborum usu nos exequi posse. Illud profecto demonstratur, eo foveri multum, et perfici. Quod probari nunc potest exemplo mutorum. Earum etiam gentium, quibus signa numerica pro maioribus quantitatibus deficiant, cetera sint nimis composita. Illi quidem multis omnino ideis destituuntur, mentisque facultates obtusas habent, nec ad operandum faciles et expeditas. Hae vero gentes in rebus ARITHMETICIS ne vix quidem progressae sunt. Tantum signa valent ad humanas cognitiones promovendas vel impediendas. Equidem arbitror, a veritate abesse longius, qui crederet verba communicationi cum aliis tantum inservire. Ea menti sistunt obiecta. Nimis composita dividunt. Si magnifica sint et nobilia, res amplificant, et extollunt. Si humilia, imminuunt, et deprimunt. V. Laur. Mosheim DISSERT. DE LINGUAE LATINAE CULTURA ET NECESSITATE V. etiam quae nuperrime Ferrius, et Tiraboschius, Alexander Gorius, et Clementinus Vannetti in eam habent Alamberti sententiam (Melang. tom. V.) statuentem bene LATINE scribi non posse, et LATINITATE abiecta studium omne ad patriam linguam transferentem. Refert Condaminius, quosdam Americae populos, cum ocesnume rorum supra ternarium non habeant, in hoc arithmeticam eorum consistere: certevix paucis huiusmodi signis utuntur, iisque ad modum compositis, ex quofit, ut maiores numeros mente haud comprehendant, et quem libet ultra vicesimu in indefinite concipiant, atque capillorum numero comparent.V. De la Condamine Voy. Paw Rech. sur les Americ. tom. II. ch. 27. Cogitatio, ait Plato in Theaeteto, est sermo,quem mens apud se volvit circa illa, quae considerat. Cum enim cogitat, secum ipsa disserit adeo, ut cogitatio sit sine strepitu vocis oratio, aut interior collocutio. Verba sunt veluti signa algebrica idearum. Brevitati proinde consulunt, multarum idearum comparationem faciliorem reddunt, mentenique sublevant in consideratione multarum rerum, atque compositarum: quae verborum utilitates maxime elucentin modorum mixtorum ideis, quas in nullo exemplari iunctas videmus, sed verbis exhibentur et comprehenduntur. Verba denique nexus inter ideas augent, eas facilius, et promptius exsuscitant, distinguunt, quae vix confuse percipe rentur. Sic technicae in arte pingendi voces omnia alicuius tabulae vitia, omnemque praestantiam indicant. Quae eos prorsus fugerent, qui illas voces nequaquam callerent. Quare scientiae, omnesque artes multum debent verborum inventoribus, ut Linnaeo Botanica; et Ontologia, licet nomenclatione tantum contineretur, non esset penitus contemnenda. DE USU, ET ABUSU VERBORUM. De verborum usu, et abusu haec fere a Lokio, aliisque melioris notae Logicis accepimus. In primis duplicem esse usum verborum. Vel enim eo cogitationes nobiscum cooferimus, vel aliis exprimimus. Illum jam attigimus capite superiore, in quo osten debam, maximas utilitates ex hoc interno sermone profluere. Cum aliis autem utimur verbis,aut in vitae civilis consuetudine,vel in studio Scientiarum. Inquo praesertim distinctioni, et perspicuitati. Ideae in primis connexae inter se sunt ex analogia rerum, et ex circumstantiis, in quibus acquiruntur. Sed insuper verbis etiam unae cum aliis colligantur. Quot ideas unum verbum saepius excitat? Atque ex verbis haec alia utilitas provenit, ut in ideiş revocandis, et disponendis ordini, quo a nobis comparatae fuere,non adstringamur, sed illum qui magis placeat, magisque conveniat iisdem tribuimus. V. Bonnet Ess. Analyt. ch. XV. V. Sulzer loc. iam citato, Micheaelis de l'influ. des opin. sur le lang. etc. Condil. Art. de penser. part. 1. ch. II. STELLINI OSSERVAZIONE SULLE LINGUE tom.V. Soave Comp. di Locke I. III. ap. al cap. XI.  Scilicet, si circa ideas maxime compositas,  sertim versemus, iisdem nomina, quibus appellantur, substituimus. Nimis enimesset operosum, eetiam impossibile, omnes ideas simplices illas componentes mente revolvere. Quod etiam confusionem afferret, et, ne idearum relationes viderentur, obstaret. Haec habitualis, non actualis distincta perceptio est idea coeca, et symbolica Leibnitii. circa notiones prae 1 litandum est, ne per se difficilia reddantur difficiliora. Et ne rerum INVESTIGATIONES in aeternas quaestiones de nomine abeant. Locutionis perspicuitas, atque distinctio maxime optanda idearum claritatem, et distinctionem desiderat: quomodo enim, quae confuse percipimus, aliis distincte explicarentur? ad eam confert brevitas, in qua tamen habendus modus;nam ut nimia verborum copia res obruit, ita eorum egestas tenebras rebus offundit. Denique cum iis, qui loquuntur confuse, vitanda fa miliaritas est,qua nihil fortius ad idem vitium contrahendum. Ita autem verbis utamur,ut unicuique idea determinata re spondeat;dequo,sinobiscum tantum colloquimur, nos ipsos debemus interrogare; si vero cum aliis,et dubium sit, an verba ideas claras,etdistinctas in aliorum mentem immittant, tunc ea dilucide explicanda sunt. Id quidem de nominibus idea rum simplicium praestari potest (vix autem erit necesse), si observanda proponantur obiecta,quae significant,etmodus,et circumstantiae indicentur, in quibus eorum ideae acquiruntur. Nomina vero idearum, quae sint compositae, decla rantur earum obiectis exhibitis, et addita ipsorum definitione; nec enim omnia attributa patent sensibus, et multa indolem potentiae habent. Quod si haec obiecta non existant.Verborum universalium magnus est usus, et maxima utilitas; innumera enim individua una tantum voce comprehendi mus, quae esset impossibile omnia suis nominibus distinguere. Esset etiam inutile, quia necii, quibus cum loquimur, multoque minus illi, quibus aliquid scriptum relinquimus, eadem indivi dua agnoscunt.  ergo. Sed quae circa rectum verborum usum,et eorum inter pretationem, de qua inferius, praecipienda sunt, separari vix possunt ab idearum doctrina iam tradita; utrisque enim idem finis, avocationempe ab erroribus. Inter eaetiam intimus nexus, quantus inter voces, et ideas. Nunc lum, quae propius ad verba pertinent, quaeque eo loci explicata non sunt. ne actum agam, so meratio idearum, quas simul reflexione, aut pro arbitrio con iunximus. fiat enu Vocibus demum abutimur, si quae incertam significa tionem habent, non definiantur; si definitus sensus mPombaur. Si in rebus scientiarum artes consectemur oratorias. Namque delectant, et movent, mentemque avertunt a philosophico rerum examine,quas non accurate,sed ad similitudinem exprimunt. In verborum sensu commutando peccarunt vehementer scholastici. V. Gassendum in Exerc. Arist. Exerc. I. Y2. Hic cum Logicis fere omnibus non praecipio, abstinendum esse a tropis atque figuris:rebus enim permultis vocabula metaphorica necessario imposita sunt, aliis utiliter, cum ex iis orationi splen dor accedere videatur.V. Condil. Art. d' écrire lib. II. ch.VI.VIII. Translationes propter similitudinem transferunt animos,etre. Neque vero minor utilitas ex verbis notionum;.harum nullum archetypum extra nos invenitur iunctas exhibens ideas, ex quibus componuntur. Id vero praestant nomina, quae illas comprehendunt. Sunt denique voces, quas particulas appellant Grammatici; his utimur, ut ideas, et periodi membra, et periodos ipsas interse coniungamus. Quisaneusus mirificus est, et ex eo maxime vis tota orationis derivat. Rectus erit,si m u tuam rerumdependentiam, et relationes diligenter consideremus.  Haecdeusu. Nunc de abusu,quirestat,dicendumest. Iam vero abutimur verbis, si iis, nullam ideam, aut obscuram associemus, adeo ut inania sint, et ambigua: in quo non rarum estlabi;etmaxime verba notionum virtutis,honoris,et simi lium multo pluribus sunt meri soni; obiectum namque non referunt, quod sensus moveat, nec illud quod referunt in in fantia, percipimus. Hinc ea absque ulla significatione usurpandi longam consuetudinem iam contraximus, a qua ut reMilanius, reflexione vehementer nitendum est. Sed abusus verborum etiam ex ignorantia, et malitia. Scilicet, qui partium studio, vel anticipata opinione moventur. Qui vulgo avent imponere. Qui difficultatum pondere haerent et idearum defectu impediuntur. Tunc enim vero ii obscuritatem affectant, verbis inanibus se se involvunt, nova etiam fundunt, atque sesquipedalia. Optimum ergo erit, mentem parumper a verbis abstrabere, eamque in ideas intendere, ne verborum so nitu hallucinemur. DE VERBORUM INTERPRETATIONE. Ut verba recte interpretemur, advertendum in primis, notiones eius, a quo adhibentur,'significare. Non igitur suppo natur, omnes iisdem verbis adnectere easdem ideas, et ipsis rerum realitatem apprime respondere. Quae qui supponunt, de rebus perperam ex verbis iudicant, et ex propriis aliorum ideas non bene copiiciunt. Hisce per summa capita indicatis, advertam in primis, duplicem distingui sensum verborum,proprium scilicet,et tran slatum;namque verba,aut illam rem exprimunt,cui primum fuere assignata. Vel ex quadam similitudine cum re ipsis propria eadem verba ad aliam significandam transferimus. Quod si fiat, sensum habent translatum, secus autem proprium. Nisi quis sensum proprium alicuius vocabuli accurate perceperit, numquam fieri poterit, ut translatum assequatur; hic siquidem ad illum refertur. Rerum praeterea conditionem inspiciet,ex qua oritur, ut quaedam voces potius, quam aliae, ad res sensu translato exprimendas, electae fuerint. Inde clarius is sensus patebit ferunt, ac movent huc, et illuc, qui motus cogitationis celeriter agi tatus per se ipse delectat. de Orat.III.39. Translatio est, cum verbum in quamdam rem transfertur ex alia; quod propter similitudinem recte videturposse transferri. Cic. ad Heren. IV. 34. V. D’Alembert Eclaircis., sur les Elém. de phil.S.IX.  Quam vero quisque vocibus notionem subiicit, arguere tuto possumus, si multa nobis nota sint, eaque invicem conferamus; loquentis scilicet ingenium,et characterem; affectus, oris habitum; linguae, quautitur, vim, etindolem; rem,quam tractat; circumstantias, in quibus versatur; opiniones, religionem, quam sequitur;demum popularium eiusmores, ritus, consuetudines. Haac enim omnia efficiunt, ut licet verba sint eadem, non tamen eumdem significatum, eamdemque vim habeant. Nunc vero singula verborum genera persequar, deque  Difficilius assequimur sensum verborum, quae notionibus respondent; siquidem praeter caussas nominibus rerum existentium communes, peculiares etiam concurrunt, ex quibus efficitur, ut singuli fere has ideas diverso modo componant. Nec eadem semper significatio est vocibus orationis par ticulas exprimentibus; loquentium igitur, vel scribentium affe ctus, et praecipue contextus consulatur,cum ex iis sit dedu cenda. De nominibus relativis, quid advertendum in praesen tiarum,ut recte explicentur? Porro id muneris iam explevi dum agebam de eiusdem generis ideis. Quid de nominibus uni versalibus,quod paritereoloci, traditum non sit? Illud subiungam,voces particulares,aliquis,quidem etc. obscuras esse et indeterminatas, nec denotare, quae, et quanta subiecta sint; universales vero aliquando particulariter esse sumendas, aliquando non omnia individua generum,sed individuorum omnia  siores esse, iisnonnulla admoneam,ad quae semper in eorum interpretatione spectemus. Qualitatum sensibilium nomina, colorum nempe, saporum, aliarumque huiuscemodi, sensationum etiam doloris, et voluptatis, non ita accipienda sunt, quasi explicent id, quod est in rebus extranos positis. Nostras affectiones, sensationesque upice indicant, nec vero vim,et quantitatem earumdem. Hanc experimur, non autem accurate possumus efferre. Fit autem sae pius,ut in singulis maior,vel minor multiplici gradu sit. Dubitari quidem potest,quin ipsae sensationes apud aliquos prorsus differant, licet omnes iisdem verbis utantur. Omnes arborum folia viridia appellant; sed adhuc videndum, utrum haec vox eamdem omnibus ideam excitet. Quam dubitationem ingerit di versa corporis temperies, et habitus, nec eadem omnino fabrica sensuum;unde certo oritur,affectiones easdem aliquibus inten aliis languidiores. Nomina idearum compositarum non idem apud omnes. Maxime si veteres cum recentioribus confe rantur.Ne eas igitur ex nostris notionibus interpretemur,sed ex illis quae ampliores fortasse, vel angustiores. Nominibus substantiarum easdem qualitates non omnes complectimur. Nulli essentiam primariam,a qua eae nascuntur,et quam nemo novit.   genera significare. Quae quidem ex circumstantiis, linguarum indole, ingenio, loquendi consuetudine patent dilucide. His fere,quae adhuc de vocibus disserebam,continentur potiora,ex quibus Grammatica philosophica conficitur: linguarum singulae suam habent, eaque particularis Grammatica dicitur. Est vero etiam Grammatica universalis,quae principia constituit omnibus linguis communia.Notandum superest,syntaxim totam legibus concordantiae, et regiminis moderari. Illae principio identitatis, hae principio diversitatis innituntur. DE MULTIPLICI SCRIBENDI RATIONE. Verborum disputatio manca videretur, si de scribendi rationibus haudquaquam dissererem. Non igitur una fuit haec ratio apud omnes,nec omnibus temporibus;tamen in eo con veniebant, quod signis non ore,sed manu expressis,quae mente revolvimus, manifestarent. Ac, quae fuere adhibitae, pictura, symbolis allegoricis, denique signis arbitrariis continentur. Pictura, aut unam figuram, aut plures exhibet, signa arbitraria, aut ideas,aut syllabas,aut litteras verborum significant. Scripturae, licet ab ea, qua nunc omnes fere gentes utuntur, longe dissimilis,specimen aliquod hominibus innotuit per imagines, quae sui res exhibent, et quas conamur exprimere gestibus, et clamoribus, ut iis longinqua designemus. Ad has imagines adumbrandas urgebat necessitas communicandi cum absentibus, et praesentibus explicandi id, quod verbis efferri non poterat. Inde scripturae origo potius, quam ex cura committendi nostras cognitiones posteritati. Ac homines ex rerumimaginibusidconsiliicepisse,ut illas ad suos cogitationes enuntiandas delinearent, omnium pene De usu, abusu, interpretatione verborum videantur Locke Ess, etc. lib.III. Leibnitz Nouv.Ess,etc. lib.III. Ioannes Clericus art.crit. tom.I. pari.II. V., silubet, Du Marsais princip. de gram. Condillac gram. D'Alembert Elem.de Phil. XIII. et Eclaircis. sur les Elem. etc. S.X.  Hinc sensim crescere CONVENTIONIS SIGNA, etomniatan. dem huiusmodi evadere. Quae sola notiones reflexione perceptas possunt exprimere;quae ob multos rerum aspectus sunt neces saria. Namque notiones illae nullam imaginem praeseferunt, nec ulla imago diversas relationes comprehendit, sub quibus res, ut lubet, consideramus. Signa autem, quae ex CONVENTIONES sunt, optime quidem ab eo constituta fuissent, qui singula singulis ideis simplicibus destinasset, suaideis universalibus, aliademum determinationibus individua constituentibus. Enim vero simul iungendo, et apte componendo haec signa, res omnes possent distincte explicari. Hoc scribendi modo philosophus tantum uti potest, nempe ille solus, qui probe noverit, quaenam ideae simplices illas substantiarum, et notionum componant. Quique etiam adeo individua observaverit, ut ea possit plane describere. Illum Si  V. Paw Recher. sur les Americ. tom. I. part.V. sect.I. Quemadmodum artis typographicae occasio fuit ars caelatoria et sculptoria, ita occasio scripturae non inepte ex pictura derivatur. Praesertim quum non aliter pictura sit obiectorum in oculos incurrentium scriptura, quam scriptură sit obiectorum quae aures feriunt pictura. Videsis Augustum Heumannum in conspectu reipublicae literariae cap. III. Signa huiusmodi spectant ad linguae universalis institutionem. Alia ratio, qua ad eamdem possumus pervenire, indicata, vix est N. LXXII., LXXXII. V. Soave Comp. di Locke lib. III. cap. XI. append. II., qui etiam celebriores scriptores recenset, a quibus ea institutio suscepta fuit. V. Leibnitii historiam, et commend. characteristicae linguae univers. V. Traité de la Form.etc. ch. XII. XIII. Mémoires de l'Acad.de Berl., ibi Thiebault videtur succensere Michaelis, et non ita difficilem, nec vero inutilem, et multo minus perniciosam, quemadmodum ille, censet linguae universalis institutionem, quae primo illo modo conti. neretur. Sepositis iis,quae de universali lingua instituenda excogitari subti.  vetustarum nationum monumenta, et gentium sylvestrium usus confirmant. Quae scribendi ratio picturae affinis, cum auctis cogni tionibus, relationibus, et indigentiis ad omnia exprimenda non non satis esset apta, paulatim a signis discessum est rerum i m a ginem referentibus, et huius pars tantum depicta, et plures ideae uno signo manifestatae. nenses adhibent; proindeque mirum non est, si tanti apud illos sit literas scire. Quae difficultas effecit, ut nationes pene omnes eum scribendi m o d u m probaverint, quo non obiecta, non ideas, sed sonos verborum reddunt; ad quem duplici via perveniri posse declarabam liter possent, splendideque proponi; multo fuerit satius consilio adquie scere Ludovici Vivis, cuius haec sunt (De tradendis disciplinis lib.III. verba. Sacrarium est eruditionis lingua,et sive quid recondendum est,sive promendum velut proma quaedam conda.Et quando aerarium est eruditionis, ac instrumentum societatis hominum,e re esset generis humani unam esse linguam, qua omnes nationes communiter ute rentur: si perfici hoc non posset, saltem qua gentes ac nationes plurimae, certe qua nos christiani initiati eisdem sacris, et ad commercia et ad peritiam rerumpropagandam. Peccati enim poenaesttot esse linguas. Eam vero ipsam linguam oporteret esse cum suavem, tum etiam doctam et facundam. Suavitas est in sono sivé simplicium verborum ac separatorum, sive coniunctorum. Doctrina est in apta proprietate appellandarum rerum. Facundia in verborum et formularum varietate ac copia. Quae omnia effi cerent, ut libenter ea loquerentur homines,et aptissime possent explicare quae sentirent, multumque per eam accresceret iudicii. Talis videtur mihi latina lingua ex iis certe quas homines usurpant, quaeque nobis sunt cognitae. Quod continuo diligenter, ostendit, eaque tradit quae merito cum disputatione componantur ab Aloisio Lanzio libris inscriptionum et carminum praefixa. Sinensium alphabetum Typographicum ex 50000. signis constat. V. Mémoir, concernant l'histoire etc. des Chinois parles mission. tom.X1., Mopertuis ius auget ad 80000. Iaponenses, licetomnino diversa linguautan tur, quae tamen Sinenses literis consignant,probe intelligunt; adeo verum est haec signa non rerum voces, sed earum conceptus delineare. V. Marpertuis loc. Iam. cit. Cesare Baldinotti. Keywords: signum, genere, segno, genere, segno naturale, lacrima, segno artificiale, ‘homo’, conventione, imposizione, idea, ideazionismo, ‘Locki’ – enciclopedismo, illuminismo, ‘discorso sulle lingue’, propositione, articulazione, logica, grammatica, forma logica, modus significandi, imitatmento, il Cratilo di Platone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baldinotti” – The Swimming-Pool Library.   https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51623117567/in/photolist-2mKwuhr-2mKRpod-2mDKYka

 

Grice e Balduino – il vestigio dell’angelo al  Campidoglio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Montesardo). Filosofo. Grice: “It is amusing that when we were lecturing with Sir Peter at Oxford on ‘Categoriae’ and ‘De Interpretatione,’ Girolamo Balduino had done precisely that – AGES before, in a beautiful beach town of Italy! ‘vir Montesardis,’ –“ Grice: “Strawson and I, following an advice by Paulello, drew a lot from Balduino’s commentary – especially of the Peri Hermeneias, the section on the ‘oratio,’ since we were looking for ordinary-language ways to render all the modal distinctions (indicative, imperative, optative, interrogative, vocative, …) that Balduino finds so easy to digest – but our Oxonian tutees didn’t!” --  Girolamo Balduino (Montesardo), filosofo.  Studiò all'Padova sotto Marco Antonio Passeri (detto il Genua) e Sperone Speroni, formandosi nell'eclettismo aristotelico proprio di quella scuola. Nell'anno 1528 insegnò sofistica in quello Studio; passò poi all'Salerno e all'Napoli.  Nella seconda metà del Cinquecento le sue opere furono occasione di vivaci dibattiti. Alle sue dottrine si oppose, in particolare, il filosofo padovano Jacopo Zabarella. Altre opere: “Perì hermeneias”, “De interpretation, “Dell’interpretazione”; “Quaesita tum naturalia, tum logicalia”.  Studi Giovanni Papuli, Girolamo Balduino: ricerche sulla logica della Scuola di Padova nel Rinascimento, Manduria, Lacaita, 1967. Giovanni Papuli, Girolamo Balduino e la logica scotistica, in « Acta Quarti Congressus Scotistici Internationalis », II, Roma, 1978.  257-264. Giovanni Papuli, Dal Balduino allo Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazioni, in « Bollettino di storia e filosofia », 10, 1990-1992,  333-65.  Raffaele Colapietra, recensione di Ricerche sulla logica della scuola di Padova nel Rinascimento, Emeroteca della Provincia di Brindisi. Girolamo Balduino. “De signis” – It. segnare, notare, segnificare, notificare. Primum oportet ponere quid sit nomen et quiddam in proæmio, ut propositum suæ considerationis ante quid verbum cognovit et infra cap. 4. aborationibus rethoricis et poeticis, atque his quæ affe&us explicant, illam se legit. Item tes cum iste liber cum tota logicae undem modum cong ordine lint considerandæ quo, ex processu resolvente com, siderandi participet, qui ut ante monstrani est instrumen monstrat cum inquit primum b u m etc. vers tum seu organum notificandi. Quid inter hunc librum quid nomen quid alios differt? Respondetur. Id interesse et, inter diversos primum, non intentione, cum libros eandem rem eodem. Sed quod primo exequi instituimus dicit opor versa prædicata propria, de illa cognoscantur. Q dis eaq. præs cipia quæ ut deus, et prima in omni tempore, loco, et subiecto dicata ex fine libri facile inveniri possunt demostrationis prin sunt nes mus, extremum nam ut posuis cellaria. Sed suppositione in hoc libro et finis, rum conceptarum res et secundum quid. nam tuimus dicata quinq vocem SIGNIficativam stag are, ut toto, necessario tra verlrum etc. Hæc verbi, orationis, enunciationis nominis, nis.quibus eædem libro poeticorum est præceptionem tradere finiendo considerant alterum ut aspernetur et um metrum formandum, bi etc. ponere ergo sumetur non tanquam res dubia inquirendum sum, verum et constans ponendum primo mento magno exemplo explicatur artificum idem ligna ut lignum, sit sed ut per seno post.14. incos unus artifex statua malter, referet tæ, cum suo proprio monius inquiens est, ad metria positi oest. Ita que non nisi ut enunciativa. Sed de subiecto do post 27 secund infine. Regulem logicem ponuntur ut notæ 7.orator & poeta enunciativa orationis codem modo ista des:ante & significativas intendit idenim definitionem nomini suer, sitione significantes tionis tantum urilitatem declarat apo demonstra, ad impossibile.primo prior.30. de tione simplici et hæc porest. Sed demonstratio viriali cuius, extranea autemquod licer hæc omnia demonstrationis Postremo scientiarum. ne viam atrium et iuxtaponitur uerbo. Quinto. Magentinus positionis modos modo considerantes est interpretario posis ab instituto, nomen, aim. Ponere seu constituere. Ammonius has tres particulas legit cum ergo sunt prædicata propria, affirmationis et negatio m u m ponendum constituat, alterum appetendum explicaretur oportet definire et fugiat. Poeta ad cocinnum Orator vero adornatum. Id, quasi istorum quid nominis ad efficiendam. Huic (quam retuli) rei confidera Averrois, definitio enim inquit Aristotele ingeo navem, alteradarcham considerandi modo, assentit, Amonius definitiones positiones in arte dicuntur. Sexto meta.primo.in hoc libro confiderari de oratione, 46.inmagnocóm. cuiusratio eft. primopoft.17, quam per voces clariores m o prior. primo, syllogismus est pofitis et concessis et concesso, pri oratio in quaquibusdam attingit. Magentinus syllogism ducente hac tenus. Paul e re niam fiunt. Quos cis nunc. De utilitate dicimus ab anima, quæ facile opus suum inquitex proposito patet: ad de et ex inscriptione cepit ergo tertium  modorum quos Ammonius attulit. Su fubic&ti interpretationem refertur. Quam mitur enim gratia quæri retulimus. nam enunciatio ad ins ponere, primo prosupposito tendatur tet non simpliciter sic enunciatio in to, propositum quas per voces clariores NOTIFICARE nostrum esse, de oratione enunciatiua. Hic autem finis haberinó potest, nisi per hæc præ tertioait igitur de partibus tractandum est, quid nomen et quid verbum inquiens et Aristotele verba conne fit.ita res tractatæ alibi differunt. Requires et ens quia propositum Aristotele quam, necessario. Quona igitur modo feiungi simplicium essential cognoscenda differentia locus, tamen hic nomen quid ferme omnis explicatur ex proprio fine: quoniam et uerbum. Juult ergo cum cæteris ista considerat utg; syllogism parte sefficiantur logicus bus ponere sumendum fore pro definire et definit, ut verum ftrationi deseruiant,Grammaticus vero voces tis compositas incongruum sermonem ex elemen, ut congruum, siue oportet ponere, id est definire et falsum declarant. Et novissime ut demons dissentio latina ac sensum accedens ab Ariftotele sidiceret. Sed ab his ad Aristotele verba græca et. nam committereturnugatio possunt? ideo dixit (primum est. Erfide hoc infra fit proprius considerandi oportet ponere  id est definire, magis ut iudico. Hæc ut bene Ammonius cognoscit. Ac.p fine propositis nullo modo tamen, ut omnia moveri commune commodum est.id muniter posito. primotop.nono.Tertio et concello quomodo sumitur procom de mente Ammonii attulimus gratia explicentur omnibus Aristotele. Quarto pro ea fine ratiocina, pro proprium est. Locis quos adverbio quod nibuscarentibus pro definitio positione fieri ex Heracliti sententia via relinquenda non est docentes, fine uia eius contemplationem medio. secundopofter.46. incommens damus, tenebrisan; circumfufi more feramur, est igitur enumerat: tray in incertum imperitorum via, illa quam toti logicæ Aristotele to magno est. coniung nomine et verbo. Pris.primo poft.2. secundo poft. & ratiocinatione ex hypothesi. Secundo supra retulimus. & hic accepit sed quem modum Aristotele hic fert. Ex hisitaque patet; Arit, resconsiderandas acceperit, verbum nullum proj (3 ea considerantur. Quod si orationem ante etiam posuit et tractavit, non nisi ut genus commune enunciationis, ad uerbum. O D iii 11   rum ordinem pofuisse) tanquam subie&ta & tertio prædi num triplex poteftelle consideratio: primo ut absolute Cara, quideorum, scilicet ponere sive constituere. Sed (ci G gnificant simplices conceptus. Ita in prædicamentis cons [citorcum primo post.42.in parva commentatione:scieny fiderantur. aliomodo secundum orationem, ut partes tiasitunius generis fubieéti, quçcúq; exprimis componitur, sunt enunciationis: f icadhuc librum spectabunt, propter & partes et PASSIONES horú sunt pse.igitur duo sunt per reaenim (inquit) traduntur sub rationem nominis: u et er se predicata, substantia sive essentia quæ per definitione, & biut significant cum tempore aut sine tempore, intulit accidens proprium, quod per demonlirarionem concluditur. etiam. & tradunturaliahuiuf modi, quæ ad dictionum secundo post.12. & 20. Inmagno commento.curtantum pertinentrationem, ut enunciationem conftituunt. sed quid iftorum proposuit? Ad hoc dicendum mihi uiden quam vistant iuiri ingenium & iudicium semper cum sum tur:ex primo poft.32.9 res quarüeifecf timperfe&um, & quafiinmente, non habentuere definitiones. Secundo ponendum quod supra documus, res logicas ut intrumen ta& organaartium &fcientiarum, ad proprios fines & quod satis probatum est supra cum a nobis Ammonius notitiam explicandam referri. His datis patet ad petitios eftr eprehensus. Præter eaut diximus nome et verbum nem responsio: namdum Aristotele quid prædi & orumponen simplicior asunt decem vocum conceptibus. Amplius dumpropofuit, & propriosfinesquiipsorumpropriafer rationoininis & ucrbi, & fi ut materia adorationemenun rendicuntur accidentia,anteposuilledicetur.sicenimora, ciatiuampertineant:tamencorumrationesfuntcommu cionem definiens (enunciatilia (inquiet) nonomnis: sedin nes,nonadorationem tantum contra &æ.ut prædicari de qua verum et falsum explicatur et nomen quod uoxfitfi vocibus simplicibus prædicamentorum non possint, licet significatrix. Requirit secundo Ammonius a quo Sancto Thommas cum divo Thomas in ultimo suo dicto contra Ammonii opis mas accepit. Side simpliciumuocum essentia in prædica; nionemconsentiam: nomina et uerba in hoc libro tracta mentistra & auit: cur hic iterum repetits respondet Ammonius. ri,ut cum tempore aut sine tempore significant, & non solu unum quod supra tanquam falsum reiecimus. Nam et fi hæc significare dicuntur, sed& alia huius modi quæperlig verum dicat. Ut robique easdem res subicto, rationetas nent ad rationem di&tionum. Licet ipse subinferat, utes mendifferentes finiri: nihilo minus differentia quamaddu nunciationem constituunt. Non solum affirmatigam enun cit est falsa. Dum inquitin prædicamentis voces (implis ciationem, ut Ammonius afferebat. Si autemista verba, ces considerariut indicativæ sunt rerum simplicium. quæ Sancto Thomas referret addi & tasuperius.utdiceret.qiftainhoc quandocumtemporismensurasignificant,uerba:quando libro traduntur sub ratione nominis et uerbi & aliahuius, finetemporecum articulisexplicant, nomina sunt dicen modi, scilicet tradunturquęadrationempertinent diction da. quandopars affirmationisuel negationis, dictio: cum num, tuncinternomen, & verbum et di&ionem distingue autempars syllogismi, terminus. Sed primum inassignay ret. Sed primum de mente sua verius credo. nam alii tadifferentiadubito: quarationeun quamfiet: ut subftan teridemdi& umforet contrasequodin, Ammoniumdie siaperleexistens significari possit cum motu?maxime ximus. Postular Ammonius et Sancto Thomas curaliisoras cum prædicamentares sint completæina&tu.namquinto tionis partibus missis, solum nominis et verbi considen metaph.14. septimom et. septimo. primophysic.13.ens rationem præposuit? addituretiam. quialibropoetico, quod est, aut existeredicitur, indecemprimasres, seuuo cespartitur: quo ergo significari possunt cum tempore! nifi diceres ut sunt imperfe et cres, & in motu cum actione, et passione et generatione lubstantiæ alteratione qualitatis augumento quantitates et ex accidente mutatione eorum quem ut uo referuntur. Scundo nec dubium solue revidetur quod dicit. Sed falsum etiam est in prædicamentis rum orationis partes enumerans, inquit septem elle. Elementum, syllabam,coniun &ionem, nomen, uerbum, articulum, orationem. Ad hoc breviter respondent alig qui Aristotele omifisse quediximus, tanquam inutilia et ad rectum poetarum metrum spectancia hic solum mentioq nem fecisse nominis et verbi: pista sunt necessariæ pars tes enunciativæ orationis, inquo, Ammonio non aduery voces considerari,utadfimpliciúrerumcognitionédedu saturnecdiuo Thomas & fi oratio enunciativa quando que cunt. Sedinftantaliqui. In prædicamentis, Aristotele finiensin conftetexaliis, nonnecessario,simpliciter,omnitempore, quit. subftátiadicitur.sedquamuanèrefpondeantexAril. quintometa.14.& Alexandro Aphrodiseo exponente cognoscant, secundum se inquit vero dicuntur quæcunq; predicamenti figuras significant aut secundum Boethium quæcunque figuras predicationis significant. Itaq. Per Aphrodiseus quod a nomine, vel uerbo deducitur:lig verbum hoc dici et significare res simplices, prædicamen ca ad metaph. Non logicum pertinent: sed ut decemu04 ces, resmediis CONCEPTIBUS A POSITIONE SIGNIFICANT logie corum considerationi convenient.Tertio dubito& tan cuti et legendum, et navigandum alegere et navigareuer bo originem ducunt. Similia dici possunt de explicatione Alexandri. Quautitur Ammonius dum deuerboconsin dcrans Aristotele inquit. Verba autem secundum se dicta nomina sunt id est simplex habent significatum nominis86 eius simplicibus partibus simile, ex quibus constatoratio. itapro Alexandro dicendum. Aduerbia plurima ex parte quam vanam explicationem existimo, dictionem, fcili, cet affirmationis partem vocari. Nam quid interest dicere nomen et verbum vocem esse SIGNIFICATRICEM A PLACITO et afferere nomen et verbum dictionem esse ihuiusmay deduciauero nomine aut a parte orationis simpliciquæ nifestum indicium ex Aristotele sumitur. Qui ipsam orationem definiésait oratio est vox significatrix, cuius ex partibus aliqua separata significat ut di&tio, verum non ut affirma, tio) ergo idem est dictio, quod nomen. Ut habet translatio Magentini. Et uerbum. Ergo dictio, orationis communis pars erit, non affirmatione stantum. Nisi per appropriationem dicatillud. sed Sancto Thomas vidensuocesalo, gico consideratas non poffe decem simplicissimas resnis fime diis conceptibus explicare (itaenim secundo intely uim habeat nominis. Et ita si quando goriatura uerbo, nihil Alexandri et Aristotele sententiæ officit. Sed cur particis pium, quoquam se pissime in demonstratiuis scientiarum sermonibus utitur, tam hicquam poeticorum libro relis quit? Ammonius dicit, quia ad nomen et verbum reduciy tur. Aliiuero (quod idem sft) dicunt.quia pars comporis ta non simplex orationis dicitur. Quæ responsio magis perspicua et euidens iudicio meo est. Nam primo pos ter, secundo, præposuit dupliciter præ cognoscere oportere, leda siue secundæ intentiones dicentur, nonu tres linere alia någquiasuntprius opinari necesseest. alia vero quid lationibusdenotant. ad philosophiam naturalem spe&an eft quod dicitur intelligere oportet. sed cum duas propos tes& metaph.) aliteralseric, fimplicium(inquit)di&tion nerettresenumerauit. &adhocrespondet Auer,optertia ma ueneratione sanctitatis probarim:in hactamenre' sponsione dissentio: cum decemuocesnon solum limy plicesconceptus:sedresmediisconceptibusexplicent: loco,& subiecto:& non nifirefpe&uhorum.ut pronos men loco proprii nominis. Adverbium tam hic, quam in libro poeticorum relinquitur, uelquiautAmmonius ait, modum dicitquo prædicatum incit subiecto. aut ut  Грее   species compofitaeftexhis.dicasetiáoduaspræposuit necceffarias signum est q Aristotele dixit (dupliciter præcognoscere oportet:& quia lunt,opinari neceffe eft:& quid in telligereoportet.) ad tertiam vero præcognitionemder scendens,fineullonecessitatisuerboadditoait.(quædam autemutrag:) namcompofitaquæeffe&am tertiamnas turamnondicuntdistinctama componentibus,explicatis neceffariispartibus, coniunctimexhisexplicariintelligun tur:uerum quicquidsitdeArist. textu&rationequamdi xi: sufficiensrefponfiofit: qhicdefimplicibus partibus Aristotele loquitur,qualenonestparticipium. Coniuns &ionemomisit,nonquia inutilis,quoniam.infra(quod ipseconfirmat hic, & fupra contra Boethii opinionem adduxit) Arist. diuidet orationem enunciatiuam in unam simpliciter & coniunctione unam: quæ neceffarioconiun &tionemexpoftulat. Necexomisitut Ammonius et Sancto.Thomas quiapars orationis non est sedparsconne&ensatque coniungens. quoniam Aristotele coniunctionem poeticælos cutioniannumerauit,tanquam orationiselementum.Item incap.quarto Auerdicet,q Syllogismuscöditionaliseft unusperunam copulatiuam.Gifoloriturergodieseft. ficut predicatiuus est unus per medium terminum. sedhic medius terminus neceffaria est pars prædicatiui sive CATHEGORICI cay thegoricifyllogismi. ergoconiunétiosyllogismiexpofis tionefiuehypothetici.Hinc etiam contra eos fequetur inutilemconiun &ionemnonesse: sed hypotethicofyllor gisino necessariam: ut medium terminumprædicatiuo lyllogismo.Aliisentiunt proptereaconiun&ionemomiy filfe:9 de enuntiatione una simpliciter demonftrationi seruienti, nonconiun & ioneuna considerat. fed hanc reo sponsionem suprareiecimus: earationeq hicliberetiam ad librum priorum dirigitur,proximam syllogismo hypothetico positionem seu præmislamelargiens. Itemin hoclibro,capit.quarto,propofitamenunciationemab aliis oratoriisac poeticis seligens, in has duas partitur. itidemq; definitaoratione in libro poeticorum eam in hasdistribuit feudi uisit species. Dicendum igiturnobis uidetur, proptereahic relictamconiunctionemesse,quia facilis, &Arift. sufficienserateaparua cognitioquam tradidit in libropoeticorum. Aut secundodicasquor demonstrativa (cientia. Etsecundo poft.1oo. iuxta ordi niamhic propofitú est deuocibus neceffario SIGNIFICATRICI nemquem compositiuum aut componentem appellant, pri bus agere ad interpretationem per voces clariores efficie endam: quęoémorationemefficiant.namhiclibercom muniaprincipiaexplicat. Dic secundoq in libro poeticorum cap.septimo, coniunctio fignificationis est expers: quade causa definitioni, quæ perfectaoratio eft,nondeses Post eaquid eft negatio, o affirmatio:& Enunciatio, u Oratio, Deinde quidsitnegatio,a affirmatio,o enunciatio, oratio. mo genus,quid syllogismus,indespeciem,.demonstras tionemcollegit. Pręponens igitur hic ista duo tangfinem unum integrūperse ex genere & specie constitutum, primo ait enunciationem, deindeoratione, non ita per se intenta: nobis innato aminus communi ad communiora. Sed hæc responsio improbatur quia. Si ordinen obis innato, seu aminus communi & imperfe &oincipiendum est, cur latus ordo ex accidente euenit, ut quando gabimperfer &o furnatinitium. quia in libro de animal secundo, tex. tura Magentino cum universęres (quas universalia dicunt) singulis pr æferantur, cur hic non primum de oratione & genere, deindede enunciatione affirmatione & negatione exorsus fit Aris.sed primum a nomine & uerbo:namauta nobilior iinchoandumerat, aut aremagiscõi, utordone ceffariusseruaretur, non anobiliori,cum negationem affirmationi prætulerit. nonacommuniori, quiaoratiofuif setanteponenda. Responderipse. solerequandoq; Arist. hocfacere,&arecommunioriquæadfingulasresfpes &antincipere:quomodohicdicitanominefignificante substantiamfiueeflentiam&auerbofignificanteaction nem,seupassionem, Ariftot.inchoare:sedquareiftum fecundumneceffariumordinem internegationem& affir mationem,enunciationem & orationem nonferuauerit,ut Gbioccultumomifit. Præter ca enunciatio utfinishorum materialium principiorum prenstantior eft, ergo antepor nendafuisset. Amplius nomen et uerbum, nonideocom munioraeffedicimus,qfubftantiamautaccidensfignis ficaredicuntur,sedquoces fignificatiueapositionelunt, non substantiæ aut accidentis,ut naturæ terminatæ,sed communiter omnium.ratio ergo eftfumpta a processu re foluente finem in causas & principia prima intra rem.itas quecum orationem nonomnem, sed inqua est verum et falsum, ideft enunciatiuam, ut finems peculetur, & hæcex nomine et uerbo, u tmateriis, constituatur necessario ers go primum dehis ponendum quidf snt: deindecóplebit reliquas partesprocessusresolutiui.sedlubieêtum,utto, tumpotentiaprimasspeciescontinens,cognofcinonpo teftfinesuis speciebus, ficuttotumconftarenonpotnifiex suis constituentibus principiismaterialibus:ergodeindede his quæ ad finem propriú diriguntur, dicendú, quid oratio et enunciatio, ut completes finisele&us habeatur:quiahęc in affirmationem & negationemdiuiditurincap.4.utpris mophy.intelligere&scire,ideftintelligerescientificum: quodAuer. finemrerumnaturaliūpofuit.Itemgenuscú principalisuaspecieunumfinéconstituit,aceaunoproce mio proponuntur& epilogocolliguntur:utprimoprio rumdesyllogismotradaturus, resoluentemprocessumef ficiensaprincipalifineinchoauit:dedemonftratione &  Propositis communibus, ut materia, principiis,quæ per se significantiaomnem orationem conftituunt: nunc de coniun&tis ex hisprincipiis& conftitutis proponit.pri mumq; ait (Deinde, ut diximusex Ammonio, ordinem &urumproponitderebusomnibus:deindedeelemétis, denotatprincipiorumconftituentiumadresconstitutas. &deomnianimapriusquamhacautillaanimaratio (Po f t e a (inquit) quid n e a t i o affirmati o &c Hic quæris igitur & causa ordinisa dnoscelatiestanotioribus nobis Diiii gationé affirmationi prætulerit. Ammonius ait priusnomenperfe&tiusposuit?Iteminsitus,& adnosre 66.asenfuuisusincepit.ut Auer.aitineodem libro.co. 77.& tertio, de anima de intelle&tu priusquamdesecuny. dum locúmotiuapotentia. fimilitersecundúaccidenseft ut a comunioribus fiue minus cómunibus proMilanius. N a m de generatione confiderans de eageneratim sedin ruit: & fi per se non significat (utait Aristotele licet significa, demonftratio intéditurquamfyllogifmus.Etprimophy. tionemnonimpediat perfeadhunclibrumnon(per primofinemproponensrerum naturalium primum,dixit. &at,quietiampersesignificantiaprincipiautmateriasspe (quoniãintelligere&scirecótingit,)ideftrationemellen culari conftituit.quarenoninutilisquidemcõiun&tioerit: tiamacnaturamipfarum,indescientiamperdemonstras sednecneceffariaparsfignificans,orationiperse,ideft, tionemacquisitam ratione& eflentiapofita,& explicata omni conueniens.oratioautemdiuisainspeciesduas, perdefinitionem,infineexplicando,nobiliusexplicauit, quas monftrauimus, conjunétionem a poetica,uteiusparti acmagisintentum.Sedadhucdubiumremanetcurnes utilem,mutuo accipit. fed ad enunciationem relatam.ut primo priorum,prius TEX.BOETHII. ordine ad nos relato,ab imperfecto ad perfectum procedit:&   tum.negatioenimdiuisionemcontinet,affirmatioautem in compofitione consistit.negationé igitur affirmationi præposuit, & magis ad partesaccedir,compositioautem ad totum.Sed(ueniatantiuirifitdi&um )negatiomagis composita dicitur quam affirmatio, cum additione negan cisparticulæ,affirmatio efficiatur negatio.Ad rationem orationem quatenus ex luis materialibus principiis cons harum alterutrapræferatur. Sedcontra dicimus,pris mo hic liberad demonstrationem dirigitur, utipsefal dem, fic nece æ de m voces. Quarum autem hæ primum notæ sunt, eædem omnibuspaßionesanimæfunt:& quas rum hæ fimilitudines, res etiam eædem. Sunt quidem ergo hæc in uoce,earum in anima paßios admodumnecliter&omnibuscædem,ficneceædemuoces. sentienscum Magentino) reprehenditura Sueffa. adiu mentum seu commodumin proæmio, nointra&tatupræ do) secondo phy.tertio.(natura est principium motus et quietis, per se et non secundum accidens) ita que ex his positissequiturnegationeminftrumentumexplicanscon fitioneformam eflentiamq;cognoscimus)hoceft.agen rium& dirigentiumadipsas.) oportetigiturantecogno! scereeaexquibusestdefinitio:proptereaq iftapræcogni tetur, quææternorumeftnonautemadeaquæpossunt ponitur. diceretenimilleutilitatemtotiuslibri&fubiecti esse et noneffe.Amplius&fiinuno,quoddepotens anteponenda, nonutilitatem cognitionis,perquampro tiaadactumeducitur, non effe prius fit eo, quodeft: pofitad eclarari, ac definiri possunt. meæ etiam rationi nontamen simpliciter inomni natura: cumea,quępoten responderet. In sequentitextu commodumqualefitex tia continentur, nonnisiaba&tu, aceoquoduereeftin plicari: sed quaminordinateacfinearteidfaciat,uides actumedantur.prætereacap.quartoenunciationemin rintalii, retamenidemcumAmmoniosentit.quiait Ari. hasduasspeciesdiuidensinquit.(Prima autem oratio docereuellenomen& uerbumquorumfinitionespromi enunciatiuaeftaffirmatio,deindenegatio)crgoanaloga, fit, voces significativas esse, quod ifferata uocibus nonli aut per rationem ad aliud nonç quediuifaparticipaturab gnificantibus, ut scindapfus:docetớ; quæ inprimis,ac utrii: feddehocfuolocodicemus. ficut Ammoniusdi proximeabipfisuocibusindicentur. conceptus, fcilicet durumpromittit: Mihiquodueriusprobaturiftudeft, primo: quorum interuenturesexplicantur.quæomnia, hic affirmationem et negationem numerariut plures species enunciationis, id est oppositionem contradictoriam erficientes. Quæinfinefectionis fecundæ,inhoccons fiftit.utaliquasedeiiciant,deftruant,abiiciant,atque ne gent; inhocautemefficiendopotissimam&inprimis uimhabetnegatio. Quade causaibiprimumabArift.nu meratur, utsecundodeanima.27.cum speciesfubie &ti fintplures,exenumerationeipsarumpręcognoscituresse, id uerum in demoftratione, itidemindefinitionemons quodanteponendumeft,priusquátra&atuscognitioaut definitiohabeatur. Secundo sciendum primo topic. ofta 10i2. Oppofita secundum contradi&ionemprotenfaals terumoppofitumexplicare.Et primopoft.o&auo.inan tiquacommentatione,(de omni eftquod non inquodam quidem fic,in quodam autem non. nec aliquando quis d e m sic, aliquando quidé non. Jitidem & tex. quinto (scire autem simpliciter opinamur: fednonfophifticomos nitionis: quafimplici conceptu fine assertioneseucompo iun&a & diuisa, notioremessequamaffirmationem.nam ta,adeamhabendamnosdiriguntatqzillamexpræno/ attenderefolemus diligentius ad contraria, ut nobisads uerlancia,quameaquæfuntnobisinnata. hæcautemafs firmatio, illa negatio explicat perexterna, explicantia tisefficiunt. Arif. igiturquoniamdixit(oportetnoscon ftituere, fiue ponerequidnomen, & uerbum &c.)&com muniterhæceruntuoces significatiuæpofitionealięfine quodammodoalterum.sedcumiplespeciesexpropriis very explicatione, alięcum vero.iccircoiftatriaantemani principiisinternisdefiniuntur,I uxtaipfarumnaturam, feftat: nesuedefinitionesfineratione&fineeaquamipse proprietatem, &utadcommunegenusproportionale tradiditarteponantur,at constituantur.Inhoctextu (euanalogumreferuntur,finiendasuntprimo,modohic inproæmio negatio præposita numeratur, ut inftrumeng uoces essesignificatiuas:quod Ammonilis exponens cum tumefthabensellenorius:secundoautemmodoinfrain Magentinoaitquattuoradhocutilia effe:rem,conceptú, tra&tatu& propria definition subsequitur.itainfra,intely uocem, &literas. Amm.autemait Aril.inchoare,nona le&usquandoplineueroeft& falso: circa compositio/ rebus,quæperse,necfimplicessuntneccompofitr:(id nemenimeftfalfum&uerum.Queruntnouissimecuruo enimhabentconceptus)sedauocibus,tr"finequibusdis cem omiserit.sedAris.infriadhocrespondebit:utsupra sciplina& præceptiofierinonpoteft aitą;nullamfacere etiãanobisfatiseftdi&ú.Proptereaadaliacótendamus. Aristotele de literis mentionem.gnulliusuifuntadproporto & fiuerafint, diminPombaamen ponunturcum aliammay gis intentam differentiam (significare scilicet a positione, non natura) relinquat,quamtamenAlex.&Pfelliuspro sequuntur et in expositione tex. Ammonius A uer.ato aliinonomittunt.unumergo&idemcumhissentiens, eorumueritatem confirmo. Cumnominisdo&rina&dis sciplinaexantepositafiuepræexistentifiatcognicicne, ftretur,& testimonioAuer.confirmetur.primopost.ses cundo.& Arift.primoMetaph.48.& apudAlex.83.pri motop.quarto.(oportetenimaitArift.exquibuseftde finitiopræscire,fiueantecognoscere.)& Alex.inquit definitioperomnia nota & precognita procedit & Averroes primopost. secundo.fic.(etiamuerisimileefteffedispofi tionem fpecierum prænotionum conceptionis (ideftdefi unumeorumquædiximusexplicatur,nomen& uerbum  primo phy.fecundo.hec autem quandog imperfe&tiora, TEX. BOETHIL. Suntergoea,quæ funtinuoceearum,quesuntinanie quandoyperfectiora,minus communia autcõiora.Ma ma,paßionumnot&,o eaquæ fcribuntur,corum,que gentinusaitq cum euidentiadixerit,abhistanquáabdi tis&occultisabftinuit.S.Thomas dicit gquiaAril.cępitapar suntinuoce.Etquemadmodumnecliteræomnibuse&s tibusenumerare:ideo nunc procedit a partibusad tol adducam dicitur. aliudeffe dicere num note: O quæ fcribuntur eorum in voce. Et queme procedere,quiamagissensatasunt.3.deanima30.39., inftrumentum,seu Atat, essemagisminusuecompositam:aliudfinemhabes paßionesanimesunt,o quarumbæfimilitudines,res quoquecedem. reutalterumconiungicum altero,autfeiungiabaltero enunciet. secundum concedimus: sed exillo affirmatio nis naturam magis compositam esse, sequi negamus sed Magétinus dicitq enumeratis nomine,& uerbo,& aliis eorum definitionestradendæ erant,quas ponereconstis tuerat.SedhocAril.nonfacit:sedcaputproponit.quod nobisadiumentoerit:sedquodfitadiumentumnonexi plicat,necincrepandusame eritutHerminius(idem negationis potius. Secundorefpódetp in hisquę poffunt efleXnonefle,priuseftnoneffequodfignificatnegatio, quamefle,quodexplicataffirmatio:sedutspeciessunt æquegenusdiuidentes,suntfimulnatura,nihilgrefert Quorum tamenhæc primum notæfunt,eædemomnibus i ta con    lacontemplanda.Quod fiitaest. Curergo iftorum quat passiones seu conceptions esse omnibus.easdem:idest tuormeminic? Etsiinfralongioribus,nunctamenquod ellea natura: Expolitoresnonexplicant.quadecausa, ad rem pertinent dicamus,& brcuiter: finem huius libriin terpretationemesseut fuprapofuimus.hæc autem utlov gicum inftrumentum & organum cognoscendi,ad expli cationemrerumdirigitur,actanquamultimum & perfe netemere& fineullarationeiddrift.pofuiffedicamus. notandum,sextotopi.14.inexplicandispartibus defini tionisoppofitorum,nontantumopuseffeoppoftiscum negationepræpofita,fedetiamrebushuiufmodi,quiz intentumfinemrefertur.interpretatiouerorerumnon busdefinitiofeudefinitionisparstanquamhabituiconue fit nisi per uoces clariores significantes a positione, aut perl iteras (cum uoces defuerint) propter eanecresomi lit, sed tanquam fine multimum&inprimisintentumpor fuit.tertioenimmera.6.7.meta.23.nemodefineconsuls nit:nam persehabitusperpriuationesnoscuntur:licet quodammodo (ideftut Commentator primo pofter, 133.1nmagna commentauone & primorheto.cap.quin toinepitomatibus logicalibus) explicet alicuigeneriha minum priuatio, atqueoppofitum cum negationepræs posita,alterummanifeftet.quamobrem topicaloca con ftituunt.Qomnibus,autpluribusitauidentur.Cum igis turfupraexplicaffet,liocesfignaeffeapofitione,exappo fat:fedftatuitatq;ponit:sedquomodo& perquæisfinis eueniatde liberat.nam primo ethico septimo, fifinem tanquam exemplarhabuerimus,magisintelligemusquæ nobissuntbona.& feptimopoli.13.inprincipio:Duo funtinquibusomniscommendatiobeneagendiconsiy fitocumnegationepræmiffa,nunceademexplicatpary ftit.unumutpropofitum acfinisrecteagendisubiaceat: alterumuteasquæinillum sinemferantactionesinuenia mus, resigiturhic non relinquuntur sed tanquamfines explicandiponuntur. Nec literæ fruftraab Arift.nume ranturcumuocumfunganturofficio:hisq;principibus explicatis,& quæ scribunturapeririintelligimus.huius enimcaulaquæsuntinuoceconscribimus,utabsentis busuocibus,resconceptascertius,uberius,&firmius teneremus.quæ enim uox,totphilosophorum,anobis abfentium,sententiasunquáaperuitadquaseorumlibri nostam facilcdeduxerunt,utpossemusaliquandoquid ticulamexoppositopositiuo.passionesenim& respros prereaq eædemsuntomnibus,naturasunt,nonexarn bitrio,&pofitione.exoppositouoces,acscripiuræquia non sunteædem,apositione, no natura significant. Hinc etiam differentia vocum a positione et passionum siue conceptionum & rerum colligitur. & approbationem intelligat, ex græca particular aperitur. quædicitiwvwww quorumquidem. Quæparticulacausampropofiti expliscat, non controuerfiam. Quioaduerba, Ammonius pris mumobseruat.qcumdeuocibus&literisdiceret Arist. ait. quorumexsignasunt. sed passions similitudinesre senserinteorum scripta fæpiusrepetentesagnoscere: No rumuocauit. Quia simulacra rerum naturas,quoadlicet igiturut Ammonius dico nihilo pusesse scriptis.seddico, representant.utinpi&uristidetur.inquibusmutarefor magis fuisseconueniens Arift. nomen& uerbum &c.des mas præsentatas non licet.litin Socratepitto calvo, fi finireperuocesquæin disciplinis quasaliocertoduce mo,oculisprominentibus.signauero&notætotumha. perdiscimusfacile)primas tulerunt:quam perscripta: bentabimpofitione,& cogitationenoftra,utinmilitum quibus peritiocculta cognoscunt,& percepta declarant, signis,& notis diuerfisa; inftitutis conspicitur.Sedcong Nunc adliteramueniamus ea quæ in uocesunt,cons traquiasecundopriorum.27.deenthimematetractans. fi stunt,autcontinentur,suntfignaseunorę.ounebonorenim duo hæc fignificat.(earumpassionum ).i.eorum conces ptuum:quospatitur,ideft,utformisperficiturphantafia, mens, seuanima,ut Prelliusait.& quem scribuntur SIGNA ac NOTAE funt eorum quæ in uoce consistunt.Etquemadmo gnificans.quiaidemuerbum,lignum,&notauocatur. dum necliteræomnibusexdem ficneceædem uoces.} Explicata prima definitionis particula,núc ad fecundam accedit quoces a positione significant. Idqueapprobat Arifto.ratione fumptaex oppositocum negation prol tensa. Quodquodammodo notius, alterum palam facit. primo topic.o &auo, hinc facileconfirmatutexperimen 10 Arist. quodsupradenegationeantepositaaffirmationi docuimus ratione,fedoppofitumeiquod eftapositione elle,estelleanatura:quæ eadem omnibusineft.exops positoigiturratioinhuncmodum formetur. ad conclus fionem exfimilinotioriinlitterisinnuendam, idnatura effediceturquod eftomnibus idem;naturaenim princiy piumeftperse& deomni:quæigiturnonsuntomnibus eadem,nonnaturasuntautsignificant.anegatione proy Prætereasihæcdifferentiaueraesset,acillamAristot.ex his uerbis intenderet,his tantum nominibus pofitis fuffin cienterexplicasset,dum diceret. Propterea quòd uoces & literæ SIGNA ac NOTAE sunt, a positione significant: passiones uero & resquiafimilitudinessunt, a natura. Itain finiendo nomine& uerbo sufficeretsiduntaxatdixisset, nomen&uerbumestnota.nonigituraddendumquog cesfintapositionefignificantes.& hicomittendumfuils set,quòd uoces& literæsuntnotæfuesignanoneadem, neidem calu, actemere refricaret. Mihi ita sentiendum uidetur. Ovuboloy superior NOTAM (NOTARE, NOTIFICARE), SIGNUM (SIGNARE, SIGNIFICARE), VESTIGIUM dices re. quæ ita dicuntur. quiaut notiora exterius NOTIFICANT, ac ut VESTIGIA pedum significant. Hoera autem,ideft passiones, sive conceptiones,  non ita: quanuis interius priæ definitionis ad negationem definiti.hęc propositio, similitudines rerum vocentur: rem tamen& fiinterius, quia perspicua, approbanda non eft:sed lumiper fenoi exterius non aperiunt.proptereaigitur uoces et literas fi, tam oportet, alibiquodammodo declarandam:Allumy gna& notasuocauit,& passionesfimilitudines:quiaille prio,ideftminorpropositiointextuexoppofitocumne exterius, hæcinteriusmanifestant. Secundoexdictisfaz gatione præpofitanotioriinliteris.(&quemadmo! cilereprehenditursyllogismusquemSuellaformauitex dumnequeliteræomnibuseædem:ficneceædemuol litera.dum afferit Arifto.uelle probare uoces & literas ces) conclufioconsequetur. Igitur nec voces a natura sig quumeuarient,apositionehaberi,conceptionesuero& gnificant & nonomnibuseç demerunt. Quorumaux res, cumnoneuarient,naturaeffe. hoctotumuultelle tem.;Approbataminoripropofitioneexsimilinotiori præceptum& complexionem fiueconclufionemadqua inliteris,inquibusidemprædicatuminuenitur.nunc inferendamait Aristotele intexturatiocinari. Quæcung sunt aliaduo, conceptusfcilicet, seu passions & resmanis aliorum signa vel notæ, positione fehabent. uultdeinde festata naturaeffe:& ita ead emomnibus, inquit(ledpal, quòdassumptionem,ideft minorem Arift.ponatibi.{funt Gones animæ) quarumhædi&æuoces.(primum)nuly quidemigiturquæsuntinuoce&c.}ideftfed nomina & lointeruentu,noræfunt(hæanimæpassionessuntcæs uerba. Et scripta suntf sgna et notæ. aliarum, voces, Ccili demomnibus:& resquarumhæpassionessuntfimilitus c et conceptionum,& (criptauocum:sequiturcóclufiout dines,etiameædem funt.) Sed cuiusgratiamanifestat putatibi. (qaemadmodumnecliteræeædemficnecuos Aristot.ipfumdefiniensait,syllogismuseftimperfe&tus: exfignis.ubieodem uerboutituradexplicandum69 gnum naturale,& fignum apositionc.uana itidemerit, assignata differentia Magentini. non fita positione ceseædemerunt.} ubi(fic)ingræcononhaberiaffirmat: tur. Sed primær esponsionispartitio, feudiftinétio, quo quodmanifeftefalsumeftToosenim (sic) latine significat nammodo fituerainprimosuomembro,supralongios {&quemadmodum&c.}ait(&)uimhabereinferendifæ ribus disseruimus.cęteratáquamueraprobanus.Seddu pe consueuisse.Sed obiurgandus est Ammonius:qui lis gnum,& notam aitapprobationem,ideftprobationem bitabis Vox significatrix est per se genus nominis & uery bi: igitur vox erit gencris pars communis, per seunum constituens:duoigiturconsequuntur.primúnaturale,unā perseconftituerecum artificiali,&ensrealecúenteratio, nis:secundopartem efle intotoniinuscommuni:signifi care,scilicetapositione,effeinuoce,quæeftmagiscomo munis. Qui modus improprius dicitur eius, quod est in esse.q nomina,& uerb auoces, & scripta a positionef sgnificent:cum secondo priorum27. In Epiromatibus logica, libus,derhetoricaperfuafiua,& fyllogismo.cótradičoria fignaenthimematis& demonstrationis, & topica etiam,  non a positione significent. lignum ergo, et NOTA, commune est ad signum, quod EX ARBITRIO ET inftituto signifiy alioelle. quartophy.Adprimum&finihilhicneceffario cat,& signumnaturaconsistens.Secundopropriaeiusra tiocinatioconfutatur:nonenimunusestsyllogismus in textuquen suo arbitratu diuisit, sedduo. Vnusquonos minaAristot.&uerbauoceseffefignificatiuasdeclarat: quodamedi&um est Paulo antedum primum in textum hoc modo (quæ suntin voce sunt notæ et signa) scili, cet significantia exterius (earum quæ sunt in anima passionum.)  minor siue assumptio, utpofitiopersenota,ap Aris.dubitarem.reslogicasuthabentesesseimperfectum & quafiin cogitatione ut fubiecto:inuoceutfigno,aliam naturamullam sortitas non effe, quam eamquam anima probationis nonindigensponetur. Cum nomen & uers exarbitriofinxit: ut ad aliud fignificandumexteriusrefe bumdefiniet,fednomen&uerbum funtfignaseuuoces: ratur.ficutea,quæartificummanuseffingunt præterna itaq; maior, ergo &c.propofitioallumptaest,utperseno turæopis,lignum,scilicetæs,aurumue,nilreliquumha ta. Signum est illa græca particula (quidem igitur) quæ bent, nisi quodarsuerapersua inftrumenta hocuelillo uel executionisfitnota, uel fineulla approbationeexpro positis inferens,m e a m sententiam confirmabit id effe fine approbatione aliqua pofitum. ut communiter affertum abomnibus:Secundusfyllogismuseritibi.(Etquems admodum &c.) ut secunda pars definitionis ponatur, significare, scilicet a positione. Quod tanquam perfe notum, nondemonftrat, sed quia non omnino,cinealiy qua controuerfia eft confeffum.proptereaquodam modo ex opposito cum negatione præposita manifestat. Quod inscriptis eft manifestius, apofitionefint;& eui dentiuscóftantiusq;manifestent.Syllogismusigiturerit. quæ non omnibuseadem suntillanon a natura (quæ in omnibusuno modoinuenitur:perseidem inomnibus fimiliter operans ) sed a positione sunt,& fignificant: minorintextu.(Etquemadmodum necliteræomnibus eædem, ficnecuoceseædem.}Itaquemaiorpropofitio fyllogismiSuessenonestadhanc inferendamconclufios nem,quam nostra secundaratiocinatiointulit.& quæa Sueffaratiocinationisconclufio& complexiodicitur, no bisminorsecundisyllogismicumeiusapprobationeex simili literarum uiderur.nam fine ulla controuerfia (ut bene animaduertitAmmonius)fcripturæ&literæapos fitione fignificant.licetquodammodo uertaturindus biumannomina& uerba,nátura,utPlatouideturassere re, anaconfilio, ut Arift.sentit,significaredicantur. hinc. perseunum conftituit cumuoce,naturaliopereanimaut fequetureum non aduerbaArift.nequefenfum dicere. dum infecundasuaexpofitione afferit, quam Alexandri & Afpafiieffe confirmat, hic Aristotele velle colligere similitudi singulare opus naturæ eft, fedutindiuiduumabartefor matum. Itaquenecprimum sequetur, naturalecumarti ficialiunum per se constituere: quianonutnaturale,sed néinterscripta et uoces. Sedqexhocpredicato,fignifica utarteeffectum, formatumcumsuacausaformaliperle reutnonidem,ideftapofitione:quodnorius,&firmiusin unum efficeredicitur: fimiliterres logicas et placitum f19 scriptis uidetur. Infertidemdeuocibussignificatiuis,tan uementisarbitriuminuocecontineri affirmamus:non quamgenereproximonominis& uerbi et omnium alio tamenutopusnaturæeft, per seunum genus conftituit, rum. Quæritsecundo Ammonius:cur Arift.nondixer fed tantumutapositione,&confilio, et cogitationefal cit. uoces sunt signac onceptionum. Sed eaquæ funtin &umeft,utuoxadhocuelilludexplicandumponatur. Voce irespondet primum: cum triplexfitoratio,concel & ex communiimponentiumconfilioreferatur.Sica pra, inuoce; inscripto:desecundahicloquiturfecuny mentisrelatione,queinuocead fignificandum relinquis do respondet, voces naturae dimusficutuidere, audire: aliudeftergouocesesse,utopusnaturæ,aliudnomis na& uerbaapofitione& noftracogitatione,quæuoce utuntur,nam.quemadmodum ianua diciturlignum,& nummusæsuelaurum ex arte, quæ imponitfiguras& tur,uocemnaturæopus,artislogicæinftrumentum, & opusartificialeperleunum,& adalterumsignang dum relatum conftituitur. Ex hisadidquodsecuns do consequebaturpatet refponfio. non enim inconuer nienseftminuscommune,quodformam& a&umdig characteres:eodemmodo&uocesdicunturnomina, cit,contineriinaliomagiscommuniquodinpotentia cum alocutoria imagination fingunturacformantur, fie exiftensperficiacformariabaliopossitminuscommu; gna eorum,quæ inanimouoluntantur,& talem sunt formamadeptæ:utex positionefignificent.signum est uoxmutorum articulata,quæquianonexcompofito& institutionealiorum eft,ideonomen& uerbumnondicis ni.utdeintelle&tu & cogitatiua Auer.opinaturdeanima altrice,sentiente& rationali.& ex Aristotele confirmaturses cundodeanima. 30. De forma artis in materia. Poftremo inuoce,perfe&ioplaciti,seuarbitrii,confilii,&pofitionis, effetdicendum.sedmetaphyfico& naturalihæcquæftio difficilisrelinquédaellerbonitatis,tamengratia,quambre uissime poterorefpódebo. Fed animaduertendumprimo modoeffigiantiaprogenuerit.Hoc,alterumcomitatur, easdem res logicas,utsecundo intellecta,ad logicam non ut scientiamsedartem spectare.namearuni,mentisare bitrium,utexternacausaefficiensassignatur.aquoeffig ciunturea,quæartium&sciétiarumexplicationiconuer niunt.& inuocibus,acaliisnotioribusregulis apponun tur.primopost.17. secundopofter.27. Tertioponens dum octauometaph.16.noneodemmodo,omnium unitatis per se causam requiri. Alia nanque, quæ matel riæconditionibusuacant,utintelligentiæ fiuementes,fta timens,& unum perse sunt:Aliaquæ ex materiis cons ftant,unum persefiunt:qhocidem,quodenspotentia erat;idem fita&u:efficientetantumeducentedepotens tiaina&um artificialiaperseunum conftituunt,secundo phy.13. secundode animao&tauo,non cum subie&tout naturæ indiuiduum eft,fed ut arte formatum, viue effigia tum est: artis,ac formæ artificialis esse recipiens. causa enimpropriacumsitars,& effe usartificialequiderit. Ficutcauf apropriaindiuidui& effe& in aturaliseftforma &fubftátia,effetumigitursubftantiaerit,itaproportione & fimilitudinequadam,quædeunitate& definitioneres rumartificialiumdictasunt:fereeademderebuslogicis, & uocesignificatriceapofitionedicendafunt.non enim quod inuoceexconfilio,& mentisarbitriopofitumest, quibus quibusuoxipsa, qualiformatur:& denominationeexo trin.ecussignificareapolitionedicitur,atque,utaiunt, per attributionem placiti,ut formæ fpecialis, uoci, ut cantibus omnibus,nondefinitecontractisad110men,& uerbum:nam uoxfignificatiuapartem communitsimam generis nominis & uerbi & orationis conitituit non pros materiæ sive generi magis communi adsunt. Necincon prienomen&uerbumtantum: Differentiam aut eniliter ueniens modusellendiinalioeft,minuscommunisinma rarum abelcmentis quam Ammonius accepitaDionys giscommunifiueformæinmateria,utSuetreuidetur,quo fio,lumasabArist.inlibrocnim poeticorumait. Eles niamquartophy.23.Primus modusnumeraturpartisin mentumuocéeffeindiuuduam:ergoproprieinuoce.sed toto,tecundustotiusinpartibustertiusspecieiingenere, ad sensumpatetliterasparteseorumeflequæscribuntur. quartusgenerisinspecie,quintusspeciei,leuformęinmai Quæriturcurpassionesuocauit,&fimilitudinesuelfimu feria &c.NecualetfuaobiectiocontraPorphyrium: lacra. Ut Ammonius dicit. Sueffarespondet proptereafie fequeretur Arist. Intampaucis uerbis ambigue dicere. militudinesappellari,qarederiuaniur:passionesuero, utanimum ipfum perficiunt:conceptus,utprincipilim, & ratiointelligendi.Sedcontra,quiarecteAmmoniusin terpretatur,fimulacrarerumdicuntur,nonquiacausa, taarebusutphantafmatibus fiue sensu perceptis.sed quoniamrerumnaturas,quoadlicet,representant.utin picturisdemonftrat.in quibus mutare,ac transformare naturasreprefentatasnonlicet.Prætereaconceptus,nifi constituanturnouarumrerumuocabula,remiamconcer ptam& cognitam supponunt. Non igitur proprieprincis piumseuratiocognofcendidicentur:nisiutspecies& phantasma, ut obiectum alumina intellectusagéus,eftdes puratum, utaiunt, formatum et illustratum. Item non explicatquem animum passionesperficiant.quianon mentemperseimpatibilein,utAuer.opinatur.Sedani mam seumentem phantafticam,ideftexiftentem inphan tasia,utoprimePselliusexplicauit.attributiueenimmens quiadudicit.{eaquesuntinuoce. sumiturutparsminus communisintoto,ideftinmagiscommuni.cum uero fequitur,{funtfignaearumpassionumquæfuntinanima} nuncfumiturutaccidens& formainsubiecto.Sedcons traquiaæque ipfumin conueniens hoc fequetur: cumpla citum,fiue confilium,uoci non hæreat denominatione interna, ideftintrinfecus.sedaconfilioimponentiumaty tributú,utfigno:Placitumergofiuearbitrium,pactio,& mentiscogitatioeftinuoce utsigno.non cuiextraanis mæoperationeminhæreat:sedpassionesanimærationa liconueniuntutactueamformantesacperficientesetiam dum dormimus. Item proprius modus elrendi in alio maxime dicitur ultimus,utinlocoueluale.aliitrans lumptiue,ideftpertranslationem,utArift.& Commentator afirmant. Tertio queritur(quod primo loco quæren dun fuerat) anperuoce,ergoaliquidexpropofitisinfe rat, anexecutionisfitnota.S.Tho.aitexpræmissiscons cludere,hoc modo.quia Arift.dixit{oportetponere quidnomen8uerbum&c.}Shęcsuntuocessigniíicatii caduca&infirmapatibilis,&poftremoinhominesola mortalis.SedhicprimumquærocurfolumArift.passion num & fimilitudinum seusimulacrorum meminit:Respo deturcuprincipiointelletusfiuemensphantasticarerum qualiadumbratas intelligentias & fimilitudinesrecipit, his ut patiens i l lu f tratur u t patibilis intellectus. Hinc requistur, easfimilitudines,utanimam perficiuntphantafticam, passionesuocari,perficientes, acillustranteseamnuilo contrarioantecorrupro. hęmecfimilitudinesdicütur (ut oítendimusexAmmoniojurrerumnaturasquoadlicet representant.& conceptus,utabintelle&tupatibiliseu possibiliconcipiuntur,autiam suntconceptæ.Secundo ponendum intelle&tum patibilem,idestpossibilem ad passiones & fimilitudines (cum easprimumcócipit) conferri, ut poteftateeftomniailla, tertiodeanima.14.17. quemadmodum tabulainquanihileftafcriptumfiuefir &um.Indeetiam sequiturtertio.intellectumsemperesse uerum.tertio de anima 21. ideft non errare.sed intelles Etussecundoprogressusultracomponitillaspassiones, utsimpliciaintelle&a:&họcquandoßuerequandog falsecompræhendit (ut infrasectionequintadatur opis nio falfa) ac apositione,confilio,fiuearbitrioopinatur. Buntur sunt notæ eorum quæ sunt in voce, nonautemdi dequibusAlexanderforteait.deeisdemrebusfæpe uæ:ergooportetuocumsignificationemexponere,seu rectiusponere.ContraplacetSueffecum græcisomnibus notam elleexecutionis:Sednecipsequicontradicitdiffi cilerefellitur,nóenimdiuusTho.afirmat(ergo aliquid supra  tra & tatum, seu, ut ipsia i u n t, colligere supra execustum, sed ex prædi&tisacpræceptisinferre,infraconfidei randaspræcognitiones.utnosetiam diximus.&itaes xecutionisest nota. proptereanonuniuersatimeftuer rum(quidemigitur)notam efleexecutionis,quæexan te positis no ntr a haturnam nomen definiens, nomen (in quitquidemigitureftuox&c.)definitioautem nominis exantecognitispartibusfequitur.fimilitersecundoprio rumdeenthimematetractans,declarato,& pofitoquidfis gnumdicatur,intulit(Enthimemaqudemigitureftfyllor gismusimperfe&us.) sedaliiarbitrantur,ornatuscaufaa græcisponi.ficanoftrislatinis(quidem enim ) adexory nandam orationem ponuntur: Mihi Arift.uerba & pro cellumconsideranci,quandoqueepilogi,quandoqexer cutionis, siue ornatus ellenota uidetur: quodfacileex fuperiore& inferior scriptura,ne ambigua çftimentur, perspicuum fiet. Quærit Ammonius cur dixerit.quçscri nosdiuersossensushabere.inquoMagentinusfruftraco natur,Alexandrum arguere.itaphisensusuarii(quos exuerisfimplicibuscognitis,& eifdem,acanaturacon dinonsuntliterę &elementasedhorumpartesisecundo fiftentibusintelle&usconiungit)nonomnibusiidem Xerit.literæ&elementasuntfignaeorum,quæinuoce: duobusmodisrespondet,primohicArif.denomine& uerbo,acaliispropositisinproæmiospeculari,cuiusmo aitq si'uerbumArisadomnemdi&ionemextenditur.lij teræ propric sub his continentur quem scribuntur,elemens taueroquæ proprie in prolatione consistunt, subhisquę in uoce. Sed Arift. generatim loquitur de uocibus signifi catiuis ut pars definitioniseftomnium, quæinproæmio definireproposuit.Sed in libro poeticorum elementum definitur, quoxfitindiuidua:nonomnis,scilicetperse fignificans:sedexquaintelligibilisuoxfieripoteft.hic uero dixit(eaquæsuntinuoce).i.arbitrium,confilium, anpassionessimplicesquasdeipsishabemus,easdemres cognitio,intelligentiasuntfignafignificantia,& intelli fignificare dicantur: cum semperfintdistinguendeutdie gentiam conceptuun explicantia,nonigiturhiceftfers uerfasrescontinentes Respondeasaliudeiledicerepaso mopropriedeelementissxliteris,quæeademsuntre,li fiones primaseffefimilitudineseasdem,idefta natura cetratione quamdiximusdifferant,leddeuocibusfignifi constantes,aliudpassionesessenaturalesfimilitudines rempatibilem affirmamus.primodeanima65.66.tery tiodeanima 20.ratione phantasiæ,fiuecogitatiue.quæ funt,licetapositione&opinantiumconfiliopendeant. hispositis,patethorum duntaxat Arist.meminiffe,quia hæc sola sintuereomnibuseadem, adquæ animacons paraturutpotestaterecipiens:quamobrem passiones Arift.appellauit.aliiautemconceptus,autnon iidemdi cuntur,autadillas,quasdiximuspassiones& fimilitudi, nes,reducuntur.hæcdehisha&enusquætuncdocenda eruntcumdeanimadicemus.Deæquiuocisambigunt.    idestnaturaconsistenteshabebunt:quibuspluracognos scunt,& representant, acreferunt.licetuoces (quarum proprieambiguitasdicitur,nonnaturasinteædem feda positionesignificent:æquoca enim rem unam cominus nemnon habent: fedtantumuocem.&hçcresponsio,diz uiThomæ dictis,eftfuita.Sedobiicies utSuella contra Porphyriumubiuocesfunteædemaconfilio,pofitæ, easdemprimasconceptionesfineerroreautfalsosignifi, cant;nonergoambigueloquicontingeret,nequedifting bis.ubinaminAri.patet,similitudinesinprimisesseres rum simulacra& naturaliaficutresnatura eædem omnis bus sunt?Respondeasextertiodeanima.38.animam, quodammodo efficiomnia,cum omnium formas,aut sensu,autmentesuscipiat:&quiafingulorumformæper animam cognoscuntur,lapisautem noneftinanima,sed species&formaeiusprimumlapidemrepresentans.Pri mumergosimilitudines,&speciesrem&lapidemrepre reautillicArist.dicit.Ad phantasmata intelle&usconfers tur,ut sensus ad fenfibilia:a quibus natura mouemur: atqueimpossibiledicitur,quinuisistangamur.Itemne celleArilair,intelligentcm phantasmara,idefteorumfis militudines,fpeculari tex.39.res autem o narura constent, tanquam omnibus perspicuum omittatur. Amnionius di de anima }ad poftremo relatum dixit.cæterum prodig tum de hiseflein'librisdeanima,fcilicettertio de anir TEX. BOETHIT. De hisueròdictumestinijs,quisuntdeanima,alte riusenimeftnegocij. eiufdemreiueldiuerfarum.namanaloga,utprimum offensioadarteriam,fidecófulto&compofitofiat,illac concipiuntur,diuersacontinent,ordine,comparatione quacommeatspiritusuoxeft:tussisuero,nonefteauox: seuproportioneadunum collata.tamen eorum primęin telligentiæfcuconceptioneseædemdicuntur,ideftnatur ranonarbitriouariæficutuoces:quxcomparatione,reu proportione dicta a positione significant.simili ratione ambigua, ideftæquiuoca,primasconceptioneseasdem, nus,quicumsignificationealiquaemittitur.)Sedpoftula quamuis per eadem loca,machinamenta proueniat.quia, scilicetnonexpropositoaccidit(namaitfinecogitatio neautconfiliouoxmissa,nonestuox.nam;hocomnino indefinitioneuociscollocandumeft.quoniamuox eftso in  guere differentes,qui satis ex notis locibus,atque errore, conceptionibus conftituere poffent, quod fitads sentant, nam intellectus omnium,de rebus fenfibilibus primum uenit,ex quibus uisa quædam & fimilitudines procreat.ad quasintelligensfeconuertit.& cum intelli uersariorum consilium,aut quid ueline Dicas his disting dioneutiopusnoneffe,quibusitahæcnomina suntper {picua& communia,utquasidomi ab ipsorum pofitione nascantur. Sed his qui quasi modo nascentes de notissimis rebus atque nominibus hæsitant,nihilq;ab aliisexplicar tum nouerunt:qua de causa,diftin&tio in bis nominibus fiet,quæ habentur dubia: quorum res abditæ & arbis trium confilium plurimarum rerum & conceptum non gie necesse estfimulphantasma aliquod speculari.phang ialmata enim,sicut sensibiliasunt:præterquam tertiode aninia 39.0 sunt sine materia. fecido natura constant fimi litudines:non exarbitriopendent:quiaadsimilitudines comparatur patibilis intellectus,ut natura pure potentia autpoteftaterecipienstertiodeanima.17.14.innatura enimanimęeftunum naturaagens,alterúnaturapatiens ficutin omnialianaturamonftratur.17. tertii. Prætes perspicuuin dicitur. A d textum nunc redeamus. Ex uerbishiscollige.quod supradocuimus(uenforqui dem igitur)quandog ad exornandam orationem ab Ari. poni,uthic:nilenimexfupracognitisinfert,nequealia quid exequendum. seutractandumproponit.Queresab Arift.cur istorum naturam dillerere diligentius & proy prietates omittis?quibusg ab animantibus instrumentis uocalibusproueniant:pulmone& asperaarteria,aquos ma.39.at conceptus dicit mentis primi,quid intererit quo minus fint phantasmata: Respordet an neque alii phantasmata sunt,uerum non finephantasmate tum in rum primo,uocis materia aer præstatur.ab altero, voces graves et acutæeffigiemfumunt.& q articulatędicantur a lingua,palato labiis,ac dentibus ut animæ rationalis motionideseruiunt.curhçcitidemapositionc,alteraa naturaconfiftant.atquefimilitudinesrerumsintprimum fimulacra,uoces uero passionum ligna,ac notæ dicans tur:AdhæcomniaputoAristot.respondere.propterea abeo essereliâa o alteriusestpertra&ationis,ideftad aliumpertinentmodumconsiderandinaturalemdeani, ma:nampertra&arequanamrationeistaabaninia,acin ftrumentiseiusproueniant,anauoluntatependeant,ut operationes,adanimam,suumpropriumprincipiumres rumuocesprimoresgeneratimsignificare,fedlogicos feruntur,de quibus ut supra diximus,fecundo de anima. 87.88.89.90.differit.ubiuocem fignificatiuamex ima ginationeanimæ uoluntaria,Conum appellat:hinc ergo patetuocesessesignificatiuas.sicenimad interpretatio rum primo conceptus.quod ex definitione Platos nis(aquoGranımaticiacceperunt)confirmant.nomen nemdicunturconferretex.88.10.& apositionesignifica re. quia ab imaginatione significant et voluntate.ut Com mentator&Arist.asserunt.Arist.enimait(oportetanis matumeffeucrberans)& 90.(& cumimaginationeali qua,)ideituoluntaria.cuiusrationemadducens,inquit suntinaninia:& quarum pafsionum equoces primum 114 gnasunt&c.)sedcótra.quiaeodemmodonomendefini, tura logico, poeta, atque grammatico.id autem(utue rum fit) in definition nominis declarabimus.secundo fin nisharumuo cum eft idem eiadquemoratioenunciatiua refertur.hicautemeftinterpretatiorerumconceptarum, quæ idemsuntquod conceptus:Scotus uero quæstione secunda respondet.conceptus fignificarerem,utfimilitu do & speciesrei,nonutaccidensanimædicitur,Sednon quæriturhoc,sed duntaxat,an uoces principaliter,seu uox enim eft quidam sonus fignificatiuus,non naturali ter,ut significatiuus est fonus refpirati acris.sicuttussis: fed ab alio libero mouente hunc aerem ad arteriam.) Ing quit etiam Themiftius acute hunc locum perspiciens hus iusergoaeris(quem spirando reddimus) percussion & quibusimaginationem pafsiuiintellc tusnomine appels landamcensuit.tertiodeanima.20.primodeanima.6s. 66. ex quibus tam obscuris verbis non poteft concludi aliud,nifiquod poftremo deduximus.non enim uideo quid suadi&a sequatur,fiprimi& aliiaprimis concepti bus non sunt phantasmata,non tamen sine phantasmate, line quo nihil intelligit animam, nisi conceptus primo phantasmata representare & necesario: ut intulimus. Mihiautemuifumeft,fermonemArift.adomniasupra di& a potuisse referri,cuius uerifimile argumentum poteft esse. dixit{di&um eft,quidem ergo inhisquæ de ani ma,}ideftlibrisduobus secundo& tertio:utretulimus; non tertio solum ut Ammoniusopinatur.Etutfinemtan demquærendi faciamus.paucisadhæcadditis,poftres moquæramusnominafiueuocesanprimofignificent res,anconceptus?Quidamrespondent,grammaticos finientes quod subftantiam uel qualitatem significet. & hicArift.quæ inuoce,lignasuntearumpassionumquæ De his quidem igitur dicemus in hisquedeanimaalte. riusenim estnegocij: &um hocArift.{Dehisquidem di&um eftinhis,quæ   in primis res aut conceptiones significent. Propterea ues riusadrem,& fenfum accedés,refpódeo:& nobiscum,8C sinominibus non concinnat suella,re tamé idem affirmat cumAlexádro. primumpono,uoces,tanquamultimoin? Tentumfiné & principalius, mediatetamen, fignificareres. & extremum, uoces,an res ipsas significent {'in cótrariam partemArift.& Comment. (& quæfcribunturfigna& no iæsunteorumquæinuoce)&liuocesprimosignificant conceptus,&conceptusprimumres,scripturæergopris mum uocesdeclarant. sedcótrarium,leniuumteltimonio & experimentomonfiratur. quiascripturahominis& cei terarumrerumdequibusphilosophidifferunt,utimur,rey c u m ipfarum explicádarum caufa.præterea epiftola inuen fecundo autem minus principaliter,fed immediate,con ceptus.quæduoaffertaexemploasciemanifestanturnam ascia (utinftrumentum) efficitimmediatum.sed principay leseuprincepsefficiensestartificismanus.quoddeclar taaffirmatur,utcertioresfaciamusabsentes,siquidesset ransprimodeanimaoctauo.Themift.ait,qprincipaleac ultimo intentum cognosci & definiri, indiuiduum dicis tur:fedaliointermediocognito.formauerouniuersalis finealiomedio: ut tamen ad indiuiduum cognoscens dum refertur. Hæc di&ahisrationibusapprobantur.Id quodeosscireautnoftraautipsoruminteresset:igiturres poftremo, ut ultimü & finis,explicari intenduntur. Item fi quæscribunturfignasuntuocum,autearumquæextraani mam,quodimpossibileeft,autinanima:uocesautemin animaconceptusdicuntur,quosadrerumexplicationem inprimisuoces significant, adquodsignificandumnouos referriut sinem supraretulimus. Nunc ade aquæ adduce rumnominum inuentorim posuit.hic autem ad remexpli candamuoces consticuit.id.n. deuerboconsiderans Aril. & manifeftansuerbumfignificare,approbat,quiacóftituit intellectu. seduoxprolatahoministunc conftituit,&quie (cerefacitintelle&tum.noncumadcóceptum:sedadna turamhumanamdeducit.ergouoces,& nominatanguls timum fineminprimisintentumresexplicabunt.licetins termediisconceptibus:prætereaprimoelenchorumpris banturexArift.respondebo.nonfolumquerendumquid philofophusdicat. Sedquidcouenienterrationi& sententiæ suæ uere opinetur audiendum. Hunc enim in modum. Aristoteles Intelligimus (quæscribuntur, suntnotæeorumquç inuoce).i.confilii&arbitriiinuoce.quæsecundointelle &a& conceptusresexplicantesdicuntur.Sicinterpreteris quæ exArift.adducuntur.(quefcribuntursuntlignaeorü, quæinuoce).i.explicant(cum voces defuerint) ea, quçex plicantur per voces, quarumuice fungitur.immediateer go uoces,sednontanquamultimum &extremum,quod mo,uocum finemdeclaransArist.ait:quoniamresaddil serendumafferrenonpoffumus,utimurnominibusloco rerum:ad explicationem ergo rerum,cófideratiouocum referturnonconceptuum,utfinemulcimum.Amplius.4. idemopusexercetcumeo, cuiusuicemgerit, utdeconsu metaph.28. ratioilliusrei,cuiusnomeneftfignum,defini tioeftuoxigiturreiperdefinitionemexplicatæ,fignum dicetur.Itemteftimoniofenfuum confirmatur:quorum clara& certaiudiciasunt, eorumquærationeetiamiudis cantur.Ad quidenimtam diu expectamus, flagitamusuo le, rege et pro-consule, siue proregein vollendiscontro uersiis perspicuum est. Scripta autem uocum uicem exercent. Idem ergoextremum significatum habebunt.expli cationem, scilicet, conceptarum rerum. Amplius literarum inuentor, ad rerum explicationem direxit, & Auer.ait(cri cum interpretationem: nisiueriinueniédigratiainrebus, pturassignificareuerba,ideftfinemedio&fignificatauer quascognoscere3[cireftatuimus:I denimuolumus& borum,cumforte uocesdefuerint,hæcdequestionibus ardemusdefideriotangextremum. Adhæc.ficonceptus suntinftrumentaipsarumuocum.utadrerumnotitiáme diisconceptibusducant.nó igitur ultimum & extremum que verum ad b u c est. Signum autem huius est, hır c o c e e ruus enim aliquid significat, fed non dumuerum aliquid, -uel falfum, finonuelese,uelnonesseaddatur,uclfine pliciter,uelfecundum tempus. Estautemquemadmodum inanimaaliquandoquidem o falfum. Nomina quidem igituripsa Q uerba consimi liafunteiintelligentiæque estsinecompositioneo diuie suimus,&rationibusacsensibus,rationemconfirmatibus fone,uthomouelalbum,quandononaliquidadditur:nes approbauimus.Pugnabispoftremo,fiuoces,mediiscon queenimfalfum,nequeuerumadhucest. signumautem ceptibusexplicationem rerum efficiunt:cum immediate bus ueritas& falfitas inuenitur, hæc autem cnceptus sunt, non res ipsę. respondeasuerum & falsum inconceptibus, ut in rerum fimilitudine inueniri:quæadipfarumuerará rerumcognitionemrefertur.ueruminrebuseft,utincau fa.inpoftprædicamentiscap.depriori& infinehuiuspri m i libri.itap attributiue.i.per attributioné & collationem adres,ueritasinconceptibuserit:uereautem,utincausa, inrebus. Dicespropterquodunúquodątale& illudma césrefertur,ueasciaadmanusartificum:quodsuprapor fignificatumnon ab organo sumi oportere:sedultimo explicare conftituunt.nam quod uicem alterius perficit, dum uerumaliquiduelfalfum;sinonuelesseuel noneffe  fatis, ac principale fignificatumuocum dicétur. Etfiobiicietati quidem intellectusfincuero,uelfalso,aliquandoautemcuiiam quisArift.textum,quemretulimus. uocesprimumsignis ficareconceptus:intelligasfinemedio alio.non tamen,ut necesseesthorumalterumineffe,ficetiaminuoce.Circa compofitionem.n.odiuifionem,eftuerum,o falfum.No ultimum & extremum significatun. Nam uoces dicuntur significare conceptus, ut rerii sunt similitudines.utab ipsis rebus conceptus uenisse ad intelletum dicamus, quas nouissime, ut finem et ultimum intermedia sconceptibus per voces clariores NOSCAMUS. Nec secundum eorum argumentum concludet. Voces ea in primis ut finem significare in quis mina igitur ipsa et verba consimilia sunt ei, qui fine come gis. Si ergo voces, mediis conceptibus, explicantres, igitur uoces magis et inprimis conceptus, qresipsasaperient. Dic Aristoteles locum ualere in causa principe.i.principali non iuuante tanquam instrumento, quomodo conceptus aduo intellecus et cogitation fine ucrouel falso, aliquando autem cuiiam necesse estalterumhorum inesef, ic,etiam inuos ce.Circa compositionem enim et divisionem estuerum conceptus, ut accidentia denotent, nunquam substantiam explicabunt. Paucis, ut supra, respondeas,tocum propria addatur, uel simpliciter uel secundum tempus et extremo fine intent. Quod quandoq substantia quando g accidens appellatur. Huic veritati Alexander et Themistius ascribunt, etc. Ammonius non dissentit. Secundo quæs ritur, an scripturæ fiue quæ scribuntur, tanquamultimum Magentinus hunc in modum Aristotelis.textum cum præce denticonne&tit.cum duo sintinueftigata. Primiiquonam modo nominis & uerbi signification intelligenda ellerutrum TEX. BOETHII. Est autem, quem ad modum in anima, aliquando positione, divisione est, intellectui. Ut homo, uelale bum, quando non aliquid additur, neque enim falsum. Ne huius est, quia “hircocervus” aliquid significat sed none E   hæc duofineab Aristotele, pofita, caulam & finem curitapo ratiocinatur. Quem ad modum in anima intelle usquando fuerit, non declarant:ut.l. quid nominis partium definir tionis nominis,& uerbiorationis, enunciatiuæ tang præs cognitionesponag ntur. Alterum etiam secundodicúrey fello. Non et enim videoubiinueftigauerit Aristotele inquibus verum et falsum inveniretur. Quod nucquoginueftigare constituat. Itempugnantiacum Ammon. dicit. aitenim inanimaeftquandoquerumautfalfum.&itaprobatio Ammonius.per hæc utilitateinad inftitutæ commentatio, effet minorisibi. Circacain positionem. n.intellectus& di nis propositum tradi.cum. C. verum et falsum sit in mentis uifionemeftuerumautfalfum.}conclufioutclaratuncre concepribus&uocibusutsignificantibus,&quodnúcdo linqueretur.ergoitaeritinuoce.seduerearguitexhypo cetphilosophusnoninhisfimplicibus:sedcompofitisue theli, nonpotentiacathegoricosyllogismo.nam cumpos rum&falsumspectari.nonnominibus,nisiutperoratio fitionemquodammodoignotammanifestet,nonfyllogir n e m enunciatiuam a firmativam coniunctis, vel per negativ uam diuisis, ita gnó in quit hæc quæ diximus Aristotele docuif m o arguit. Ex quo aliud ignotum natura concluditur, sed ex hypothesi, ut diximus.& infradicemus. Prætereaut Commen & Ammonius asserunt.ibi{circacompofitionem enim & diuisionem}non minorem.sedapprobationem uniuspartisantecedentisapponit. aliquádointellectus cumuero&falsofit.signumestparticula{enim}quæcau sam propositidenotat,fcilicet quia uerum & falfum sunt circacompositionem, id est affirmatione,quaaliquid cum falsum in compofitione et divisione sequuntur intétiones se:sednuncdocere&inconceptibus&uocibusutsigni? ficatiuis,falsum & uerum fpe& ari,dum coniunguntur aut diuidunturnonpersesumptis.Addeex Amm.hæc Aris. nuncdocereutalteramorationispartemantecognoscat. DicesproMagentinoillaquædixit,ab Amm.ferèaduer bum fuperioritextusumpfife.cuminquit(cumhæcitaq percaquæ nuncdicunturtradentur.Iuocesessesignificati was rerum mediis conceptibus:tum uel maxime quibus in rebus quocunq; fuerit m o d o ueritatem ac falfitatem scruz tariconuenict)C.inhoctex. Addés ueroquçintextusupe intellectus.i. sunt in anima,sextometaph.8.ergoeruntin riori confideret ait.(de quibus in præsentia nobis perpen uocibus seu uerbis significantibus ipsas conceptiones,ut fioest. Utrumin rebus anmentis conceptibus, an uocibus, Comen. animaduertit. Exhis declaratis etiam patet,q in aninquibufdam. harumduabus: anetiaminomnibus. telle&usfitaliquandofincueroautfalso,idq;tangexsuo fiinuocibusqualibushisscilicetcompofitis.nonnomine & uerbo& prædicamentis,itaincompositisconceptibus qui caufa funtlocum, noperleinsimplicibusneccompo! fitisrebus) Sed animaduerte quod dixerit(nobisperpésio uisionez.i.lineueroautfalso.hæcexemplomanifeftatsubs inprçsentiaeft)quod tamen inferius considerabit.neg dicitab Arifthæcquæ ipse perpendit,inueftigata.nec'ait InueftigasseAristan significationominis& uerbisolī,pen deatexuocetantum,anexintelligentiauelrebus:sedquo cunq;fueritmodo,inhisueritas& falfitaseft,utexplicátis businftrumétis.hacenimrationeresipfasabiecit.adquas famenutextremum&finemultimumexplicandas,uoces tere&nonadmittunt:ergonecdequominus:nistuery & conceptiones animæ referuntur, q siquispiamhęcquæ bum effeaffirmatum, aut non effe negatum addatur. fim eft fine uero aut falso, quando cuihorum alteruminesse necesse eft, ita& in uoce: hoctotumeftpropofitiomaior, affumptio&minoribi.circacompofitionemenim&diui rionemestuerum& falsum,&noncircasimplicia,itaergo eritinuoce.Sedcótra:quiaminorhæceffedebuiflet:fed aliocomponisignificatur,autdiuifioné,idestnegationé, quaexplicaturprçdicatumasubie&todisiúgi.& uerum & oppositoperspicuúutcorolarium& cófequensposuitcū ait.{nominaquidemigituripsa& uerbaconsimiliasuntei intelligentięfiueintellectuiquiestfinecompositione& di ftantię& accidétis:hominis.C.&albi.utexhisomniaalia prædicamenta intelligatur. quando.n.his non aliquid ads ditur, fcilicetuerbumprædicatumalbumcumhomine suz biectoconiungens,nequefalfumnequeuerumadhuceft. Hoc denominehyrcoceruimanifeftat,nanquehuiusinor di compofita nomina uidentur uerum aut falsum admity  exvocetanti:m,autsolaintelligentin,anexresolumuos ex Anmonio dicimus non probarit, inutrunqzfitdi&tum. Cesitemper animi sensus rerum elleinterpretes.Secundo inquibusuerum &falum inuenireiur.quòdnunequoß idoftendendtiArist.proponit.fedutrunchiltorum reiicio. non eniinfuprainuestigauit.Sedpofuit,utpersenorum, S.Tho. dicitq postquam tradiditordinem significationis uocum, hicagitde diuersauocumfignificatione:quarum quædam uerum & falfumfignificant:quædam non.Sedli cetuerumdicatur,utdeAmmonioreiulinius:tamenfine nomina&uerbafignificatiuaefle,cxhocpeaquæsuntin cuiusgratiaistaponantur,fubricuit:Licédumigiturcum uocefuntfigna& notæsignificantespassionesnullomes diointerie&o,hisautem mediis, tanquam ultimui,res explicare.prçterea non uideo ubi inuestigarit,an nominis & uerbifignificatiointelligendaessetexuocetantum,aut intelligentiatantum,autexresolum:fedhocposuit(funt uæ,quibusetiamdifferebantabaliis:nuncuelleconstitue quidem ergoquęfuntinuoce &c.utsignificatiofumatur non exuocetantum,nonintelligentia,fedarbitrio,cogni tione, et CONSILIO et  imponentium consensu, quem in uoce refeuantecognosceredifferétiam, quaoratiodiffertano mine&uerbo:&quaoratioenunciatiuaaboraroriis8C poeticisoptantibus&c.separatur.& quoniamquępones reoportet,& antecognoscere,utpersenota,nõnisialiquo facili instrument innuidebét.nullomodo demonstrari. proptereaexfimiliseuhypothefi,&cóceflo,acpofitotery expaétione& confilioreliquerunt.acuociperattributio nédederunt,atnullamentioeftfaétaderebus,anabeasu mendaefletsignificationominis,& uerbi,quoniammaxiy m u m esset ignorationis,ac inscitiæ in Arift.argumentum, firem tam perspicuam,nec dubiain pro occulta quæliffet tiam definitionis partem & differentiam manifeftat.cũ inz quit.(esid..)ubi, ',proenim Magentinusuertit.utcaus sam hicassignareuelit.utAmmonius &.S.Thomas dixerút, acdubia.cuieniniuelrudi dubium uideretur,nomen & uerbum (quod ut organum & instrumentum significat)a- rebus,inftrumentisignificatiui&Organicognoscendialte rum,significationem habere,cum tantü significentur,& nul lomodo significentine ignificare& explicare,utorgas num logicum uideantur?Item ea significatioerat nomio nis& uerbiponenda,quæutpræcognitiopartium defini tionisadeacognoscendadirigeret.hæcautem eftuoxa de quo nuncdifferemus.aitergo deantecedentesyllogiss miexposito.{ficutuelquemadmodumenimeftinanima intellectus cogitatio,intelligentia.(vóruceenim ifta signifie cat.)aliquandoquidemsineuerouelfallo:aliquandouer rocuinecesseesthorum alteruminesse.}Exhocposito & notioriantecedenteinfertquodammodoignotumin choantibusconsequens.(ficetiam& inuoce)utsignis& notis conceptuum erit,aliquando sine uero uel fallout in nominibus& uerbis,aliquandocuinecesseestiamhorum alterumineffe:utinorationeenunciatiua,Suellaueroita pofitione fignificans,non res tantum significata:a uoce er go& intelligentiainvocerelicta,8Ctributafiueattributa lignificationominis&uerbipident,noarebus.Amplius: Suela (nam licet fupra male textum Arist.declararit Sucr sa,nuncueritatecoaausidem dicitquodnosinexplicans do philofophodicebamus)pofitisduabus partibusdefini tioniscómunibusnomini& uerbo& orationienunciatis pliciter,  efle,quamartemutexemplar,adopuseffin latenus (incaliquiduocum: neceorumquæ in uoce,nout gendumexteriusafpicit,qopusexartenotioriinmates finis:cumconceptuspriorfituoce& ueritatequęinuoce confiftit:nonutagens.quiaresagensest,aquaoratioues taautfalsauocatur.sednondifficileestAmm.&.S.Tho. sententiam& opinionem,aSuessæargumentisdefendere. primum, absurdumaffirmat. Conceptus non tangformam ficant: quiinvocetangartificialimateriarelinquütur:quo esseueriautfalliinuoce,cumnecaliquidfintvocum,nec cumuiuocessuntnotæ:Exhisrespondemus:rationem eorum quæsuntinuoce:Peroenimabeocumsupradixe ritArift.eaquæfuntinuoce&c.nonnifiarbitrium,&pla citum, cogitatiointelligitur: ut ipse metcum locum interpretans, opinatur: ergo conceptus est aliquid existens in voce, non utopus naturaleest,sed arte.i. uoluntate: confi&um. Itemipfeconfiteturuocemsignificatiuam,communeges nusnominisuerbi&orationisenunciatiuęuocari:nõuo lessuntsimilitudinesrerum.Seddicessecundomenunc cé,utnaturaleopus. ergoutacognitione, imaginatione pugnantiadicerecumhis,quæanteacontraAnimo.Boe uoluntariaeffi&taeft:utsignumfitadaliudextraexplican thium,& Scotum diximus: orationen dariinméte& no dum relatum:Etfecundodeanima90.Averroes et Themist. tioremesseea,quæinuoceconfiftit.Diximusadhçcartis fumentes ab Arift.asserunt:essentiamuocisinterpretatis inuentoribusueliaminuentamdocentibus,ineodem no efle percussionem aeris anhelati, ad membrum quod cana tioremesseartem, acconceptionescūuero& falsoinani dicitur,abexpulfioneanimæimaginatiuæuoluntariæ:& ma,quamexteriusopuseffictum:ficinpropofito,excong infraqinessendouocemnecesseestutpercutienshabeat ceptibus rationem coposuit, notioribusapositionesignifi animamimaginatiuam,8tuoluntatem:effentiaergouol catis:quiquodammodonotiores:utindu&ionesensata cispendet abipsoconceptu& placitoreliétoapositione patet.infraenim se&ionequintaexoppositionemaioriin inuoce,tangforma:&uox (uropusnaturæinterpretans mente, explicatitae! Tein uoce: Item placitum eft caufa, a placito) abanimaetiá,tangagente, depédet:nam 87.& 90.secundo de anima.percussiorespiratiaerisad uocala arteriam ab anima (quæinhispartibus) uoxeftutefficien tecausa.hincCómen.inprincipiocómentiait.(oportet igiturutpercussioaerisanhelatiabanima,queestisismé præcognitionempartistertiędefinitionisratiocinatur:no brisadcannam, fitilludquodfacituoc@)&inmediocom igiturdemonftrationemeffecit.quæadnaturaliterignos menti:(primum enim mouensinuoce,estanima,imagina tiua& concupiscibilis:& ideouox eftsonusilliusprimi uolentis& mouentis.)Etq etiamdicipofsitquodammo dofinisuocum, perspicuum est ex his,quæ fupradocuio mus: fine muocum effè eriam res conceptas: namorgal na ad eorum opera,tang finem & ultima,diriguntur.pris mo topic.9.cumnonpropterse,sedpropteralterum exo petantur:seduocesfignafunt& notæ conceptuú,adquos explicandosreferimus:finesergomedii,licetnon ultimi tumdir igitur. Secundo post.primo.necillam(utperitus ad rem per se nota efficere potuit. ne ipse suampręcogni tionum artem confirmaturusexperimentocontrarioinfir maret.Itidemminimeconsecurionem ualeredicimus:ra tioexcaufiseftnotioribus,ergodemóftrationempropter quid aut simpliciter constituereaffirmabitur.quoniam alte rum& pręcipuum demonftratiodi&arequirit.utadigno tum naturaliter dirigatur, non ad pręcognitionem ponendam, utpersenotam:nam primopofte.2.veręetiàdefis uocabuntur:Exhisfacileeiusrationibusrespondemus. nitiones,quidtantumnominisnonuerædefinitionisuim haberedicunturabAuer.utpræcognitionessunt:ita&fi hæc præcognitio ex caufamonftretur,nonutdemonstras tiua, fedutexfimiliaccepta,&uisa, &alibideclarata;pros ptereatopica potius,quàmdemonftransuocanda:noto pica,o fitdubia,autfalfa,immouera,sedhicacceptaalig biuisaphilosopho,& hicpofita,utcredita:dequo latius ressecundum feeffedicantur,nótamenapudeosquicon ceprus& res conceptas ignorant:adquarumexplication nem,utultimum,referuntur. Adtertiamdeagentedico: inquit)exAmmonioait. Primo quiahæcconfi&anomina rem, agensremotumuocari: aquo intelle&us phantasticus falsum significare uidentur: ut.S.Tho.ait.Sedcótra.quia fimilitudinéabftrahit:sedanima,utnaturaagens,uocem ab Aristotele dicitur (fed non dum uerum aut falsum signifi interpretantem (tang operationem propria mefficit, &lo cant. Nifi effe aut non effe addatur): ergoutrunquefignis gicotradit:cuilogicuspropriumconsiderandimodum ficareuidentur.Itemcausaassignandafuiffet,curexem attribuens,utinftrumentumsignificandi& explicandicon pliscöpositis (que uerum fignificare potius etiá uidentur) Ad primam,utpatet, intelligentia,inuoceartecong fi&tareli&ta,eft,utaliquiduocis.i.forma.Ad secundam Q non fitfinis,nonualet,idpriuseft,ergonon finis:Deus enimeftpriormotu&creatura,quæadDeicognitionem deducunt,utsigna& effe&taadsuumfinemcognoscenda directa:fimiliterdicaturdeuocibus, & ficóceptusprio riaexternareli&um:manifeftumeftargumentumqdixit Arist.nonuoces:sedeaquæsuntinuoce,suntsignapass fionum&conceptuum,utnaturaliumsimulacrorú&res rum fimilitudinum.i.cóceptusapositione,(utratio)signi exfimilinotiori,& fuperiusabArif.pofito,exlibrisdeani maprocessisle: ficutinanima eftaliquandointelle us fineueroautfalso,aliquandocum horum altero:ita& in uoce:&deuero& falsoloquitur(utAlex.& Ammo.ac cæteriboniexpositoresaffirmant)orationisenunciatiuæ, & denominibusfignificantibusaplacito,nonutnaturas quamobremuocessignificantcúfiuntnotæ.Necproptes reao conceptusutcaufedicuntur.quosnomina& uoces tanquamfigna& effetusimitantur,afferendúeftArif.des monftrantem rationem efficere:namhich ypotheticèad Deoda nieprimotopic.dicemus. QuæruntcurArift.fis &aprotulitexemplapotiusquàmuera.Sueflasumens(ut  pliciter,quod præsentis efttemporis.aut secundum tome pus.i.præteritum& futurumutCom.explicauit. De Am moniiexpositionedicemustunc,cumaddubiaresponden bimus. QuæritprimúSuessa.qualisnam ratiocinatioAris. fuerit(quéadmodum inanimaquandoqintelligétiafine ueroautfallo,quandoquehorumalterumnecetleeft in esse.)respondet.S.Tho.& Ammo. intex.præcedenti,nes liderat,accognoscit: Respondendum ergoest(uteftdig &um )Arift.exhypothefileu positione,& ex fimili notion riprocedere: quod (quemadmodum) particuladenotat. dum asimili: sedacausaquamimitatureffe&us,proceder re.namAmmo.ait:circaenunciatiuamorationemquæ quæsupraetiam Aril.poluit:namproptereauoxfignum exillorumcomplexuefficitur, uerum et falsum spectari. &notaexteriusexplicansdicitur,qapositione&intellig ante voces quoq; hæccircaconceptuscósiderari.utqui causæ uocuinlunt,aquibusconceptusfimplicesfineueris tate, & compofiticum uero & falsodefignantur & declas tantur: Responsionem improbat Suelta: quia conceptus non causaueriautfalliinuocetangformasunt:cumnuls duftioncperspicuum eft(utAmnioniusanimaduertit)no tioremartem Seddices ratione inaliniilieffe&tamexignotisconcludes re,nanieaexquibushicratiocinatur,extertiodeanima 21. infrasumuntur:hæcautemtanquam ardua,& inchos antibus difficilia,utphilofophus,& relinquendasupra nosmonuit:Satishuicrationifaciendumarbitrorexhis, gentiaatqzarbitriopendet:ineo presertimartific equivoces impofuit: uel ab impositis et Gibi notis nominibus, regulas logicæ docet:in mente enim artificis& docétis ing E ii   quærimus, ad que causa hæc nondirigitur. Tertio dicit: ut quçinintelle&usuntfolo.sednefcioquçueritasdicipót, cuinihilextraresponderinre:cum infra& inpoftpredi camentisdicatur.abeoq resest,uelnoneftoratiodicitur uerauelf alla remota aūt causa et prima radice, ceterade ftruinec effe eft. Item Aristotele de vocibus loquitur. Propterea mihi hoc libet dicere. Hac de causa fiais exemplissuasen tentianicomproballe,o fi&aamer a positione significant: & ideo magisobuia& perspicuaacconsuetafuntadexpli candum: utquodámodonotiora,utmagisuulgata,exars omnemueritatem haberiin compofitione& diuisione.ne excludatur ueritas apud Platonem in intelligibilibus,& in telligentiisfiuemenubus,& apudArift.desimpliciuming telligentia et abstractis: fedeam que in pronunciatiuissubs est motibus, scilicet cum discursu: seu ratiocinatione: quæ perenunciatiuam fitorationem.&inniotibuspronuna ciatiuis,non invoce solum (intelligas) exiftentibus:fices nimtextuiArift.& eiusdillisaduersantiadiceret.sedetia ne&diuifionefalsum & uerumremouerineceffeeft:pro ptereaergodixit,(circacompositionem at causam noia ret:sed ad nomina in uoce descendens ait:(non significare uerum, aut falsum): significare enim proprium eftnomi num, quæinuoceacompositionesignificanteconfiftunt. PetitAmmonius quomodo uerum fit,circacomposicios innueretueritatem non in rebusreperiri:fedinhisetiam, nem et divisionenelle uerum et falsum. Responder non nonutitur: ficut utiturhis, quæ falsum significare maxime affirmantur. fecundam causam adducit: utinnueret, non solum nomina simplicia ad ueritatem explicanda indiges reuerbo sed etiam ipsa composite. Sed idem est dicendum de nominibus compositis ueris, nosautem de fictis proprie non  bitrio plurimorum: exhistamenfi&lisnominibus, aliaue ca intelligendasunt. exempla autem innotescendi gratia inuenta, exuulgatis& consuetistr ad endafunt et lificadi cantur: quibustaméuerum facilius inueniamus, autinuen tum facilius doceamus: Petit Suella cur Aristotele.dixerit conpositionem significare cum uero et falso, non autem significare uerum aut falsum i respondet, hoc differreinter significare uerum et significare cum uero:quias ignificare ueru potest uere in nomine simplici inueniri:u.g.hoc nomen uerum aut fallum, simplex verum significat.i. se ipsum: sed significare cum uero,eftfignificare cum uerbi complexu ut de uerbo dicetur, significare cum tempore, notempus: ut dies et annus sedlicethęc dubitatione relinquenda foret, cum id quærat,quodinArift.textunoneft:tamenneaus inmotibus pronunciatiuis, ideftquicaufafuntutper enung ciatiuam orationem pronuncientur,ueritasergoquacon ditorum ingenia, obuiriau&oritatem fallantur,ponere& cipitur,aut enunciatur aliquid ineffc alicui,folum circa con pofitionem & diuifionemeft,utspeciesorationisenuncia tiuæ.dixieam ueritatem circacompofitionem elle,quæ concipiturinmente,uelexplicaturinuoce,& quaprædiy catuminesse subiectoaffirmatur:quoniam primotopic.4, loca accidentis propriè dicuntur,quibus potentes fumus concludere hæc alteriineile:& ideo locaeducentia uerum enunciative propofitionis dicuntur loca accidentis et veritatis qua aliquid alicui in esse concipitur vel explicatur:Sci scitatursecüdoAmmonius cur Aristotele dicens (nomina igitur et uerba consimiliaíunteiqui sine compositione et divisione est intelleclui exempla protulittantum nommun, non uerborum dicens, ut “homo” vel “album”. Respondet per hominem nomen: per “album” verbum fumpfiffe: non eata meninquitratione, qua verbum proprie inferius definitur. Sed quia Aristotele statuit, omnemvuocem quæt erminum prædicatum facit, verbum appellanda. Sed responsio hęc improbandauidetur:primum q Arift.nondieetinfraprę refellereconstitui:non.n.Aristotele dicit compositionem cum uero aut falso significare: sed ait circa.n. compositionem et divisionem elle veritatem et falsitatem. Item de “hircoscervi” nomine afferuit. “Chircocervus” aliquid significat, sed non dum uerum aut falsum) denominibusergoopposiy dicatumu erbum appellandum fore: quod fictiam dices tum dicit eiquod Suellafingebat: nomina non significare ret, exemplum albiquod posueratantea, adexplicandum uerum aut falsum, sed significare sine vero aut salso:Eiusery uere uerbum, inutile videretur:Aliter igitur responden, gore sponfioin textu Aristotele.infirmatur, cum denominibus dum. His exemplis dicta inchoantibus comprobandaque compositis neget significare verum aut fallum: differentia etiam abeo assignatauerbis Aristotele, adversatur Ampliu snec potuisset Aristotele dicere, compositionem et diuisionem verum significare, na in compositio.i.affirmatio et divisio.i.negay cumuerbonominibus:tamenutnotaprædicatumcuin ciosumerenturinuoce.quoinfradeorationeenunciatiua dubieto connectens, dubiumfaciunt, anuerum&failum dicetur. Litoratio significans verum vel falsum, &inqua fignificent, signum est. Ammoniusetiam tanquam duy eftuerum& falfumutinfignoexternosignificante:nam oratio in mente, non significate positione, ut hic intelli, bium quærit de uerbis primæ et secundæ personæ “ambulO”, “ambulaAS” et in quibus tertia persona et certas statuitur. Git signum est opde nominibus fimplicibu s& compofitis, line uerbo, intulit dicens nomina igitur ipsa auteur bacó similia sunt fine compositione et divisione intellecus. lt homo et album hircocervus quæ et si aliquid simplex significent, non dum tamen uerum aut falsum hæc autem nomini in voce sunt, noninmente: quiafiutinmēte essent, ut ningit. quæ veritatis et falsitatis videntur capacia. Licet nonperfe,fedcomplexuhorumuerborum cũcertispery fonis.nonitadubium eft de nominibus, dequibusinse acceptishæstat nemo, an veritatem significant aut falsitatem: Quærit nouissime Ammonius quid intellexerit Aristotele. Per simpliciter, uel secundum tempus cum ait. (hircocery considerentur, non dicerenturno significare uerum aut falsum et q effent fimilia intellectui fine compositione& diy uifione: quiaessentipseintelle&us,seuintelligentiafineue roautfallo:Dicédumigiturinquestionempotiusuerten dumcurdixerit.(circac compositionem.et divisionem, ut inmentesunt, est verum et falsumj denominibus autem in uocecorolarieinferens,ait:(fineuerbonondum uerum uusenim aliquidsignificat:fednondum uerumaliquid autfalsum,finon,ueleffeuelnonesseaddatur,uelfimpli citeruelfecúdumtempus.) respondet sermonem Arif.ad eadem referens verba, inquiens: nifi effe addatur fimplicis ter,ideftnisi effe addaturindefinite& indeterminate significans: ut “Fuit hircocervus” est, auterit. Non definiens, ac determinansan hodie, sero, anmane, perendie etc. vel aut falsum significare. Ad quod respondendum, quod fecundum tempus, ideftnifiaddatur cum aliqua determis propterea vox quando eftfineuero&fallo, quandoque natione tempori addita præsenti, præterito, uel futuro, cum his, quia circa compofitionem & divifionem intelle, sciliceterat,eft,erit,herianno superiori,hodie uel cras, & us eftuerum & falfum:ex quo intulit de nominibus in autsuccessiuotempore.quam tamenexplicationemaci uoce,gfintfine uero, X fallo ex eadem causa, pfimiliasing intellectui fine compofitione et divisione: circa quæuerum cipiens Magentinus uel in latinum vertens non intellexit: cumpereffef smpliciter et omnino, in,finitoacdetermi & falsum uersatur, ut caulam, quaposita, uerum aut falsum i ponitur. & hac remota (ut in nominibusfineaddito uery natotemporeintelligat. Ad tempus uero et in tempore infinito. tragelaphuserat, uel erit, hęc.n.infinitafunt: fed bouidetur, quæ fimiliasuntintelligentięfinecompositio eft presentist emporis, aitdefinitumelle:l iceteft,utdeDeo facilius conftitutamfententiamapprobant:uerbaautein (utdicetur)quandam compositionemsignificant,quam licetexsenonhabeant, sed exalio,ex compofitis,fcilicet dicitur infinitum significet: Idem.n.Deus,erat, &eft, sed in aliis rebus, tempore non definite utimurita. Hinc liquet, igitur erunt: quæ& fiacu& explicite uerbii, prædicatum et subiectum ut nomina non contineant, illatameneximigit, ergo& hic per tempusdimpliciter, tempus præsens, 8C per secundum tempus præteritum uel futurum: quæ pros ptereanuncupantur & lunt, quere tempus prælensciry cunstant, iuxtas; ipsum ponuntur: propterea dixit,(secun significat, quemadmodum in oratione quaestequus ferus. Ofitis & precognitis partibus definitionis nominis ac nunc ad definitione sponendas integrasactotas accedit: sed Ammonius quęrit cur primo de nomine äde verbo definis dumtempus) quodnonfimpliciter& ina&ueft. Sedquod.tionem assignet? respondet, proptere a nomen uerbo esse præteriit uel futurumest: solum præsens simpliciter & in actuest.utre&te. S.'Tho. exposuit: Nec Sueffe confutatio ualet,& quęliberdifferentiatemporisefttempussecundu quid:quoniamperaliquidabaliisdifferétiisdiffert:quod autemperpartemeft, fecundumquid, nonsimplicitertas antepositum, qnomen subftantiả.i. naturam et vim rerum significat: uerbum uero a&ionematqzaffetioné, quænel Cellario naturam acuimmouentem supponit. contraarguit Sueffa.substantianonnisiperaccidentiacognofcitur,prius ergouerbumdefiniendumqnomen:Ad instantiam,Am Icessedicetur: primoclenchorum.4. Sedĝfalla hæc fit monius facile diceret substantiam cognoscifinedescribir improbatio patet, quiaens, cuminsubftantiamens simplisciter diuidatur& accidens, inaĉtumfimpliciter,& potens tiam secundum quid, nequaquam uere diuideretur: quia per aliquid differ substantia ab accidente et potentia ab aétu, &fipropriedifferentiamnonhabeant.Itemratiofal lit.lihęcspeciesperaliquamdifferentiam (acuprecipue) differt, rrgo per partem.igitursecundum quid. accidentiautpofteriora.accidentiavero per substantias definiri, ut priores: fic.n.Aristotele primonaturam.2.phy.quá motumfiniuit,aquamotus,utperseprincipio,prouenit: & materiam primo phy.81.g formam.2.phy.2. quæ a materia cuiu nitur& datellelustentatur, Aliteripse respndet, proptere a nomen uerbo prætulisle, onotiuscft. Et iterbi feconuenireArift.affirmauit,fedenunciationitantu:erunt igitur enunciationes, cum enunciationispropriumopusef fignum.sedcópofitionemacueritatemcófignificatquan ficiant: Suellanouariis Sorticularumdi&tis& improbatis sententiis,hocuisumeft:literas& nominaquoadprima eorumimpo fitionem, non significarenifiincomplexum, neccum uero et falso: sedquòd quoadnouăimpositio, nem, fignificare poffunt cum vero et falso: proptereaqapo incópofitione explicarefineadditouer bonó possunt. Dis fitione sunt. Nung tamenerunt propositiones autenuncia cas Querbumetsi compositionem extremorum aétunon tiones: proptereanóualereait, a, significat cum uero aut dicat, a&tionemtamen, et affectionem significat, quæ causa fallo, ergoenunciatioerit.quoniáinquitoportetinantes eft, qpredicatumseuappositúsubie&ofiuesuppositocon cedenteaddere. fignificetexprimaimpofitione,nonau iungatur,uerbumergolempereftuniocóiungens(apritu temex noua institutione. Sed contrahancaddităconditio dinesaltem cum inpropofitionenóeft:fedcũsecundum nemexproprioarbitrio. Enúciatio primaimpofitionefis se, acpurúaccipitur: nominauerosunt composita, seu quæ significat propriecum vero et falso. Ego ubi est proprium apta sunt pera & tumuerbi coniungi, proptere a nominapen opus, necessario propriumerit inftrumentum: neq;enima dentauerbo, quasi formauniéte, & uerbiianoíequasimai nova aliqua institutione propriú opus a proprio inftrosen teria, qunici habetp uerbum. Ut materiaaŭt, tempore pre iungipoteft: proptereafi. a.b.c, etc.  novis aut antiquis concedit forma, & prius,utfacilius& ordinenecessitatisnos Giliis&pofitioneimpositasunt, ad verum et falsum,seu (ut menanteafiniendu. Verbú vero, quniédafunt, prçsuppo ipfi volunt) cum uero & falso significandú. enunciationes nés, pofterius ut ignotius & the posterius explicandú: quas quando secundū se, acpurumdicetur. Ipsum.n.sic purumi nullüueritatis et compositionis, aqua verum explicatur, est dam, nonperse, sed quam sine compofitis nominibus non est intelligere. Gi ergo hac de causa nomé præponit uerbo, q notitia verbi in compositione verū explicantis, non pont, intelligi sine nominibus compositis. Ita et nomina, uerum  illud, quod Ammonius, tempus simpliciter & omnino, ponentium CONSILIO coplcctuntur. Exemplo similiAmm sus ideftindetinite et indeterminate significans, appellabat, Ma, gentinus dicit esse tempus finitum et determinatum. Et parsticula, quam Ammo. adom né temporis differentiam rer pra, cum dicimus "curro", "curris", nin git, pluit, complexuhorūuer borum cúcertis intelle&is personis, cú vero et fallof sgnificant. ferebar, Magentinus ad solum præsens direxit. falsum igir. Keywords: il vestigio dell’angelo, Campidoglio Inv. # 334, donazione di papa Gregorio, logicalia, interpretatio, interpretazione, logica, signum, segno, nota, notare, notante, segnante, notificare, segnante, vestigio, il segno del’angelo, campidoglio, san michele, vestigo, etym. dub. ves-stigium, foot-print. – segno naturale – segno, genere e specie – genere: segno. Specie: segno naturale, vestigio, marca, nota.. segno artifiziae, segnar per posizione, arbitrio, a piacere, consilio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Balduino” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790116833/in/dateposted-public/

 

Grice e Banfi – Eurialo e Niso; ovvero, la tradizione vichiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vimercati). Filosofo. Grice: “What I like about Banfi is that he is more ‘important’ than it seems, at least to Italians! He has written bunches, but my favourite are two: his ‘l’interpretazione’ (Banfi makes a distinction between ‘esegesi,’ ‘interpretazione’ and ‘TEORIA dell’interpretazione,’ in a slightly non-Griceian use of ‘teoria’ – and his essays on ‘eros e prassi,’ for indeed the second strand (eros e prassi) is the base for the former (interpretazione): unless you CARE, why interpret – which is indeed, a performance?!” -- Antonio Banfi seenatore della Repubblica Italiana LegislatureI, II Gruppo parlamentareComunista CircoscrizioneLombardia Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in Lettere UniversitàUniversità Humboldt di Berlino ProfessioneDocente. torico della filosofia, traduttore, accademico e politico italiano. Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in grado di attraversare i vari settori dell'animo umano.  A lui è intitolato il Liceo Scientifico con Sezione Classica Aggregata del suo comune natale, Vimercate.   Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di Milano, in un ambiente familiare formatosi su principi cattolici e liberali della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciavano una moderna e positiva idea del cattolicesimo e un razionale illuminismo tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, quando da Mantova, dove frequentava il Liceo Virgilio, ritornava a Vimercate, dove assieme alla famiglia trascorreva le vacanze estive.  Nel 1904 incominciò a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottenne, dopo quattro anni, la laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una monografia su Francesco da Barberino.  Incominciò a insegnare all'Istituto Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e Piero Martinetti per la teoretica); il 29 gennaio 1910 prese la seconda laurea in filosofia, discutendo con Martinetti una tesi intitolata "Saggi critici della filosofia della contingenza", contenente tre monografie sul pensiero di Boutroux, Renouvier e Bergson.  Con la borsa di studio attribuita dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di andare in Germania e iscriversi, con il suo amico Confucio Cotti, alla facoltà di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino, dove strinse amicizia con il socialista Andrea Caffi. Nella primavera del 1911 ritornò in Italia e partecipò a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima a Lanciano, in seguito a Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in varie sedi scolastiche.  Banfi conobbe una ragazza, la contessa Daria Malaguzzi Valeri, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre alla sua cattedra fu costretto a ricoprire altri incarichi; solo agli inizi dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario della Prefettura di Alessandria.  Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro, all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito allontanato dal nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Nel 1931 Piero Martinetti, che era stato collocato a riposo d'autorità per aver rifiutato di giurare fedeltà al fascismo, lo propose come suo successore per l'insegnamento della Storia della Filosofia all'Università degli Studi di Milano, dove, a partire dal 1941, fu maestro di Rossana Rossanda.  Diresse la rivista Studi filosofici, pubblicata dal 1940 al 1949.  Nel secondo dopoguerra, con le elezioni politiche del 1948, fu eletto per le liste del Partito comunista,nel Senato della Repubblica. Il mandato fu confermato alle successive elezioni del 1953.  Il razionalismo critico Magnifying glass icon mgx2.svg Problematicismo. Antonio Banfi può essere considerato il maestro della corrente filosofica che in Italia si è denominata Razionalismo critico e che ha avuto anche derivazioni significative nel campo della pedagogia teoretica con il Problematicismo. In sostanza, usando il concetto kantiano di ragione, Banfi la considera come la facoltà di un discernimento critico, analitico, presupposto trascendentale che sistematizza l'esperienza, i dati empirici, non pervenendo a dogmi o a sistemi di sapere chiusi e assoluti. Il principio razionale permette di cogliere e comprendere la realtà nelle sue complesse determinazioni: senza questo principio, che va assunto appunto come trascendentale, la realtà sarebbe caotica e solo contingente ed esperienziale oppure interpretata secondo la Metafisica o sistemi di pensiero chiusi e non problematici come richiesto dalla scienza e in generale dalla complessa dinamica del mondo umano e naturale. L'apertura della ragione è talmente ampia che anche le filosofie assolutizzanti vengono poste come possibilità di verità, seppur parziali ("È bene tener presente che il pensiero non pensa mai il falso in modo assoluto"). La filosofia è lo strumento indispensabile per l'analisi critica del reale, non deve tendere a un sapere assoluto, ma porsi il tema privilegiato della coscienza, purché questa coscienza sia "coscienza della relatività, della problematicità, della viva dialettica del reale". Si sfugge al relativismo possibile seguendo le orme di Socrate: l'eticità prevale quando, non potendo esistere se non come tendenza verità assoluta, le verità relative sono assunte come problema, cioè come ricerca interrogante e incessante fondante l'intero processo conoscitivo. Le conclusioni sono, come nell'ambito scientifico (la scienza è lo strumento pragmatico della ragione, la filosofia lo strumento teoretico) non false ma possibili, non solo provvisorie, ma reali. Le categorie che Banfi propone per sintetizzare la sua proposta filosofica, sono quelle di "sistematica" del sapere, fondata su un significato antidogmatico della ragione, una "sistematica" aperta per il rinnovamento critico di tutte le strutture razionali e di un umanesimo nuovo, radicale, che ponga l'uomo al centro dell'indagine razionale e nella sua realtà storico-effettuale, che forma la sua coscienza concreta nel mondo reale: dunque critica alla metafisica ma necessità della filosofia, il sapere costruttivo garanzia di libertà e concretezza. Il confronto che Banfi predilige è con gli indirizzi filosofici della prima metà del Novecento, in particolare la Fenomenologia, il neokantismo di Marburgo, il neopositivismo, l'Esistenzialismo, ma negli ultimi anni orienta sempre più il suo interesse al Marxismo, di cui condivide gli assunti fondamentali leggendoli alla luce del suo razionalismo critico, come si evince dalla raccolta postuma Saggi sul marxismo editi nel 1960.  Archivio Si segnalano tre fondi archivistici del pensatore:  "Fondo Antonio Banfi" presso la Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. L'archivio, insieme con la biblioteca personale di Banfi, dopo la morte del pensatore venne donato alla provincia di Reggio Emilia insieme con la costituzione del "Centro studi Antonio Banfi”. In seguito, il Centro si trasformerà in "Istituto Banfi", con sede a Reggio Emilia. Nel, l’archivio e la biblioteca personale del filosofo sono stati depositati alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, a seguito di un accordo tra Soprintendenza Archivistica per l’Emilia-Romagna, Comune e Provincia di Reggio Emilia. La biblioteca conserva anche l'archivio di Daria Malaguzzi Valeri e l’archivio delle carte di Clelia Abate, segretaria del Fronte della Cultura e allieva di Banfi. Archivio "Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri" presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. Il fondo archivistico contiene diverse centinaia di documenti conservati da Daria Malaguzzi Valeri, moglie del filosofo, e da lei usati nella stesura del libro Umanità, pubblicato nel 1967 per le Edizioni Franco di Reggio Emilia. I documenti del fondo coprono l'intero arco di vita di Antonio Banfi ma risultano particolarmente ben rappresentati gli anni giovanili; da segnalare soprattutto il ricco epistolario con la futura moglie, riferito agli anni compresi tra il 1911 e il 1916, e la corrispondenza con Piero Martinetti, durante la sua docenza presso la Regia Accademia Filosofico Letteraria di Milano e poi dal suo ritiro di Spineto. "Archivio privato familiare Antonio Banfi" conservato presso l'Università degli studi dell'Insubria. Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti, riunisce migliaia di lettere, biglietti, cartoline postali, plichi e buste, conservati in 33 raccoglitori a loro volta inseriti in 15 buste, per una consistenza di circa 1,5 mi. Gran parte dell'archivio è costituito dal carteggio tra Antonio Banfi e Daria Malaguzzi Valeri, sposatisi il 4 luglio 1916. Il rapporto epistolare con la moglie, infatti, non si limitò alla sfera affettiva e familiare, ma affronta spesso tematiche filosofiche (ad esempio, la frequentazione di G. Simmel durante il giovanile soggiorno a Berlino, nel 1909-1911, o la ricezione dell'opera e la personale conoscenza di E. Husserl) e di attualità, nella concretezza dei riferimenti a eventi e circostanze del presente e ai rapporti sociali coltivati da Banfi come pensatore, studioso, organizzatore culturale e uomo politico. Altre opere: “La filosofia e la vita spirituale” – lo spirito, l’animo, vita, animo vitale – (Milano, Isis); “Principi di una teoria della ragione” (Firenze, la Nuova Italia); “Pestalozzi, Firenze, Vallecchi); “Vita di Galileo Galilei” (Lanciano, R. Carabba); “Sommario di storia della pedagogia” (Milano, A. Mondadori); “I classici della pedagogia: Rousseau, Pestalozzi, Capponi, Gabelli, Gentile” (Milano, Mondadori); “Studi filosofici: rivista trimestrale di filosofia contemporanea” (Milano); “Saggio sul diritto e sullo Stato, Roma, Rivista internazionale di filosofia del diritto); “Per un razionalismo critico, Como, Marzorati); “Lezioni di estetica raccolte Maria Antonietta Fraschini e Ida Vergani, Milano, Istit. Edit. Cisalpino); “Vita dell'arte, Milano, Minuziano); “Galileo Galilei” (Milano, Ambrosiana); “L'uomo copernicano, Milano, A. Mondadori); “La crisi dell'uso dogmatico della ragione, Milano, Bocca);:La filosofia del settecento, Milano, La Goliardica); “La filosofia critica di Kant” (Milano, La Goliardica); “La filosofia degli ultimi cinquant'anni, Milano, La Goliardica); “La ricerca della realtà” (Firenze, Sansoni); “Saggi sul marxismo, Roma, Editori Riuniti); “Filosofia dell'arte” (Roma, Editori Riuniti). Note  "Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]"; Lettera n. 108 Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere (1919-1942), Firenze,,  107-108.  Rossanda, Rossana, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005,  52 ss.,  9788806143756.  Vedi scheda del Senato della RepubblicaI Legislatura.  Vedi scheda del Senato della RepubblicaII Legislatura.  Cit. in "Il marxismo e la libertà di pensiero", (1954), pubblicato in "Saggi sul marxismo", Editori Riuniti, 1960, pag.152  A.Banfi, La mia prospettiva filosofica, in La ricerca della realtà (1959), pag.713  Fondo Banfi Antonio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. 3 dicembre.  Centro Internazionale Insubrico Carlo Cattaneo e Giulio Preti per la filosofia, l'epistemologia, le scienze cognitive e la scienza delle scienze tecniche, su dicom.uninsubria. 3 dicembre.  G. M. Bertin, Banfi, Padova, MILANI, 1943 E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari, Laterza,1955 G. M. Bertin, L'idea di ragione e il pensiero etico-pedagogico di Antonio Banfi, Roma, Armando, 1961. Fulvio Papi, Il pensiero di Antonio Banfi, Parenti, Firenze 1961. F. Papi, Banfi Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani,  5 (1963), Treccani. A. Erbetta, L'umanesimo critico di Antonio Banfi, Milano, Marzorati, 1978. Antonio Banfi tre generazioni dopo. Atti del convegno della Fondazione Corrente, Milano, maggio 1978, Il Saggiatore, Milano 1980. Roselina Salemi,  banfiana, Parma, Pratiche, 1982. G. Scaramuzza, Antonio Banfi. La ragione e l'estetico, Padova, Cleup, 1984 Luciano Eletti, Il problema della persona in Antonio Banfi, La Nuova Italia, Firenze 1985. 1986. Centenario della nascita di Antonio Banfi, Reggio Emilia, Istituto Banfi, 1986. Livio Sichirollo, Attualità di Banfi, Urbino, QuattroVenti, 1986. 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Martinetti, Banfi, Rebora, Cantoni, Paci, De Martino, Rensi, Untersteiner, Dal Pra, Segre, Capitini, Milano, B. Mondadori, 2007 Giovambattista Trebisacce, La pedagogia tra razionalismo critico e marxismo, Roma, Anicia, 2008. D. Assael, Alle origini della scuola di Milano. Martinetti, Barié, Banfi, Milano, Guerrini, 2009. G. Sacaramuzza, Estetica come filosofia della musica nella scuola di Milano, Milano, CUEM, 2009. A. Di Miele, Antonio Banfi Enzo Paci. Crisi, eros, prassi, Milano, Mimesis,. M. Gisondi, Una fede filosofica. Antonio Banfi negli anni della sua formazione, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,. A. Crisanti, Banfi a Milano. L'università, l'editoria, il partito, Milano, Unicopli,.  Maria Corti Antonia Pozzi Luciano Anceschi Rossana Rossanda Pietro Bucalossi Piero Martinetti Scuola di Milano Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Banfi  Antonio Banfi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Banfi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Antonio Banfi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Antonio Banfi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Banfi. Antonio Banfi / Antonio Banfi (altra versione), su senato, Senato della Repubblica.  La morte a Milano del sen. Antonio Banfi articolo del quotidiano La Stampa, 23 luglio 19577, Archivio storico. Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Marcello Gisondi, La formazione intellettuale e politica di Antonio Banfi. Tesi di dottorato discussa presso l’Università Federico II di Napoli (a.a. /) "Antonio Banfi a Milano", sito della mostra allestita dal 22 maggio al 13 giugno  presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloStorici della filosofia italianiTraduttori italiani 1886 1957 30 settembre 22 luglio Vimercate MilanoAccademici italiani del XX secoloDirettori di periodici italianiPolitici italiani del XX secoloProfessori dell'Università degli Studi di MilanoAntifascisti italianiSenatori della I legislatura della Repubblica ItalianaSenatori della II legislatura della Repubblica ItalianaStudenti dell'Università Humboldt di BerlinoTraduttori all'italianoTraduttori dal franceseTraduttori dal greco all'italianoTraduttori dall'inglese all'italianoTraduttori dal latinoTraduttori dal tedesco all'italiano. Antonio Banfi. Keywords. Eurialo e Niso; ovvero, la tradizione vichiana; banfi — spirito vitale — storiografia filosofica — istituto di storia della filosofia — ragione e conversazione — criticismo — conversazione con hegel — personalismo — l’interpersonale — sovranità — lo stato italiano — lo stoicismo romano — enea e marc’aurelio — acerrima indago — diritto criminale — kantismo —Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Banfi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790071803/in/dateposted-public/

 

Grice e Baratono – stilistica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo. Grice: “I like Baratono – especially his ‘stilistica italiana’ – if I were to offer an English stylistics I would not count as a philosopher – but that’s because ‘English’ is spoken by more than Englishmen, while Italian ain’t!” Grice: “Baratono thinks he is a sensist alla ‘Giovanni Locke,’ which he possibly is.” Grice: “In the typical Italian way, instead of focusing on the classics – Roman philosophy – he read sociology and psychology and came up, in a typically Italian way, with a ‘sintessi,’ ‘la psicologia del popolo’ alla Wundt.” Grice: “If Austin punned on sense and sensibility – Baratono takes ‘sensibilia’ VERY sensibly – as the basis for ‘aesthetics,’ seeing that ‘aesthetikos’ IS Ciceronian for ‘sensibile’.” – Grice: “Baratono is Griceian in his search for what he calls the ‘elementary’ – he applies ‘elementary’ to ‘fatto psichico’: judicativo e volitivo – both based on the ‘sensibile’ – or rather on probability and desirability – credibility and desirability --. His use of ‘sense’ does not quite fit the Oxonian ‘sense datum,’ since the will is involved in the sensibile – or, in his wording, it is the anima (or psyche) that searches for the corpus -- -- The compound is something like the hylemorphism – the form is sensible – and the volitive (prattica) and judicative (teoretica) components of the soul operate on this.” --  Fra i maggiori esponenti del Partito Socialista Italiano nel periodo fra le due guerre.  Vive sin dalla giovinezza a Genova, dove compie i suoi studi. Si laurea in filosofia. Insegna a Genova, Savona, Cagliari, Milano.  Baratono si iscrive al PSI subito dopo la fondazione e viene eletto consigliere comunale a Savona, aderendo all'ala intransigente in forte polemica con i riformisti. Entra nella Direzione nazionale del partito. Alcune battaglie politiche lo vedono emergere come figura di primo piano del socialismo italiano, come quella che Baratono porta avanti capeggiando la frazione comunista unitaria al Congresso di Livorno. L'accettazione con riserva dei 21 punti dell'Internazionale comunista di Mosca determina la clamorosa scissione e l'uscita dei comunisti dal Partito Socialista. Presenta al congresso la mozione massimalista. Diviene deputato. Confermato per la terza volta membro della Direzione socialista, mentre la maggioranza massimalista si orienta per la scissione dei riformisti, al Congresso di Roma sostiene fortemente l'unità, anche per il timore dell'affermarsi delle forze fasciste. Dopo il Congresso di Roma, aderisce al Partito Socialista Unitario e diviene un assiduo collaboratore di Critica Sociale. Collabora al “Quarto Stato”. Con il consolidamento del regime fascista, si dedica esclusivamente ai suoi studi filosofici.  Torna all'attività politica all'indomani della Liberazione, con collaborazioni sull'Avanti! riprendendo i suoi studi di critica marxista.  Note  «Perciò appunto non ho dimenticato i tuoi interessi e sarei lieto che fossi tu a succedermi, In questo senso ho scritto, richiesto da Castiglioni stesso, che ora è preside, a Castiglioni. Ho consigliato lui e con lui la facoltà ad accaparrarsi te per la F.[ilosofia] e Banfi per la St.[oria] d.[ella] F.[ilosofia]». Lettera n. 108, Piero Martinetti a Adelchi Baratono, 21 dicembre 1931, in Piero Martinetti Lettere (1919-1942), Firenze,,  107-108.  Fonti Vittorio Mathieu, «BARATONO, Adelchi» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 5, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1963. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Adelchi Baratono Collabora a Wikiquote Citazionio su Adelchi Baratono Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Adelchi Baratono  Adelchi Baratono, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Adelchi Baratono, su Liber Liber.  Opere di Adelchi Baratono, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Adelchi Baratono,.  Adelchi Baratono, su storia.camera, Camera dei deputati. Filosofi italiani del XX secoloPolitici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1875 1947Nati l'8 aprile 28 settembre Firenze GenovaPolitici del Partito Socialista ItalianoDeputati della XXVI legislatura del Regno d'ItaliaStudenti dell'Università degli Studi di GenovaProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori dell'Università degli Studi di CagliariProfessori dell'Università degli Studi di Milano. Critica dei valori ed estetica metafisica. Psicologia critica dei valori e metafisica estetica. Carissimo Groppali » Nella tuapubblicazionedaltitoloPsicologia socialeepsic.collettira, trovo rammentato un mio articolo (comparso nel quarto fascicolo del l'Archivio di Psic.coll.).con queste parole (pag.29):   RASSEGNA DI SOCIOLOGIA E SCIENZE AFFINI citato;non posso fare comequel buon figliuolo di Renzo Tramaglino, che, a sentir dire che la sua Lucia era una « bella baggiana »,per amor dell'epiteto lasciava passare il sostantivo. » Lasciami invece un po'brontolare contro la seconda parte del tuo giu dizio.E,quantunquein fatto di scoperte scientifichenessuno sipossa dire assolutamente il primo scopritore, permettimi di dare al Sighele quelch'èdiSighele,ea me quelchesembramio. » Perilnostrocaso,lascopertapiùimportante,acuisonogiunti questi autori, è la semplice constatazione del fatto, che gli atti estrin secanti la emozione d'un individuo riproducono in altri individui ana loghe emozioni ed atti volontari. » Ebbene:primaepiùcompletamentediquegliscienziati,loSpencer era pervenuto alla medesima legge con la sua teorica della simpatia; e per di più aveva spiegato il fatto diquella suggestione con la ragione sociale, osservando che un atto emotivo non potrebbe suscitare nei pre senti un sentimento corrispondente se non vi fosse stata l'esperienza propria o atavica che avesse associato quell'atto all'emozione reale uni. tamente sofferta; trovandone perciò la genesi nella convivenza sociale, per essere gl'individui associati sottoposti alle medesime cause di pia cere e dolore. » Adunque io nel mio studio potevo passarmi di citare altre teorie, oltre quella spenceriana, quando ridussi il fenomeno collettivo a feno meno simpatetico. E fin quinon ho fatto,nè ho detto di fare,nessuna scoperta:ma soltantohoapplicatolaleggespencerianaaunnuovogruppo di fatti,da Ini non considerati specialmente.Ripeto: ionon ho sostenuto come mia scoperta, ma ho soltanto accettato e meglio dimostrato, che il fatto psichico del delirio collettivo ha per sostrato il giuoco delle emo zioni e rappresentazioni, cioè il fatto simpatetico. » A questa domanda non poteva rispondere nè il Sighele, che non è mai entrato nel campo della psicologia generale,nè,come si sa, lo Spen cer e gli associazionisti,che si contentavano di descrivere il fatto, ridu cendolo a uno schema associativo,ciòche,come spiegazione,ha ilvalore di una tautologia, senza svelarne il meccanismo, cioè il rapporto fra gli elementi;né imaterialisti,che nedavanouna ipoteticaspiegazioneana tomo-fisiologica, senza entrare nella pura psicologia. >Dall'altraparte,rispondereaquelledomande significatrovarele ragioni ultime e più generali del fenomeno collettivo; vale a dire, ridurlo completamente. » Questo ho tentato io di fare; di qui comincia il mio studio genuino. Me ne sono vantato? ho soltanto asserito che tentavo di muovere un  » Il Sighele intui, che i fatti caratteristici della emozione di una folla si possono ridurre a qualcosa di più generale,ov'entri quella facoltà dell'imitazione, quella suggestione, con le quali altri avevano spiegato il contagio morale; perciò egli, se malnon ricordo,senza nulla aggiun gere diproprio, si riferì alle teorie di Bordère, Ebrard,Jolly,Tarde, Sergi, Espinas ecc. ecc. » Ho dunque accettata una legge,o,meglio,ladescrizione di un fatto generale,chesi potrebbe enunciare cosi: Negli individui associati,la percezione degli atticorrispondenti alle emozioni di alcuno destando in altri la rappresentazione di piaceri o dolori analoghi, suscita piaceri o dolori analoghi e gliatti corrispondenti. > In questo enunciato c'èqualcosa di mio.Ma non mi curo di metterlo in luce. Piuttosto ti rivolgo la domanda: osservato il fatto, lo Spencer ne ha trovato la ragione sociologica; ma vi è qualcuno che ne abbia tro vato la ragione psicologica? Come una rappresentazione emotiva può diventare un'emozione attuale, condizione e stimolo di atti volontari?  RASSEGNA DI SOCIOLOGIA E SCIENZE AFFINI passo nel cammino dellapsicologia collettiva:tu puoi scusarmene,perché conosci il tripudio di chi lavora per la scienza,che oggi è ancor l'unica nostra ricompensa. »Adunqueilrimanentestudio,larispostaaquelladomandaèmio: » 1.°Mio nelle premesse,che si riferiscono al libro Ifatti psichiri elementari, dove dimostravo che: « La legge più generale della psiche è data dalla serie dei fatti emotivo -conoscitivo -volitivo, quando si con sideri questa come l'espressione di un rapporto,per cui ilprimo termine rappresenta l'energia determinante degli altri »; » 3.° Mio nell'applicazione alfenomeno collettivo, dove le multiple rappresentazioni emotive devono agire sopra ognuno degli individui come altrettante emozioni reali attenuate, ma accumulate sulla prima; onde l'esaltazione propria della folla. » Tutte queste tesi sono diverse da quelle sostenute e dall'intellet tualismo e dal volontarismo. » Riepilogando: il Sighele giunse a ridurre il fenomeno collettivo a un fatto generale enunciato come legge; e lo Spencer aveva dato la spie gazione sociologica di questo fatto: m a, perchè vi fosse una spiegazione psicologica, bisognava aver trovato non solo l'associazione,ma anche il rapporto tra gli elementi associati;il quale rapporto di dipendenza, cioè di condizioneestimolo,doveva,perridurrecompletamentequel fenomeno, coincidere col rapporto o legge più generale della psiche. Questo ho cer cato difare: e, poi che in modo particolare avevo stabilita la serie dei fatti psichici veramente elementari e illoro rapporto,cioèla legge psi cologica generale, anche particolare doveva riuscire l'inferenza al fenomeno collettivo. » Non posso,egregio e carissimo amico, riassumere in poche pagine quelloche,agiudiziomio edaltrui.ègiàtroppostrettamenteriassunto ne'mieilavori.A te,che liconosci, eche possiedi un forteingegno intuitivo, basterà questo richiamo; e spero che ti persuaderai, che il Sighele restaugualmente uno de'nostri migliori scienziati,anche senza regalare a lui,che non ne ha bisegno,quelle due o tre pagine con le quali si termina il mio studio. » Spero ancora più fervidamente, che tu non mi dia del noioso e del l'immodesto per questa mia lettera,e che sempre mi creda il tuo.  BARATONO, Adelchi. - Nacque l'8 apr. 1875 a Firenze dove il padre, Alessandro, originario di Ivrea, si era stabilito dopo il trasferimento della capitale del regno da Torino. La madre, Ermelinda Rossi, era fiorentina. La famiglia si fissò definitivamente a Genova, e il B., compiuti gli studi classici, frequentò l'università, addottorandosi in lettere e in filosofia. Suo principale maestro fu A. Asturaro, del cui indirizzo sociologico il B. risentì nei suoi primi lavori (Sociologia estetica,Civitanova Marche 1899; Sul problema religioso,in Riv. ital. di sociol.,IV [1900], 4), così come, successivamente, subì l'influsso di E. Morselli e delle sue lezioni di psichiatria. Gli interessi psic0logici del B. sono documentati in questo periodo da numerose pubblicazioni (I fatti psichici elementari, Torino 1900; Sulla classificazione dei fatti psichici,Bologna 1900; Energia e psiche, in Riv. di filos. e scienze affini, IV[1902], pp. 27-47, 162-180). Psicologia e sociologia venivano, poi, naturalmente a fondersi in una wundtiana "psicologia dei popoli" (Sulla psicologia dei popoli, Genova 1901), permeata di una filosofia scientificamente concepita. Questo movimento culmina nei Fondamenti di psicologia sperimentale (Torino 1906), che risentono ancora dell'influsso positivistico, nella ricerca di una filosofia scientifica, ma cominciano, al tempo stesso, a rivelare l'originalità filosofica del Baratono.  Contemporaneamente il B. coltivava il proprio gusto estetico frequentando i circoli letterari, le mostre di pittura, i caffè degli artisti; a venticinque anni pubblicò un volumetto di versi (Sparvieri,Genova 1900, con acqueforti di Edoardo De Albertis), che sarà seguito da altre poesie (Lettera - Notturno - Congedo, 1908), articoli letterari e frammentarie commedie, comparsi generalmente in Riviera ligure.  Questo duplice interesse, psicologico, ed estetico, accompagnò il B. per tutta la vita, ma non senza trasformarsi radicalmente, dall'originario positivismo, in una personale forma di "sensismo", dove tornavano a incontrarsi il significato etimologico e il significato moderno della parola "estetica". Nel 1911 - l'anno del congresso internazionale di filosofia di Bologna, a cui il B. partecipò - egli, che l'anno prima aveva celebrato I funerali del positivismo italiano (in Lavoro nuovo,5 apr. 1910), pubblicò la Psicologia sintetica,in cui l'aspetto filosofico e quello scientifico-sperimentale della ricerca erano nettamente divisi, e la psicologia veniva assegnata al secondo.  Conseguita la libera docenza, il B. tenne corsi e conferenze all'università di Genova - oltre che all'università popolare - prendendo a interessarsi del problema pedagogico, strettamente congiunto con quello politico. QuattroDiscorsi sull'educazione furono da lui riuniti in un volumetto, e alcuni anni dopo uscì la sua opera fondamentale in materia: Critica e pedagogia dei valori (Palermo 1918).  Dalla politica il B. si era sentito attratto fin dalla prima giovinezza. Le sue convinzioni etiche lo indussero a militare nelle file del socialismo; tuttavia, anche nell'attività politica, egli conservò quell'atteggiamento aristocratico e leggermente distaccato che lo caratterizzava sul piano culturale, ciò che tolse mordente alla sua azione. Nell'aprile 1919, per le elezioni amministrative, redasse in collaborazione con E. Gennari un ordine del giorno, votato poi all'unanimità dal Consiglio nazionale del partito, dove si dichiarava che dei comuni ci si doveva impadronire per "parálizzare tutti i poteri e tutti i congegni dello Stato borghese, allo scopo... di accelerare la rivoluzione proletaria". Rispetto alla rivoluzione russa, il B. si pronunciò contro l'accettazione senza riserve delle ventuno condizioni poste da Mosca per l'adesione alla Terza Internazionale, ma fu messo in minoranza nella riunione della direzione del 28 sett. - 1° ott. 1920. Cercò inoltre di evitare ogni scissione a sinistra, anche a costo dell'espulsione dei riformisti, che rappresentavano l'ala destra del partito: questo suo punto di vista, sostenuto prima e durante il congresso di Livorno (gennaio 1921), trovò tuttavia la via sbarrata dal successo degli "unitari". Dalla sua dirittura morale il B. era portato all'intransigenza; era antimassone, respingeva l'anticlericalismo di maniera, auspicava la libertà dell'insegnamento. Turati ebbe a definirlo "il filosofo della direzione del partito". Eletto deputato nella XXVI legislatura, sedette al parlamento nel 1921-22, ma l'avvento deli fascismo lo costrinse ad abbandonare l'attività politica (nella quale rientrano anche scritti come Le due facce del marxismo taliano,Milano 1922, e Fatica senza fatica,Torino 1923).  Più fortunata divenne, a, questo punto, la carriera universitaria. Titolare a Cagliari dal 1924, il B. si occupò, tra l'altro, di Problemi universitari (Mediterranea,I[1927], 8) e vagheggiò un progetto Per la riforma della facoltà filos. (Atti della Società ital. per il progresso delle scienze,XX[1931]), che fu combattuto dal Gentile (Giorn. crit. d. filos. ital.,XI[1931], pp. 239 s.). Nel '32 il B. passò a Milano, sulla cattedra di P. Martinetti (che si era ritirato per non prestare giuramento) e nel ' 38 tornò all'amata Genova, stabilendosi sulla riviera di Sant'Ilario. Qui riceveva volentieri i suoi studenti e colti visitatori, attratti da una fama, che, specialmente dopo la pubblicazione di Arte e poesia (Milano 1945), si estese oltre la cerchia dei filosofi di professione. Riprese l'attività politica negli ultimi anni, soprattutto in forma di collaborazione a giornali e di rielaborazione di vecchi scritti di critica marxista. L'ultimo articolo, L'etica dell'economia marxista, uscì sull'Avanti! alla vigilia della morte, che avvenne il 28 sett. 1947. Al nome del B. è intitolato l'istituto universitario di magistero di Genova.  La prima formulazione pienamente matura della filosofia del B. può essere considerata il volume Il mondo sensibile, introduzione all'estetica (Messina 1934), preparato da alcuni degli scritti raccolti in Filosofia in margine (Roma 1930); in esso si vuol raggiungere la "prova esistenziale" della spiritualità del contenuto sensibile. Contro l'impostazione gnoseologica che soggettivizza il mondo, il B. propugna un'impostazione estetica che vede nel mondo sensibile, preso per se stesso, "la forma dell'esistenza". Tale dottrina fu chiamata dal B. "occasionalismo sensista", in una comunicazione alla sezione piemontese dell'Istituto di studi filosofici nella primavera del 1940 (Per un occasionalismo sensista, in Concetto e programma della filosofia d'oggi, Milano 1941, pp. 227-251). La denominazione esprime l'intento di "riflettere sulla pura forma invece di prenderla quale rappresentazione di altro (soggetto od oggetto) posto come un contenuto irreducibile a quella forma". L'esperienza estetica ci mostra che un'ide a pura esiste come forma pura, sensibilmente, e che questa forma sensibile vale per sé, in un rapporto formalmente sentito con certezza, che diciamo "verità". Ciò costituisce un valore sensibile direttamente, diverso sia dal valore del sensibile (che rappresenta il valore specificamente teoretico) sia dal valore del sentimento (che rappresenta il valore pratico). L'esserci sensibile interessa il pensatore o l'uomo pratico solo come ostacolo da superare, ma "riempe di meraviglia chi guarda il mondo con gli occhi spalancati sol per la gioia di vedere, e così ne può apprezzare la bellezza".  Queste idee sono esposte dal B. in Arte e poesia,e messe alla prova non solo a contatto con estetiche come quelle del Burke e del Focillon, a cui il B. scrisse introduzioni (Milano 1945), ma con la stessa opera poetica, per es. di un Verlaine, di cui il B. ripubblicò in Italia una raccolta di Poesie, conintroduzione (Milano 1946). Arte e poesia si conclude con una "apologia della forma", la quale sembra a torto imprigionare lo spirito e limitare il valore solo perché, in realtà, lo determina e lo realizza. Rovesciando l'istanza idealistica, secondo cui il valore sta in un'unità spirituale che si riduce a "un'esigenza puro-pratica, a una rappresentazione di ciò che non è", il B. dichiara che l'anima cerca il corpo, non viceversa, che lo spirito cerca la forma, la filosofia la poesia. Sicché il valore non appare più la premessa indimostrabile di ogni esistenza, ma il risultato intuitivo della stessa forma sensibile.   Bibl.: F. Della Corte, A. B., in Genova, XXVI (sett. 1949), pp. 26-29. Sul B. Ipolitico: F. Meda. Il Partito Socialista Italiano dalla Prima alla Terza Internazionale, Milano 1921, pp. 90-102; I deputati al Parlamento per la XXVI legislatura, Milano 1922; M. Carrea, Per una filosofia del socialismo, in Osservatorio, Genova 1946, n. 3; P. Nenni, Storia di quattro anni (1919-1922), Roma 1946, passim; A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo. L'Italia dal 1918 al 1922, Firenze 1950, pp. 196 s., 361; F. Turati-A. Kuliscioff, Carteggio. V: Dopoguerra e fascismo (1919-22), a cura di A. Schiavi, Torino 1953, vedi Indice. Inoltre per alcuni scritti del B., in Critica Sociale, degli anni 1923-24, vedi Critica Sociale, a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, III, Milano 1959, Indici, a cura di M. T. Lanza. Sul B. filosofo, oltre l'esposizione del proprio pensiero fatta da lui stesso in Il mio paradosso, in Filosofi ital. contemporanei, Como 1944 (2 ediz. Milano 1946), cfr. U. Spirito, L'idealismo ital. e i suoi critici, Firenze 1930, pp. 130-141; G. Della Volpe, Crisi dell'estetica romantica, Messina 1941, pp. 26-31; M. F. Sciacca, Il secolo XX, Milano 1942, pp. 218-223; G. Faggin, Il formalismo sensista di A. B.,in Riv. crit. di storia d. filos., I (1946), pp. 189-96; R. Assunto, B. e l'estetica moderna, in L'Italia che scrive, XXIX (1946), 3, pp. 50-52; G. M. Bertin, L'estetica di B.,in Studi filosofici,VIII(1947), pp. 136-38; G. Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia 1947, pp. 170-187, 254-56; C. Talenti, A. B., Torino 1957 (con bibl.). Adelchi Baratono. Keywords: stilistica, breviario di stilistica italiana, fatto psichico elementare, i fatti psichici eleentare, psicologia filosofica, illuminismo, implicatura luminaria, implicatura escataologica, politica ed etica, la filosofia al margine: gentile, croce, natura umana, esperienza, il mondo sensibile, estetica, il bello, il sublime, criticismo, assiologia, hume a Cremona e torino, spirito, animo, forma logica, l’eneide, riviera ligure, “Rivera Ligure”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baratono” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789912631/in/dateposted-public/

 

Grice e Barba – filosofia italiana – Luigi Speranza (Gallipoli). Filosofo. Grice: “I like Barba, but then I like Gallipoli – and he was born and died there, at Villa Barba. His main interest was Roman philosophy, which he studied at Naples! – The Roman occupation in Southern Italy brought ‘a breath of fresh air,’ as Barba has it, to the old “Grecia Magna” tradition --.” Grice: “Barba is very clear: ‘Epigrafia filosofica latina,’ o ‘epigrafia filosofica romana’ surely ain’t Grecian!” --  Figlio di Ernesto, conduce gli studi a Gallipoli, per poi trasferirsi a Napoli presso il zio, Tommaso Barba. Tommaso Barba e presidente della Gran Corte. Studia grammatica e materie letterarie nella scuola di Puoti. Si laurea in Filosofia. Studiare nel R. Collegio Cerusico e divenne professore di anatomia umana comparata. Insegna scienze e lettere al ginnasio di Gallipoli e fu sovrintendente scolastico ed Assessore delegato alla Pubblica Istruzione.  Fu arrestato ed esiliato a causa delle resistenze al governo. I membri dell'Associazione Democratica posero una scritta: "Nato dal popolo, Per il popolo si adoperò". A lui fu intitolato il Museo civico di Gallipoli.  Note  AnxaEmanuele Barba, su anxa. 21 aprile  13 ottobre ).  Scheda sul sito del Museo Emanuele Barba. Filosofi. Emanuele Barba. Keywords. epigrafia latina, iscrizione latina, iscrizione greco-romana, la iscrizione di Platone sulla porta dell’academia, ageometretos medeis eisito, Delville pittore belga (Libert), a Italia crea ‘L’ecole de Platon,’ per la Sorbonna.  I vasi di Barba – gemelli, fratelli siamesi, ecc. Monete romana, Gallipoli, colonia romana, ‘Proverbi e motti del popolo gallipolino” – poesie di Barba sulla morte del re d’Italia, risorgimento – esilato, carcere – la filosofia di Barba, barba filosofo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barba” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51688394612/in/photolist-2mKwwVs-2mKMcL9-2mKDQcp-2mKwqSL-2mKwwoA-2mPxhsE-2mKBEmt-2mKQW9n-2mKwuhr-2mKMJYE-2mKBLhJ-2mKG3XG-2mKT4G5-2mKQDQ5-2mKCdPg-2mKRfHn-2mKxzFL-2mKwv6q-2mKNdog-2mKC3nj-2mKMsLp-2mKH3ZR-2mKF6Rp-2mKArEy-2mKCnei-2mKDteh-2mKgN49-2mPHbXQ-2mKfeSA-2mJWMoD-2mJPC2N-2mJLMNt-2mJq2uE-2mJd7nN-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mEuJp2-ErqrPW-CkaHMd-BVh5m5-CntuMM-BRstt1-o3jP2q-nKqBVU-nJyPnZ-o1WCtG-noDCLh-nqpN2n-npidX4

 

Grice e Barbaro – il Daniele – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice: “This can be confusing to Oxonians, althou we are familiar with the Hanover dynasty! Daniele Barbaro, a faitehful nephew, commented on his uncle’s, Ermolao Barbaro’s, ‘translation’ of Aristotle’s rhetoric – I shouldn’t even be saying this since it’s implicated in the title where Ermolao features as ‘interprete,’ and the ‘commentarium’ is due to Daniele.” Grice: “On top, Daniele wrote about ‘eloquenza,’ but his comments on his uncle’s vulgarization into latin of Aristotle’s vulgar-greek (koine) rhetorica – is perhaps more Griceian – since there is little conversational about Daniele Barbaro’s ‘eloquenza,’ while the rhetoric (or ‘rettorica,’ as he prefers) is ALL about ‘dialettica’ and dialogue!” --  Daniele Barbaro patriarca della Chiesa cattolica Portret van Daniele Barbaro Rijksmuseum SK-A-4011.jpeg Ritratto di Daniele Barbaro, attorno al 1561-1565, opera di Paolo Veronese, presso il Rijksmuseum di Amsterdam Template-Patriarch (Latin Rite) Interwoven with gold.svg   Incarichi ricopertiPatriarca di Aquileia. Nato 8 a Venezia Nominato patriarca 17 dicembre 1550 da papa Giulio III Deceduto13 aprile 1570 (56 anni) a Venezia. Ritratto da Paolo Veronese, 1562-1570 (Firenze, Palazzo Pitti)  Villa Barbaro a Maser  Pratica della perspettiva, 1569 È noto soprattutto come traduttore e commentatore del trattato De architectura di Marco Vitruvio Pollione e per il trattato La pratica della perspettiva.  Importanti furono i suoi studi sulla prospettiva e sulle applicazioni della camera oscura, dove utilizzò un diaframma per migliorare la resa dell'immagine. Uomo colto e di ampi interessi, fu amico di Andrea Palladio, Torquato Tasso e Pietro Bembo. Commissionò a Palladio Villa Barbaro a Maser e a Paolo Veronese numerose opere, tra cui due suoi ritratti.   Daniele Matteo Alvise Barbaro o Barbarus fu figlio di Francesco di Daniele Barbaro ed Elena Pisani, figlia del banchiere Alvise Pisani e Cecilia Giustinian. Suo fratello minore fu l'ambasciatore Marcantonio Barbaro. Barbaro studiò filosofia, matematica e ottica all'Padova.  Fu ambasciatore della Serenissima presso la corte di Edoardo VI a Londra, dall'agosto 1549 al febbraio 1551, e come rappresentante di Venezia al Concilio di Trento.  Nipote del patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, fu suo coauditore nella sede patriarcale di Aquileia. Venne promosso in concistoro a patriarca "eletto" di Aquileia (coadiutore), con diritto di futura successione, ma non assunse mai la guida del patriarcato perché morì prima dello zio. All'epoca tale carica era quasi una questione di famiglia per i Barbaro, infatti furono patriarchi di Aquileia ben 4 Barbaro fra il 1491 e il 1622:  Ermolao Barbaro il Giovane, patriarca di Aquileia dal 1491 al 1493, Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, Francesco Barbaro, patriarca di Aquileia dal 1593 al 1616, Ermolao II Barbaro († 1622), patriarca di Aquileia dal 1616. Fu forse nominato cardinale in pectore da papa Pio IV nel concistoro del 26 febbraio 1561 e mai pubblicato.  Solo i Grimani, con cui erano imparentati, occuparono più volte il patriarcato (ben sei).  Partecipò a varie sedute del Concilio di Trento a partire dal 14 gennaio 1562 fino alla sua chiusura nel 1563.  Atre opere: commentarii di Aristotele Retorica del suo pro-zio Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Compendium scientiae naturalis di Ermolao Barbaro il Giovane (Venezia); Commento sull’archittetura d Vitruvio, pubblicato col titolo “Dieci libri dell'architettura di M. Vitruvio” (Venezia). Di essa pubblica anche una versione in latino intitolata M. Vitruvii de architectura, (Venezia). Le illustrazioni sono realizzate da Palladio --; un trattato sulla geometria, prospettiva e scienza della pittura, La pratica della perspettiva (Venezia); un trattato sulla costruzione delle meridiani, “De Horologiis describendis libellus” (Venice, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. VIII, 42). Più tardi si scopre che il testo del Barbaro affronta la tecnica di strumenti come l'astrolabio, il planisfero, il bacolo, il triquetrum, e olometro di Abel Foullon. Cronache, probabilmente riprese da Giovanni Bembo nella Cronaca Bemba. Aurea in quinquaginta Davidicos Psalmos doctorum graecorum catena interpretante Daniele Barbaro electo patriarcha Aquileiensi, Venetiis, apud Georgium de Caballis.  Note  La pratica della perspettiva, 1569, consultabile online (testo italiano + tavole originali)  Giuseppe Trebbi, Barbaro Daniele, in Nuovo Liruti: dizionario biografico dei friulani. 2: l'età veneta. A-C, Forum editrice universitaria, Udine 2009374  Eubel, Hierarchia Catholica Medii et Recentoris Aevi, III39, che cita gli Acta camerarii 9, f. 37 e gli Acta vicecancellarii 8, f 7  Louis Cellauro, Daniele Barbaro and Vitruvius: the architectural theory of a Renaissance humanist and patron, Papers of the British School at Rome, 72 (2004),  293–329 Pio Paschini, Daniele Barbaro letterato e prelato veneziano del Cinquecento, Rivista di storia della chiesa in Italia, 6 73–107. Władysław Tatarkiewicz, History of Aesthetics,  III: Modern Aesthetics, edited by D. Petsch, translated from the Polish by Chester A. Kisiel and John F. Besemeres, The Hague, Mouton, 1974. Daniele Barbaro, Pratica della perspettiva, In Venetia, appresso Camillo, & Rutilio Borgominieri fratelli, al Segno di S. Giorgio, 1569. 30 maggio. Robert Devreesse, La chaine sur les psaumes de Daniele Barbaro, in Revue Biblique,  Giovanni Mercati, Il Niceforo della Catena di Daniele Barbaro e il suo commento del Salterio, in Biblica,  26, 1945,  153-81.  Storia della fotografia Villa Barbaro Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Daniele Barbaro Collabora a Wikiquote Citazionio su Daniele Barbaro Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Daniele Barbaro  Daniele Barbaro, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Vacca, Daniele Barbaro, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Daniele Barbaro, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Giuseppe Alberigo, Daniele Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Daniele Barbaro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Daniele Barbaro,. David M. Cheney, Daniele Barbaro, in Catholic Hierarchy.  Daniele Barbaro, su museogalileoMuseo Galileo, Firenze. 21 ottobre. Daniele Barbaro (15141570), su mathematica.snsEdizione Nazionale Mathematica Italiana, Pisa, Centro di Ricerca Matematica Ennio De Giorgi. 21 ottobre.Salvador Miranda, Barbaro, Daniele Matteo Alvise, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. 21 ottobre. PredecessorePatriarca di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Giovanni Grimani17 dicembre 155013 aprile 1570Aloisio Giustiniani4959495 Umanisti italiani 1514 1570. Nati l'8 febbraio 13 aprile Venezia VeneziaBarbaroPatriarchi di AquileiaAmbasciatori italiani. DELLA ELOQUENTIA, DIALOGO. INTERLOCVTORI:  L'ARTE, LA NATVRA, ET L'ANIMA. R.IO VORREI VOLENTIERI Natura, che noi disputaßimo insieme, fe però l'ufficio del disputare alla tua conditio nesi conueniſſe. NAT. Il diſputare é cosa da te ò Arte, figliuola mia. Ma fe à me stesse l'ammaeſtrarti, di presente direi, che tra il tuo intendimento, o il mio, alcuna differenza non fuſje, da che dentro ti venija se il contender meco. AR. Al almeno desidero tale occasione. NAT. Vano, o dannoso desiderio é il tuo, si perche io non sono mai ociosa, come perche tu sempre dei non mes no abbracciare il bene che cercare la verità delle cose. AR. Niena te più migioua, che il bene, ne che il vero più mi diletta. NA. In questo almeno tu m'assomigli, che ouunque sia, ch'io mi ritrdovi, il vero sono, o il bene di ciascuna cosa. AR. si,  ma tu alla cieca ne vai, e io di tanto amo ogn'uno, che con deliberato consiglio, o anati veduto fine faccio, lo difar bene. NAT. Emmipur manifesto che la tua grandezza è di nascondere te stessa quantopuoi, o di accoſtarti à me. AR. Queſto é,maciò auiene,perche tu prima di me al mondo ueniſti, o gli huominia'tuoi piaceri aduſaſti, innanzi ch'io ci naſceßi; o queſta mia imitatione non ti accreſce dignitade alcuna. Percioche,nëla formica uile animaluzzo e più degna, ne l'huomo meno onorato, ancor che questo quella imitando, l'eſtate per lo uerno ſiproueda.La mia induſtria, Ò Natura, fa maggiore il tuo pouero patrimonio. NAT. Che accreſcimento farebbe ella,ſe io non ti laſciaßi che accreſcere? Tupure,ſe uuoi,ben ſai, che ogni operă preſuppone il ſoggetto,ſenza il quale nulla ſi può fare. Que fto da me, non da te procede; oltra che appreſſo giuſto giudice il ſecondo DELL A ſecondo luogo, non che il primo, ti faria denegato. AR. Giusto à tua ſcelta intendi colui, che te à me anteponga;ma nonſai che per la età molto ti concedo. NAT. E'mipiace di ragionare an poco tea coſopra queſta materia, poi che tant'oltra procedutaſei, che di te con buona equità midolga. Dicoti adunque, che in ordine di onoran za ne prima ſei, né ſeconda. Ar. Chi adunque à noi ſopraſta? NAT. Chi ne fece ambedue é il primo.10 ſenza mezo dalui nace qui. Tu doppo me sei. NAT. Adunque mentono coloro che affer mano, te effer madre uniuerſale, poi chetu ſteſſa non nieghi eſſere d'altruifattura? NAT. Ad un modo io ſono madre,ad un'altro figlia. A R. Adunque di te coſa picprestante ſi truoua? NAT. Chi ne dubita? Ma io per eſſere å gliumaniſentimenti uicina, tutta fiata ſon preferita. AR. Hai tu conoſcimento di fine alcuno? NAT. Certo no;ma nelgouerno del tutto io ſon drizzata,e quafi addeſtrata dalpadre mio. AR. In che dunque é ripoſta queſta tud gloria? NAT. Tanto potente,ſaggio, w buono é ilmio fattore, che la ſua gloria in me mirabilmente ſoprabonda. AR. Sommi più voltemarauigliata di coteſta tua occulta uirtù,dalla quale tu ſei cosi gentilmente guidata.jpelefiate mi è uenuto in animo di cre dere che ella forſe habbia potere di trar mead imitarti diforza; ergo però diſcorrendo,etpiù dentro penetrando, bo giudicato eſſere gran famiglianza tra quelprincipio, che ti muoue, &me,ondeper la ſea creta uirtu,non tua,io mi muouo ad operar come tu fai. Ma poi mi pare,che,ſe il diſcorrere l'ordinare,e il ridurre àfine le coſeantiue dute, è ufficio mio,io ſia inanzi di teſtata nel Cielo appreſſo il padre tuo, che egli habbia l'opera mia uſata in generarti ò produrti NAT. In altra guiſa io faccio le coſe mie tule tue, di quella del fattor noſtro, chenehafatte, & create.Però guardati dinon giudi care troppo animoſamente le coſe, figurando le inuiſibili, & occulte per le uiſibilio manifeſte. Ma perchecosi agramente mi condane ni? ſe in qualunque modo tu uuoi per le coſe già dette chiamar mi, ò madre, è figlia, o ſorella, ó amica ſeisforzatadi nominarmi? no mi tutti di congiuntione, amicitia, oſtrettezza. Egli non ſi uuol có. si correre a furia. AR. Non ti adirare ó Natura, che io non ho contra te mal uolere, né il finemio é ſtato cattiuo, anzi per lo tuo ef faltamento ho uoluto raffrenare la mia credenza, che era di ſapere con qual calamita io tirata fußi ad operare come tu fai,e mi uenu to ben fatto per lo ragionamento,che éftato fra noi, perche hauen do noi do noi ritrouata l'origine del noſtro naſcimento,ſiamoſicuré della no ftra nobiltà, come quella checon la eternità ſipareggi,o dal primo fattore d'ogni coſa proceda. Ma ben mi duole, & per queſto ti ho chiamata,cheà molte ſciagure ſia la grandezza mia ſottopoſta.Et quanto maggiore è lo stato mio, tanto àpiù pericoli mi ueggio eſſer ſoggetta. NAT. Quai ſciagure, oquai pericoliſono queſti? AR. Saper dei Natura, madre mia, che in tutte le parti delmondo mi truouo hauer molti miniſtri,de quali neſono alcuni,chemifanno una gran uergogna, a oltre à ciò miſono di danno infinito, o per lor cagione io ne ſento male. Perche non indrizzando me al debito fine, anzifieramente in abuſo ponendomi, come buona, utile, oono reuole cheio ſono,rea,dannofa, & uituperabilemifanno. Ondegli huomini per mezo mio ingannati da loro, certi de' loro danni, main certi di chi la colpaſiſia, s'accendono d'ira contra dime, à guiſa di co loro,che le ſpade,o non glihomicidi punir uoleſſero. NAT. Tu non ſei ſola nelmale di si fattioltraggi, tutto'l dime ne uengono afe ſai. Percioche producendo io ogni coſaà beneficio della vita di chi ci naſce, moltiſciagurati epieni dimal talento, maleufando l'arti ficio loro,empiono iltutto diconfuſione, auelenando, uccidendo,in, gannando, eoffendendoſenza riguardo alcuno; e chi ode o xede taliſceleraggini, maledice ogni mia fattura. A R. Duraper certo ėlaforte noſtra,però che il uolgo cieco, &ignorante non ſa,chereo non è quello, che in bene uſar ſipuote.Maper uer direzio poco mi marauiglio, ſe il ueleno auelena,ò il ferrouccide, ma ben grandeam miratione miporge,quädo il cibo, di cuiſiuiue,cosi ſpeſſo in cattiuo umore ſi conuerte,che alla morte conduce. Et ciò dico à fine,chetu Sappia quantoiogiuſtamente mi dolga,che lapiù pretiofa parte,che tupergratia del tuo fattoreall'huomo cõcedi conla quale egli poſ fan debbia altrui eſſere d'infinito giouamento, cosi ad offeſa Sia, ex à danno preparata, che niente più. NAT. Chié quelmaluagio Oingrato,che tal coſa ardiſca di fare? AR. L'Anima, o la più diuina parte di lei. NAT. Perseguitiamola dunque, o facciamo la citare dinanzi al Tribunal diuino, Voglio, che ella dica la cauſa ſua. AR. Ma prima uoglio,che infingendo noi con eſſo lei,tanto la prendiamo che ella dica à noi ogni ſuaeſcufatione. NAT. Né la giuſtitia del Giudice, né la uerità del fatto, nela tua dignità ricerca tale inganno,eſſendo quello ſincerißimo,la coſa uerißima, otu quel la,che del medeſimo errorej, del quale ſei per riprender lei, puoi eſ A 2 Ser accufatd. A R. Ben di..Ma io altrimenti non ſonouſata difure. Ma eccoti queſta ingrata,che di molte parti, et eccellenti doni da noi dotata d'alcuna gratia,che futta le habbiamo,non ſi ricorda,contre mecon me fteſa,o contra te per li beni, che dato le hai, altiera ſi lieua. Aſcoltiamola alquanto. ANIMA. Iddio vi ſalui ſorelle amantißime, delle qualiund mi rende atta l'altra mi fa gagliarda als l'operare. AR. Et te ancora ſecondo il tuo buon uolere, ma dins ne, che usi tu cercando? AN. Te ſopra tutte le coſe. AR. In parte difficile ti ſei riuolta, perciò che biſogna, che tu oſſeruicon di ligenzatutte le operationi, a modi di coteſta noſtra commune amis ca. A N. Hoio ad impiegare tanta fatica, innanzich'io t'imprens da? AR. Et poſponere a queſta ogni altra cura,ben che dolcißima cura ti fia, per la ſperanza dello acquiſto, che ne farai. Ma che parte di me conoſcer deſideri? AN. Indifferentemente,ſe poßibil fuſſe, tutte le uorrei, tutte le abbraccerei tutte le poſſederei. Ma ora grado mifia tant'oltre procedere, ch'ioſappia altrui paleſare i cons cetti miei. AR. Più chiaramente midi quel che uuoi,perche in molte maniere giouar ti poſſo d'intorno à cosi fatto dimoſtramento di penſieri. Vuoi tu ſapere conqual nodo di ragione ſi ſtringa ung parola con l'altra quale ſia la concordanza de' numeridelle per fone, ode' uocaboli delle coſe, et con quai regole dirittamente fifcri Me? AN. Queſta parte io la preſuppongo. AR. Forſe tu uai cer cando d'intendere con quale unione una coſa con l'altra conuengd, per poter'à tua uoglia diſcorrere,argomentare,o foſtenere le cons teſe  AN. Né ciò intendo per ora, ma di più diletteuol parte ho curd. AR. Tu uuoi tutta fiata porgere diletto col parlar ſoauiſ fimamente,à guiſa di delicata uiuanda acconciandoi numeri,il ſuono, per l'armonia delle uoci eſprimenti coſe piaceuoli, & grate à i fenfi umani? A R. 10 uorrei più adentro penetrare, né tanto effer folles cita di piacere alle orecchie,quanto di giouare all'animo, operò dimmiſe hai più parti, quaſi figliuole,cui ſi conuenga la cura del ras gionare. AR. Honne, o hauer ne poſſo ancora molte altre, che nonſono in luce; ma tra le altre una ue n'ba, che non è leggitima; un'altra la quale bēche leggitima ſid, pure e di tāto riſpetto, che rare Holte ſilaſcia al mondo compiutamente uedere. La prima in tanto da me é hauuta per buona, in quanto ella inſegna di conoſcere gli ingan ni del parlare, e à fuggire i ciurmatori. Laſeconda e da me coſto dita, &guardatamolto,percheio temo, che gli huomini di malaf fare non la ſuijno. Et eſſendo ella di bellezza,o di forma ſopra ogni altra eccellente gran pericolo miſoprafta Jlquale tolga lddio, ma doue non paſſa la maluagità umana: doue non penetra l'audacia? ego di queſto, poco fa, la Natura, a io ci doleuumo, et penſauamo,che tu fußi quella tu, che d'ogni male Q uergogna noſtra fußi l'apporta trice. A N. Perunared eu perfida, che ſi truoua, non crediate di gratia, che oggi di tutte ſieno tali,perche da me ui prometto,che als tro che onore non hauerete, AR. Bene, o cosine cape nell’anis mo. Che uuoi tu adunque da me ſapere?  AN. 10 cerco molto, Ò Arte, à modo mio di posſedere coteſta tua cosi bella, o riguardata figliuola,à benefitio deipopoli, o delle genti, o à gloria tua, di me,dicui altro cibo più ſoaue non truouo. AR. Prega tu prima la Natura, che à te conceda corpo ben diſpoſto, oformato, aſpetto graue, o gentile, uoce chiara, á eſpedita fianco,modo, o mouimen ti conformialla virtù, che deſideri". Appreſſo poi à me prometterai congiuramento di non ufare già mai la figliuola mia,uezzofa, inſos lente, « che tanto uagaſia delle bellezze ſue, che per farſi uaghegs giare in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni propoſito ſenza riſpetto alcuno compariſca. Et con luſinghe eadulatione dal ben fare le genti, o i popoli aſcoltanti rimuoua. AN. Se ottimo uolere, fe oneſtédimanda ritruoua luogo appreſſo di te, o Natura, con ogni af fetto ti priego, chetu mi dia quello chel'arte mi perſuade, che ti dis mandi, corpo gratiofo,formato,odotato di quelle parti, che conue nientiſono alualore della figliuola fua. Etſe bene in alcun tempo io non ti poteßi di tanto donorimeritare,pure non ceſſerò di eſſertiſem pre obligatißima. NAT. Siati la gratia, che dimandi, conceſſa. A N. Io tigiuro ó Arte,perquella diuinità, che ſi truoua maggiore, di accoſtumare la tua figliuola à giouare ouà ben far’altrui, né per modo alcuno permettere, che ella ſeguagli apperiti diſordinati, ma circoſpetta ſempre, oſempre riguardeuole compariſca. AR. CO si habbi la chiarezza del ſangue, la libertà, eccellenza della pas tria, ibeni da gli huomini defiderati, come ciò facendo,alcolmo della gloria à pochi conceſſa,peruenirai. NA. Felice patria,che di tale, e tant'huomoſaràfornita. Maqual patria le dareſti tu,ó Ar te? AR. A'mia uogliale darei quella,in cui le leggi poteſſero piit, che gli huomini, doue la maggior parte alla commune utilità s'ina drizzaſſe; antica,nobile,illuſtre,e di quelgouerno, nel quale il bes ne di tutti glialtri gouerniſiconteneffe, qualeforſe non più che unds'e  s'è ritrouata,oſi ritruoua al mondo, oforſe tu, o Natura,conſentia ſti di prepararle ilpiùſicuro & comodo luogo, oil piie forte fito, cheueder ſi poſſa,nonmeno al mare che alla terra uicino,cui di gra tiaſpeciale ancora il Cielo concede priuilegio di eſſer nimica d'ogni tumulto, o ſeditione,parca,pia,oreligioſa, con inſtitutiottimi temperata: NA. Troppo di cuore commendi, o lodi queſta tua Città, eforſe à ciò fare queſto t’induce,che tu in eſſa puoi il tuo ud lore, o la tuaforza chiaramente dimoſtrare. Ma tu, ó Anima, già ricca di tanti doni, chefatti t'habbiamo, che dici? A N. Le gratie non ſonopari al uolere,io attendo quello, che attender dei, &sò lo ſtudio,che tu ſei ſolita di porre nelle coſe tue;mi& rendo certa, che tuſai ancora, che ritrouando io unatemperatißima compleßione di corpo,à quella dò la umanaperfettione, o come quella temperanza cade,cosiſopra di eſſa declina ilmio ualore. Làondeſono alcune co ſe, allequali io non degno la uita concedere. Ad altre ueramente dos no la uita,ma le operationi di quella cosi ſono occulte, che in forſe fi ftà di credere ſe in eſſe la uita ſi truoui. Altre uita,ſenſo, omouis mento da me hanno comealcune intelligēze, et amore, coſa nobile et ueramente diuina. NAT. Queſtomipare,checosi ſia map ure als cuna fiata io ueggo, che le anime uan ſeguitando le compleßioni de' corpi. Onde poiſono alcuni ſdegnoſi, alcuni manſueti, altriuanno dietro alle apparenze,altrialle fauole più che alla uerità fi danno, emolti in ogni pruoua, ſoda ex inquiſita ragione uan ricercando. A N. Et queſto èquello da me tantodeſiderato dono, che e di ſapes re in tal guiſaſpiegare i concetti miei,ch'io ſatisfaccia à tanta diuer. ſità di nature, o d'ingegni. NAT. Quando tu ſarai giunta à quel paßo,chetu ſappia per mezo dell'arte cosi ben gouernarti con ogni maniera di perſone,dotte,roze,ciuili, barbare, umane, e inumane, allora potrai à tua uoglia mitigar’anco gli adirati, fpingere i pigri, raffrenare i feroci, ingagliardire i deboli; et di uno in altro cótrario à uiua forza ogni anima tramutare. A N. Coteſta é und magica eccellentiſsima. Ma tu Arte,cui è dato di ritrouare alcune uie ragio neuoli di peruenire alla cognitione di coſe non conoſciute, incomincia da quelle che facili, en eſpedite ad inuiarmi al deſiderato fine riputes rai. Ar. Cosi uoglio, o à te farò capo, ó Natura, dinuouo addis mandandoti,di che beni uuoi tu adornare queſta noſtra nouella ſpoſa? NAT. Hollo già detto, a più aperto ti diſtinguo,dar le uoglio, ol tre al corpo ben formato unauoce grata, chiara, eguale, che ogniſuonoageuclmente ſi pieghi, e che ſe ſteſſa inſino all'eſtremo ſoſtenti. AR. Et io le dimoſtreró parole atte ad eſprimere leggia dramente ogni concetto,pure,ampie, illuftri, eleganti ſeuere,giocona de, accoſtumate,ſemplici,uere, tarde, ueloci, ofinalmente tali, che abbracceranno la uera idea di me in queſtoeſſercitio. Et di più io l'inſegnerò di collocarle si fattamente inſieme, che diletteranno ſema pre, o non falliranno già mai; or iu Anima farai ociofa? AN. Hauendo io per gratia di te Natura le coſe conuenienti, oper tud corteſia ò Arte le parole conformi, farò si, che niuno in mepotrà de fiderare ne penſamento neſtudio alcuno. NAT. 10 a' ſenſi tuoiſot toporrò tutte le coſe, dalle quaifacilmēte ti uerrà fatto di prendere argomento di ragionare. Tu fin tanto non mancherai di diligenza. AR. Paterno, oſaggio ricordo. Però che con la diligenza ogni giorno teſteſſa auanzerai, ella ti farà poßibile ogni impoßibilità,ela la é la perfettione, lalode di tutte le opere de mortalijà cui cons giunte ſono tutte queſte coſe, cura, induftria, penſamento,fatica,eſſer citio, imitatione de migliori, «il tempo padre d'ogni coſa. Credi adunque à me quelloche la lunga eſperienza mi haidimoſtrato, cioé, che niente giouano imieiprecetti,niente le regole,niente gli ammae ſtramenti,ſenza la diligenza,con la quale oltre alla inuentione, all'ordine delle coſe,otterrai di accommodar la uoce alle parole, eſpri mendo le umili con baſſo, o rimeſſo ſuono, le pure coniſchiettezza, le afpre con durezza,abbaſſando, & inalzando queſto beato inſtrué mento à que' tuoni, che ſaranno conuenienti. An. Coteſte fono leggi da eſſere oſſeruate allora che io ſarò col corpo congiunta. Pers cheben ſai chenė lingua, nė uoce habbiamo, nė però egliſi uuoldire cosi ad ogn'uno,in che maniera tra noi fauelliamo. NAT. 10 ſo be ne, chegli huomini andrannofauoleggiando di noi, come altre fiate hanno detto chele cannucce parlarono, ilche é maggior miracolo, che ſe gli Indiani uccelli eſprimono le uoci umane. A R. Se già col mio aiuto uolarono gli huomini, molte coſe inſenſate hebbero mo uimento, che marauiglia potranno oggi maiprendere del parlar nos ſtro? AN. Che debbo dir’io? partita ora dalluogo,oue il parlaa re é uiſibile, l'intendimento ſenza fauella ſi ſcuopre, muoueſi ſenza luogo,e s'impara ſenza discorso. AR. Coteſti miracoli, che tu ci narri,ſono ſegno, che tu non habbia biſogno dell'opera noſtra. AN. Tu di vero, ſeio nella mia primiera ſimplicità mi rimaneßi. Ma diſcendendo dalpuro o purgato eſſere, o venendo quaſi ad un'aria infettata e corrotta,molto mi ſento dal mio primo ſtato ria moſſa. NAT. Peggio ti auerrà meſcolandoticon la masſa matea riile del corpo. A N. Ad ogni modo mi biſogna ſtar ſottopoſta. AR. Non uſciamo di ſtrada,macome buoni mercatanti accontiamo inſieme. Haßi dunquefin'ora promeſſa di uoce eſpedita, di copia di parole, di modo conueniente di accomodar la uoce alle parole;oraci reſta di affettare le parole alle coſe. Cheditu Natura? NAT. Die co, ch'egli è più che neceſſario queſto affettamento,ſenzail quale le parole ſarebbon uane et ſenza frutto, però accreſcendo le doti, che io intendo dare à coſtei, promettole di dimoſtrarle nelle coſe mie us na certa uerità, alla quale accoſtandoſi, potrà ſeco tirare ogniforte di gente, o di tale ueritàſenza dubbioti affermo eſſerne ogn'uno capace. A'R. Già tre corde di queſto liuto ſono accordate, uoci, parole, a coſe. Reſta, che nelle coſeſi ueda una certa conuenienza con eſſo teco,ò Anima, e con le parti tue; che ne riſulti la perfetta e compiutafoauità della deſiderata armonia. Però aiutamia ritros uare le tue più ſecrete parti, epiù occulte uirtù, acciò cheſi ſappia qual parte di te, con quai coſe, « con che parole, et con che attione ſi debba muovere. A n. Piacemi queſta diſpoſitione mirabilmene te ofappi,che auenga;ch'io nonſia ſtata col corpo già mai, nientes dimeno come nouella ſpoſa nella caſa del padre molte coſe hoſapute, che mi aueranno quando ciſarò legata. A R. Ora incomincia à dir mene alcune. AN. Hogià inteſo,che quando io ſarò con eſſo il cor po, molte mie forze emoltemie uirtù ſi ſcoprirāno,le qualiora non ſi conoſcono. Et prima ne gli occhi io ſarò il uedere,nell'orecchie l’u dire, nel palato il guſto, per ogni luogo oparti del corpo faró ſentimento, nel cuore principio diuita,di ſenſo,etdi mouimento.Ben che ad altra intentione altri riguardando,la origine di tai coſe ad al tre parti aſſegnerano. In un luogo ſarò fantaſia,in altro memoriain altro ingegno,et per tutto ſarò anima.Et ſe il corpo fuſſe di tal tem pra, chegli fuſſe diffoſto à riceuere ogni mis uirtù, farei nelle orecs chie la uiſte, o ne gli occhi l'udito, quantunque per molti accia denti, che uengono à i corpi, l'animepouerelle uſar non poſſano le forzeloro, da che nacque l'opinione di coloro, che dicono "credos no che noi moriamo inſieme col corpo.Ma io ti giuro per quell'onnis potente maeſtro, che mi fece che noiſiamoimmortali, oſe ora io fo noſenza il corpo,perche non ſi dee credere che io reſtar poſlı dapoi, che'l corpoſarà disfatto? AR. Tutto chemolte ragioni aſſai pro Babiliper l'und ei per l'altra parte mi muouano,pureal modo,che io Sonoſolita di cercare la uerità delle coſe,io non ſono puntoſicura del la voſtra immortalità, però rimettendomi à qualche maggior ſapien za, che la mia non é, mi gioua di credere che noi uiuiate eternaměte. A N. Più oltraiſe fenza il corpo conoſco,fo ueggio, econoſco di conoſcere,miapropria operatione, che dirai tu poſcia dello eſſer mio? AR, Ritorniamo al cominciato ragionamento. An. Ben ti dico ora delle forze mie, perche io conoſco di dentro, e di fuori, dentro con la fantaſia, col diſcorſo, o con l'intelletto, o ciò si dia mandavolontà, come quello del ſenſo appetito, il quale hauirtù di porſiinanzialle coſe diletteuoli, o di fuggire le diſpiaceuoli.La no lontà è Regind. AR. A'me pare, che tu mi hábbiposto inanzia gli occhi la forma di una ben'ordinata Republica, nella quale ui ſia il Principe, iCoſiglieri,i Guardiani, et gli Artefici. Mainfinitamentemi doglio d'alcuni, che per molti ſecreti auenimenti, de' quali non fan renderealtramente ragione, corrono à fabricar nomi, che nonſono, et con quegli impauriſcono le genti,aguiſa delle nutrici,che ſpauenta, no ifanciulli con le fauole, quindi è nato il nome della Fortuna,cui ca pital nimica io ſempreſonoſtata, nõ percheio creda,che à quel nome alcuna coſariſponda, maperche mimoleſtalafalſa opinione di colo ro, che non ſolamente uogliono, che ella ſia una coſa come le altre, che ſono, ma le attribuiſcono la diuinità. NAT. 10fo bene, che la for tuna non è fattura mia. ART. Né di me'ancora. An. Molto mea no dimeauezza à coſe stabili e impermutabili. ART. Laſcida mola dunque andare, o ueggiamo ſe io ti bo ben’inteſa, due ſono i conſiglieri,per quanto io comprendo,ragione, &appetito, daiquali commoſſo e perſuaſo,s’induce à fare, eoperare il tutto, perche ora nė difortuna,nédi uiolenza alcuna ragiono. A N. Senza dub bio,ſe riguardi al nome, maſaper dei, che ſotto queſto nome di appea tito ſi comprendono due conſiglieri,l'uno, nel quale è poſto l'iracons dia,che è come difenſore dell'altro,nelquale è posta lacõcupiſcenza. AR. O diquantimali, e di quante conteſe l'uno e l'altro de gli appetiti ſuoleſſer ſemenza. An. Queſto non già auiene pur il dritto gouerno in tirannia non ſi tramuti. Diritto gouer è quel lo,nel quale,chi deue ubidire, ubidiſce, ochi dee comandare, cos manda". La ragione adunque di queſta piccola città preceder deue allo appetito, e non permettere, che egli ad abandonate redini cors sendo, ſeco dietro la tiri. AR. Moltomipidce quello che tu di,eso B per che 1 jo per ricompenſa di tal piacere voglioti ſcopriremoltiſecreti, che io bo d'intorno alle predette coſe.Ma dimmi tu prima queſta una parte, nella quale é riposta la ragione,diche hai tu inteſo cheella eſſer deb bia adornata? NAT. Diſcienza o di buona opinione ART, Vero é, per che la ſcienza é ilpiù bello adornamento, che s'habs bia, al qualeſe s’auicina la buona opinione,ò che gentileabito é que ſto,diche l'animaſiueſte apparando le ſcienze. Alora ella acquiſta laſua perfettione,allora ella é pronta à conſeguire il deſiderato fine, & quaſi ſeſopraſeinnalzando auanza ogni coſa mortale, o ſi cons giungecon la diuinità.Ma come di coſa precioſa,orara, difficile,or non da noi ora cercata,non ne ragioniamo, ma ritorniamo alla buong opinione, la quale si come la ſcienza è una certa cognitione delle cofe occulte, nata da uere og manifeſte cagioni, cosi eſſa opinione è una incerta notitia,nata da alcune dubbioſe cagioni, alle quali l'anis ma con timore difallire, odi errare, s'inchina. Per uoler'adunque ottenere l'intento fuo,é biſognoconoſcere il modo,col quale dapia gliareſi hanno,o, comeſidice, farſi beneuoli i detti conſiglieri,ac cio che acquiſtata lagratia loro, l'animaſi muoua àfareleuoglie di chi parla.Muoueſiadunque la ragioneuol parte,che è nell'anima, că lepruoue, ocon le ragioni; & tal mouimento s'addimanda inſegna re. Etperche la ragione è uno de' conſiglieri,prudente,etſuegliato, perd nell'ufficio deŪ'inſegnare é di mestiere diacuto epronto inten: dimento,mal'appetito in altro modoſimuoue.Il primo, che è detto Concupiſcibile,richiede una certa piaceuolezzaet cõciliatione. Pero ciòche cosi di dentro i petti umaniſono da quello tirati. Ilſecondo gli fpigneàforza, operò cõ eſo egliſiuuole uſare uno impeto, a cui più propriamente queſto nomedimouimento ſi conuiene, che à gli al tri; e comedebito è lo inſegnare,cioè il dimoſtrare con ueriſimil pruoua le propoſte coſe, cosi è onoreuole il conciliare, o neceſſario il muouere. Ma da ogni afficio di queſti tre peruiene lapropria dileto tatione. An. Io ſo almeno,che altro diletto non ho che lo apparda re. AR. Et tu prouerai appreſo quanto piacere naſca negliapa petiti. An. 10 pure ſono auifata cheeſſendo in eßi ripoſte le umaa ne affettioni, nonpuò eſſere che ſenza riſentimento di dolore ſimuou wano. ART. In ogni affetto, & mouimento d'animo,dolore, o piso cere ſono compagni.Oruedi quáto sfrenataſia l'iracondia, oquana to doloroſo ſia l'adirato,et pure conoſcerai, che lo appetito,et la ime ginatione della vendettaglie piùfoane che il mele. Ho duucrtito,che nc ELOQVEN Z A. ii negli eſtremi dolori gli huomini hauuto hanno piacere di dolerſi, ayo il non poter ciò fare, èſtato loro di doppia doglia cagione, non cbe à loro elettionehaueſſero uoluto l'occaſione di dolerſi,ma poſti neldo lore; dolce coſa il poter'à lor uoglia ramaricarſi hāno riputato. Dilet ta ueramente la ſperanza,ma il deſiderio la tormenta. Peßima coſa è la diſperatione tra tuttigli affetti umani, maſola è ſicura contra la morte. Mauannetu diſcorrendo nelle altre perturbationi,che trouca rai nella allegrezza ſteſſa un mancamento diſpiriti, ounatenerez xa, che al pianto ti condurrà fpele fiate.Però io tiſcuopriròintorno à tai coſe bellißimiſecreti. A N. sidigratia; percioche queſte mi paiono leuere, epotentifuni, con le quai ſi tirano l'altrui ate nos ſtre uoglie. A R. 10 ho inſegnato a' mieifedeli,che non fieno fema pre folleciti d'intorno ad unoaffetto, per fuggire la noia con la uda rietà dellecoſe, imitando la Natura, la qualeamaſopra modo il udm riare,o il mutare le coſe ſue. NAT. Vero è, perche chiaramente dei vedere la diuerſità delle ſtagioniedei tempi, la grandezza co l'ornamento de i cieli, la moltitudine delle coſe e delle apparenze, ch'io ſonouſata di dare alle coſe mie. AR. O'quanto io leggo fo pra il tuo libro è Natura;ma non abandoniamo l'impreſa. Deiaduna que fapereè Animàun'altroſecreto, non meno delſopra detto bello, degno da eſſere apprezzato. Jo ti dico che tu auuertiſca bene di nõ ſollecitare con tutte le forze ad unoſteſſo tempo i detti conſiglieri, perche l'anima trauiata in molti mouimenti, non attende comeſi dee ad un ſolo.L'eſperienza ti moſtrerà, che ad un'bora né gliocchi, di belißime pitture,né l'orecchie di ſoauißime confonanze potrai pies: namenteſatiarejma compartendole opere, meglio aſſai per guſtare i diletti,e i piaceri delſenſo,uederai quanto può queſtaſeparata pers ſuaſione. Inſegna adunque. Inſegnato che hauerai,muoui,apporta le facelle, et eccita con gli ſtimolide gli affetti l'animo de gliaſcoltanti. AN. O' Arte tu ſarai ſempre arte. A n. Et tu anima ſaraiſempre anima. A N. Eſſendo io anima, o da te ammueſtrata,diuentero Ar te, o tu eſſendo in me Arte, Anima diventerai. A R. Nuouo miracolo,didue coſe farne una; ma digratia non ci laſciamo ſuiare dalle occaſioni,che in uero alcuna uolta épiùdifficile la ſcelta, che la inuentione. Ora foniamo a raccolta, o quaſi ſotto uno ſtendardo ria duciamo le tue;uirtù, dalle quali fin’ora habbiamo iregali aßiſtenti ragione, concupiſcenza,oira. Reſta, che andiamo alle altre parti.; AN. Cosi faremo, o da eſſa memoria ſidarà principio. AR..O B quanto tiſon tenuta in nomeſuo,che mi giouerebbe duuertiré un'afa fetto di Natura, ſe altra fiata in quello abbattendomi, la memoris preſta nõ mi diceſse, Eccoti,ò Arte,quello che ancora uedeſti. Che es ſperienza ſitruouain meſenza di eſſa?chis'accorgerebbe, che in al. cuna di uoi, ó Anine, io miritrouaßi, ſe non fuſe la memoria come guardiana, teſoriera ditutte le parti dello ingegno? onde con ues rità ſidice, Che tanto fa l'huomo, quäto ſiricordaNaſce la memoria dal bene ordinare, l'ordine dello intendere, odal penſamento, però poſſo io con le imagini in alcuni luoghi riposte artificioſaméte indura rela memoriadelle coſe. NAT. A lungo andare tu le ſeipiù toſto di danno, che di prò alcuno,però non mipiace altro che uno eſſercitio, di eſſa memoria,cheſi fa mandando motte coſe à mente. A R. Che fai tu di eſſercitio • Natura, l'ordine della quale è ſempre conforme? il tuo fuoco ſempre tiraall'insù, la tua terra per lo dritto all'ingiù di fcende, o cot ſuo giuſto peſo al centro rouinando à modo alcuno non fi può uſare alla ſalita.volgeſiilcielo tutta fiata raggirandoſi in ſe medeſimo, ogni tua legge e impermutabile, o tutto che i tuoi mona ftri, le tue ſconciature alcuna volta ci diano da marauigliare, pus ge ſono tue fatture,néſono alla tua generale intentione repugnanti, mal'Anime da uno in altro cõtrario trapaſſando, buone di ree,et ree di buonediuengono. NAT. Io conoſco il biſogno in quel modo che gli occhi comprendono la notte, che é priuatione di luce, ma ben ti dico,chela memoria da me con molta cura é guardata nella compoſiz tione dell'huomo. A R. Io l'ho auuertito nel tagliare di eſſo, egomi fono marauigliata con quanta cura difeſo hai quella parte,nella quale éla memoria collocata,hauendole dato nella parte di dietro della tes ſta un'oſſo fermo, e rileuato,che da ogniſtranieraforza nella difens da.Tui in temperata umidità e la impreſione, e in ſecco proportios nato la ritentione delle coſe. Ma tu Arima,la cui nobiltà fi fa manife ſta per tante & tali operationi, di ciò il tuo fattore ne ringratierai, regolando con la ragione i tuoi appetiti, penſa,ordina, ocon lo eſa fercitio conſerua la memoria quanto puoi,percheciò facendo,tale di senterai,quale deſideri, e conoſcendo te ſteſſa, conoſcerai l'altre tue forelle, & come della più onorata di eſſe la tua ragione ſopraſta alla loro, il tuo dritto deſiderio ſarà lor freno, onde infinita riputatione acquiſterai,perche di leggieriſicrede à colui,in chiſifida, et facilmen te ſi fida in chi ſi truoua autorità, w credito, il qual naſce dalla inte grità,o bontà de' coſtumi, o queſto é,ch'io deſideroſa, fe altra ſi trkowa E LO QVEN Z A. 13 truoua del bene,temo aſſai non abbattermiin perſonemalungie.AN: In che potranno ufare la loro malu agità, non eſſendo lor data ſede? ART. Come io non ti niego,che il uiuer bene,es accoſtumatamente non ſia di gran giouamento à farſi luogo nel coſpetto degli huomini, e acquiſtarlagratia de gli aſcoltanti,cosi non ti conſento che l'has uergli dalla ſua,per uirtù, oforza di parole non ſi poſſa fare. A N. Perche inſegni tu coteſti incanteſimi? A R. Il mio ualore e tale, che io poſſi in parti contrarie e repugnanti, ſenza che io deſidero ſcoprire in altruiſimili inganni,e però biſogna conoſcergli, cosila uerità ſtadi ſopra, ola bugia cade'uinta in terra,cosiſiponfine alle conteſe, cosi ſi terminano le liti, cosi ſi ammolliſce le durezze degli adirati, s'attura le rabbie de’ ſeditioſi, ſi ſollieua l'autorità delle leggi caduta contra il uolere di quegli, che ſtimando l'oro, l'argento, più cheil douere, & à prezzoſeruendo, poſpongono la ſalute coma mune alla utilità priuata.o quanto nei publici mali,e nei tempi pe ricoloſi compenſo pigliarſi ſuole dal parlare digraue et onorato cit. tadino,le cui parole condite diſenno,ſeco hanno l'alleggiamento d'o gnimalinconia,che gliafflige. An. E dunquegran difetto d'huos mini da bene? AR. Senza dubbio, o ciò auiene perche la uia dis ritta è una,male torteſono infinite, però di raro ſi vede tra mortali, chi per la ſola camini. Ma tuſcordata ti ſei d’un'altrauirtù, la quale per mettere le coſe dinanzi a gli occhi (il che éſommamente richies ſto)non ha pari.Di queſta uirtù, perche ella ha grande amicitia co i ſenſi corporali,o é molto confuſa,come quella, che é lo ſpecchio ges nerale di tuttii ſentimenti umani, o perciò è detta imaginatione;di queſta uirtù dico, non hauendola tu ancora eſſercitata, non ne haifin ora alcuna parola mosſa. Io odo dire che nella imaginationeſirifere bano le imagini, e le apparenze da ſenſi riceuute,et beneppeſſo in lei cosi ſtranamente tramutarſi che i ſogni non ſono cosi turbati, et con fuſi, là onde molti ſono detti, o riputati fantaſtici, altri ſi fanno Re O signori,o talmente par loro eſſere que'tali, che ſi credono di eſ ſere,che riſo eg compaßione mouono a chigli vede. Alcuni uanno, come ſi dice,in aria fábricando, et tanto ſi ſtannonel lor penſiero fißi, che forſennati,e pazzi da tutti creduti ſono. A R. Quanto piùe uanamente ſpender ſi ſuole tal uirtù, tanto à maggior prò li deue ue farla,& adoperarla. Per queſta l'huomo prima taleſi fa, qual uuole che altri ſieno. Perche egli prima dentro diſe ſi propone la coſa, che egli cerca dare ad intendere altrui, con quel migliore e più eccelslente modo cheſi può, auolendo egli metter’altri a pianto, non tera rà mai gli occhi aſciutti. Simile forza nella pittura ſi dimoſtra,lo ar tefice della quale, ogni forma, che egli cerca di far uederenelle ſue tele, primanella imaginatione fermamente ſi dipinze, o quanto più belli,o gagliarda è la ſua imaginatione, tantopiù illuſtre, o loda. ta e la ſua pittura.Molte forme, oſembianze ſono de gli adirati,ma una più eſprimela forza dell'iracondia; queſta una deue inanzi alle altre eſſer poſta nella fantaſia, o à quela il pennello e la linguafi deue indrizzare; en cosi tutta fiata il più efficace modo o di moues re, o di dilettare, ò d'inſegnare por ſi dee chiragiona,inanzi,accioche egli ſi habbia l'aſcoltatore come deſidera.Et queſta è la utilità grans de di coteſta tuapericoloſa potenza,pericoloſa dico,perchemolti no ſanno ufarla à feruigidello intelletto, ocredono, che lo imaginarſi ſia intendere odiſcorrere. Ma laſciamo queſto da parte;o racco: gliamo le tue uirtù. Che mi hai tu dato fin'ora? An. Mente,uolons tà,appetito,memoria,imaginatione. A RT. Molto mi piace.Nella mente, che uiporremo altro, ſenon buona opinione, con l'ufficio dello inſegnare? Làonde la uolontà ſi muoua ad abbracciar le coſe. Et nel lo appetito,che ui ſtarà ſenongli affetti,eccitaticol muouere, &col dilettare, Là onde l'animo ſia uiolentato à bene eſſequire? Della me. moria non dico altro, né della imaginatione, percheſono ambedue di ſopra aſſai bene ſtate de noi diſtinte. Ora bella coſa udirai, oda non eſſer à dietro laſciata. A N. Che mi dirai tu? ART. Dicoti,che doppo la eſpedita dimoſtratione di tutte le tue parti, fa di meſtiere di ſapere in qual maniera elleſieno dipoſte à riceuere la impreſione dei loro oggetti. Perche uana, ofriuolafatica quella ſarebbe, di chi af fettaſſe in parte al pianto diſpoſta ſenza alcun mezo porre il piacere. Credi tu che eguale prontezza hauerai allo imparare,et allo adirars ti? Indrizza adunque i tuoi penſieri à gli ammaeſtramenti, che io ti uoglio dare, oſaperai comedeueeſſer'apparecchiato l'animo dico. lui che ricerca la pruoua, edi colui che è pronto all'affettione, imis tando i buoni medici, i quali prima uannoinueſtigado quai partiſieno guaſte, o quaiſane,eappreſſo, le guaſte uanno disponendo à rices uere i rimedij conuenienti; e primaleniſcono, e ammolliſcono, poi apportano la medicina. L'anima adunque, nella quale la ragione fi dee porre, acciò che dia luogo alle pruoue, et accettar poſſa la buona opinione, e iſcacciare la contraria,deue eſſere ripoſata, e quieta,et non in modo niuno affettionata, et trauagliata. Perche eſſendo il piancere,cheha l'anima, quandoimpara, foauißima coſa, biſognofache ellaſia lontana da ogniturbatione, operò molto male è conſigliato colui chenel conſigliar'altrui uſa la forza, o la violenza degli aps petiti, &degli affetti,laſciando il ripoſo della verità daparte; qual contento può riportar colui, che partito dal Senato dica, per qual ragione ho io aſſentito?perche ho io cosi deliberato?Buona coſa è l'hauer’alla uerità conſentito,mamiglior'e, ciò hauerfatto ragion neuolmente più toſto che à forza,perche in tal caſo non pure ſifabe ne,maſiſa di far bene; di che non è coſa più diletteuole w gioconda. Habbiaſi dunque l'animo ripoſato di colui cheattende la ragione; queſto ageuolmenteſi può fare, ponendoſiprima di mezo trail si o il no,come chiſta in dubbio.Però che più prontamëte ſi prende para tito,et ſi ammette il uero dubitando,che portando ſeco alcuna opinio ne. Macome diſpoſto ſia lo appetitoalle coſeſueattendi,che loſaprai con una bella diuiſione degli affetti. Perciò che in eſſo appetito gliaf fetti ripoſti ſtanno,comet'ho detto. Ogni affetto e d'intorno al male, ò d'intornoal bene, truouiſi pure lo affetto in qualunque parteſi uos glia. Ecco nel tuo generoſoſoldato,cui é conceſſo l'adirarſi, opren. der l’armi quando biſogna dico dello appetito iraſcibile,d'intorno al bene uiſta la ſperanza, e la diſperatione. Laſperanza é uno aſpetta re il bene, la diſperatione è un cadimento da quello aſpettare. D'in = torno al maleuiſta l'ira, la manſuetudine, il timore, ol'audacia. Ira é appetito diuendetta euidente per riceuuto oltraggio Mania ſuetudine èraffrenamento dell'ira, oambedue queſti affettiſono in torno almale,difficile,etpreſente.Il timore é un aſpettatione di noia, ouero un ſoſpetto di eſſere diſonorato.Et queſta ſichiamauergogna. Il primo,ouero é temperato,ouero eccede la miſura. Dal temperato neuieneil conſiglio,dall'altro la inconſideratione,il tremore, & altri ſtrani accidenti.Laconfidenza, «audacia, é contrario affetto. Et queſte perturbationi tutte ſono d'intorno almale che dee uenire.Nel L'altro appetito, in cui è poſta la concupiſcenza, d'intorno al bene ui ſta l’amore,il deſiderio, a l'allegrezza. D'intorno al male l'odio, o l'abominatione, di cui ſegno infelice e la triſtezza, dalla quale naſce l'inuidia, la emulatione, lo ſdegno, o la compaßione,quando auiene che la triſtezza detta ſia de i maliouero de i beni altrui. Ma nelle co fe proprie affligendoſi l'huomo tre alleggiamenti ritruoua. Il primo ė ripoſto nel proprio ualore, perche niuno ſcelerato é compiutamente aüegro.L'altro è meſſo nel conſiderare il dritto della ragione, werita 16 D ' Ε ι ι Α fuerità delle coſe, da che naſce la ſofferenza figliuoladella fortezza. L'ultimo é la conuerſatione di alcuno amico, perche ne gli amici e ripoſta la ſoauità della uita. Ritornando adunque allo amore, ti dico, che Amore è uoglia del bene altrui,eu ſe é mouimento d'animo a far bene, li dimanda gratis. Senonſopporta concorrenza, geloſia, lela ſopporta ad onefto fine, amicitia. L'inuidia non uorrebbe, che altri haueſſe bene,ſe benuifuſſe il merito. Lo ſdegno non lo uorreb be, non ui eſſendo il merito La emulatione il uorrebbe anche per ſe. La compaßione ſi duole del male altrui, temendo il ſimilenon da uengu á lei. Etciò ti puòbaſtare in quanto ad una brieue dichiaraz tiore di tutti gli umani affetti. Ora econueniente, che tu ſappia in che modo à ciaſcuno d'eſſi tu ſia diſpoſta, acciò che tu ſappia poi als truiſimigliantemente diſporre. Eſſendo adunque l'appetito uarias mente affettionato, quandoſi ſdegna,quandoinuidia, quando aborris ſcequando ama, quando teme, quandofpera, equando in altro mo. do é trauagliato,acommoſſo, aſcolta un bellißimo ſecreto, ilquale non ſolamente à diſporre gli animi à qualunque affetto è buono, ma in ogni operatione é neceſſario, & benche oggi mai per uero ammies ſtramento della uita da ogn'uno ſi dica, RIGVARDA AL F 13 NE, non é però d'ogn’uno l'applicare alle attioni o opere de' mor tali, cosi belle ſentenza. Laſcerò da canto le coſe, che non ſpettano alla noſtra intentione,ſolo dirotti quanto io deſidero, che ſia negli af fetti oſſeruato. Deiſapere che egli ſi truoua una maniera diparlare, la quale in molte, manifeſte parole effrime la forzı, ey la natura delle coſe; e quelle molte, omanifeſte parole altro non ſono, che le parti della coſa eſpreſſa. Queſtamanieradi parlare é detta Diffie nitione. Ora dunque io ti ammoniſco, che nel muouere gli effetti pri ma tu habbia à riguardare alla diffinitione di ciaſcuno,come al deſide rato fine. Però cheſe la diffinitione rinchiude in certi termini la nas turi della coſa propoſta, ſenza dubbio querrà, che il conoſcitoredel la natura, o delle parti deltutto diffinito, oeſpreſſo, indrizzerà tutte le forze dello ingegno ſuo, à ciò fare,et tale aiuto preſterà abon dantißima copia di ragionare, o diſciogliere ogni occorrente diffi cultà, e durezzé. Eccotiſe ſai, che l'ira é deſiderio di uendetta per riceuuto oltraggio, o ſe mirerai in queſto fine, non anderai tu dia ſcorrendo, in qual modo eſſer debbia diſpoſto all'ira colui, che tu uora rai hauere ſcorucciato? o conchi, oper qualicagione, & quanti modiſieno di oltraggiare altrui? Et ciòin ogni affetto facendo,non ti farai ſignore, & poſſeditore dello animo di ciaſcheduno? Et rans to più dimoſtrerai con la uoce, & co i mouimenti del corpo, te tale. effere, quale uorrai,che altri ſia,certamente si. La diffinitione adun queé il ſegno,al quale ſi deue attentamente guardare. Ora inbrieue ti dico dell'ira, che eſſendo ella uoglia di uendetta,è neceſſario,che lo adirato ſi dolga, o dolendoſi appetiſca alcuna coſa, dalche naſce,che repugnando altri à gli umani deſiderij, ouero à quelli alcuno impedi mento ponendo, ouero in qualunquemodo ritardande le uoglie al trui, porga cigione di adirarſi, cioé di deſiderare uendetta,ilperche nella ſtanchezza nell'amore, nella pouertà, e ne i biſogni ſonodiſpoſti i petti umani agramente al dolore cagionato dall'ira, epiù cheſono ideſiderijmaggiori, più apparecchiati, oprontiſono all'ira, o al furore. Lo hauer male di chi s'attende ilbene,lo eſſere in poco pre gio tenuto, ò diſubidito, o prezzato, o per ingratitudine, ò per ingiuria ſenza prò dello ingiuriatore, ſono tutte diſpoſitioni al predet to mouimento.Giouamolto, oin queſto, & in altri affetti ſaper. la natura,ilpaeſe, la fortuna, ela conſuetudine di ciaſcheduno. Se adunque ſi accende nell'ira in tal modo, chië diſonorato, o iſcordas to,ſenza dubbio acqueterai colui cheſarà onorato, riuerito,ubidito, ammeſſo, et riputato;ouero, chiſiſarà uendicato,a cuiſarà dimandato perdono con la confeßione del fallo, incolpando la violenza, enon la uolontà. Deueſi dare molto al tempo, oalla occaſionein ognicoſa, operò ne' conuiti, ne i diletti, one igiuochigli umani appetitifoa no più alla manfuetudine inchinati Dell'amorealtro non tidico, le non che eſſendo eſo soglia del bene altrui, l'eſſere cagione, mezano, interceſſore, aiutore al bene altrui,diſpone ageuolmente à tale affets to ciaſcuno. Et perche Amore appreſſo, é una ſimiglianza, w unios ne di uolere, però coluiſarà più amato, ocon l'animo più abbrace ciato, il quale dimoſtrerà d'eſſere d'un'animo, o d'una uoglia steſſa con noi. Ilche nelle allegrezze, one i dolori ſi conoſce, o neį biſoa gni ancora; non ſolo nelle perſone amate, ma ancora negli amici de gli amici. Allo Amore riferiſco la Benuoglienza, e l'Amicitia, las quale, ben che affetto non ſia, pure è nata da eſſo amore, che è uno de gli umani affetti. Qui non é luogo di più diſtintamente ragionare dell'amicitia; de gli oggetti, delle parti, e delſine ſuo. Perciò che altroue nei graui ragionamenti di filoſofia ciò ſi conuiene. Baftiti d'hauere per ora la ſuperficie, el'apparenza. Ritorno adunque e ti dico,che ipiaceuoli,coloro, cheſidimenticano dell'ingiurie i с faceti, imanſueti, gli officiofi uerſo i lontani, atti ſono ad eſſer'amati. Peril cótrario ſapersi chedire intorno all'odio,il quale è ira inſatia: bile, da uendetta, da tempo,daruina alcuna non mitigato; occulto ine ſidiatore, ymortale, nato da in giurie o ſoſpetti. Al quale diſpoſte ſono altre nature più, altre meno, o à megliodiſporle,biſogna ams plificare le ingiurie, « iſospetti,acciò che nonſoloſi brami una ſema plice uendetta, ma la diſtruttione della perſona odista. Del timore, odella confidenza, che ne attendi più, ſe di queſta, ed'ogni altra perturbatione ne i uolumi degliſcrittori, et nelle pratiche umane'ne Jei per uedere aſſai? Timore e turbation d'animo, nata da ſoſpetto di futura noia. Et però chi temeſa ó penſa dipotere ageuolmente eſſer’offeſo, eda chiſpecialmente, ſopraſtando il tempo,es la occas: fione. Etchiciò non ſoſpetta,non é al timore diſpoſto comeé chi ſem pre éſtato fortunato, chi ſempre miſero, chi è copioſo d'amici, di ros 64,09di potere,chi é fuggitoſpeſo dalle ſciag ure, ode pericoli,ego altriſimiglianti;o que'taliſono confidenti, &audaci. Euui altra maniera di timore, non didanno,madi biaſimo; alla quale diſpoſtiſos no i giouanetti,i riſpettoſi, oriuerenti, quelli cheuoglionoeſſer' ha uutiper buoni da ' più uecchi, o da ſimili, opari. Et però aûa loro preſenzaſonopronti ad arroſire. Non cosi ſono i vecchi,perche non credono,che di loro altri ſoſpettino quelle coſe, che ſono ne' giouani, come laſciuie,amori, euanità. Etperche il diſonore è coſa, cheuies n'altronde, però gli ſpiritidalſangue à quellaparte, che più lo ricer inuiati ſono.Ladoueil uiſo ſi tignediquel roſſore, cheſi vede. il contrario nei timidi, nel cuore dei quali il ſangue ſi riſtringe, per ſoccorſo di quella parte, che teme la offenſione.Nella uergogna ſi abbaſſano gli occhi, come che tolerar nonſi posſa la preſenza dicos lui, che è giudice de i difetti umani. Queſto è ne' giouani aſſai buon ſegno di gentil natura. Però che pare, cheuergognandoſi conoſcas no idifetti, ey habbiano cura di quelli. Non uogliopire diſcorrer’ina torno all'audacia, allo ſdegno, alla compaßione, alla emulatione, « al la inuidia. Però che molto ne uedraiſcritto, eragionato da altri. Ben non ti poſſo tacere del male acerbo, mortale, ch'io uoglio à quella fiera indomita, eabomineuole dell'inuidia, che all'udir ſolo il nomeſuo, ſtranamentemi muouo. Lafigura,i modi, ai coſtumi di eſſa ſono da gran poetadeſcritti. Di queſta mi dolgo, per eſſer quels la, che più regnaneimiei ſeguaci. Là doue il fabro al fabro, il mes dico al medico,l'uno artefice all'altro, inuidia portano ſempremai. M4 ca,Md tacciamoora di queſto, e poicheragionatohabbiamo di te, delo le parti tue,delle quali taci, che in eſſeſi ſtanno,e delle loro difpofia tioni, addimandiamo la Natura quaicoſe a’quai parti di te conuena gono, acciò che accordando la foauißima armonia della umana elo quenza con piacere, og utiledegli aſcoltanti uditi ſiamo apieno por polo raccontare i miracoli della Natura. ' AN. lo ueggio ben oggia mai' ' Arte, che tuſei quella chefai l'acume, ò la ſottilezzadell’oca chio mortale nel ſecreto della diuinamentetrapaſſare. AN. Anzi per te, ó Anima,coteſto mirabile ufficio s'acquiſta, la cui cognitione tanto apporta di lume, e chiarezzaad ogniprofeßione, o ſcienza, che ucramenteſi può dire chetuſia ilprincipio d'ogni conoſcimento Etperò chiunqueſtima; ola uſanza di uno leggierieſſercitio, o il ca fo tanto potere quanto tu, o io.uagliamo, grandamente s'allontana dal uero. Tu t'abbatterai in un ſecolo impazzito, d'huomini, i quali s'accoſteranno ad imitare più uno, che l'altro, olo imitar loro non faràſenon manifeſto rubamento, ſciocchi,oferui imitatori, che non Sapendo, perche altri s'habbiano acquiſtato il nome, tutta via in ciò s'affaticano. Altri perche hanno unaſcelta di belle, &ornate pde role uogliono ad uno ſteſſo tempo fcoprirle accomodando à quelle i concetti loro; ma che poi ſono cosi rozi, a inetti,cheſenza ordine, Ofuor di tempo le metteranno, e diranno, Io cosi dißi,perche cosi ha detto alcuno de' più preſtanti. Queſtiſono gli incomodi delfecom lo. Nat. O`quanto m’increſce perciò eſſere ſtimatapouera «biſo gnoſa, come che à me manchi alcunafiata,che donare, o che nel cer care l'altrui teſoro l'huomo perda,ò non conoſca il ſuo. AR. Chi ſempre ſegue, ſempre ſta di dietro, chi nonua dipari,nõ puòauan zare. Male hauerebbonofatto i primi inuentori delle coſe, fehae veſſero aſpettato,chiloro douea farla ſtrada. Et troppo pigro écoe lui, cheſi contenta del ritrouato. Ionon porgo già mai la mano a chi laſcia, oabandona la naturale inclinatione, come bene ho ueduto que' ali non conſeguire il deſiderato fine. NAT. Mi turbano apa preſſo quelli, ò Arte, che tanto di me ſi fidano, che te laſciano à dies tro". A R. Non ti dißi da principio, chenoi erauamo unite, e che ciò che appare di uarietà, e diſomiglianza tra noi,e in un principio ricongiunto? Che miditu? Chiunque opera alcuna coſa da me drizzato, uſa una regola commune, & uniuerſale, che à molte, diuerſe nature feruendo,quelle uniſce, o lega in uno artifi cio medeſimo, perche io ſono la conformità,o la ſimiglianza;altri acuti 20 DELLA ! acutifono, eſuegliati, altriſeueri,& graui,altri piaceuoli,&eles ganti per natura. Vnaperò e l'arte,una éla uia, che ciaſcuno al ſuo ſegno conduce. Quando adunque l'arte precede,facile e lo imitare; lodeuole il rubare, & aperta la ſtrada alſuperare altrui. Et in tal guiſa bene ſilpendeſenza lo auantarſi di eſſer ricco, a fenza dar ſos: spittione di uergognoſo furto. Accompagnifi dunque nelle ciuili con teſe il core, ola ſcrima,cioè la natura, el'arte, ogſi uederanno poi que’miracoli, ch'io ſo fare. Ma laſciamo tai coſe, e incomincia o Natura, o dimmi, in che modo le coſe tue fiſtanno, che di eſſe cosi dileggieri gli huominiſiuanno ingannando NAT. Sappi ò Arte, che ogn'uno che ci naſce, ſeco porta dal naſcimento ſuo unacerta ins clinatione alla uerità, donde auiene, che inſieme con glianni creſcens do ella in parteſuole il uero congetturare, laqual congetturi opis nione più toſtocheſcienza uferai di chiamare. Laſcio la uſanza mia imitatrice,chefino da primiannirecarſuole molte opinioni, che poi dipenacon l'altra certezzaſileuano, parlerò di quella ſembianza più toſto, che ſembiante di uero,cheé atta nata à muouere l'umane mentia far giudicio delle coſe. Dico adunque, alcune coſeeſſer da ſe ſteſſe manifeſte, chiare, altre, niente da ſe hanno di lume, edi fplendore,mailluminate da quelleche ſeco hanno la luce, ſi fannoa? fenſi umanipaleſi; nel primo gradoé il Sole, o tutti que' corpi, che ſon chiamati luminoſi. Nel ſecondo ſono i corpi coloriti, i quali non hannoin ſe ſcintilla di chiarezza, ma d'altronde ſono illuminati. Il fimigliante ſi ritruoua nello intelletto. Iljaale riceuendo alcune coſe diſubito quelle apprende, og ritiene. Però che quelle ſeco hannoil lume loro, ſe à me ſteſſe il fabricare de' nomi, io le chiamerei Noti tie, ouero Intendimentiprimi. Ma poi altre ſono, che non hannoda ſe lume, ó uiuezza alcuna,&però di quelle ſifa giudicio con ſoſpetto di errare, fe da altro luogo la loro intelligenza non uiene; quinci ė nata la opinione, la quale come opinione, che ella é, né uera ſitruoua, ne falfa. Il difetto naſce daquelli uirtù,chepoco dianzi diceſte.Pero che le coſe mie fono, come ſono,mariceuute nell'anima, e da' ſenſi al la fantaſia per alcune debili ſembianze traportate, ſtranamente meſcolate,fannodiuerſe opinioni. Ben’é uero, ch'io non faccio una co ſa tanto diuerſa da un'altra, che l'huomo dueduto non poſſa alcuna Somiglianza tra eſſe ritrouare. A R. Molto mi piace che l'animadi ciò nonſia fatta capace, perche accadendoleſpeſo mutare le opinioni umine, e da uno in altro contrario traportarle, molto deſtramente biſogna adoperarſi,et diſimiglianza, in ſimiglianzaà poco a poco pas fando,perchelo errore in eſe ſimiglianze ſinaſconde, tirar le menti, che no s'aueggono di una in altra ſentenza. An. Et chi può queſto ageuolmente fare? A R. Chi con diligenza inueftiga la natura dela le coſe ſottilmente, uedrà in che l'una con l'altra ſi conuenga, ma non chiamiamo però la opinione incerta,cognitione à queſto ſenſo,checo lui, che ha opinione ſappiaſempre quella eſſer’incerta, o dubbioſt conoſcenza, ma bene che in ſe conſiderata, come opinione da chiuna que hauerà il uero ſapere,ſarà riputataincerta. NAT. O quans to mi nuoce in questo caſo,la uſanza inſieme con la età creſciuta, lds quale à guiſadimeſtesſa, ferma talmente le coſe nelle menti umane, che bene ſpeſſo la bugia, più che la uerità in eſi ritruoua luogo. Et peròcredono molte coſe che nonſono, ouerofe ſono, ad altro modo di quello, che ſono, uengono giudicate. Etfe pure dirittamente appreſe ſono, altre cagioni lor danno,che le uere, e quelle ch'io so eſſere in mediati o continuate à gli effetti. Et queſto auiene quando la ragio ne inchina più al ſenſo che all'intelletto, « più all'apparenza, che al l'eſſenza. AR. Tu hai più dell'Arte,o Natura,che di te ſteſſa,cos si bene uai diſtinguendo i tuoi ragionamenti. NAT. Non te ne ma rauigliare, ò Arte,perche io qual ſono,tale mi dimoſtro, oſe di me medeſima parlo, cometu uedi io lo faccio in quel modo, chetu altre uolté hai confeſſato, che io ragionereiſe io fußite. AR. Quello che io dico, lo dico per amınaeſtramento di coſtei, laqualanche non ſi dee marduegliare di queſta apparenza del uero. Perciò che è aſſai als l'huomo ſaggio, che le buoneragioni gliſieno ſemprequelle ſtelle, da quelle ne prenda la ſimiglianza del uero, che per lo più muoue le umane menti, oin eſſe ageuolmente ſi pone, al che fare, opportuna, ocomoda coſa é ricordarſi, in che maniera per lo pulſato l'huomo ſe ſteſſo habbia ingannato, o in qual modo ancora, e per qual cagione altri ingannatiſi fieno da loro medeſimi, in uero te ne riderui, uedens do alcuni che penſano, ogni coſa, che precede un'altra, cffer di quella cigione, ò che lo eſſer fimile ſia il medeſimo. Ne per ciò direi che l'os pinione fuſe ignoranza,comenon dico, eſſa eſſere ſcienza, perche la ſcienza e stabilità,o fermata da uero, e infallibile argomento, en la ignoranza non è di coſe uere. Onde naſce,chela opinione è un abi to mezano tra il uero intendimento, o l'ignoranza, differente dal dia bitare in queſto che la opinione piega più in una, che in un'altra par te, il dubitare tiene in egual bilancia la mente tra l'affermare, o il negare, eye però biſogna riuocare in dubbio le coſegià ammeſſe,e di mojtrare quäto pericolo ſia il giudicare. Da queſtone naſcerà la que ſtione, e la dimanda, la quale diſponendo le menti alle ragioni; quan to leuerà della prima opinione,tanto porrà di quella, che tu uorrai, o à ciò fare uia non é appreſſo quella che ua per le ſimiglianze delle coſe.Partipoco,ò Anima,cotesti uirtu? penſi tu,che ſia cosi facile il perſuadere? ó credi tù chegià biſogni con dritto giudicio, o con ſal do intendimento penetrare dalla ſuperficie alla profondità delle coſe? A N. Da che occulta radice l'apparente bellezza dicoteſta tua figli uola,nel cuiadornameiito la Natura ſola non baſta. NAT, Ora ogniſentimento mi ſi ſcuopre, ó Anima, da costei, emanifeſta uedo eſſermifatta la cagione,per la quale molti miei amiciſono diſonorati. ART. Quai ſono coteſti amicituoi? NAT. Quei, che inueftis gando uanno iſecretimiei, le ripoſte cagioni delle coſe,i movimenti, le alterationi, &i naſcimenti d'ogni coſa, o che non ſicontentano di ſtare par pari de gli altri huomini,manobilitando la ſpecie loro con le dottrine traſcendono i cieli. AR. Che ſtrano accidente può ueni re à perſone cosi pregiate, come ſono iſeguaci tuoi, ogli amatori della Sapienza,i quali comerettori delmondo, felicißimi,er beatißis mi eſſer deono riputati? NAT. Queſti fedeli miei à punto ſonoquel li, che più de gli altri ſono diſonorati. An. In che coſa? ART. Aſcolta digratia; mentre che gli ſtudioſidi meſi ſtannoſoli, ein par te ripoſta comeſchiui dell'umano confortio,non é loda • grido onora to, che con ammiratione delle gentinon gli eſſalti o inalzi infino al cielo. Mapoi che compareno, et uěgono alla luce,ſono prima da ogn'u no guardati, si per la eſpettatione già conceputa della virtù loro, si an cora per la nouità dell'abito, o dell'aſpetto,et del portamento,ogn's no lor tiene gli occhi addoſſo, a attentamente ſi dimoſtra di uolergli udire. Io non ti potrei eſprimere con che grauità poi aprono la boca ca, e con che tardezza poimandano fuori le parole, etquanta ſia la dimora de i loro ragionamenti, i quali poi che da principio nonſono in teſi dalle genti,comecoſe lontane dalla umana conuerſatione, non cosi toto uiene lor tolta la credenza, per che purſiattende coſa miglios respire conforme alla opinionede’uolgari,iquali dalla prima eſpets tatione inuiati danno i ſeſteßi la colpa del non capire la profondità de' concetti loro. Mapoi che nel ſeguete ragionare s'accorgono pur in tutto di non poter’alcuna coſa da que'beati ritrarre, et che ogn'os ra più le coſe intricate, ar le parole aſcoſe ogni lume d'intelligenza Hanno lor togliendo, quanto ſcherno, Dio buono, jego quanto riſo ſe ne fanno. AR. Jo grauemente miſdegno, ó Natura, & mi dolgo di ſimili auenimenti, poi chegli infelici non fanno drittamente ſtimar le coſe,benchefino al fondodi eſſe paſarſi credono,maforſe è, cheſtan do eßiſemprein altro, quando poi allo in giù riguardando ueggono l'altezza loro, a la profondità delle coſe terrene, uanno uaccillando con gli occhi; ocomparando il cielo alla terra, ſtimano ld terra un minimo punto, o una bella città un niente che nobiltà, che chiaa rezza diſangue può eſſere appreſſo coloro, che ſeſteßicon la eterni tà miſurando, tutti da uno ſteſſo principio uenuti affermano?Che rica chezzaſarà grande appreſocoloro, che ſi ſtimano poſſeditori del cie. lo? qual prouiſione daſoſtentare i popoli farà colui il quale quaſipa ſciuto del cibo de i Dei,altro non guſta, altronon ſente,altronon din fia,cheſempre ſtare alla ſteſſa menſa? ne credono, che altriſieno in bi sogno? Queſte coſe io direi in loro efcuſatione. Ma che midiraitu di quelli cheſonoſtudioſi della vita ciuile,ochefanno le cagioni de’mu. tamenti de i Regni, e delle Rep.le conditioni de principi, gli ufficij di ciaſcuno,le uirti, gli abiti uirtuoſi? Non credi tu, che queſti ſie no più auenturati de gli altri? NAT. Peggio, percioche il ſapere ciaſcuna delle dette coſe,hauer le diffinitionid'ogni uirti, ocoa noſcere diſtintamente ogni buona qualità,non é aſſai, ma egli biſogna uſar tanto teſoro al governoaltrui per ſalute, ocomodo uniuerſaa le, e oltre all'uſo hauer parole al preſente maneggio oalla ciuile uſanza accomodate. ART. Dondeprocede coteſta loro cosi ſot tile ignoranza: forſe cosi eleggono penſando di eſſer' hauutiper dot tiæintelligentiparlando in cotalguiſa?Ma questa é una groſſezza infinita,perche non é piacere, che s'agguagli àquelloche prende ľa ſcoltatore quando impara &intende ciò che uien detto.Sai tu duns que la cagione di cosi fatto errore? NAT. Forſe è,perche non ha uendo eſsi alcuna eſperienza della conuerfatione cittadineſca, fanno quelguidicio dimolti cheſonoſoliti di far d'alcuni pochi, loro come pagni,co i quali tutto’l giorno con uarie diſputationi argomentando trapaſſano,ne mai ſono riſoluti. ART. Et io ancora cosi credo, pe rò guardati ó Anima, di non entrare nel loro no conoſciuto collegio, ò ſe pure ui uorrai entrare tanto iui dimora,quanto alcun giouamen to ne puoi ritrarreper la ciuile amminiſtratione. Nel resto pronta, et ſuegliata nel coſpetto degli huomininon meno alla ſcuola eall'acas demia,che alla piazza,alla corte, o alſenato intentafarai, o uſans do. D E L L A. doistiche le gi,con mozeme uoci raptorersi, percbe riund coſa é få mots, creudire ripublicico:lizále uanie dig esioni, o le Haitat parole di moint, i quali razlo" 2r.do le ébloro per la Città frendere unsguerra,realize, ne: i mezi di efl: u21 riguardando, riaprindo le ſcuole de presa deguono, di 7: oro, oargos:ht::opia ficcrente del mondo, o cercano chifu il primo ins kantore deli'arxi chifrino in Roma trionfale, cbisitrouo le naui, chui brizla i czasu, et ilere ciance si fatte,cbenc irfegn2":0,ne dis last250,14.1widojiore della prostione de' daruri, delle genti, o del *010, col quale s bubbis a fartal guerra. Il percbelo. To poi auies fie, cbei nero perini,çia deguamente di loro parlando, ſono con grue de 11ratione acoltati. NAT. Cotto e mio dono,percbe ditus to potere affreuz! cusi mi truono,che wina forzaglimetto irrar ci i tuoi ſegussi. AR. Et forſe corne sfrenati causlii, gli fai tel mezo del coro pericolare; pero sili eccellente natura,che ta lorda, sorrei che mi falje l'aiuto rio.percbe meglio, o çik ficuri aadribs 6290 per lefiziglianze dre coſe. An. Biſogna dunque pik skatie rigliz- guardare, cbe al wero? A R. Cosi biſcgna; o quedo porriaz slitacels il facesi, sı il donerci tu fare, o ciaſcuno, che * pis airtai perjuadere, accio cbe fiso aſcoltato, o inteſo dude geri, lezasli barefeito -Is bagis nga 14.0, får cbe in ejja las casicae spetto dd zero. Queto per fo cjjere, cbei şià f- 931 babe bis 10 c50 surorit: b4xx.: predoi popoli cbei nácti inges gs. An. Dizni gratis, çusio é cbegli buozi idaro fede: cazzo, cbe apps uto, nos lo faze0 percbeloro piace il nero? Ar.. As. Paepiuere già saco: 507 co:cf-:: ta? Forzz aidake,che il sero lis és glicucuitico? Ax Pacte danese giàceil serezos bruszni P -T271? AR Perikliois tragises filer cxz. AX. Aja -- 22:04 ks:0 600leri: del bero. Às. SostraTrao Adira.secte lazaratsie sesi tid: acts indiscrezi!4.cezecklacteaefepie 8222475l4regiaze, o lomatto; c (72.0: 1, o Resmitironine.cedriersdieedia 2.3 " To RossiradizioroBoricitis 32 2 ciasto nigirisececeáciless Aires22:22: carte.ro 2:46, 13:3050: 22: 15: 4:15,cheſe la opinione con la ragioneſarà legata, per modo niuno potrà fuggire,anzifuori dell’eſſerſuo leggiadramente uſcita nõ più opinio ne,maſcienza ſi potrà nominare. A N. Dimmi, ſe'l uerifimile e tale ad ogn'unoegualmente. AR. Nó. An. Che differenza ci fai tu? A R. Grande. Ben'è uero,che quando io dico ueriſimile, io intendo ciò che pare alla più parte. Ma diſtinguendo dico, la più parte però effere ode gli huomini ſenza dottrina,o degli huomini letterati. Et altro ſarà il ueriſimile,che parerà à gli Idioti, altro à iperiti. A M. Inſegnami à conoſcere queſto uerifimile. AR. Il ſegno della ſimia glianza alcuna fiata ſi ritruoua in eſſaſuperficie delle coſe, cheſenza diſcorſo di ragione ſono riceuute,o appreſe daiſenſi umani; da ciò naſce il veriſimile, che pare egualmente a tutti, come auienedimolte miſture, che's'aſſomigliano à l'oro, cheſe il giudicio filaſciaſſe al ſenſo ſolo,per oro da ogn’uno ſarebbono hauute. Alcune uolte il detto fe gno emeſcolato con alcuna ragione,accompagnata col ſenſo, oque sto é quello, che pare àmo!ti. Speſſo più di ragione, che di ſenſo ſi mette, e ciò è quello,che pare à i piùſaggi; o quarto più dalſenſo s'allontana,o s'accoſta la ragione all'intelletto, tanto de' più saggi, edi pochi ſarà l'apparenza del uero. Ma laſciando coteſte più ina terneſomiglianzedel uero, bauendo tu àfare. con la moltitudine, quelle attendi,che a tutti,ò alla partemaggiore appariranno; &co: si ogniforza di proponimento nelle altrui menti rompendo, farai la uoglia tud. AN. Queſtomipiace. Ma uorrei, che tu m'inſegnaſi à congetturar quello chepuò eſſere. Dimmi, ſe n'hai ammaeſtramen to alcuno. A R. Dimandane pur la Natura. AN. Non n'hai tu ancora poter’alcuno? A r. sibene; ma la Natura operando, Sa meglio dime,quello che èpoßibile. An. Dimmi tu dunqueò Naz tura,quai coſeeſſer poſſono? NAT. Tutte quelle il principio delle quali ſi ritruoua. An. Adunque ui ſarà l'arte deldire, poi che'l prin cipio di lei ſi truoua? ilquale nõ é altro, che l'ojferuatione,che fu l'Ar te di te ó Nitura. Ar. Che uai tu mettendo in dubbio quello che fie qui habbiamo fermato? ſegui. NAT. Se quello chepiù importa, ò che piie uale, ò che ha più difficultà, fiuede, ſenza dubbio il meno importante, il più debile, il più facile ejer potri. A n. Adunque ſe l'arte puòridurre gli huomini rozialla uita ciuile, meglio potrà gli ammaeſtrati inalzare algouerno della Città? A R. T4 pur uti argomentando. AN. Mercé tua, che giàmiſei fatta familiare. A R. Queſto ſo io, che poſſeduta che io ſono dalle anime,dimoſtro il. D ualore, 26, D Ε ιι. Α ualore, il piacere, o la facilità dell'operare. NAT. se può eſſer la cagione, chivieta che lo effetto non posſa eſſere? et ſe queſtoé, quel la di neceßità ſi haue. Quello che ſegue dimoſtra,che può eſſere quel lo che antecede. In ſomma ogni coſa può offere, di cui naturale appeti toſi uegga, o dalla poſibilità delle parti naſce quella del tutto. Dals l’uniuerſale il particolare, o dal meno quello che più comprendeſi congettura. Vna metà, il ſimile, il pare ricerca l'altra metà, l'altro Simile, o l'altro pare. Etſeſenza arteſi puòfar’una coſa molto me glio ſi farà con artificio, ſe chi meno può opra, chi più può non opes rera egli ancora? Chene attendi più,ſe queſto ti può eſſere à baſtan za à farti aprire gli occhi è ritrouare il fonte della eloquenza? AR. Et io già mitruouoſatisfatta in queſta parte,che alle coſe appar tenenti all'intelletto ſi conuiene; però aquelle io uorrei,che paſſaßi, lequaliſono da eſſere ne gli appetiti collocate.Et attendo,che tu quel le brieuemente mi dimoſtri,etdiffiniſca, acciò che l'anima oggimaicõ. tenta dellaſeconda promeſſa,alla terza,et ultima ſi riuolga. A N. Per qual cagione, ò Arte,dimanditu le diffinitioni della Natura? ejendo ſuo carico il diffinire. A R. Perche ora io non attendo le eſquiſite, Oregolate diffinitioni,maquelle che dalla più parte delle gentiſono ammeſſe, delle quaiquaſiſenz'artificio ſe ne può formare un numero infinito. An. Tu ſei molto circoſpetta. AR. Seguiò Natura, féle coſe àgli umaniappetitidi lor natura piacere, o dispiacere posſo no apportare,òpur l'Anima ne li fa tali. NAT. Senza dubbio non folo elaAnimaha uirtidi apprendere, ofuggire le coſe, ma in effe ancora e nonſo cheda eſſer fuggito,ouero abbracciato. Quädo adun que tra la coſa, o l'animaſi truouaalcuna conformità, allora lo appe tito ſi muoue ad abbracciarla, o queſto mouimento,ſi può dire, no minar defiderio,ilquale è appetito di coſa che nõ ſi poßiede,cõforme però à quella uirtù ò parte dell'anima,che l'appetiſce; ma quando no ui é queſta conformità,tra gli oggetti, o l'anima,ella gli aborre, o fugge, né ſolamente oue o anima,oſentimento ſi truoua cotefti ab bracciamenti,e fugheſiueggono,ma doue occultamente io ſonoſoli ta di operare, doue non éſenſo, ociò faccio con un ſemplice inſtinto, ilquale al mio poteree tale, quale al tuo é la conoſcenza. Coteſto in ſtinto ogni coſa conduce alla conſeruatione, o albene; & dalmale & dalla morte il tutto ritragge quanto può. Maper dirti de gli huo mini, ſappi, che eſſendo tra le coſe oppoſte, ole parti de gli animi lo ro,conuenienza,quando auiene,che quelli ſíenopreſenti,oche laſcia no impreſſa la loro qualità,in quellapartechegli appetiſie, allora ſi genera ildiletto, e l'allegrezzanata dalla morte delprimo deſides rio, perche poſſedendo la coſa deſiderata, il diſio è già conuertito in piacere. Ilqualpiacere altro non é,cheadempimento di uoglie. Tu conoſcerai, cheil guſto tuo bauerà conformità con le coſe dolci; da queſta nenafcerà l'appetito,auenendo poi,chele coſe dolci uicine fica no à quella parte,doue il detto ſenſo dimora, eche in eſſa laſcino la lor qualitàimpreſſa,che é la dolcezza,nonha dubbio,che quella par te nonſia per bauer diletto, egiocondità. Il ſimigliante uedrai in ogni tua parte, Et per lo contrario ſi ſente noia, e diſpiacereo nella priuatione delle coſe deſiderate, o nell'hauere le difformi, oaborrite, ecome il principio di ottenere il bene era il deſiderio dalla ſperanza accompagnato,cosi il principio di hauere la noia, era la fuga dal timore commoffa. Etcome nella prima impreſione la ſperanza in gio is fi conuertiua, cosi nella ſeconda la paura ſi tramutaua in dolore. Eccoti adunque i quattro principali affetti diuoianime. AN. Vor reiſaperè,o Natura, in cheſia poſta la conueneuolezza, che é trale coſe, ole parti mie. NAT. Percheioſono tale in ciaſcuna coſa, quale io mi truouo, però nelle coſe eſaéripoſta per me; maperche poi auenga,che io tale mi truoui in ciaſcuna coſa,dimandane chi cos si ab eterno prouid. AR. Or l'anima tiparetroppo curioſa? ma dimmi quai coſe,à qual parte dell'anima ſono conformi. NÁT. In fomma il uero é il bene, &per tal cagione, quello che è uero,uien giu dicato bene. Ar. Che intendi tù bene? NAT. Ciò che daogn'u no,e da ogni coſa uien deſiderato, &uoluto. A R. Qual bene Ć cercato daữ’intelletto? NA T. Dimandane coſtei  AN. il ſapee re, la dritta opinione. NAT. Dalla uolontà? AR. Ogniabis to di uirti. NAT. Da gli appetiti. AR. Ogniutilità ® dilets to AR. Che naſcerà poi, ò Natura, dal deſiderio ditai coſe? NAT. Lo sforzo, o lo ſtudio de'mortali per conſeguirle. An. Buui alcuno inganno de gli appetiti intorno al bene, come ui é l'ingan no dell'intelletto intorno al uero? NAT. Grandissimo. AN. Et come ſe il bene e cosi conforme all'anima? NAT. Non hai tu udito poco di ſopra, come l'anima era d'intorno al uero, opure anco il ue to le era molto conueneuole, et proportionato? AN. Ben'inteſi, che la cognitione del uero era molto confuſa, riſpetto alla fantaſia. A'R. Cosi é. Et di nuouo ti dico, afferino,che ogn'uno confufae mente apprende un bene,nelquale par che l'animo s’acqueti,et quels D 2 lo 28  lo deſideri,mapoi da gli appetiti traportato (come prima era l'intele letto dalla fantaſia ) e aquegli rivolto ſmarriſce la uera strada di quel bene, al quale ciaſcuno digiugner contende, moſſo dalla interna forza della Natura. Et in quella ſtrada,orapiù lentamente, ora più. velocemente camina, troppo è meno amando, et deſiderando quello, che con miſura dourebbe amare,ò defiderare. Indië nata la ingorda uoglia delle ricchezze, lo sfrenato appetito dei piaceri, vtalbora la pigritia, om negligenza dell'ocio; &deſiderando altrilapropria con ſeruatione, s'inganna, credendo,che il bene altrui,ſia la ruina ſua,oue ro temendo di perder’i ſuoibeni, fauori,gratie,amiſtà,onori,o lodi, ſi muoue alla ingiuria,alla inuidis,alla uendetta. Et di qui naſce quello di che tutto di ſi contende fra' mortali, il giuſto, lo ingiufto,ildouere, l'equità, l'utile, oaltre coſe, che ſono cagioni di liti, o di conteſe Per il diletto adunque, & per il comodo, ciaſcuno ſi muoue à fare. Et benefarà quello, alquale ogni coſaſi riferiſce, ouero ſiriferirebbe, • perragione, o per appetito, o per natura.Et ciò cheopera, difende, conſerua,accreſce,accompagna, ſegue,ordina,et ſignifica il bene,bene ſi chiama, operò la felicità, o tutte le parti ſueſarannobuone, a le uirtie ſopra tutto ſono benidiſua natura degni,bencheàmoltinon ſono cosi apparenti. Ilpró,l’utile, il piacere ebene, perche l'utile ė mezo di conſeguire il deſiderio, oil piacereè moltoalla natura cona forme. A N. Fermati un poco, & dimmi,come non eſſendo beni cosi apparenti le uirtù de coſtumi,gli huominiſieno uenuti in cognis tione di quelle: AR. Credi, ó Anima,che ogni maniera di bene, che appare à gli huomini, éſimiglianza di quel bene, che non appare,e chi uuole drittamente giudicare da coteſti apparenti beni, potrà ris trouare la uia di peruenire alla cognitione di quegli, cheſono in ſebe ni, o che fanno la uera, es ſola felicità,più deſiderata,che conoſciu taima non ſta bene ora difiloſofare intorno a tal coſa. Baſtiti, ch'io ti ritruoui la uia, per la quale gli huomini ſono andati a ritrovare i beni dell'animo, o le uirti interiori. Dicoti adunque, che uedendo i mortali nel corpo umano molte buone conditioni, hanno congetturas to, ancora nell'animo ritrouarſi alcune ottime qualità, à quelle del cor po in qualche parte conuenienti. Dimandane la Natura, quali ſieno le doti del corpo,che tu ſaprai da me poſcia quali ſienogli ornamenti tuoi. AN. Dimmi ò Natura, fe egli ti piace, diche beni adorni tu i corpi umani? NAT. Prima diſanità, o di forza,poidi bellezza, O d'integrità diſenſi. An. In checonſiſte la ſanità? Nat. Nels la. la proportionata meſcolanza degliumori principali, enell'uſo di ej 14,6 queſta proportionata meſcolanza, ueramente ſipuò chiamare una egualità ragioneuole. ART. Credi tu, o Anima,di eſſer’al corpo inferiore? AN. Non già. ART. Credi adunque, che in te eſſer deue una certa egualità. Il cui ualore conſiſte nell'uſo. A N. Quale uuoi tu che ella ſia? AR. Quella che Giuſtitia ſi chiamna,fers ma, o coſtante volontà di render a ciaſcuno ilſuo. Ma che dici tu delle forze? NÅT. Dico, la gagliardezzaeſſer’una uirtù del cor po,poſta nel potere à ſua uoglia abbattere,atterrare,et uolgere ogni alieno impeto con leggiadria. AR. Bella, aneceſſaris uirtù neli aa nimo. Perqueſto giudicarono ifaggi,eſſer la fortezza, laquale reſis ſtendo à gli impetidella fortuna,ſola nė"ſuperbanel bene,ne uile nelle auuerſità ſi dimoſtra, &fola guida nella militia della uita mortale uin cendo,glorioſamente trionfa. NAT. Che dirai tu della bellezza del corpo, laquale è una proportione di membra, o di parti tra ſe ſteſ fe, o col tutto conuenienti dauiuacità di colori, et gentil gratia acs compagnata? AR. Tumi dipingila temperanza dell'animo,laqua le in ſe ſteſſa raccolta, ecompoſta,inuera, o proportionata miſura conſiſte, tanto può di dentro,che di fuorinel corpo il ripoſato, o quieto penſiero uedi, dolce, ogratioſa maniera ſi conoſce, & quafie una conſonanza di tutte le conſonanze. NAT. Che coſa trouerai tu nell'anima,conformealla integrità dei ſenſi, come alla bontà della uiſta, alla perfettione dell'udito, « al uigored'ogni ſentimento? ART. La prudenza, la quale consiste in saldo, o sincero conoſcia mento delle attioni umane: A N. Egli mi pare, che io ſia da Dio creata à fine, che le coſe mie fieno ſcala all'altezza di quello. AR. Che penſitu altro, ò Natura? NAT. Nulla, ſenon che conchiudo frame, che gli huominiſi ſieno aueduti delle uirtú interiori per le qua lità eſteriori. AR. Senza dubbio, a molti anche ſi ſono ingannas ti, oper una ſimiglianza, che hanno le uirtù con alcuni uitij, se lo Cangiando il nome hanno detto chela tardezza ſia moderata pruten za,la liberalità ſia la larghezzaſenzamiſura; e cosi all'incontro il prodigo ſia liberale. Et non hanno conſiderato, eſſergran differenza tra il ſaper dare, er il non ſaper conſeruare.Et queſto è quel ueriſimi le nei beni, che muoue ſpeſſo lementi, ogli appetiti umani. Orain brieue l'ordine,l'ornamento,e la coſtanza delle coſe handimoſtra to le uirtù, ou appreſſo la concordanza di tutte le operationi, o la grandezza, che le ſopra feſteſſa inalzają si come in ogni arte, com in ogni 30 DELLA ogni ſcienza biſogna hauer’alcuna coſa manifesta, e chiara, dalla quale da prima ella naſca, o s'augumenti,cosinella felicità, bed ta uitaſi richiede, euidentefondamento,preſo dui benimanifeſti à i ſen ſi umani,dalquale s'argomenti il uero, ottimo fine, operò dalle predette coſe ſiſtima,quella eſſer felicità, che con proſpero corſo tracorre,tutta diſeſteſsa, tutta di ſua uoglia, tutta piena,tutta d'ogni parte abondeuole, ocopioſa, eyd'intorno à tai coſe ricordati ſeme pre della diffinitione, da unaparte conſiderando, che coſa é bene,di! l'altra diſtinguendo quello che é del corpo, da quello, che é del’ani mo, e come ciaſcuno in molte parti ſi diuide.perciò che cosi ne trar: rai quella abondanza di coſe che tuuorrai,doue meritamente la pres detta parteſi può dar tutta alla inuentione, laquale e il fondamento della noſtra fábrica. Partidoadunque tutto quello cheſotto il nome di bene, ò uero, ò apparente ſi conciene, trouerai la felicità con tutte le ſue parti,o trouerai, che'l fuggire dal maggior male,ſia bene, et l'acquiſto delmaggior bene, « il contrario delmale; & queſto, pera che molti s'affaticano, e che i nimici lodano alcuna fiata.Et che ſifa ſenza incomodo, feſa, fatica, ò tempo, ſe é diſiderato; ofinalmente tutto è bene,uero, apparente, v dubbio, quello che uiene deſiderato. A N. Che dirai tu del piacere? AR. Grande ueramente è la fore za del piacere, & del dipiacere, percheſin da fanciulli ſi uede, che il tuttoſi fa per tai contrarietà. Et s'io uoleßi pienamente ragionarti, io non finirei cosi toſto, però di eſſo alcune brieui ſentenze io ti pros pongo,dalle quaiſe ne ritrarrà quella ſimigliäza di uero, che in tai be niſi può trarre. Dicotiadunque,che quelle coſe grate ſono, dipid= cere,che ſono alla natura conformi,come hai diſopra ſentito; pero à ciaſcheduno grato ſarà quello,à che eglidi natura ſua ſaràinchinas toje per la medeſima ragione,foaue,et gioconda coſa é la conſuetudi ne, come quella chemolto alla natura ſi confaccia. Perche quello, che speſſo,et per lo più ſifa, è molto uicino a quello che ſempre ſi ſuolfa re. Caro e quello,che non ſi trde per forza,perche la forza é contra natura, onde i trauagli,lecure, e ogni maniera diſtudio, odi pens ſiero,che turbi la quiete dell'animo, perche é uiolēto,arrecca moleſtia o diſpiacere. Seforſe la conſuetudine non l'ammolliſce. Cosi per con trario il diletto, il giuoco, il ripoſo,la ſicurezza ilſuono, et la rimeßio ne, come coſe di ogni neceßitá lotane. Néſolo col ſenſo uicino ſiprende piacere delle coſepreſenti, ma con la memoria,con la ſperanza,del lequali una riguarda le paſſate, l'altra le future.Lepaſſate apportano nella ricordatione aſſai diletto,perche la imaginatione le fa quaſi pres ſeriti, e ſe erano graui, o noioſe, con lieto, o piaceuol fine fatte ſos no dolci, eſoauile coſe buoneche hanno à uenire nello ſferare con fortano, comele preſenti nel goderle,ouero nel imaginarle, ilche ſuos le à gliamantiuenire, iquali non hanno ripoſo ſenon quanto penſano alle coſe diſiderate. Lauittoria ė foauißima coſa, ó lo auanzare il compagno, or però ogni maniera digiuoco ſuol dilettare la caccia, l'uccelare, la peſcagione, et appreſſo l'onore,ogni gratitudine, ogniri uerenza,inſin l'adulatione piace infinitamente. Lo imparare ancora é coſa piaceuole, onde la imitatione delle coſe è giocondiſſima, tutto che le coſe imitate non dilettino, perche nõ la coſa eſpreſſa,malo sfor zo, e il contraſto dell'arte ſuol dilettare. Indi è nato, che la pittura, le statue,o l'opre finte aggradano chi li mira. Ne più ti uoglio af faticare,o Anima,in dimoſtrarti,quello cheda te, et in te prouerai ef ſendo con eſſo il corpo.o quanto ti fia dipiacere il dominar’ultrui il comandare il ridurre à compimento le coſe incominciate, il veder riu ſcire ogni tua deliberatione, e finalmente tutto quello, che al bene t’indrizzerà,ò dal male ti ritrarrà. AN. Se queste coſe ſono buo ne, come tu di, per qual cagione ſipuò errare nel deſiderarle, nel cercarle? A R. Due mouimenti,ò Anima in te conoſcerai, l'uno de' quali da eſſa Natura riceuerai, e l'altro riporterai teco. Nel primo niuno errore puoi commettere,perche non è colpa tua, che alcuna co ſa ſi truoui,che ti diletti; ma nelſecondo ageuolmente puoi cadere, eſſendo in tua mano il freno di non conſentire cosi à pieno à quella prima voglia&, non riguardare alla ragione, che con certo conſiglio al gouerno de'primi appetiti guidar tidee. Maperche per lo primo, O naturalemouimento gli huominifanno il più delle loro operatio ni però debbonoeſſer ueriſimilmente guidati,o é creduto per lo più, che ciaſcuno faccia con deliberatione quello cheegli fa, ſeguendo il primo inſtinto; néſi conſidera che in teſi truoua uirtá libera, o po tente,dalla quale ognilode, o ogni biaſimo procede. Etacciò che el la ſiapiù drittamentegouernata, eccoti l'autorità delle ſacre leggi, nella quale è poſta la ſalute, e la correttione d'ogniumano errore. Contra le quaichiunquepreſume di opporſi, dal proprio conſiglio abandonato, è dato in preda alle ſue proprie uoglie,e ſottoposto ale la pend, come quello cheiniquo, o ingiuſto ſia. Ora in brieue ti dico, che eſſendo eſſe leggi nelle rep. àgli animi quaſi medicine delle loro infirmità, o rimedijà i loro errori, biſogna ſapere ogni maniera di gouerno,  gouerno, in che eglipiù fermo fia,da che uegna il cadimento di quels lo, et quanti ſienoi contrarij ſuoi,per poteralla cõmune utilità con le Sante inſtitutioniliberamente prouedere. NAT. Matu non dimo ſtri, ò Arte, che alcune leggi ſono eterne, er immutabili, non da gli huomini ſecondo gli ſtati loro ordinate, ma dallo editto diuino, o da me inuiolabili ſtatuite, communi,& uniuerſali à tutte le genti, lequai non più allo Indiano,cheallo Ethiope,eguali, in ogniſecolo, in ogni luogo ſi Sogliono ritrouare, non ne igrandiuolumiſpiunati da' morta li,manel libro della eternità impreſſe,et ſigillate in ciaſcuno che ci na ſce. AR. Coteſte leggi,ó Natura,non ſono ritrouamenti umani, né ſecondo le occaſioniformate, ma eterne, econtinuate ad un modo in permutabile, del quale non tocca à me il ragionare, «pint é quella ch'io non dico di eſſe, o forſe quella equità,dichefpeſoſi ragiona, al tro nonė, che la leggeſcritta nel cuore d'ogn'uno per correttione di quella cheè poſta per commune uolere di ciaſcun popolo. An. Dun que nelle umane leggiſi truoua errore? AR. Nongià, ma ben può eſſereche ilfondatoredi eſſe al tutto non proueda,et chenon conſide ri molte coſe,lequaiperalcuno accidente, come, che molti ne ſieno fanno uariare i giudicij, e in queſto caſo la equità, & l'oneſtà può aſſai, operò molto prudente, oqueduto biſogna cheſia, chiunque forma le fante leggi, « che il più che può tolga il potere à gli huos mini di giudicare da ſe ſteßi. Però cheben ſai, quantopericoloſopra ſtà nel giudicio, riſpetto allo amore, all'odio, e ognialtra perturbae tione umana. Matempo è, cheſi dia fine à queſta parte, perche aſſai sé detto d'intorno alle uirtù dell'anima,e d'intorno alle coſe appars tenenti ad eſſa, si di quelle che allo intelletto, come di quelle, che ape partengono allo appetito. In quanto che elle hanno ſimiglianza del uero, delbene, dj appartengono alla inuentione. A N. Tutto che ó Arte, inanzi à gli occhimiſieno le coſe, che tu m'hai dimoſtras te, hauendole tu ſopra la Natura delle coſe ſtabilite,pur uorrei ſapes re alcunſecreto, come diſopra molti me n'hai ſcoperti, quando tra noi ſi ragionaua delle parti mie. AR. Io non per naſconderti alcu na coſa miſon taciuta, maperche eglimipare, cheda te ſteſſa potrai ogni ripoſte bellezza conſiderare, uedere, che da que' beni che di ſopra habbiamo diſtinti,naſcono treparti principali dello artificio no ſtro. Però che ſe il bene é utile,nenaſce quella parte, che é posta nel conſigliare, laquale ſi uſa neiſenati. Se'l fine è giuſto, quell'altrapare te, che delle ingiurie ciuili,ò criminalitra i popoli fa mentione, felfie ne 1 1 ne é honeſto, allora ampia, o magnifica materia ſipreſta di lodare nelle pompe, et ne i trionfi le opere glorioſe, ma il ualore delgraue, o riputato Cittadino,primanel ben fare,poi nel ben conſigliareſi di moſtra. AN. Diche coſa più ſi conſiglia? AR. Di quello, che: più abbraccia l'utile uniuerſale. Etprima d'intorno al corpo delle uettouaglie, odel uiuere per ſoſtenimento di ogn'uno, odella difen fione per ſicurtà de i popoli, delle ricchezze perſoſtenere la difes Ja. Dapoi delle ſacre leggi, e della religione per ottenere l'ultis mo, o deſiderato fine. ANI. Che ſi ricerca nel conſigliare? ART. Prudenza, beneuolenza, animo, ſecretezza, e celeris, tà nello eſſequire. A N. Gli ineſperti adunque,imaligni, i timis di, i uani, i pigri huomini, non ſono atti al conſigliare: ART. Non già. Necoloro, che non ſanno conſigliare ſe ſteßi. Ma odi: alcuni ſecretidi queſta parte, forſe non uditi fin'ora. Vuoi tu ſapere un modo mirabile di conoſcere glianimi de' mortali? AN. Queſto eil tutto. A R. Sappi,checiò, che ſecreto nell’hkomo ſi truoua, forza cheſia in alcun ſentimento di eſſo,ò di dentro, o difuori.Sentis, mento chiamo ora ogniparte di te ó Anima. Et però uolendo tu ri trouar coteſto ſecreto, tenterai ogni ſentimento, perche quando es toccherai quella parte,nella qualee ripoſto il ſecreto di alcuno, o pia ceuole, ò noioſo,che egli fi fia,ſenza dubbiomanderà fuorialcuniſea gni,comemeſſaggieridelle uoglie ſue,ocon alcuneſimiglianze dimo ſtrerà quello,che egli ſipenſa di haueredétro diſe naſcoſo; aguiſa di una corda chealſegno tirata di un'altra; quandoritruoua la conſon: nanza,ſimuque, a ſuona di pari armoniacon quella.Da queſta reues, latione dipende la uittoria, eu l'onore di chi parla nel coſpetto degli huomini.Etqueſto è un ſecreto ripoſto aſſai, wodegno di penſamento.. L'altro è, che a conoſcereil giuſto, e lo ingiuſto,biſogna riguardas re al fire,alquale ciaſcuna coſa deueeſſer meritamente riferita, pera, che quando ſia, che dal debito fine alcuna coſa ſi rimuoua, allora ne ng ſce la ingiuria,la quale éuna eſpreſſa maniera di ingiuſtitia. Aqueſta ingiuria altri ſono più diſpoſti a farla, che à patirla,altri per lo cons, trario. Et questo biſogna conſiderare per potere in quella parte uas lere, ii cuifinalgiudicio rizuarda il giuſto, o l'ingiuſto. Altri ſes creti ui ſono, ma io mi riſeruo là doue della applicatione ragiones remo, cioè quandoſi dirà il mododi porre le coſe nell'anima. Ma che marauiglia è queſta? doue é gita l'Anima, ò Natura? Perche te ne ridi tu? come ſono ingannata? come tolto mi viene il poter ſeguire E l'incominciato ragionamento? NAT. Aſpetta ó Arte,non titurs bare, toſto merrà, con chi tu habbi à ragionare. Ora uoglio che noi ci tramutiamo, o che cifacciamopalpabili, o viſibili. AR. Che mutationimiusi predicando? NAT. Taci, attendi. Eccomi qui di corpo,e di formaumana. AR, Guardami ancora tu, ch'io ſo no trafigurata,à chimiſomigli tu o Natura? NAT. Io non ſaprei à coſa alcuna ſimigliartijmubene io uedo, che tu hai molto del graue nell'aſpetto, e nello andare, onel uestire,et à pena io ardiſcofiſarti. gliocchi à doſſo. Et mi viene una certa tenerezza di lagrimare. A R. Coteſto é ſegno,che tu mi ami et riueriſci;et tanto più ch'io ti ſcorgo un certo roſſore nel uolto, e ti odo ſopirare. Ma che ti pare de gli occhi miei? NAT. Tu haideldiuinoin eßi,come cheſieno di coloa re celeſte, o di luce penetrante. A R. Et de capelli,chedi tu? delle ciglia? NAT. Quelli ſono neri, a queſte rare, e di oneſta grandezza. ART. Saitu di cheſieno ſegni le predette coſe? NAT. Non già,ma bene ſtimo, che tu t'habbifigurata in quel mo do difuori,che tuſei di dentro, cioè piena d'intelletto, edi capacità ftudiofa delbene,folerte,er ſuegliata comeſei. A R. Tudi il ues ro, e dipiù il naſo aquilino, le orecchie egualiil collo brieue, il pete tolargo, le ſpalle große, le braccia, le palme, ø i diti lunghi, tuttiſou no ſogni euidenti dello eſſer mio. NAT. Ma tunonſei peròtroppo grande,bencheiltuo mouimento ſia tardo, elo ſtarediritto, chedie moſtrino te manſueta, umana, a piaceuole. Ar. Se non fuſſe il mio continuo penſamento, mi uedreſti ancora più allegra. Ma guarda quantiſtrumentiadoperar mi conuiene perporre in opra quello che io nella mente diſegno. NAT. 10 ſono dite più ſemplice, o piis ſchietta comeuedi. AR. Tu mifai ridere con tante mammelle. NAT. A punto io fo ridere ogni coſa per tante mie mammelle, pero che credi tu, chelefemine, noni maſchi habbiano tai parti? AR: Perche le femine ſono quelle chepartoriſcono, però biſo gna, che come eſſe danno la uita, cosi diano il notrimento,etperò han no le dette parti come iſtrumenti della nodritione. NAT. Quans te adunque nedebbo hauer’io, eſſendo madre dituttele coſe? AR. Tu hairagione,ma chi é quel giouane cosi bello, che incontro ne uie ne? NAT. L'anima,che poco dianzi era ſola,ora è accompagnata col corpo. AR. Chemiracoli fai tu ò Natura? NAT. Credi tu Arte ſapere ogni coſa? AR. 10 fo bene quello, che credo, ſo che le genti non crederanno queſte mutationi, che tu o io facciamo. NAT. E LO QVENZA. NAT. Pochi ſono i ueri Sauij., però non diamo orecchie al uolgo. Eccoti il deſiderato aſpetto, conſidera o miſura le parti fue, che ria trouerai bella,o proportionata compoſitione. Ar. Che carne gen tile, odelicata, non però troppo molle, guarda chedignità,che maa niera chefronte allegra, « ſignorile,chipotrà dire che egli nonhab bia ad eſſere pieno di coſtumi, o d'ingegno? NAT. Ben ſai,che io gli ho la promeſſa ſeruata in tutto. ART. Rallegromi ueramen. te, o mi pare, che tu ſeimolto miglior maeſtra di me, ma che nome gli daremo?.NAT. Quello che conuengaà chi lo fece. ART. Io ne ho poco che fare. NAT. Anzi tugli hai dato, & darai il miglior'eſſere;ben’è uero,ch'io ne ho la parte mia, o il mie fattore la ſua. ART. Chiamiamolo dunque DINARDO. NAT. Perche? AR. Perche Dio, Natura, & Arte il donarono. NAT. Tu mi allegri con tal fabrica di nomi. A R. In molte lingue io ho queſto potere, il quale e poco da gli huomini conoſciuto. NAT. Mipiace, ma perche non l'hai tu dacapo a piedi minutamente miſurato? AR. Micuſui lo hauerglidimoſtrato, che la oratione eſſer dee.comeil corpo umano, o hauere principio,mezo, & fine.Etche le partiſue deono corriſpondere à ſejteſe, al tutto con dignità,e decoro? Et si comenel capo ſono tutti i ſentimenti del corpo, cosi nel principio eller deono ripoſti i ſentimentidella oratione. A lui pofciaſtarà di ore dinar la predetta materiafecondo il biſogno,facédolo auuertito, che i teftimonij delle opere de’ mortaliſono le coſe che ſtanno d'intorno à quelli. Et però mi gioua di nominarle circostanze, percioche fa cendo,o operando l'huomo alcuna coſa, ha ſempre inanzi,ò apprefe ſo il tempo,il luogo,le perſone, il modo, ilfine, le quaicoſe fanno fede ſe l'operaſua è buona, orea. Da coteſta conſideratione, ſi ſtima chi ragiond, e con chi,ſe è la occaſione di dire ſe in questo, o in quel luo, goſtarà bene di parlareſe ilfine è buono,et altre coſe,alle opere ap pertenēti. Ma tu gratioſißimo Giouane, che con tăto fauore delcielo ſeinato,ti ricorderai tu quelle coſe che dette habbiamo fin'ora? Non titurbure,cheio ſono l'Arte, e queſta è la Natura,con la quale tu, eſſendo Anima ragionaſti. Din. In che maniera ſono le coſe ſchiette, oignude, oin che forma ſono le compoſte,che cosi uiſiete mutate, piacemi di hauerui riconoſciute, o cosi uiaffermo di ricordarmi di quanto s'è detto. ART. 1o non mipoſſo ſatiare di guardarti. NAT. Che giouanezze ſono queſte? ART. Non ti dolere, o Natura, che la bellezza delle opere tue ſia da me riguardata con E 2 marauiglia. NAT. Poi che io à tale fon uenuta, che pienas mente ho ſatisfatto al deſiderio tuo, e chef Anima pronta s'è die moſtrata, comincia tu ancora ò Arte ad inſegnarci ilmodo, col quale applichiamo le coſe all'Anima. Et perché non più aſtratte ſiamo,ma compoſte,però voglio,che con le eſperienze degli ingegni altrui, eo con glieſempi,cheſono oſtaggi della verità, e con l'uſo quotidiano, tu ti rivolga à darci ad intendere la forza dell'eloquenza umana. AR. Cosifarò.Ma tu ò Dinardo, preſteraimi udienza, enon las ſciare à dietro coſa, ch'io ti dica. Marauiglioſae ueramente la förs za ola uirti della fauella umana. Perciò cheoltre alla intentione de i concetti e delle uoglie di uoi mortali, che per eſſa ſi fuole con bes neficio univerſale, &euidente diletto appaleſare, non é in uoi ſentis mento alcuno,l'appettito del quale non ſia da quellafieramente eccia tato, e commoſſo; a chi uoleſſe di ciò prender debito argomento. ogn'hora,che ueniſſe bene, riguardando à i modi,cheſiuſano tra uoi, ritrouerebbe le coſe à i ſenſi ſottopoſte alcuna uolta effere di minor uirtù in muovere ciaſcuna il ſenſoſuo,che il parlare, qualhora egli fia con bello,efficace, es maeſtreuole modoformato, ofabricato, o appreſo doppo alcuna più profonda cõſideratione, conoſcerebbeese fere quaſi infinito il valore di eſſo parlare,come che ſolo allo intellets to dimoſtri la ſoſtanza, ela ragione delle coſe, it che à niuno altro. ſentimento, quantunque la Naturaſempre atutti liberaliſima ſtata fia,né é,në fu,nefarà conceſſo già mai. Quante cofe del cielo, quante delle intelligenze, quante di Dio per mezo della lingua, ſenza l'aiuto de gliocchiò d'altro ſentimento ſi fanno? Il parlare èſolo dimoſtras tore della ſoſtanza, ilparlare e ſolo per uniuerfale miniſtro dell'aniæ ma, ilparlare é ſolo ſtrumento della ragione, ma onde é o Dinardo, che ne gliquenimenti,et ne gli atti degli huomini tanta forza diſcens da nelle parole? DIN. Credo ueramente, cheeſſendocidato da eſſa Natura ilparlare (come tu dici )affine,che le noſtre biſogne, ino. ftri penſieri altrui manifestiamo, granpotere in quella fauella debe ba eſſere,la quale da uero, &ſaldo intendimento, e da sforzes uole diſiderio procedendo,tale difuori apparirà, quale di dentro nele l'animo dimorando ſtaraſi. AR T. Ben di. Eſſendo adunque le pas role come oſtaggi delle uoglie, o de concetti, bifogna, come tra ' sis gnori auiene,dare gli oſtaggi alle perſone conuenienti, e però prens dendo noi dintorno al parlare quelmiglior partito, che ſi conviene, soglio,che picde inanzipie mettendo or, gentilmente più oltre pafé fando ritrouiamo le maniere, egli aſpetti della oratione, oconfia deriamo quale parlamento à qual coſa,età qualperſonaficonuenga. DIN. Di, ch'io t'aſcolto. A R. Non è dubbio, che riportando il parlare per gli orrecchi alle anime de gli aſcoltanti, la forza dello intendere, o del uolere, biſogna in queſto viaggio dar mouimento,et modo ad eſſo parlare. Perciòche lo intendimento ó la uoglia nell'anis ma ſi ripoſano, o iui come nel ſuo caro nido dimorano, ne ſi potreba bono da quello ſenza ragione, et artificio, dipartire. Al che fare accõa ciamente uoglioin prima che in ciaſcuna forma, o maniera dell'orda tioneſi truoui il concettodelle coſe inteſe,ca deſiderate, ilquale par oraſia detto, ey nominato SENTENZA. Appreſſo uoglio, che ci ſia lo artificio dileuare la sentenza dalluogoſuo, & là doue farà biſoa gno, leggiadramente portarla, perche ſimigliando la ſentenza al ris poſo, e all'anima, diremo, che l'artificio sia la machina, il modo conueniente di leuare il peſo della ſentenza dalla menteumana Ma perche ſiuede, che l'anima uſa le forzeſue, oadopra il corpo come ſtrumento,peròà ciaſcunaforma dell'oratione appreſſo l'artificio, Ry la sentenza, le ſidarà parole, e uoci,per mezo delle qualipotrà l’q. nima delle fentenze la ſuauirtù, leforzeſue gentilmente adopea rare. Ma perche aſpetto alcuno non ſipotrà vedere, oueſieno le pare ti, la compoſitione di eſſe, il colore,icontorni, oifinimentideltutta, deſidero condonar alle parole iſuoi colori, il ſito, o le partiquaſi membra, o iſuoitermini, accioche altri allo aſpetto, o alla forma conoſca quali oſtaggiſienodati dall'anima dei i ſuoi ripofti, & fecreti intendimenti. Chiameremo dunque i colori figure, le parti membra, il ſito compoſitione, il finimento chiuſa o termine della oratione. Et perche uanafatica ſarebbe la noſtra, le haueßimo folamente formas to si bella creaturaaffine che ella ſifteſle, népunto ſimoueffe, pexo come uiuo s'intendequel corpo,cui mouimēto e conceſſo,cosidaremo al noſtro parlare il ſuo paſſo,ò uero ilſuo corſo, il qualeſifarà col ri pofo dialcune parti, ecol mouiméto di alcune altre,come farſi uede ne gli animali, o perche con altro mouimentoſi muoue uno adirata, con altro un manſueto, o altro é il paſſo d'huomograue, & atteme pato, altro d'un leggiero, & ancorafreſco di età,perònello ſpatio, per lo quale hauerà da correre, o caminare la oratione, uoglio che ſi conoſcaogniinterna qualità delle coſe perlo mouimento, e per lo ris poſo delle parti delfermone, ewe perchediſopra habbiamo dato à cias fcunaparte il nome che à formar una manieradiparlaméto ſi richies de däremo ancora à queſta ultima il nomeſuo,si ueramente che il ripos fo, yo il mouimento delle parti ſotto unoſteſſo uocabolo ſi rinchiuda, poi chiamato fia ó Numero, onumeroſo componimento. Din, Qual Dedato potrebbecosi belle figure,afare, adornare,comefai tu ò Arte ! Raccolgofin tanto quelloche io ho da te ſentito fin’ora,odi * co,che tu uuoi, che la oratione habbia una qualità,checonuenga alle *coſe,o alle perfoneſoggette, o queſta iſteſſa qualità, formaá maa inierazò guiſa dimandi. Ari Cosić, Din. Tuuuoi appreſſo, che ciaſcunaforma primieramente habbia la ſuaſentenza, che altro non è che il concetto della coſa,dapoi l'artificio, che é il modo di les * uarla dalluogo ſuo,ne queſto ti baſta, a però uuoi ire grandamente fi conſideri con quai parole ſi posſa pixi acconciamente ragionare, a eſprimere la occulta uirtù delle fentenze,diſponendo quelle parole,e dando loro iſuoicolori, o finalmente rinchiudendole in alcuni ter "mini acciocheſieno alla ſentenza eguali,come l'Anina à tutto il cor. Spo, oaciaſcuna parte dare il fuonumeroſo, e miſuratomouimeto, checol ripoſo, o con la uelocità del tempo preſente ſi miſuri.A RT. Cosi u'ho detto D'IN: Ognicoſamipare d'intendereragioneuol mente,ſolo che tu uoglia dichiararmi alquanto d'intorno a questo numero ſo componimento, che NvMERo hai nominato. Et io fon diſpoſta àfarlo, sueramente,ch'io uoglio prima partitamente ragionare, ego diſtinguerele maniere,e le forme predette., decioche tu fappia ilnumero diciaſcuna determinatione. Dico adunque,lapris smaguila,esla prima formadouer eſſere la chiarezza,la qualeſotto dife contiene la purità, ola eleganzadel dire, anzi più preſto da queſtemaniere ne riſultala cagione,che nel primo luogoſi riponga queſta forma perche niuna coſa più ſi ricerca, ò ſi diſideradachi jagiond, cheil laſciarſi intendere, ilche altramente non ſi può fare fenzá la purita del dire, la mondezza, la quale oggi uoglio, che ELEGANZA fi chiamidanoi.Ma percheſpeſſo auiene, chesforzans doſi alcuni di eſfer’inteſi,cadono in forma umile, ego dimeſſa molto les cuando, otogliendo della dignità, della grandezza del parlare, però appreſſo la predetta forma,fi'dirà della grandezza, o grauità della oratione, la quale damoltealtre forineprocede, che ſono ques ste, Mueftd, Comprenſione, Afprezza; Veemenzt,splendore,viuacie tài boppo la chiarezza, e la grandezza del dire a mepare che ſi conuenga conoſcer’un'altra forma; ta quate tutto il corpo della os rationecon la conuenienza delle parti,ornamento,osgratia recando, bella ELOVENZA. 39 bella, en miſurata ſimoſtra, v però mi gioua di nominarldBellezzi, alla quale un'altra formaſidarà, uolubile, preſta,perche tèggiaa dramente ſi muoua, leggiadramente dico å fine, chene troppo sciolta, né troppo legtta ſiueggia.Et ſe la chiard, a la grande, ela bella, o la ueloce forma ſono tanto richieſte, quanto previ dá te ſteſſo cona ſiderare chediremo noi di quella, nella qual ſi dimoſtrano imodi, i coſtumi delle perſone? Et diquell'altra,chefa credere ogni coſa, che fi dice esser uerißima? Certo non meno queste, che quelle eſſerticare deuriano,quando in queſte ſta ripoſta ogni riputatione di chi parla; et ogni credenza delle coſe,cosi uoglio nominar quella forma,la quae le ſecondo le nature, & gli abiti delle genti ua ragionando ſotto della quale è la ſimplicità, la giocondità, o l'acutezza; e quels l'altra ancora, che uerità ſi dimanda, ſono forme, ſenza le quali morta, e ſpenta ſarebbe la oratione. Et in queſto numero ſono chiuſe le maniere, o le guiſe, delle quali alcune haueranno le loro ſentenze, &i loro artificij, e l'altre parti diſtinte, es ſes parate dalle altre; alcune comunicando inſieme, ſi confarànno, o nelle ſentenze,ò nello artificio, ò nelle parole, ò nelle figure;o nel reſto, cos me chiaramente uedrai. Queſte uoglio, chetu da feſteſe, come ſemplici forme riguardi diſtinte l'una dall'altra. Perciò che non quel lo cheſitruoua,maquelloche può eſſere,uoglio che tra te medeſimo rivolgendo conſideri, e ciaſcuna forma, come tale, ew tale conoſchi. DIN. Io t'intendo, Tu vuoi, ch'io sappia considerare ogni guisa di oratione in se stessa, onde poi a scelta mia io possa questa con quella,et quella con altra meſcolando, di più ſempliciformarne una bella.coinin poſitione. AR. Che credi tu,che uaglia poicoteſta meſcolanza,che nella purità ritenga grandezza,a peſo, nella ſemplicità,forzkiego fplendore, et habbianella grandezza delbello, e diletteuole,mache afþramente piaceuole,e piaceuolmente aſpra ſi dimoſtri, pungendo; gungendo, comeſi dice,ad un'horafteli, &facendo, chequello,che è nelle ſentenze ampio, o ripieno,ſia nello artificio ampio, ad leggida dro? Et in tal modo accompagnando le figure d'unaforma con le pas role d'un'altra,dipiù contrarij (coſa alla natura medeſima riputatd. impoßibile)farne una amoreuolefratellanza, onde poiqueſto genes roſo accozzamento di coſe repugnanti empia ogn’unodimarauiglia. DIN: Non mi accender pir di gratia,diquello che io ſono, cos minciami oggimai à formare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno  gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua, s'inamoród’uno giovane chiamato Roberto. AR. Non lascia eſſer pura cotesta sentenza, quel trammezamento, che dice, percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,Di Aſolo,uago & piaceuole caſtello poſſe ditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione dele parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla dispoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio, colquale ella lcuar fuole ogni sentenza nella mente riposta. AR. La ceeganza e maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra intelligenza, o facilità, daqueſto nasce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Ma per trattar del ben, ch'io vi trovai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente ogni ſenienza,oraſi dirà con quai parole più acconciamente ella ragioni, oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la eleganza le medeſime parole, che la purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna durezza in eſe ſi truoui. Et perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le parole che dicono, Amen due ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra,&quelle, Non curandofar gli falſ, o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino di Tacco piglia l'Abba te di Clugni.Da quelloche ſi è detto delle parole, tu puoi uedere chedalla difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il numerononſono dalla purità lontani, DELLA lontani,anziſonole coſe steſſe. Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co fe,come brieuemente rinchiuda il ſentimento, come puramente elegga, o temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo de' Manardi,otro uerai parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime, oelegantisſa me. Ma le figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali ottiene il primo luogo la ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi dia ce,dimostra altro ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par difare,conoſciate,oper conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro piacere,con pocheparo le we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della fortunaparlando. DIN. Le quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue ma ni, oper conſeguente da lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco nel proporre di quante coſe fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una coſa,o poi un'altra.Il che inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione, lde quale Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con mola ti efſempi ſi dimostra. DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità, per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN. Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN. Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite, o si per le cofe da me molte uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben,che adkor’adhor l’anima fente? Dico che ad hord ad bora, Vostra mercede, iofento in mezo l'alma Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN. Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella, laquale dl raccontare intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio, maquello de gli huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è di for za marauiglioſanell'arte deldire,o,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella oſcurità,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione alla ſcelta,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità, da ambedue, cioè confufione, meſcolanza, naſce la oſcurità, come da quell'altre due la chiarezza del dire. Della quale pora uoglio che à baſtazaſa detto,o dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà. ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare inalza, ø follicuala oratione, è di neceßità di molte parti compoſta delle quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunandofaranno un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche appartengono à Dio, o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa, che l'huomo fa,dallo ammirabile,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore, le diaprincipio. AR.  AR. Dapoi,le coſe appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, & difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento prestarle,la citien ferma. AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle nouelle. Perció che in eßi fi contiene il fine,perlo qualeſi racconta il tutto,& percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio, come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che ciò che s'adopra de mortali, Rade gli Dij immortali diſpoſitione,& prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire lontano, perche chida ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in Angelo, d’un frate ſi narra, &doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro, che ſi conuica ne, &però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione,chedice, DIN. Si come eterna uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me, Donna, il uoi ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio: AR. Lo affetto di chi ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo deſiderio acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che gli Angeli aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza di quelle adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che questa ſi riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente ſentenza. DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e riſplende In una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il preſente poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la macià delle coſe leggendo  ne ritrarrai, come qui, DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro,e queſto è forma Che l'uniuerfo à Diofaſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore, ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI. ciaſcuno, che bene, o onestamente unol uiuere, dee in quan topuò, fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno alle ſentenze della formapredetta. Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali, peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio della maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci, figliuolfu ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come qui, DIN. Lo natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per mal'oggetto oper poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano effempi. DIN. Le coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete tamente. AR. Et qui, DIN. Chiunque fouente fa male,egli certamente non é Iddio,& chii que Iddio e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR. Laeſpreßione ha gran forza nell'artificio di quella forma com me qui. DIN. Veramente fiam noi poluere eombra, Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente fallaceè la ſperanza, AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN. Nel ciel, che più de la ſua luce prende, Fu'io, euidi coſe, che ridire Nésà, ne può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno in queſta forma le allegorie peſo, or forzagrandißima, eperò le ſacre lettere di allegorie ſono ripiene,etutto il preſente poema è quaſi una continuata allegoria,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co d'ornamento, &però la leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta l'opera gli appariſce,èuna raunanza di allegorie, degna « grande for pra modo.Conſidera come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili grandemente ſi dà alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si grandi apparire che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi nonſono.Ecco, DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo in corpo umano, Soſpira e fudaà l'opera Vulcano, Per rinfreſcar l'afpre ſaette à Gioue. AR. Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon,che nel partiredi un luogo ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura bato da uenti, « da tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de gli altri,che ſeguono per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis rabili appariſcono,à chi gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire, come qui, Fortuna, chi t'intende, non t'intende, Efa chiſei,chi non ſa chi tufa. Tale adunque é l'artificio della maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg prima delle parole.Sono alcune lettere, lequali fanno leparole ampie, e di ſpirito sforzeuole,come la A la 0,però quelle parole, che ſono di tai lettere,odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno alla maestà del dire conucnicne tißime,tanto più diforza haueranno,quanto auanzeranno le duefillas be,odi maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN. Quel, che infinita prouidenza, o arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che creò questo, e quell'altro emiſpero, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et ancora in un'altro luogo. Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa d'huom, ch'aſpetta guirra, Che prouede,e ipaßi intorno ferra, Di mici antichi penſier mi saua armato. AR. Sono ancora le parole traportate,di grandezza, e maestà mdo rauiglioſa, «perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni, ogran di riputando,poi gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no nel trasferire,però alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel lage degna,o di profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio ſpauentatoda quello alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi gonfiamente,o cosi freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio abborriti. Alcuni di queſti hanno ardire di fingere,odi co por nomi,oparoleſenza alcuno raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo oculoſo,il mare ueligante, la terra granifera, o di queſte s'eme piono ifogli.Altri danno à nomi ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o di niunſentimento,coſa fpenta,o agghiacciata,comeeßiſono, che uuoi tu più freddo,che'l continuare in fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia,il diadema della mestitia,un'atto fatale,o si fatti.Peccano mola ti dando ad ognicoſa i loro aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con circonfpettione,come per condimento del dire,affettato,inſipido,o rin creſceuoleſ truoua, comeſe in luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car niperlo caldo ſtillato,o non le feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona fi,ma la grandezza de i trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė ucnuto al fommo,o però parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të po,fannocoſe degne di riſo, o di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano, Orincreſcono fieramente.Leggi. DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia datami di ragionare ba tanto inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio pelago di si fat ta materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è difpofitione. AR. 1o mene rido di tai coſe,guarda quanto meglio ſi èdetto qui nel uerfo, o con più modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca, Defideroft d'aſcoltar ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca, Tornate à riveder inoſtri liti Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me rimarreſteſmarriti. AR. Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, & non diffe la naue del ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua alza le uele Ormai la nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si crudele, Etquandopurepiù arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata, dico,che egli era Poeta, o hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o d'ogni parte degna; o poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della licenza,ma uedi ancora nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta traslatione. DIN. Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo aperto Wlibero, nel quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella. re,d'eſſer colci, che corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste fredde,çocioſe maniere,& leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria stata di più felice uita,odi più beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il generoſo della bontà di lui,hax uelle men creduto al maligno della fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel finedelle parole cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che calde, le compaßioni delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia eſſer deono adornati coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à ſignificar’una coſa, alla di chiaratione d'un'altra, nonſi può cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per tuo ammaeſtramento,che tu fugga le ridic cole,perche ſono de' comici,le gonfie, percheſonode' tragici, le austere dure,perchenon ſono euidenti, & infine quelleche dallalunga ſi uanno tra endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo ſteccato della anima, l'acqua loſpecchiodi Narciſo, ò che diceſſe le faccende qui uerdeggiano,o altre coſe sifatte. Biſogna adunque deriuare le parole da coſe facili,& di pres fta intelligenza, con queste i due pocti le loro fittioni mirabilmente innale zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le carte.Alte parole appreſſo ſi odono quelle del nome,or del uerbo partecipi comeAmante, Ardente,co quelle ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o largo fpiris to.Et nel loro andare ſonoadagiate graui. Et di queſta ſia detto aſſai. Ora con quai colori, ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole,ſi di rà,o prima,che alle coſe clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi tio, come un fermo tratto di pennello,rileua mirabilmente la oratione.Pere che non è uera grandezza quella, della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però grande è quella parte. Leggi. DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendaui in tutte quelle coſe laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer commendato? certo. certo non a torto. AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con timore na dubbioſamente te proferito,però non ha del grande,benche al modeſto dire, grandemente fi conuegna. DIN. Che ſe i miei occhi non mi ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui operarla,o più mirabilmente chele tue parole non poteca no eſprimere,non uedeßi. ART. Conſidera quanto togliedella maeſtà di quel ſonetto,che con mincia, Perſeguendomi Amoral loco uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che dice, quella che ſe'l giudicio mio non erra,Era più degna d'immortaa le ſtato,Et tanto più quanto quest'ultimo uerfo non ha quelſuono,che gli al tri hanno.Douea ſenza temenza giudicare ancora questo autore. Leggi, DIN. Et perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io credo,fra l'altre uir tùėfommamente da commandare. AR. Perche la ſentenza è degna, a ricercaua un colore,che terminaf se il ſentimento.Nequesta figura ſolamentealla maeſtàſ conuiene, ma tut te quelle che alla purità ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et ciò ſifa,perche la maestànon entri in tumidezza, o cada (diroco. si )in quella infermità che idropiſia é nominata. Le parti, le membra eſſer deono bricui ſenza alcuna lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali breuißimamente uanno raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come oracoli.Leggi, DI N. Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina potestade, Laſommaſapientia,e'l primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon Beatrice, che tifaccio andare, Vegno dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe, che mifa parlare. ART. Etqui. DIN. Gli animi noſtri ſono eterni,perche difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi come belle creature ci ſiamo,o penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte. Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi fa,che à quello Iddio gli noſiri ani mi riuolgendo,che ce gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo,ſe me udirai, o penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o naſciamo equali,ne distire,o quegli, che di lei maggior parte haucuano, o adopee rauano, nobili furon detti, e il rimanente rimafe non nobile. A R. La diſpoſitione o il ſito delle parole nella maestà del dire dee tal mente ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli, onde la bocca ſi apra ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con più libertà uilica no,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano, quale ft deſides raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice nella chiuſa, o nel finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun modo hde uer loco in questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i princia pi, ma fieno di parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più ſarà tale in tutto il giro,farà il numero, che in queſtaforma ft ricere ca. Leggi tutto il ſopra detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te wedrai. Et ciò della maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane dezza del dire comela eleganza alla chiarezza, e eſſendoſi della male stà detto, come di forma, che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad altra maniera, Òſentenze,ò numeri,ò parole, ò artificio, o ale": tra qualità concedeuia,nėda altri alcuna coſa pigliaua, non è fuori dira. gione che ſi dica ora della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao umile maniera della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle altre parti. Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro ſentimento, o che raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta alla purità del dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento. Raccoglimento intendo,quando quello che piis i riſtringe nel meno,come una coſa commune in generale, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi, Certißima coſa é adunque,ò Donne, che di tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi noceuole, cosi graue, niuna cosiforzeuole o nio. lenta,niuna che cosi ci commoud,ogiri,comequellafa,che noi amore chia mia mo. Eccoti che la perturbatione è un genere commune ſotto il quale ſi rac coglie l'amore, che è una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi ancora lo in determinato v oſcuro,allo aperto & terminato,comequi. Molte nouelle,dilettoſe Denne à douer dar principio à cosi lieta gior. nata,come questa ſarà,per douere eſſere da me raccontate miſi parano das uanti,delle quali una più nell'animo me ne piace. Et qui ancora molto più lines. $ 9 fi uede per due raccoglimenti. Et come che à ciaſcuna perſona stia bene, à coloro maßimamente éria chieſto,li quali già hanno di conforto hauuto mestieri, & hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già ne riceuette piacere io ſono uno di quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte ſia quel tutto è del tempo, ò del luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, · 10 amaiſempre,ey amo forte ancora. Del luogo ancora, come qui, In Frioli,paeſe quantunque freddo,lieto di belle montagnedipiù fiumi e di chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole ogniſentenza, che chiama o ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o appreſſo tutte quelle che alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni circostanza di luogo,di tempo dimodo, oogni accidente, che preceda,accompagni,ófegua,alle coſe ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in queſta guiſa, in sù la meza notte con molti'armati al luogo del le guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria fattagli il precedente gior no.Ecco checon molte circostanze ſi narra il fatto,oR amplifica mirabil mente la coſa.Come in queluerſo ancora, Giouane incauto,diſarmató, e ſolo. Chiamano altroſentimento alcuni in questo modo, Ma si come àlui piacque,il quale eſſendo egli infinito, diede per legge incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine, il mio amore oltre ad ogn'altro feruente,o il quale. AR. Non legger piùche da teſteſſo poi nel predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere tantagrandezza di oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze mirabilmente,o ſono quelle, che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe ritengono,come s’io diceßi,L'ira de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta, Aſai dimanda chi feruendo tace. Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita onord. Etſimiglianti. Senza timor uiue chi le leggi teme.: Che il perder tempo, à chi più sàpiù piace. Queste fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma l'arte H 2 difolleuareè prima in ogni tramezamento. Leggi, Alla qual coſa fare(come'chein ciaſcuna età stia bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c. Etſopra l'altre questa. Percioche non amare,come che ſia,in uoſtra stagione nonſi può, quane doſi uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli huomini è dato, cbe ciaſcuno alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che giouane fono, gligiouani buomini,« le giouani donne conforto oinuito. Maggiormente queſti tramezamenti inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno meſcolando le ragioni con le coſe, o fanno la oratione ampia ecircondotia, o uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe,quantunque molto affettuoſamente le diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono in uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo,ė artificio di quella fora md, come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata donna come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto,ma molto maggiore la cre do eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze, avvertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno. gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi, Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo, DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.  Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс,  uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia, doue ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta voce,riſonante,onde lo ſpirito di essa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante. Ben'è vero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR. Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene,ma ogniſuaforza nelle parole,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile intendimentodelle qualiſi dirà poi. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le foaui,leggiadre,bricui, difacile intelli. genza,iſchiette,o con gran circoſpettione traportate. Perciò che le trasla tioni in queſtaforma eſſer deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben compoſta manieraſono le repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per me ſi ua ne l'eterno dolore, Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto bella eornata queſta figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi replica,augumenta,o creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato amarperdona, Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi ancornon m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte. A R. Se alla repetitione aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime, o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire, che egli perciò la bellaſpoſa,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir di Tito, fe non coſtei? Quai leggi.Quaimi nacce?oc. AR. Tu da te stesſo poi quanto ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più ſeappreſo le dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra s'è detto.Nėti marauigliarefe(una me defimafiguraſia da altrefigure ornata willustrata.Pero che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à fuo modo altri ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La conversione adunque è figura di queſta idea, a Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto. Bella è ancora la ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da quella in che la precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco miuergogno. Et qui, Et confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo. Infiammò contramegli animi tutti, Egli infiammati infiammar si Auguſto, che lieti onor tornaro in tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre ornatisſimefigure, come è illoro aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali uan tere minando le parti precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come qui, Nel dir l'andar,ne l'andar lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo. Luſca, io non poſſo credereche queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo fermo dire le tifaccia.Etſe pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: A R. La tradottione ė figura,che replicando la steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione di chi parla,ma mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella cheſifa quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et utile conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o che ſia fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje. AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura s'abbatta un bel giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi, E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi che'lſuperbo Ilion fu combuſto. AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa,una diligenza gentile del Pocta:si comelà,do we dice, Io ſon Beatrice,che ti faccio andare, Vegno dal loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle,che mifa parlare. Et molto piùſe nella proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni, dauanſ i compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato; fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, laſciauaſi il facerdos: tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente, oſenza congiugnimene to alcuno, il parlareè ſpedito, la figura ornata, odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar delle parti di oßa gioua mirabilmente, come quando ſi dice, Al costei foco,alcolei grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar dall'ordine loro le parole, che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi co la, di che èquaſ piena quella canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ. Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo. Concedeſ però a ' Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del uerfo,nel quale ancora più ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure non èche del bello nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi affermano,come s'egliſi diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella,non è alcuno,che nol creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente, o Catone faggio,&éappreßo bella figurala innouatione i com me qui, Parte preſ in battaglia,e parte ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni formaabbelifce,ne per tanto auenga che ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma ſtudioſa del diletto sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile artificio è uſata di uariare la oratione. Et questo ſuolfare primieramente doppo molte uoci di piene «ſonore lettere ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli accentiſopra una medeſimafillaba,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole framettendo gratia &adornamento le giunge. Bella coſa ė si come tra cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la quale ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio, dimoſtra in un'eſſere tutto quello che col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto, o gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di pietade alcuno? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più pia, seſtatefoßim'anime di ferpi? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato, lo chiamaora ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello,ora ghiaccio, ora geld ti guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema. Il fimigliante hannofatto,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me. Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della formapredetta,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe in queſtafor. ma èpix deſiderata,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei,che leſue ſentenze liportaſjero,che le parole di effe in tal guiſa ſi collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di proferire,ò da poi di un'altra,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra. porre i contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare numero di ſilabe, odi tempi, quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o di tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto pari.L'eßempio di que ſta forma e questo. Dou’elladifonestamente amica ti fu, ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe,la quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica omoglie,ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij, oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno,a niunoſifa ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la orationeoffer numeroſa,come an cora qui, Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco oſaporito, che il mola to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora cade il numeroſo concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne rinſulta il numero. Quel roſſore, che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe l'ha ſentito A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto artificio, la fimiglianza de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi ponga, com me qui, Poi ueggendo,che questoſuo, conſumamento,più tosto che emendamento della cattiuità del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più dispettosamente,che fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo di queste numeroſe maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei, che bene aucrtißi di non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti,di non affettar tanto la conſonana za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto de gli aſcoltanti. Et per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò molto curato nõ habbia.Beneuero,che con mirabile perfettione riempie le parti ele měs bra della ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti, come qui Percioche niun'altro diletto,niun'altro diporto, niun'altra confolatione laſciata ti ha la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di quelle fuſſe in Salomone,ò in Aristotile,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů, ogni lor ſantità. Et qui. Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion le fore ze d'Amore,& c. Conſidera la distintione de' membri in quella nouella, doue introduce to ſcolare,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta perſona dello ſcolare. AR. E degno di conſideratione il numero delle fillabe, chenelle parti, che hanno à riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che quando una pare te di troppo l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna numeroſa compo Rtione,però buone onumeroſe appaiono eſſer queſte. Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre diuiſe fiete, cosi ancora per eccelentia di coſtumiſpartite dall'altre ui dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta la riſpondenza, &la die fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de' fattidellafortuna,tantopiù à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da poter dire, ÄR. ART. Può eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la lunghezza delleſueparti,benche fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo, che sicomela fortunafotto uili artialcuna uolta grandi teſori di uirtù naſconde,cosi ancoraſotto turpißime forme d'huo. miniſtruowa marauiglioſ ingegni dalla natura eſſere stati ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa moſtrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare,o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare alle altre forme,par lerò della ueloce e pronta maniera della oratione; la forza della quale è nello artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle ſentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande brieuementeria fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento?:: Ma s'egliè amor,per Dio che coſa è quale? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale? Se ria,ondési dolce ogni tormento? ART. Ouero il fare molte dimande, con forze di ſpirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri ſuoi cittadini bello? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo? AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma. Leggi. Soli bastano, accompagnati creſcono, und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare,guadagnare,guiderdonare,ragionare,ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate,prime ſeconde,falje,o uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nellaforzadelleparole, o nelſuono, onella compoſitione. com mequi. E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le ſponde, Non altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta,abbatte, e porta i fiori Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio che tu ſappia della preſtezza del dire. Perciò che date medeſimopuoi comprendere quanto « ilconcorſo delle uocali,ore forezza delle fillabe pa lontana da questa forma,esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Reſta adunque a dire della formaaccostumata,o delle fueparti, la. quale e, cheſi conuiene alle cocoalle perſone in tal modo chequello che ſi chiama Decoro, molJa chiaramente ſi uedaEt però la detta forma ſota to di ſe quattro maniere principaliſ uede contenere. La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la piaceuolezza o il diletto. La terza e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza della oration. Delle quai fore menecessariamente in queſta forma si ragiona, perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata pia toſto che da Oratori,o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cauſe de priuati, che ne i communiconſigli ricercata,quando uor rai attribuire il parlar a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta ſimplicita di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o però le ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire ch'egli era gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta,ne più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate & popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi.: Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ART. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte, & imie tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, oGioue, o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe antecedenti, • per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando del diletto, della gioia tiragionxi,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata. Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli;eacconiodatiaggiunti- fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità di Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta, o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART. Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi 13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART. Ecco che nella proſa ui è il uerlo,ſenza quel propoſito che: io ti diceua,però, biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo della oratione,fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai,che alla giocondaforma, oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti. Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde,bisbiglio, ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il fatto,  ecco quando colui diffe,Filli, Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe. Le rimepiùuicine fono più dolci: Qucta licenzadel rimaremoderatamente Bplglia de proſatori, purche di affettata dilettatione: disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa forma,numeroſa epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza, unoamore in agni faſo, in:ogni tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti piaccia la forma predetta che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il diletto piacere cheda quella fola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna. parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo, trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe. uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,, odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il dilettare, ſono opera. tioni non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo queſta quiſtione. ad altro, tempo, o ancora nonstiamo troppo in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come quella.cbe al Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate,o morbide, negli animi. timide opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui.. Ms or a pasfiamo all'acutezza del.dire, forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà, «baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte che paianoalte,o degne: onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui. Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9. Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C: il  secondo modo e quello cheſi fa non mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo istefjo pigliata, come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare, ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità. Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART.No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono, et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma ſublime; & acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o Circonfpettione del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte l'altre ele gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et quello che ſi fafarlo sforzatamēté,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a' conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a' miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste,mánel dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo,noialquantoimprudentemente to gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione facendolegrditamente minoridiquellocheſono;eſcuſando per lo contras rio gli auuerfarii,oucro con ragione,conalquanto di timore accufando li,permettendoli alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate,nellequali con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione, che ironia s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente. Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando ſi dice, S'io nca sn'inganno,s’io non erro, cosi mipare,ofimiglianti modi, i quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto, che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la disſimulatione iui. Godi Fiorenza, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza laquale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto,che ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa credere che cofiſia,come Adice,questa moſtra l'animo di chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto,perche la natura in queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui. A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu ritornando all'effetto di primajo de gli altri Poeti onor',e tume. AR. Vedi comele Diſcordia con Gioue'adirata in tal modo comincia. Parti Gioue,che io, la qualeprodußi,et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la Discordia,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia miſeria,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa,Oornata,affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste. Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le parti,le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci,oper quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella fu,dimenzognaſembianza. AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre, con prue denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, & però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo,accompagnati dal Sanguedella bellezza,odal mouimento della celerità del dire,che facila menteſi otterrà il deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui ficno le mem bra,uiusci le parole,nel resto il giudi.io di chi parla habbia luogo.Et qui Na ilfine delleformc o maniere del direin quanto che di ciaſcuna partie samente ſi può dirc. Ma non sarà il finedi eſſe in quanto biſognaſapereil modo di uſarle,et Accomodarle nella ciuilc oratione. Perciò che colui ne oratore,ne erudito parcrebbe ilquale come nouel cfſercitaßcle predette maniere daſe steſſe ignude, o inconipote,onde l'artefuafi manifestaffs, oegli di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe le orecchie, o gli animi de gli aſcoltanti, Bella coſa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc;appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà alquanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauutaaltra intētione,cheformarela città M dincica dineſca minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà molto,che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz per che la chiarezza,la ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama, fono le formeprincipali di tutta la manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione.Le altre ueramenteſecondo il tempo; er la occafione reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de gli huomini, equelle con dilia genza offer dcono confiderate.Chi uuole de i ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee abondar'in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca narrare ifatti de mortali,comeſi fa nella iſtoria, elleggerà la ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a riguarderà primai conſigli,ale deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o finalmente gli auenimentio fucceßi.Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole parole,ilmodo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che alla fortunafi deve attribuire.Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche il peſo delle coſe ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona,biſognaabondare in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui,aimportanti,perche in eſſe più fimplicità,baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi buominipriuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata,obalfa,ſe non quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare alla bellezza,o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc,biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti huomini.ſi richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno;accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é,che pureé paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi,effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente ripoſti,oltra che ilnostro diſcorſo à niunopuò på rere terc imperfitto,quando egli uoglia la noſtra intentione riguardare,laqua le è stata di fare i fondamenti della eloquenza, auuertire di quanta co gnitione elſer debbia chi à quella ſi dona; sopra i quali fondamenti ſono for date l'articelle de' maeſtri, o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti, ô Dinare do,che tu ſia giunto là, doue di giugnere deſideraui,o che tu habbi ueduto un circolo della tanto deſiderata cognitione. Però che dalle parti dell'anie ma incominciaſti,o in eſſe ſei ritornato,hauendo il corſo tuo ſopra di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra due rote di quel carro,cheper lo apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716107284/in/photolist-2mRuuqB-2mRcn9c-2mQHwBB-2mN8Hgb-2mNb8t7-2mMYyW9-2mLMX6P-2mLLR3n-2mLMUtQ-2mLMWGH-2mLMVmX-2mLJQmk-2mLJQRd-2mLMULU-2mLLRgi-2mKQDQ5-2mLMXqw-2mKwuhr-2mKBLhJ-2mKCdPg-2mKArEy-2mKH3ZR-2mKDteh-2mJWMoD-2mJq2uE-2mJ4GHU-CkaHMd-BVh5m5-CntuMM-BRstt1-o3jP2q-nKqBVU-nJyPnZ-o1WCtG-noDCLh-nqpN2n-npidX4-nmQUvH-noiVeB-nnFBEg-nmPeYK-nn8tfW-nmR6a7-mwamdR-mw9SoV-mwbCd5-mw9U98-mwbymC-ihDHCu-ihh9Aj

 

Grice e Barbaro – il vecchio – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo.  Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he was his junior) Barbaro.”  "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano.  Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a Foscari.  Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S. Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note  Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808  Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974, Perugia, 1977, pag. 199  Vespasiano da Bisticci, cit. pag. 195  Girolamo Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane)  Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi. 16x24 cm, pp VIII+186. Firenze: Sansoni, 1972. Pubblicazioni della Facolta di Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. 22 cm, pp 186. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, 25 cm, pp 155, Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e rinascimentale.9788884502506 Bibliografia Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Vol. VI, ed. Firenze, 1819. Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, 1957. Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di TrevisoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Lodovico Barbo1443-1453Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Francesco Condulmer1453-1471Giovanni Michiel · SBN IT\ICCU\MILV\110912 · LCCNn95090012 · GND (DE) 102417849 · BNF (FR) cb146202310 (data) · NLA35968113 · BAV495/27788 · WorldCat Identitieslccn-n95090012 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani del XV secoloNati nel 1410Morti nel 1471Nati a VeneziaMorti a VeneziaBarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702111083/in/photolist-2mRcn9c-2mQHwBB-2mN8Hgb-2mNb8t7-2mMYyW9-2mLJQmk-2mLMXqw-2mLMX6P-2mLLRgi-2mLLR3n-2mLMUtQ-2mLJQRd-2mLMVmX-2mLMWGH-2mLMULU-2mKwwoA-2mKCdPg-2mKwuhr-2mKQDQ5-2mKBLhJ-2mKH3ZR-2mKArEy-2mKDteh-2mJWMoD-2mJq2uE-2mJ4GHU-CkaHMd-BVh5m5-CntuMM-BRstt1-nKqBVU-o3jP2q-nJyPnZ-o1WCtG-noDCLh-nqpN2n-npidX4-nmQUvH-noiVeB-nnFBEg-nmPeYK-nn8tfW-nmR6a7-mwamdR-mwbCd5-mw9SoV-mw9U98-mwbymC-ihDHCu-ihh9Aj

 

Grice e Barbaro – il giovane – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il vecchio --  "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo  in cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”.  Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato l'insegnamento  accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la catastrofe.  Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio,  sono l’epistolario filosofico che si scambiò con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio «triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note  De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla Deca II della sua Thiara et purpura veneta  Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855, Vol. II,132  Contemporaries of Erasmus, op. cit.91  Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999,19  Saverio Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, 1786, parte I,219  S. Bettinelli, cit.219  Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001,54  Vittore Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67  Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846, Vol. VII,26  Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, 1851, Vol. VIII,512-513  Giuseppe Cappelletti, op. cit.516  Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12  I secoli della letteratura italiana, op. cit.134-135 Bibliografia Saverio Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, 1786 Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846 Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851 Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Ermolao Barbaro il Giovane Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterni Ermolao Barbaro il Giovane, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Ermolao Barbaro il Giovane, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su Open Library, Internet Archive.David M. Cheney, Ermolao Barbaro il Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1964.PredecessorePatriarca di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo7 marzo 1491 - 2 maggio 1493Nicolò Donà Controllo di autoritàVIAF54942062 · ISNI0000 0001 2133 7866 · SBN IT\ICCU\MILV\088873 · LCCNn80137686 · GND (DE) 118657119 · BNF (FR) cb121940202 (data) · BNE (ES) XX1216846 (data) · NLA35180637 · BAV495/46340 · CERL cnp01329886 · WorldCat Identitieslccn-n80137686 Biografie Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici italianiDiplomatici italianiNati nel 1454Morti nel 1493Nati il 21 maggioMorti il 14 giugnoNati a VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51702720210/in/photolist-2mRcn9c-2mQHwBB-2mN8Hgb-2mNb8t7-2mMYyW9-2mLJQmk-2mLMXqw-2mLMX6P-2mLLRgi-2mLLR3n-2mLMUtQ-2mLJQRd-2mLMVmX-2mLMWGH-2mLMULU-2mKwwoA-2mKCdPg-2mKwuhr-2mKQDQ5-2mKBLhJ-2mKH3ZR-2mKArEy-2mKDteh-2mJWMoD-2mJq2uE-2mJ4GHU-CkaHMd-BVh5m5-CntuMM-BRstt1-nKqBVU-o3jP2q-nJyPnZ-o1WCtG-noDCLh-nqpN2n-npidX4-nmQUvH-noiVeB-nnFBEg-nmPeYK-nn8tfW-nmR6a7-mwamdR-mwbCd5-mw9SoV-mw9U98-mwbymC-ihDHCu-ihh9Aj

 

 

Grice e Barcellona – i soggeti e le norme – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.””  Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” --  Pietro Barcellona, deputato della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania ),  filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura.  Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao.  Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983.  A causa della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel  molto scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù.  Docente emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta); “Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana, Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e L'isola delle capre, Marietti,  Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle. La storia, gli affetti, Castelvecchi);  La sfida della modernità, La Scuola,.  978-88-350-3599-2 Pietro Barcellona e la pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse personali:  1959"Mostra Città di Catania"; 1997"Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; 2001"Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; 2002"Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; 2003"Contrasti" presso "Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano; 2006"L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di Pietro Barcellona  Su Pietro Barcellona, ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,.  978-88-6282-154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni, Milano,  M. De CandiaFerri, Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, 2006.  978-88-492-0933-4 T. Greco, Modernità, diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXXI (2001), n. 2,  517–541. S. Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli intitola una piazza.  Note  Pietro Barcellona, su CameraVIII legislatura, Parlamento italiano.  "Pietro Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù Archiviato il 18 maggio  in.", Ragusa News.  l'Unità, 11 maggio 2003: "Pietro Barcellona, Il Piacere di Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/ 11CUL31A.PDF&query=Andrea%20 carugati Archiviato il 4 marzo  in.  Corriere della Sera, 1º febbraio 2006. Omaggio a Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/ Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml  Inaugurata la piazza intitolata al prof. Pietro Barcellona | Misterbianco.COM Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Pietro Barcellona  Napolitano: Pietro Barcellona fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51790203619/in/dateposted-public/

 

Grice e Barié – Enea – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo. Grice: “”My favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.”  Grice: “Perhaps the closes Barié  comes to me is in his ‘The concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice: “I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore. Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in filosofia.  Inizialmente attestato su posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925), nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà della dottrina precedentemente sostenuta.  Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano, testimoniato dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz.  L'approdo al neotrascendentalismo e Il Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria nel 1933 spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica. Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli.  Note  Atti del V Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, 1924  riproduzione fotografica (p.1-109) da OpalLibri antichi  riproduzione fotografica (p.110-202)  Davide Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM, 2008. Davide Assael, "Il neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in Rivista di Storia della Filosofia, 2009; (4),  731–759. Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi, Guerini e associati, Milano, 2009.  Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi di Milano Scuola di Milano  Giovanni Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De Agostini.  Giovanni Emanuele Barié, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Emanuele Barié, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofia Università  Università. Giovanni Emanuele Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51789801666/in/dateposted-public/

 

Grice e Baricelli – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Marco dei Cavoti). Filosofo. rice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama italiana ed europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti nel 1574 (o 1575) e fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco Argentano in Calabria.  Erudito e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana, nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate malattie e problematiche quotidiane.  Nel 1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento tra il 1638 ed il 1640.  A San Marco dei Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare (1942) ed infine la strada ove si trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro (1989).  A proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Mario Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti:  A GIULIO CESARE BARRICELLI CHE DEL RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F.  Opere. “De hydronosa natura sive de sudore umani corporis”; “Hortulus genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio Cesare Baricelli, 1989 Andrea Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM, QVAE IN HORTVLO Geniali continentur elenchus. A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. 12. poribus effe &tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione diffoluitur de expurgatur. 211. • Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium. 204 Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem. 174 Agricola nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira i 170 Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato 371. Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(electumprefidiuna: 176. (Aegypti hierogliphicis vacabant, 2085 Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendiscorporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum. Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. 197 Alexandri uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur, Ambarum vi ebrietatemfaciat. 307 Animalia quadam Arni tempora pradicero. 224 An transformatio realis detur. An animal in igne viuere poſsie. 18 Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu & io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles: 98 Anularis digitus cordi amicus. 100 Antora napello inimiciſsima. 175 Anginaprafocatina vt compefcatur. 197 Animalia a vteerikus Dis dicata, 226 58 Anguil 214 290 306 343 120 Anguillarum cum Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum aliquor obferuationes. 171 A priteftium virtus mirabilis. 162 Apri ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus, 165 Apri dentes adanginan dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. 314 Arcades qualiter annum computabant. 39 Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutati. 90 Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator, Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. 245 Afphespropè halico ibum fiupidi. 272 Aſparagi vi mirabiliter erefcant. 279 Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri. Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos. Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur. 161 Canes fabrorum exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem, dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte vis adcorporismacular. 287 Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.33% Catelli membrorum dolores confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe.32 Calendula folis amica. 341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat. Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad vita produftionen. 107 Cepamab Hyppocrate deteftari. (109 Ceruorum vita longiſsima 281 Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima 348 Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm ܫܐ 306 Chuslapidusquomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat. 344 Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus. 135 Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt, 1j2 Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium veterum pro tuendaſanitate. ) 2OS Cotoneorumfeminaadcombufta. 208 Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. 24% Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.: 29% Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen 14.290. Denti. 306 174 Dentium dolores bufonis tibia janari: 10% Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. 160 E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria, 312 Echini ſagacitas in ventorum mutationibus. 41 Elephant's in fæminam mirusamor. 81 Empiricorumremedi4periculofa Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan. tiſsimi. 317 Equusphaleris accinctus acrior.fot. 363 71 Asies rugata quomodo emendentur. Faciem hominis diuerfimode alterari, 42 Familia in Creta mire faſcinatrices Faces ardentes ex Betula corticibus. * 339 Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu, 48 Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. 194 Fæmina aliquot inrares mutate,, 160 Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum efumfudoremparerefætidum  Filices ab agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. 145 Flamma quomodo in aqua excitetur. 176 Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis apud Garamantes. 299 Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur. 90 fumus hydrargiri quid efficiat Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. 188 Galega, defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru. 276 Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw.. 28% Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. 17€ Germanorum mos circa coitum. 72 Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos mirabiles. Grauidationis muliersus affertio. 7 % Grauida mulieres marein admittunt. 73 Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. 22 Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra 200 Greuide mulieres curpallida. 139 Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe 189 H. Auftulus aqua matutinus falubris. Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur. 133 Homicrania à carduo benedi&to fanythr. 216 Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, 340 Hellebori nigriextra & nm. 160 Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua, 74 Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion 54 Hydrargiri mira natura..183 Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus mira vaftitatis. 170 Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin. genijfiant. 187 Homines Principis vitam imitantur. 17 320 326 Horai. 61 Homines inuenti miragracilitatis. 245 Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo fiant abfemy. 327 Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta. 303 Infantes à quibusnutricibm ladandi. 23 Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur.85 Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu, Infantium ruptura ut curentur. 100 Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores recipere 270 Infantis umbilicum conceptum facere. 334 Inser Lupum eAgnum diſcordia. Inter brafficam, de vitesfympathis. 338 Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio. 102 237 Leones Leonesaftatttertianam patiuntur. 348 Leporumnonomnes hermaphrodui, 294 Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere 191 Lolium praun inducit ſyptomata. 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid. Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi quomodo ouibus nacere nequeant., 106. Lumaca lapispartum,accelerat Ludi in conuinijsfeftiuiquales, 19 Lupi,canes, doFeles ut curentur, 175 Lupi in fenio ſerpentesin renibus.generant. 234 Luna confinusad inferiora, mirabilis. 236 Lue gallica canis infeftus 243 Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri 176 Mascitius, quàm fæmina animatur, 182 Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant. Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam:214 Mares in mammillisſapè Lachabent.. 323 Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, 92 Medea an fuerit venefica. 138 Memoriaquo prafidio augeatur. 138 Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum proprietas contraHydropho biam.. 49 Mellis vfu vita vtiliffimus. 285 Medicina multa abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis inEpgroproprietas, 285 Mille pedum preparatio adcalculos. 223 Mille folium aduulnera conſolidanda. Morborumprauorum natura, 69 Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido latrauit. 1893 Mors inArthritide quandofuccedat. 190 Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines accepije. 316 Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam. 197 Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. 167 Mulierum pinguedoſuamis. 22 67 Mutin 140 Mulieresrarò inebriantur. Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. 247 N: 64 392 Natura presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende 230 Natura arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem fumpfit. 26. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili proprietu admiranda 10 Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for 1 1 20 % 139 O Learum fterilitatis preſagium: olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum. aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a yeteribu dicata: 114 slei cinemani raracampofis. 194 elina olinarum oleum adunguium pannas. tur. Par 200 Oleum latris colicum affe& um domato 108 Oleum lixiuio miftum albeſcit. 332. Opthalmia aliquando.folo afpe & u communicar 203 @ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. 203: Orestis cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant. 352 P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſaopinio dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.318 Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris 18 Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt 79 Beftem ex occulta antipashia oriti. 147 Penna Ibidis ſerpentes-terret, 339 Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere 146 Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum. 242 Philomenaà vipera deuoratut. 288 jot 3.1 $ 276 1:59 Pifa 102 Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. 72 Pici mirandulani ingenium; 183 Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz. 333 Polypodijmira viscontra cancrosa 239 Porri caputquomodo augeri pofsit: 25+ Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. 295. Planta fimileseffe&tu fimiles, vinute... 77 % Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos 337 Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. 175 Pulchritudo corporis quo termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. 36 Pulſus deficientes anfemper mali, 140 Queen Vanium profit neris puritasin peffe. 103 Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. 199 Quartana quomododebellerur. ***** Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. 219 Quo artificio es aduratur. 153 QuorumdamiAnimalium vitalongitado 117 Quorumdam animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, & ornamenta. 196 quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere vales 235 Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus.30 Quomodo in urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas ! Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum. 263 Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi. lem effe;. 113 Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, 49 Rores marini virtus miranda, 123 Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, 77 Salis prunelle virtus,de compofitio. 149 Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero extinguat. 706 Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. 218 Sanguis caninus hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. 317 Scarabei miraproprietas. 280 Scarabai cornuti vis in febre ciendo. 223 Sciffure laborum.usmanuum remed. 262 Scythe quomodo diuabfque cibo vivant: 3:32 Berpentesquibus fufficibusarceantur. Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã.226 14 128 Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. 319 Singulis quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos. 40 fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. 238 Sodami -Gomorrbi fruétus vari. 342 Solis defe & us quomodo comprehendatur. 343 Spurij robuftiores legitimis fuus. 95 Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum mirum remediusa. 100 Strumaper vrisano quandoquepurgalai 257 Sterilituin bomine ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. 210 Succinum parium mulieris accelerare, Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T. sbacci vw apud Iudos. 15 Talpeoleum ad Aruma. 257 Taurifanguis inter VEREBANwerari. 29 Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa 319 274 T 93 138 213 105 - Thapſia veſsicas, do ademata excitat. 9 Torpedinismira vis in capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt. 13? Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni, 74 Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in capitis doloresi Verbena virtus contra frumas. 89 Vermium in corporibus hominum varia figura 18 periuntur. 93 Vermes rubei in cerebro adnati. 134 Verbafci florss Sole aecedente decidunt, 137 Veterum fepulchra mitèconftrudia. 158 Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. 197 Vena ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. 275 Veteres equoram lacrymas admirabantur. 192 Venenumà diſsimili extinguigecontra, 309 Vermes in cordis.capſula exorti, 322 Ventorum mutationes ab Echmo previderi. 41 Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. 47 Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit. 60 Vipera inter ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme. 361 zur. Vina Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. 29L Vinum à veteribusfeminis interdi & um. 304 Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus comminuere. 344 Vimivſus elephanticisfalutaris. 325 Vlcera formicantia quomodo breui fanentur. 59 Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium,piſciumque fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio prefagiunf.  DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer. uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis HORTYLYS GERIAITS. armis gerendis aptæ fierent; vel potius Demannum, & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib. 11. Olearum fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, & emerso Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, & vitis, &olei germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a. mento cffeſciebant: at vt apparuit cau. fa, & ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. V IVLII CÆSARIS BARL. CELLI & SANCTO MARCO, Do&oris Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras reſccaricurabant,vt magis armis HORTVLVS GERIATS. armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum, & brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor. 43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft, quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis præfagius. Ergiliarum occultatio, & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, & ingens dinitiarum acceffio,reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V BA KICELLI O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, & conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem, &facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxta YO & TVLVS GENIALIS. iuxtágenusfuum.Ex Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in fuis altitudinibus, præter Mercuriú,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias. Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit, &ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes, aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe SARICELLI Pluuioſa tempeftatis Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu. uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, & f renitates predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin prædicédislerenitatibus, & tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs experientia cognitas, no & u, ani. maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt HORT TITS GENIALIS. dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc. cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; & alia, quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, & obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan. leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au & oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur ante quam caulem edat, & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle; multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato, puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus, qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos: de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec. natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus )velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari. Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib. 18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro A Acyrano fancitum eft. • Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere graui agebatur,ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus inic & ta, fumum peros, & nares ex. cipiebat, & inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant, populo dabat;qua tanquam religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú,inquii,Philofo phia, omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu prodigia quædam, & arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium, acumen, & omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ dicendi copia, & ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent, &graui. *, & copiosè funt explicata,ac magni fica NORTÝ Ers GENIALIS. P. ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, & imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do & rina fe. cretior, & quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, & Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur. Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal.6.19.adducitur; animalia ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: & nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, & ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur; vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus HORTVLvs GENIALIS. C Lachs Affhaltitis mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores, & fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, & fubtilioris fubftantiæ. Contra in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, & infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa, & infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur. ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e & panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, & pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3: Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum,ſi dein de I HORTVLVS GENIALIS. 1 de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculari & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia, do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, & tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit, & efficit; nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere. Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine BARACRILI Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alijDeiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis 6. 3. Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium müdus iſte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum, fi dein de I HORTVLVS GENIALIS, de ferbuerit in olla, & ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculæri & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis excellentia, din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré,hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, & di es diftinguit, & efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, & flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum ipſe, çum ho mine BARICELLI minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur, & occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, & conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin lib.2.6.56.Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam Salamandra rum copiam reperiri,fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas. I Nter Arcas, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico ) regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt, mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas, vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem, benè moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia, vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit. Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, & hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere: equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor: cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā, & phthiſim, fià veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, & tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij, & Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis rubeis, & quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, & ſingula in ſingulis verrucis d... * gitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, & doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, & fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens & acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta; acerrimoacetohumectabat;:ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, & Arcadia producit, fi verus & probus fuerit,femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam & i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria & a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea fepulchra, & Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè memorabilia,ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum fplendidum erat lumen, & filentium vndique caftra tenebat, multa fecum memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutuscumexercituexA  intentus ad introitum afpiciens,horren dam, & monſtruolam corporis feri & terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, & fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre. dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, & olei& vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur, Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà propria regione fede portari procurant;præſertimque ad lo. cum minus falubrem, vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica. Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem; proie & a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere, & figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies ſubſedit, & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana 38 BARICEL II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, & effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus, & robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta decimaverberibus affli., gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem, & fpiritum tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod, fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui 314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit, annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit. Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio. ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, & exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, & confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron, fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit, apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum ortum,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire. *ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem, & ti morem cum vtrumque fit triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex Taſſone citatur M HORIVLVS GENIALIS. 43 citatur) faciem in pudore,voluit affe &iū recipere, & proinde erubeſcere. Hocà ratione alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita &noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito, exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit, fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia mortifera natura, Alexandrimorte. Circa HORTVLVS Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3 quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter fanari. Dum 46 BARICELLI prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um,cui varia fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus modò,verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem a tem. poribus, & coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, & caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta. 48 BARICELLI teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe, nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus anti quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis, & vrinæ, fup preſsis laudatiſsimum,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit enimfru & uum, herbarum,lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque virtutes, & do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat; quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit. Hæc autem cognitio, & ex diluuio, & gérium diuifione perdita eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia, Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi BARICE ILI legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo &tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione, non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3. Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam,eiuſque excellé to tiam magnificauit; Ille quidem dumno. & u incederet incognitus, & in multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, & cem ra commiſta,linimento ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam oftenderet,facinoris ſui famam, & igno. miniam occultabat. Ex Durante in Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbiaCornace. De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo forſitan ob acutum, & incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo. ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur: extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq; Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,& potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e & enim præſtaa tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex. ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem, & carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar. ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris vnc.. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat. Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit. Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad. Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ, fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O & obris, cum bene maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto, cibatur eger,parceta men, & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia, & excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur C Ariet  mo Arietis linguam futurum in ouibus milanitium,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit, quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum vterum gerit,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album, & fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis, Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum, aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum. eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo; attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo mutos& attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe &tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem: valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, & ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem. Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote & emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg, admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q  tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do & ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan.. nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-. nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-. bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a.. micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au & oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe, & experientia, & grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, & expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos, & non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, & femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt & reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò & hi modo (putis " abundant; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt, in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs, qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;; vnde bleſi, & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent, licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur, cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3. Morbosperniciofos; velmortem,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate, & in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus inuentuseft, eiuſque: tunicæ, & inteſtina eodem colore per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis, & tenacibus obftru & us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua haud inuenta eſt; fed eius vice atra, & inſtar atramenti nigerrima.Hepar quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu, &nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, & fubrubra ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi: qui euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, & agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum, & foeminam in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, & duomaſculum, & foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, & dif ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra, elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, & quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, & fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; & fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores, quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu. dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, & defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu, & nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris facie oriútur,ex tumefa & is mámillis, & a ful co earú capitú colore pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit, fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero: nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc & i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe &tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo conceptuapparent,:: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit, & in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,& prægnantibus.Pondus circa pe & en,non in grauidismodò fed, in rete tis menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6 tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft, Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent, fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus. Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, & grauidis, & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus & Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe longa, & duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit; & V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú, quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere, fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, & candore, & venuſta te vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, & ap petere. Cicutam,vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, & delirio, Narrat Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, & hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui, quo nutriun fur fætusin vtero, & naturam, fiue calo. remnaturalem, ita exprimunt materiá, & efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos peftem efle, fierique in pefte, & à corrupto cælo contendunt. de Equidem ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus rationem, & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate, & ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, & proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur. Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent. Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos, eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, & populeo vnguento pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam. Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, & rationem, quam antipathiam, & diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum, nulla enim inter rutam, & braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte. Elec  NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, & ficca - eft, inde facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m  nis variari confpicitur, ex quorum in.. terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft, nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri, & feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit, NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, & populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur. Omines laſciuire in fæminas, nec nouum,nec inauditum eft cum anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem, adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum & us donabat, multiſque indicijs, & a morem, & ad fervitutem promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes: conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö. næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat. Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere, propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento, tiap s. fia, & lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima corporisſuperficies attollitur, & in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum, vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia omnium nouiſsima gera minat, & pruinis non tangitur: Idcirco fructus, & Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia, præter tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini. micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia fætus im becilliseft, & à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur, eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur.. At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta )cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos. Infania,&furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat, AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit: altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi propinatum Spelaria D? esto)  eft, quo facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium tritico ", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet, lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in cutemula torum,qui comederant vlcera; & alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur, tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter & citilsimè illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit, & Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, & fine his quandoquenon paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe & u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum excremét aridum,ve rum.  1 E1 uum recens, & expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle & am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, & ex vino albo hauftam per colato, epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur. Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas, patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft, propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui cum in lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt. ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt; vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi. musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92  E morbillos. in facie, corporeque hominum remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire oportet, donecexſiccentur, ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit, ve Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat. Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, & pluſquam fatis eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5 admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior, hirfu. tusq;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa, canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil  t Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere, vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores, autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto, quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in mariexeunt plantz, cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis parit, & lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan. Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium.. rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium; quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, & piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas chordas à Lupi funiculis corrodi, & confumi, fi fimul n repofitæ fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam, epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur, & decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari, Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, & membrisoritur cum dolore, Chanc noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer. cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $ fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus | huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis, ficuti, & terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit) percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam, endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, & alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues,&exprimes;feptimodie, vel ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, & ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem, non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter, & coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa & useft,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capra o & o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, & quandoque vigintiTaurus. quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia le, quo ego in doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter, & coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa & useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim. Canis quatuordecim, & quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo, veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile. le,quo ego in doloribus iun & tura rum, & in arthritide cum felici fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare,vtmultos viderim,eadédie,quapharmacum acce perant, àſella ad locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum alborum à cordis fuperiorimundatorum, & Diagridii an.. drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, & cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle, & vinoalbo inuicem coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac. iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele & uarij (quod Diacoftum vocat )vnc.ſem, acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi & ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, & animi hominum deliquia, mirumin modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida feliciter fanare. Nter fele & a, & quae dolores capitis à caula calida auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari, & procul, & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore: feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt, mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro.. pterea in ſpeculandis his ce pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur, cur: Hyænæ vmbræ conta & u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt, & in refum fympathias, & antipathias, & na-. turæ arcana reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, & vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R, & à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus, veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3; Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione, & partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie & o:;: & aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, & ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, & fabulofa ſunt eius figmenta, fi-. quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun.. culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe & us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere opuseft,præterhęęconceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, & vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, & nutrimená. tum à matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis calor augeatur: & abia' ad cona coctionem, & produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen, exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, & in teſta per fe porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, & refpirare pofsit Semen vero humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps, &conforss quorum vi, & beneficio fir generatio, antequam in vitream ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, & conceptio euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, & augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa eorum magiftri conie & ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm. acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras. mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino alterator di& amocretico,ſaluta,chamedrio,chamæpithio, &myrrha ex fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, & bituminis anſcrup. ij. ex vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur, timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin & umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle. Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca, lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq; fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro.. Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan: &Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do meſtica, & manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor, menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, & educatur,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, & labis nefcia. Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, & confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru & ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam. PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine, & beftiis, & me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur fortunato, vel & infortunato;numin malovelbonofue. titalpe & u; & an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi longitudine, & breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit.. Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro, Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun &ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea Denoforum animalium afpe & u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis, & Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum, fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa & u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis, & venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque fuffocationes, & horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué & tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus, & neotericis, helleborum ad infanos, & mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum, & magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium, quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida materia geperátør,hincaecedenteGalitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, & nimio ſali torum vſu,lacomne, paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi,feftiuiquelas beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta & ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, & con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar fimulachri, & imaginis,non aliter, quam in fpeculo macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant, perditam libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę, longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit tre. to centorum, & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe, & ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, & paucifsimis à Deo conceſſum. At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib. 1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes, vapores in montibus fpe & ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach. iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex: ta partevini maluatici. Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, & Itali Roſmarinum dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur excellens, quamuis mulcitu. dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus medetur, & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet, quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. * Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis, calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit. dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit. Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes, monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum, vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti, &rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt & oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di & us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, & pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum  ES Noun ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias -fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus, Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres, pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline. Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou: H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer. Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re.. motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft: cum autem in phrenitide magis, ob exficca- - tionem lædantur nerui fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, & debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus venenofas;hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas, quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, & i & ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, & febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur:: multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem, & ped.com M propi HORTVLVSGENIALIS 133 eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus: Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru & ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis, vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere wice  uice, ac fi quid infpicere vellet mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur, inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt, quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua, Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i& ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra venenum, & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, & cum. foelici fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, & M pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat. Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo; decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe & ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione, nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā. igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus, finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico, ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex quodam lio bro remedium collegerat, & mane ſee quenti puer ille, qui erat duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, & otia effuli, vix trigefimum exceduntannum, abſque. fene & utis aliquo veftigio,vita enim los. gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi, & potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males ** Dino Gagorio.  Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt, Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, & re {pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam: flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore, fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ verò, & Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,& cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco & ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen. to,oriente Sole, necnonmeridie, & oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, & in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier.. Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam, & ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim ex aceto deco & a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro. culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, & formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, & febreardente vexato, cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum. D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, & ruræ folijs viginti fimul tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa, velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, & vna iterum coquere.Cum autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; & pulchra, & bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ, vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,& pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu - gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i, & ficcati in vinum albuin proiecerimus, & tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop. 6.de cauf.plantar.) vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri & tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo, & fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft, & ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs G & NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus vino incoctam, & calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun &tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino ) in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla, quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, & papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt. Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant: & vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-, net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, & dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris familiaré extinguento - dam, & edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat. Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, & opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere. 1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe & u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio. CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult. clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, & copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2, G4 terius 30 D 3 BARICEL II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit, vt quodammodo Leones &afpe&tum, & Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, & induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis, &in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, & aliorum animalium forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito, Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris, addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen nevrantur, & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, & refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires apudGalen. & Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do & iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit; quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent, textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3 verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum contendunt, & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho mocorreptus, &in rabiem, & mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen Ariſtotelisinten. 2 tionen 856 BA'R ICELLI tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, & morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum, illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq; apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere & tabiem, & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi, &firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud, quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti: caliginofa oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, & fæmiam conftituunt. Aerem marem iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; & fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L: Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft, quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum. BARICIILI cum prius fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe & ibus, & in fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex qua ab animidefe & u collapſi vi gorantur, & in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, & fico. catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele &tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum THI 16.2 BARTICE L L 1", guim Rauennæ retulit, mirabili fucceffu: & artificio,oris, gingiuarum linguæ,&: palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um, cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo, & Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur, prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolo. HORTVLVS GENIA IJS, 163 doloresperniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi & in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, & fruere tanti arcani theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit.. Villicis, & folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia, & hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant, & moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In Illyria, Thracia, & Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem, &Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, [catent HORTVLVS GENIALIS 165 1 FO 11 [ catent in Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in determinatis locis, &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > 166 BARICELLI Samen litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere, qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in. cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft,ex ſuperflua &ventola eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la &te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo HORTVLVSGENIALIS. 167 Sier o in potu ſumptų potentiam & efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. " 5. Cynorhodiradicem ad Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido demorſo, & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem. m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem. Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque potiſsimum, qui ex atro, & meo lancho HORTVLVS GENIALIS. 169 T! ta ļ lancholico humore excitantur, extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, & in pila terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna. somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem. in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar. Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex cralforum humorum infarctu, & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra & um fine expreſsionc, & cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia TE 3 Inte 170 BARICELLI Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft. Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur, atque ſolo eſucapparorum, & aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis oblatus eft;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt integrű virtulü crudun,vel ouem IMDEE HORTVLVS GENIALIS. 171 UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa. mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe, vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur, vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, & lo. qui poſſet, veritus neà fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft, & quod mirabilius, Ha  in ſpatula nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, & tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa & us eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa & i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin & am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales, ac bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga. ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio. nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum SanaaGuaiacum di& á exoritur, & il. lincad nosdefertur.Catharides veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias & e pedes earum exiftere obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur. Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti, & eorum pla gis impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, & terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res & naturas veoarifolemus; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe & u timemus. enim neſcio quid calliditatis, & malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos, & ſagaces, venamur in eis benignam naturam, & mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi milibus, timemus crudelitatem, maliti am, & voracitatem. In plantisex pul chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, & Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum more,atquein falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi; quippè oculorum, aut verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem deducút & tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium. Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, & fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto,com i mifta fuerit, & frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus, Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim & calore corrigit, atque linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus dorfi,lumborum,colli, & orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo, & alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, & populorum ingenia bifuris, prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,& populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges, Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi, pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo. ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi, Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue. tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati, feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine (cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti, mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori, equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,& fileat:tum foueamaperit, & fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo  # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &.. Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin & o: Panthera vehea menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum, &Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur, aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam: verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione: calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius, & citius mébra organizare, & formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici HORTVLVS GENIALIS 183 PictMirandulaniingenium, quam maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, & & multiplicem do & rinam collaudabant, & miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: & fimul aſpicite fupelle & ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd, omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima(excepto. auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, & eius recipit, cola rem, quiignis tantùm opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor, & virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde membra ſtuporem recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-: dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, & faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, & Vio letudinem conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das arcet, & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu & us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do & ti percipiunt, ob id anchoras & fue. des, & fe ipfos parant, tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces, ſicut cx teri extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis cognitionem Adam, & conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue & gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, & Puteo lis in loco vocato le Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris, plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, & præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú, fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, & obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim. peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume" accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis, finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, & alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium, tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert; Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem,no biles in primis fcriptores, & quedá ex lu.. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, & ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, & die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan  Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere, Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori - ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit, his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere, & o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar &tu fa & us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines delectant, ob id multi & cymbala, & alia muſica inftrumenta frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta clitellaria in la boribus, & itinere, cantu, & libilo al leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam, & alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt, & perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna, mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis exitium minantur,quippè venenofæ, & peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has IS HORTVLVS GENIALIS 193 2 Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, & partim ob ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, & liberatus eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, & fic dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt, quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum, quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus duabus, alteri Francifcæ, & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt: Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, & corporis, & animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $ partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt * cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus, frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles, moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, & alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia, E 196 BARICELLI nia, & temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat, vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur. Quod autem mirabile, & difficile credi tu eft,cadauer eius tam fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, & pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam Salomonis: agilitatem, & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G: liberalitatem Alexandri:vigorem, & dexteritatem Hectoris: eloquentiam Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, & tan dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio; vl. timò tandem ex galla,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla & viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis. ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex trochis, alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret, confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit dolor & gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus eft, cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex humiditatisdefe & u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3 puntut, & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric  Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas, Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando, filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, & animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae  sol PAnaricium in latere vnguium accidit, &interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione multimultafcribunt: egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin. cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare, vt vix diei fpatium affe &tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, & Scordii efle virtutem cótra febres malignas, & peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis, autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum haud oftendere. * - 103 Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim fit, vt illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, & pariat, quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, & folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus  ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe & us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur,pallo re, &croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam,winuidia tabefcentes,ftocle. Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, & quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo hirci, quæ cú & croco, cinnamomo, & mellemifcentur, ac ijs hirci inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, & Syrie, quialter Alexanderdi &tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam, qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo & trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum, Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem, & citiùs comprimit, & digerit cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de; ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT  1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; & is nequaquam fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis: nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum Indis.decertaters lub @ diarioque milisere deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa yesulta, & coriacea,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur', feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit: Putem cum temen cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq; muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or. rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter cæterasprecelleroreratapud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit) dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer. auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis: - látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a - pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem, vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü: Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie arium, Diodorum, Srabonem. lum  ritatem, &mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta, bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű fuiffe,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, & antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer. auntur, & literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, & inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem, vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti, ad jun & o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ, folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare, mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, & falus introducta eſt.Ego profe & ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter, & conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare macum,de quo in leipfo, & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit, & magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum. Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem, fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum poterunt imbibere, & rurfus exiccato, ac tertiò imbibito & exiccato vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, & exiccato rurſus: vbi verò fic fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento. Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus multa hominibus commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, & impinguant corpora, aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, & frequens vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis fæditatem; indici um huius rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc, ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba. liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, & oleofia C ttatis retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, & Delrium reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, & exinde viſbi.  Emin viſibiliter educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, & integrare poteft faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad nutum moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare. X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, & vtero prcdeft, & in cibo, & potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur. Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem, infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc ablactatur, feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft. Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in veficis, & ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui veſicas, & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat & breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, & vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad iuuat,foedum colorem emédat, & prin. cipalia membra coroborat, & rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, & Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, & naturalibusrebuscircú. fórtur. Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris, liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, & incoquito, vt tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“ redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt, Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur, quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, & animalem fouet, confirmat,& Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua: roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh  febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum potentia, vt confeftim febris, & accenſiones corporis criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt; fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, & Nouilunio Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, & proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie. entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile: eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch 19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.: TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim & inter eos fæminam nul,  Quod autem in Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas, & alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit, ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin fætores grauem, & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem, niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur, & Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem. 5 K Singularis profe & ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda, tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło ex Bry onix conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, & proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, & formáanjyli acqui rarexpreſlum, quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, & cú palico ca ſtorci, & alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis profuens, & vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o & omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros, diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè. repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur, proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur. Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-; eholici, & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura: fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur, vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat, & ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia peraluum centum, & pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, & folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe & ò parentum ſemper eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo, illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, & plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, & nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur, vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, & cum zuccaro rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam, hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu, cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis alienationé, & in riſum 2. conci.  MA it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, & mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, & breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint, animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe & i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, & ve riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat: ita n. & calidius & fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, & aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, & incongreffu fuper latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, & ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, & fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus, & refluxus per quae draturasfuas intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, & in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte, percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania, & Aegypto o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione, quæ & caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos pertinet) aut cæcutiunt, & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur. Iofeph apud Pharaonem, & Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus) quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? & Rex Babylonis ad Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter Polypodium, & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis, ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. " to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur: fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, & fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor. pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate, & duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant, muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum, illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit, & cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re Currit, & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; & aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, & furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, & inte kinis torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do: colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus,fynco pi, &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia hoc edocuit; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus, quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis, & latitudiniscorporis pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, & immoderata Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes, & horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit, & iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, & foleis geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam. Trabilis profe & ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, & aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, & perilla pratos corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, & coloratum: quippeex humorum prauorum conge. rie, & palliditas, & defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, & colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, & hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt; & Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere & tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi. cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster custunc ficciſsimum, & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo HORIVLVS GENLADIS. 149 Quo artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo faluiæ, & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium; mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus valere dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer. In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad ſubeundapericula; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, 252 BARICELLI vmbras tùm matutinas,tùm veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam: ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum, fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effu ment HORTVLVS GENIALIS. 253 L ment, vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum deſtillato, & a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus BA RICE E L'T M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca. tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, & ex foleardores, hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios? res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, & cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic & ura à cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi, minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis: fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone.. 256 BARICELLI Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella, pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;& cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, & fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de -Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis pedibusinfiftunt.Ex Solino. Qui HORTVLVS GENIALIS, ' Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo, & fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea. rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, & auxilijs (trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt, & oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, & ftru mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, & fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole, vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt, Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, & viuaria, omnis. generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per Europain,Afriw. - Cam, & Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus, de vniuerfa fen? rè horum natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut 160 BARICELLI oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula & ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe & ò totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, & ad interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid HORTVLVS GENIALIS: 261 quid in tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num deie & uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, & in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, & cf. ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc 262 BARICELLI hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum. bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria, labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur omnia in puluerem fubtilif. & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima excogi tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, & amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla, optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis, parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.- aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, & ligata in clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem;poftremò abie &tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt, atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, & ab ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,& caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, & cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco & o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe & ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm. VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc lapidem à ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, & vifcidum hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem natura inter alpides, & halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit diſlenſum, & antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur, vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret: ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú, & for forem; fed prius caufas ediſſere, & ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe & us eft,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe & ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I ering HORTVLVS GENIALIS 26 erint, vel vera narrauerint; fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, & incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in.. fantes, quales fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt. Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, & oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato, & vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio, & fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio. loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex.. perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, & cum: oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, & verum inuenit: nain: qui præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum, & exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq; vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, & ofculis tenebat;moxèrifu, & cantu, ad ram, & furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit, & immodeſte poti. Ego profe & ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, & infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus, ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, & ferpétes; ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines.. 3 MS Non 274 BARICELL ): N.DE dumprima On vna equidem apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare, nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra & abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae nèhocrepetebant,quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare, atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritiden HORTVLVS GENIALIS 275 ritidem,in lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1 nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam addebãtur,capiebat tepidè, & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, & ſalis,farina, & aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, & breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, & infirmus ad fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam, Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 BARICE ILI INE Je Nterrerum admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ tetigerintan. te annum exa & um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu, necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus... iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, & fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, & non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na  nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; & arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, & exic, candi vim habet. De hocdente mirum. feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt; dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, & pulchriores, & core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere, & germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft, an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios.. Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio: ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios & induſtrios, & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, & vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem, & valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun. Mira BARICELLI Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi,humanam adipem faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, & rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, & oleum ineft: nam, & ijaquam,appetere.à lege naturæ viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie & tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit, yt & Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret, à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit: nam & hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione, &ani mi, & corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, & canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, & ad fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare. Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur, &difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita, vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, & vitam infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare. Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo & fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces, vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram, & ſcabram, &proinde adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe. Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - & proinde compluresſerpentes,quos vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, & putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant illud, quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, & poft hos alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui. Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem, qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris -grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia. Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum HORTVLVS GENIALIS. 293 mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter, minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat. eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio,frontiset altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun & iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis, pe& ore, & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi 292 BARICE I 1.1 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum. Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata, rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x.. vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I' poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat. Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft, Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas & fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, & Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus hermaphroditos reperimus: inde Hee brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, & fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N  forme,næui,lituræ, verrucæ, & alia figa na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis,pulchrasimaginesda mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe. 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, 7.14.21.28.35.42.49.56.63.70.77.81 91.Inte hos annos 49.63. magis periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maioremhominum partem io anno 63. moricontingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum, &bene uolum celebraffe, quartum & fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium & 'fexageſimum annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem &jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,& ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, & retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum, &difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, & antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos, &mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram, & cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, & perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes. mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur, quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem, quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat. Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura,.non modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu. dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant; quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos, & lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur, & calda riumin gyrum,ita profe & ò è feneſtella, ventis oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis, pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, & Occalum, Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n. Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo. dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat.. Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe & ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor. bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut 304 BARICELLI Brina vifa eft per dies præcedentes; catti manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia, nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di& um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat interdi & um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes, an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum, &Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, & viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem, quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe & ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu, tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu, & aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima': In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, & aliis huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. & orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro,Annibali,Scipioni, Iugur thæ,Mithridati, atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero. Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus, vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia. Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis, multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib & bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex aerisfrigiditatecondenſatur, & Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque obfèruantur, & interalia Coralliú, quod ex aqua exea ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur, oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur, principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm expreſsionem cola ligere.Vfurpaturhocfeliciſsimofuccef. fuin Tympania,colicis, iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam, humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi HORTVLVS GENIALIS 309 vbi tamen flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri. Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui, & a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi libusfuerint fociata. Aconitú, & Napel lus miram retinent vim necandi, com pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex quo toxici virtusdempta eft, & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit effe datum: Miſcuit  HA Mifcuit agente lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta. Nter grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft, nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na uigare, venari,quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us quàm femel cibú capere, & fèper quá plurimum,dummodo hunc concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, & intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora, quæ more eorum repleta funt,celerrimè, & fenelcunt, & ægrotant. Hæc firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere, qui continuò exorcispennis & expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius & Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, & prodigiofa ) lignum teres, & oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare, atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent: quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur Seneca, & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior. Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit. Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim, vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici, lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo. Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, & digiti pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0 % cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit. Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter, impetug; amouet, & lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos, vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam & illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine, ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in fimo, vel cono volutatur, & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam, quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit & Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, & pluribusiam deploratis pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít, adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet Saluſtio neruos labio rum, & orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum acies inungi folebant, humano fanguine, & viperinaſanie confta bat, tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio. Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua, vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus, ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis, poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo. tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam & gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere, Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, & alij loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus Sphererius (vt ScheukinsBarratti  lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani, & nafturtii hos vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim, Epilepfian, & mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, & Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft: aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe, fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius confpexit, vermes per inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A Infamis vmbilicam, & Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo, modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro. didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena aridum, & in fari. namredactum, oboli pondere, à coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum. Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, & decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces, Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum, exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine, perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,, tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria, in quodam expertus ſum reme dium, & bene fucceflit. Accipit ille, ficos crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib. M, fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula, argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum, quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte, prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun, ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, & Doininam D. Man. já Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem, có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum. Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, & rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore, & fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium inducere: & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt. Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, & infantibus pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq; commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam, ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium, quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant. Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &, Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes: natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus, pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, & grandiores faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno. a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, & vfquead eius extremum: finem permanere integrè, & dextra valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum  hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, & decimum ſeptimum productus et integer & nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, & dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem, & ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft, & in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confini HORTVLVSGENIALIS 333 confimilem generet effectum. Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, & in omni Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis, & id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas penfitamus:hæc enim pri mo 334 BARICELLI mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma, inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis, Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue. niunte, quibus conuenientiam, & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor rian - ) Oling HORTVLVSGENIALIS. 339 Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit, mortuustandem, & fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid de Aiace, & quid de Turno; & de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur maximum retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla. rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, & quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa, & quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, & acrior: fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere. Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, & à parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum. queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta, & alumen, plumbique albi 238 BARICELLI E albicineres pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt, quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur, Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis equidem difcordia inter braſsicam, & vites reperitur, propte reade Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque & fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, & quod mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft, verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung  Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq; faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur, mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq; illæ per diem circa fe. mur ferantur, & mox in camino fumanti (afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur, confeftim, & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis cauda cpa, situr, dentes tanguntur, & gingina ſcari. ! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, & e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, & occafuma ostendere, Solis ortum, & OC cafum noffe videntur tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, & folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, & illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini & cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit, & circa me. diam noctem tota in lacum irruit, & adeo occulcatur, vt nec manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, &in Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing  Temą; aperit, & patefacit, caliterá; etiam num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, & Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a ciquicus incentæ ſunt wuum, & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun, ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, & mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab Hippocrate docemur,  Lactis copia in puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, & viduis caftis, non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in olen, & pi. ce, commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat, & illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft. Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem, & excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig; muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem & bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, & peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret, plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, & vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, & perſpicui fruftulum, quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum conteritur, & in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem, & naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ  liceus & aër erit; fi humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co, fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam & adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet, hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines, mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce ) accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum, fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores, quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere, Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides, quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib. 1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho. minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem proiectain in lidcore reperije viuentem, & fpirantem, ynleu hrniano, facie decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta, crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata gemitus dedit & lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im petu fluctus fecauit, & ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A pummellificatione,foetu, & cera:nam & apud auctores magna reperitur controuer. fia, num illæ ge nerent, & aliundeprolem habeant.Poft auem exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi. ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta. te, & autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit: nã & naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas, & examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, & sopia examinam fit. Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ quod? co A quod vua & guftu, & fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum, & mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri. tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, & aluminis æquales partes capiuntur, & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam & bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more: virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit, & menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt.. Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere HORTVLVS GENIALIST 1 Aquarum Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur, quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, & demúfaltado ſe ſe recepiſſet, & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le &tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells  D cens, concubuit, & concepit inulier: clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo, Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo cómilta degluci INTHE HORT:VL VSGEN I AL-deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin. teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo.  De hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu  Indice   baricelli — implicatura sudorosa — de hydronosa natura — de medicinae praestantiae — amazones cur mammas dextras resecaverint — olearum sterilitatis praesagium — nili flumines proprietas — de mundi creatione — murium sagacitas — pluviosa tempestatis prognostica — agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt — valeriana miravis contra epilepsiam — transformationes hominum in bestias non esse reales — daemonis astutia apud indos — quid picus de scientiarum  varietatis sentiret — subditos principis vitam ut plurium imitari — rutam et allium serpentibus adversari — animalis oriri et vivere posse in igne compertum est — lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse — mulieris —  hominos — cibus — gigantes in orbem — mulieres — excellentia — falsissimum est salamandran in igne vivere posse — sabbatici — lactandis infantibus — menstrualis — pharmacum — animal — tauri — faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea — hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria — echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori — vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —  caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica — vipera — traulos —  morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali — rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero —  praesagium — utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam —  arbores lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu — corpora — pestilenti — efficacia — animalium — seminis — basilicum — torpedinem — animalia — armenia — febre — lumaca — amantissimam — astronomiam — martisque — passione — cantharides — adagium — parere fetus — iucundi —de amoris origine — aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam — partus — amorfus — equorum — spectacula — marinum vitulum — epilepsia — vinum — homines — homines — cervi — gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro — hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba — flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae — catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes — canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera — testiculis — dentium —  hippocrate — animalibus — apii — satyrii testiculum — hominibus — radicem — hominis — extractum — praesidia — hominem — antidotorum — cancri — quomodo — morbi — animantium — pulchritudine — septentrionalibum — hemorraghia —  lingua ardor — aegyptios — gentium — solis — animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita — tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide — lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis — alexandrum — hominum —  ruditas — angina — capillos — volucrum — agricolas — galege — infantis — oryalum — homines — lapides — collegium — alexandrum — laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum — admirandu — millepedum —  frequentem — mulieres — daemonum — carduum — infantes — menstrualem — corpori — medicina — animalia — unicornu — mulierum — naturalem — febris — precognosci — medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia — consolidanda — chymicam — corpus — hominum — venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi — hominibus — polypidium — ibidis — mulieres — industria — corpora — gallicam — hominis — hominibus — regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus — leones — artificio — mergum — lacertas — educandis — artificio — serpentes — virginitatem — virginale — vitellos — humana vita — vena — materia — alexandri — mulieres — hydrophobos — puerorum  — labiorum — utero — semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam — aspides — infantes — vitrum — homines — vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes — arundinem — cynanchem — parere filios — vino — praesagia — gallinarum — aquam —  mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium — vitam — philomelam — castorem — duces — lingua — vinum — equorum — croci — hominis — aspidum — hermaphroditos — imaginationis potentian — climactericos — inter homines — carolum — animantia — liberos — garamantes — caminus — horologium — infantium — praesagia — vinum — virorum — familiarem — romanos — ambarum — tympaniam — venenum —  toxica — socrati — magia — epistolam — aqua frigida — menstruorum — lapides — homines — testiculos — humanam salivam — homines ridendo —  parthi — partum accelerare — serpentum — hydrargyrum — vim — anginam — vermes — mamillis — lumbricos — infantis — elephantiasim — cyprinorum — leporine — hydrargyrum — gravidas — homines abstemios — aristolochiam — alexandro — morbis — creta — cyprini — calphurnius bestia romanus — aceto — oleum — scythae — catellos — plurima — martis — robusta hominum corpora — equum — homini lunae — mithridiatu — viscum — vites — betulae — haemorrhoidalem — dentium dolores — sodomi — uterum — solis — virginum — praesagia — vitri — aeris — homines — facie humana — apum natura — vinorum — ignem — menstrua — virtutem — aquarum — in conceptu imaginationis esse potentiam — dentium stupores — epilepsia — pro vita producenda — mulieribus — Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in Aristotele.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51691256836/in/photolist-2mKMcL9

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